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da La Stampa

Ci sono libri spartiacque nel pensiero femminista, e altri libri che travalicano pure il femminismo per marcare un prima e un dopo che investono l’intera società: un urto epocale fu a metà del Novecento Il secondo sesso della filosofa e scrittrice Simone de Beauvoir. Oggi la casa editrice Il Saggiatore lo ripropone in una nuova edizione dall’estetica essenziale, con una traduzione rivista (aggiornata, tengono a far sapere gli editori, secondo le nuove terminologie di genere) e un apparato fotografico che ripercorre la storia delle sue edizioni italiane. Il secondo sesso è un volume molto amato, molto citato, un passaggio obbligato per le donne che si interrogano su loro stesse e sulla loro condizione. La prima edizione italiana è del 1961, otto anni dopo quella inglese e dodici dopo l’originale francese uscito per Gallimard.

Da allora, generazioni di ragazze hanno cominciato a sentirsi meno sole nello scoprire che entrare nell’età adulta significa entrare in un mondo creato dai maschi per i maschi. Simone de Beauvoir è stata la prima intellettuale ad articolare questa verità su larga scala: «La storia ci ha mostrato che gli uomini hanno sempre detenuto i poteri concreti; dai primi tempi del patriarcato hanno giudicato conveniente tenere la donna in stato di dipendenza; i loro codici si sono formati contro di lei; e in tal modo, la donna fu posta concretamente come l’Altro. Questa condizione serviva gli interessi economici dei maschi; e conveniva inoltre alle loro presunzioni ontologiche e morali».

Con queste righe nasce il femminismo moderno, quando Beauvoir fa coincidere l’ingresso consapevole delle donne nel mondo con la presa di coscienza della condizione di subalternità cui sono state storicamente confinate. Con il migliaio di pagine di questo tomo imprescindibile, le femministe si confrontano come si fa con un testo sacro: amandolo, odiandolo, attualizzandolo, scovandone i limiti, attraversandolo fino quasi a sbarazzarsene salvo scoprire che la sua forza rimane sempre intatta. Sul Secondo sesso ci sono stati dibattiti che a volte hanno dichiarato inaccettabili e archiviati alcuni esiti di quella che resta la prima, grandiosa disamina della condizione femminile nella storia. Il lesbismo, la maternità e la biologia risentono senz’altro della visione personale di Beauvoir, della sua vicenda biografica e dei legami con il suo tempo, eppure l’aver posto certe questioni senza pudore e con profondità storica mantiene attuali le domande, al di là delle risposte. Così Il secondo sesso invecchia senza smettere di regnare, come una regina con la quale si può continuare a litigare tra sé e sé, o tra sé e le altre, perché continua a indicare un giro, una svolta. L’unico peccato che si può commettere non è saccheggiarlo o contestarlo, ma citarlo senza averlo letto, eppure accade: certe frasi sono così sintetiche e geniali da avere scavalcato la mole del contesto in cui nascono. Accade soprattutto con l’abusatissima «donne non si nasce, lo si diventa»: qui Beauvoir sta distinguendo tra nascere femmina, femelle, e assumere su di sé gli aspetti sociali e culturali che comporta, quindi trasformarsi, agli occhi del mondo, in femme. È un assunto denso di ambiguità, venato di tristezza e rabbia. Soprattutto gioca con un’altra intuizione: «geni non si nasce, lo si diventa, e finora la condizione femminile lo ha reso impossibile». Tuttavia, curiosamente, la frase viene spesso usata come slogan di una autopercezione trasformativa positiva e leggera.

Il punto del libro, però, continua a stare qui: come possono le donne riguadagnarsi il piacere di essere nate in un corpo femminile del quale nulla più devono mortificare o sottomettere, senza ignorare la biologia ma anche senza far sì che questa sia strumentalizzata a loro sfavore? Come potranno liberarsi degli abiti che le marchiano per dedicarsi solo alla meravigliosa avventura di essere loro stesse? È un’ambiguità che Il secondo sesso scopre per la prima volta con una chiarezza inedita e dirompente, ma che non riesce a sciogliere. L’unica risposta, sembra suggerire la storia femminista seguita al libro, è esperienziale, cioè plurale. A questo tema si lega la questione della maternità, che Beauvoir vede sotto il profilo minaccioso della strumentalizzazione patriarcale, non riconoscendo valore e sapere all’esperienