Il silenzio delle ragazze
Carol Gilligan
17 Maggio 2024
Da Internazionale – Sono tornata a lavorare nelle scuole femminili. Ho ricominciato ad ascoltare le voci delle ragazze e a interrogarmi sui silenzi delle donne. Negli anni ottanta ho ascoltato e parlato con centinaia di ragazze tra i sette e i 18 anni in varie scuole negli Stati Uniti. Ricordo il giro di boa dell’adolescenza quando, crescendo, le ragazze chiamavano stupida, maleducata, egoista, cattiva o pazza ogni voce onesta. Spiacevole e insopportabile erano gli aggettivi usati da Anna Frank.
Ricordo le adolescenti che descrivevano quello che era successo alla loro voce. Neeti, 16 anni: «La voce che combatte per ciò in cui credo è rimasta sepolta dentro di me». Iris, 17 anni: «Se dovessi dire cosa sento e cosa penso, nessuno vorrebbe stare con me, la mia voce sarebbe troppo forte» e poi, quasi per spiegarsi, «ma bisogna pur avere delle relazioni». Ricordo di averle detto: «Se non dici cosa senti e cosa pensi, allora perché accetti queste “relazioni”?»
Soprattutto, ricordo di essere rimasta colpita da quanto la gente s’impegnasse a chiudere la bocca alle ragazze. Come se fosse impossibile ascoltarle e continuare a vivere come avevamo sempre vissuto. Come se, in qualche modo, le ragazze potessero far saltare una copertura. Mi sconcertavano gli incentivi che venivano offerti alle ragazze per non dire quello che avrebbero voluto dire, la pressione esercitata per fare in modo che, una volta cresciute, le loro voci – voci che si sentono comunemente tra le ragazze giovani, voci che gli artisti hanno sentito e registrato in ogni epoca e cultura – rimanessero coperte o, se esplicitate, fossero considerate troppo forti, eccessive o in qualche modo sbagliate e non fossero ascoltate o prese sul serio.
Ascoltare le ragazze mi ha fatto ripensare a ciò che intendiamo quando parliamo di relazioni. Il dipartimento della sanità degli Stati Uniti ha parlato del dilagare della solitudine e di come i contatti siano essenziali per la nostra sopravvivenza e il nostro benessere. Ma mettere a tacere le ragazze è la spia di un problema più profondo. Da loro ho imparato cos’è il momento in cui si decidono le sorti di una relazione. Quello in cui se dici cosa senti e cosa pensi nessuno vuole stare con te e se non lo fai se ne vanno tutti. In un modo o nell’altro, sei sola. È un problema diffuso, ma ascoltare le ragazze è stato rivelatore e rivoluzionario nel definire un problema – la crisi di connessione – che è diventato pervasivo e urgente.
La scorsa primavera, quando ho ricominciato a intervistare le ragazze, mi sono trovata a ripetere le cose che avevo detto a Iris negli anni ottanta. Liza, 16 anni, mi dice che si «trattiene» per non mettere a rischio dei «legami più profondi». Parla di «attenzione e protezione» e altre ragazze mi parlano di non ferire i sentimenti degli altri o di mantenere il quieto vivere o di non creare problemi o di non provocare esclusioni o rappresaglie: motivazioni a cui le ragazze si appigliano per mettere a tacere ogni voce onesta e concludere, come fa Liza, che la lotta per la relazione è «una battaglia che non vale la pena di combattere».
«Le persone non apprezzano se dici queste cose», sento ripetere continuamente alle ragazze. So bene cosa vuol dire. Jane Eyre ha dieci anni all’inizio del romanzo di Charlotte Brontë. Quando sua zia le dà della bugiarda, risponde che, se fosse una bugiarda, le direbbe che le vuole bene, quando in realtà non è vero. È questa la voce che la gente non vuole sentire.
Quando qualcuno mi dice che vuole che le ragazze facciano sentire la loro voce, penso a Elise, undici anni, che fa la quinta elementare in una scuola pubblica. Quando le chiedo se in certi casi sia giusto dire bugie, risponde: «La mia casa è tappezzata di bugie». Nella tragedia di Euripide, Ifigenia dice al padre, Agamennone, che è «pazzo» se pensa di sacrificarla per compiacere gli dèi e fare in modo che i venti portino l’esercito greco a Troia. Ifigenia mette in discussione la cultura difesa dal padre, una cultura che dà più valore all’onore degli uomini che alla vita. Nel film La bicicletta verde, del 2012, scritto e diretto da Haifaa al Mansour (che, essendo una donna in Arabia Saudita, è stata costretta a girare all’interno di un furgoncino), Wadjida, una bambina di dieci anni, vuole una bicicletta. Non si lascia scoraggiare da una cultura in cui le donne non possono guidare e le bambine non possono andare in bicicletta. S’iscrive a una gara di recitazione del Corano, la vince e, con l’aiuto della madre, ottiene la bicicletta verde che desiderava. Alla fine del film, la vediamo pedalare felice.
Judy, 13 anni, dice che sta perdendo la mente. Indicandosi la pancia, spiega che la mente «è collegata al cuore e all’anima, ai sentimenti profondi e ai sentimenti reali». Mette in contrapposizione la mente e il cervello che, dice, è localizzato nella sua testa ed è collegato alla bravura, all’intelligenza e all’educazione. Nel corso della crescita, osserva, i bambini rischiano di dimenticarsi della loro mente per colpa di tutte le cose che «ti ficcano nel cervello». È responsabilità delle scuole – questo è il sottinteso – se i bambini perdono il contatto con quella che Judy definisce «una forma più profonda di conoscenza».
È per questo che sono tornata a lavorare nelle scuole. Ed è per questo che le dirigenti delle scuole femminili stanno lanciando l’allarme o forse, più precisamente, stanno prendendo in mano la situazione, vedendo il potenziale per una trasformazione che parte dalle ragazze e coinvolge la loro istruzione.
Ecco cosa ho imparato ascoltando le ragazze e cosa mi ha stupito. La gente parla di ragazze che devono trovare la loro voce, ma in realtà le ragazze una voce ce l’hanno. La loro fiducia in se stesse, la loro chiarezza e il loro coraggio possono essere sorprendenti. Quando le chiedono di raccontare di una volta in cui si è sentita incerta o indecisa, Diane, otto anni, dice che è dispiaciuta perché ogni sera, a cena, quando prova a parlare suo fratello e sua sorella la interrompono “rubando” l’attenzione di sua madre. «Tu cosa fai?», le chiede l’intervistatore. Una sera, risponde Diane, ha portato un fischietto a tavola e, quando l’hanno interrotta, ha fatto un fischio. «La mamma, mio fratello e mia sorella hanno subito smesso di parlare e si sono girati verso di me. A quel punto ho detto senza alzare la voce: “Così va molto meglio”».
La scorsa primavera ascoltando Talya, una bambina di prima elementare, ho sentito la stessa chiarezza nel descrivere ciò che avviene nelle relazioni e lo stesso spirito d’iniziativa nel reagire a ciò che conosciamo. «Ho delle amiche stupende», mi ha detto, ma ha anche un’“amica-nemica”. L’amica-nemica «all’asilo mi ha messo la sabbia negli occhi» e, in prima elementare, «ha costretto tutta la classe a comportarsi come lei mentre a me non piace come si comporta. È come se dicesse: “Sono la padrona della classe, siete ai miei ordini”». Alla domanda se ha fatto qualcosa, Talya ha risposto: «Semplicemente… dobbiamo usare il potere d’ignorare».
Queste bambine illustrano il concetto di consapevolezza che il neuroscienziato António Damásio descrive nel suo saggio Emozione e coscienza (Adelphi 2000). Le bambine registrano l’esperienza di ogni momento nei loro corpi e nelle loro emozioni, associandola alla musica o alla sensazione di quello che sta succedendo per poi riprodurla nelle loro menti e nei loro pensieri. In questo modo riescono a descrivere quelli che possiamo considerare dei crimini e misfatti relazionali – rubare l’attenzione di qualcuno, comportarsi come il padrone di qualcun altro – e imparano a fidarsi della loro forza di reazione. In L’incontro e la svolta (Feltrinelli 1995), io e Lyn Mikel Brown abbiamo presentato i risultati del nostro studio quinquennale su cento ragazze tra i sette e i 18 anni. Le abbiamo chiamate le delatrici del mondo relazionale. E sappiamo tutti cosa succede ai delatori.
«Non lo so… non lo so… non lo so». Quando le ragazze attraversano la soglia che le porta dall’infanzia all’adolescenza, nelle interviste questa frase si ripete continuamente. Ascoltate e interrogate con attenzione, spesso le ragazze dimostrano di sapere quello che dicono di non sapere: su se stesse, sugli altri e sul mondo in cui viviamo. Sembra quasi che abbiano smesso di fidarsi della loro conoscenza e abbiano imparato a nascondere ciò che sanno per paura di offendere qualcuno o di dare la risposta sbagliata. Di non dire quello che gli altri vogliono sentire.
Anna, una brillante studente di 14 anni, scrive due temi distinti sulla leggenda dell’eroe: uno per prendere un voto alto, l’altro per dire quello che vuole dire. Anna viene da una famiglia della classe lavoratrice e ha bisogno di un buon voto per prendere una borsa di studio e andare al college. Ma ha anche bisogno che la sua insegnante sappia cosa pensa davvero sulla leggenda dell’eroe, perché per Anna, che ha un padre disoccupato e violento, è una leggenda pericolosa, che può portare gli uomini a coprire la loro vulnerabilità con la violenza. E così consegna due temi: uno che piacerà all’insegnante, e l’altro che la farà arrabbiare. A suo credito, l’insegnante li ha letti entrambi.
Anjili, che frequenta l’ultimo anno delle superiori, interpreta la poesia Alla sua timida amante (1681) di Andrew Marvell in modo giudicato sbagliato. L’insegnante scrive: «Questo non è un compito per l’università». Anjli, però, ascolta il narratore di Marvell, un uomo preoccupato della propria mortalità, e sente la sua voce dal punto di vista dell’amante, la dama di cui vuole vincere la ritrosia. La traccia diceva di analizzare il tono della poesia, e Anjli ne avverte la potenza: quella di Marvell, alle sue orecchie, è una poesia “terrificante” e “spaventosa”.
Nella sua recensione di Emozione e coscienza sul New York Times, Carolyn Heilbrun, una nota intellettuale femminista, giudica la lettura che Anjli ha dato della poesia di Marvell come «una nuova interpretazione della potenza dell’opera», citando le parole della sua insegnante. Tuttavia, osserva, «ci sono scuole che ancora non sono in grado di apprezzare questo genere di reinterpretazione». Il sottinteso è che per essere ammessa all’università probabilmente Anjli dovrà tenere a freno la sua originalità.
Heilbrun ha definito Emozione e coscienza “rivoluzionario”. «Dovrebbe far suonare un allarme nazionale», ha scritto sul Boston Globe, definendo il libro “rivelatore”. Oggi negli Stati Uniti è fuori catalogo. La ricerca parlava di ragazze che lottavano per non perdere la loro voce, ma la cultura voleva fortemente che la perdessero. Eppure le studenti del mio seminario alla New York University sulla resistenza all’ingiustizia si sono riconosciute in Emozione e coscienza in modi che si discostano dalle letture precedenti. Una studente scrive: «Mi ricordo una lunghissima fase della mia vita in cui la mia risposta a tutto era “non lo so” e qualsiasi cosa dicessi facevo sempre questa premessa (lo faccio ancora oggi)». Riflettendo sulle implicazioni per la resistenza all’ingiustizia, introduce un’immagine sorprendente: «Quando insegniamo alle persone a non usare in modo autentico la loro voce, cuciamo e stendiamo un velo di dubbio su tutto ciò che sappiamo, che soffoca la loro volontà di parlare e di affrontare il conflitto». Per un’altra donna del corso, questo è stato «il trauma dell’esperienza formativa della mia infanzia».
Ecco una “poesia io” composta ascoltando la voce in prima persona di una ragazza di seconda media che ho intervistato la scorsa primavera:
Che cosa ho fatto?
Ero confusa
Ho detto
Che non lo sapevo
Cosa ho detto?
Ero
Non sono stata io
Mi dispiace
Non lo sapevo
Ho solo
Mi sono dimenticata
Ho provato
Ho provato
Capisco
Sono stata io
Non m’importa
Mi sono scusata
Ho parlato
Posso
Davvero non m’importa
Ho detto
Che non m’importa
Una voce alla seconda persona, un “tu”, si rivolge allora all’“io” e le dice:
C’è un lato buono e un lato cattivo
Non puoi sempre combattere tutte le battaglie
Devi scegliere quali battaglie vuoi combattere
Ed ecco l’“io”, che ci prova e poi non le importa più:
Ci sto provando
Voglio dire
Non
Onestamente non m’importa
Non me ne importa niente.
Nel saggio L’errore di Cartesio (Adelphi 1995) Damásio presenta i risultati della sua ricerca in campo neurobiologico. La separazione cartesiana tra ragione ed emozione, considerata per secoli la condizione necessaria della razionalità, si rivela in realtà come la manifestazione di lesioni o traumi cerebrali. Questa separazione lascia intatta la nostra capacità di risolvere problemi logici, ma ostacola la nostra capacità di ragionare in modo induttivo, d’imparare dall’esperienza e dunque orientarci nel mondo sociale umano. La psichiatra Judith Lewis Herman sostiene una tesi analoga in Guarire dal trauma (Magi Edizioni 2005). La separazione del sé dalle relazioni, considerata in passato come un passaggio dalla dipendenza all’indipendenza, è in realtà il residuo di un trauma, la reazione del sé all’esperienza di essere stato sopraffatto.
È stato l’ascolto delle ragazze ad attirare la mia attenzione verso la natura di genere di queste separazioni e a farmi capire quanto siano parte integrante di un rito di passaggio che compromette la capacità dei bambini di vivere in relazione con se stessi e con gli altri. Staccando il pensiero (“maschile”) dall’emozione (“femminile”) e separando il sé (“maschile”) dalle relazioni (“femminili”), la codifica di genere delle capacità umane crea una crisi di connessione. Ciò che sembrava ordinario (avere una voce e vivere in relazione) diventa quindi straordinario. Sono state le adolescenti a portare allo scoperto tutto questo. Le relazioni dipendono dal possedere una voce e la cultura del patriarcato dipende dal silenzio delle donne.
Dico questo in un momento storico in cui le voci di due ragazze hanno avuto un impatto enorme. Penso a Greta Thunberg, 15 anni, con il suo cartello scritto a mano, in piedi, da sola, davanti al parlamento svedese. Il suo sciopero studentesco individuale ha innescato la più grande manifestazione sul clima nella storia, con milioni di persone che sono scese in strada per protestare contro l’incapacità dei politici di prendere sul serio la crisi climatica. Quando è stata invitata negli Stati Uniti per parlare al congresso e i parlamentari sono corsi a ringraziarla, la sua risposta è stata, in sostanza: «Non ringraziatemi, fate qualcosa». Al World Economic Forum di Davos ha detto: «Dovete sentire la paura che sento io ogni giorno. E poi dovete agire». A chi le diceva che avrebbe dovuto essere a scuola, ha risposto: «Dato che a voi adulti non importa un accidente del mio futuro, non importa neanche a me».
E penso a Darnella Frazier, 17 anni. Tra le tante persone che hanno assistito all’omicidio di George Floyd per mano del poliziotto Derek Chauvin, è stata l’unica a tirare fuori il telefono, accendere la videocamera e registrare tutta la scena. La sua registrazione è la prova che ha portato all’arresto di Chauvin. Se non avesse registrato ciò che aveva visto, ha detto, nessuno le avrebbe creduto. Eppure, come ha raccontato, «quell’uomo stava soffrendo» e «non era giusto». In un certo senso, ciò che stava succedendo era ovvio, eppure Darnella è stata l’unica a fare qualcosa.
Ho intitolato il mio nuovo libro In a human voice (‘Con voce umana’) perché quello che prima era confuso adesso è diventato ovvio. La “voce diversa” del mio libro precedente (la voce dell’etica della cura e dell’attenzione), anche se considerata inizialmente come “femminile” e associata alla donna, è in realtà una voce umana. La voce da cui si differenzia è la voce del patriarcato, legata alle gerarchie di genere. E quando il patriarcato è al potere ed è imposto, la voce umana è una voce di resistenza. Dalle ragazze ho imparato ad ascoltare una voce umana che è andata in clandestinità, e a riconoscere la differenza tra la voce di copertura (accettata culturalmente) e la voce sotterranea (radicata nell’esperienza). Dalle ragazze ho imparato a fare caso alle parole “davvero” e “in realtà”, all’espressione “onestamente” e a riconoscere come possono segnalare il passaggio dalla voce di copertura, la voce che dice cosa penso e sento, alla voce sotterranea, la voce che dice cosa penso davvero, cosa penso in realtà o cosa direi se dovessi essere completamente onesta. Le ragazze mi hanno insegnato che la voce sotterranea è più accessibile di quanto immaginassi, ma anche che, per sentirla, devo mettere in dubbio la voce di copertura. In uno studio con le coppie, ho scoperto che questo vale anche per gli uomini. La mia capacità di sentire la voce umana dipendeva dalla capacità di dubitare di una voce di copertura che suonava più maschile. Ciò che ho imparato ascoltando le ragazze si è rivelato molto più universale di quanto pensassi, perché, quando ho cominciato, la riduzione al silenzio delle ragazze era liquidata come irrilevante o come una correzione necessaria.
L’anno scorso una studente mi ha scritto un’email. Alla soglia dei trent’anni, era tornata all’università per fare un master in diritto e si era iscritta al mio seminario sull’ascolto. Mi scriveva per ringraziarmi. «Esercitarmi ad ascoltare me stessa e ciò che so nel profondo mi ha fatto aprire gli occhi. Mi rendo conto che troppo spesso, in vari momenti della mia vita, non mi sono fidata del mio intuito, o non sono riuscita ad arrivare a conclusioni che erano evidenti, e non capivo perché». Voleva ringraziarmi soprattutto per averla contraddetta quando un giorno, presentando il suo lavoro alla classe, aveva detto che non sapeva perché la parola «dissociativo» fosse stata usata due volte dalla persona che aveva intervistato. Ascoltando la sua presentazione, era chiaro che sapeva benissimo quale fosse la funzione di «dissociativo» nel contesto della sua intervista. Come lei stessa aveva sottolineato, l’espressione «non lo so» era «onnipresente». E così, quando ha detto anche lei «non lo so», le ho risposto che non ci credevo. In realtà, mi ero fidata di lei quando lei non si era fidata di sé. «Il fatto di dare a me e a tutta la classe il permesso di ascoltarci e fidarci di noi stesse ha significato moltissimo per me, più di quanto lei forse non immagina».
Secondo i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, oggi negli Stati Uniti i livelli di depressione e pulsione suicida tra le ragazze adolescenti sono ai massimi storici. In uno studio su diecimila adolescenti negli Stati Uniti, è stato chiesto alle ragazze se a volte rinunciano a dire quel che pensano davvero o a discutere solo perché vogliono essere accettate dagli altri: il 46% delle intervistate ha risposto di sì, e la percentuale sale al 62% tra le ragazze con una media dei voti alta. Credo che il motivo sia che hanno più opportunità, e quindi hanno anche più da perdere.
La responsabilità degli altissimi livelli di disagio psicologico tra le ragazze è spesso attribuita ai social network, ed è innegabile che con questi il costo di parlare sia diventato più alto. La scorsa primavera, durante un’intervista, è stato chiesto a due ragazze cosa avrebbero voluto cambiare del mondo, ed entrambe hanno risposto «il giudizio degli altri». La facilità nel giudicare ricade pesantemente sulle ragazze – spesso senza motivazioni concrete – una volta che raggiungono l’adolescenza, e i social network non fanno che amplificare gli effetti dei giudizi negativi. Ma il mio sospetto è anche un altro, e cioè che per le ragazze e per le donne con l’aumentare delle opportunità aumenti anche la pressione a non dire cosa pensano e sentono per non compromettere i contatti professionali e le possibilità di crescita.
Mettere a tacere il sé, tuttavia, è la ricetta della depressione, e la perdita della relazione può portare alla disperazione e al distacco. La crisi di connessione è sempre caratterizzata da segni di disagio psicologico. Ma, dal punto di vista della società, ridurre al silenzio le ragazze è un modo per permettere alle donne di accedere alle strutture patriarcali senza sottolineare l’evidenza o creare problemi.
Sono tornata a lavorare nelle scuole femminili perché ho imparato a vederle come dei laboratori in cui sperimentare a livello educativo la liberazione della democrazia dal patriarcato. Con questo, intendo dire che la battaglia per la relazione è una battaglia che vale la pena di combattere ed è una parte ineludibile dell’educazione delle ragazze. Per educare le ragazze è necessario anzitutto appoggiarle nella loro sana resistenza e dare loro il coraggio di non fare quello che è sempre un pessimo affare, cioè scendere a patti con il patriarcato e cedere al silenzio. E poi incoraggiarle ad accettare la sfida di scoprire come essere presenti e vivere in connessione profonda, sia con se stesse sia con gli altri, soprattutto di fronte al conflitto e al disaccordo.
Carol Gilligan è psicologa, studiosa di etica e femminista statunitense. Tra i suoi libri pubblicati in Italia Con voce di donna (Feltrinelli 1991) e La virtù della resistenza (Moretti & Vitali 2014). Questo articolo è stato pubblicato in originale sulla rivista culturale on line Aeon con il titolo Silencing of the girls.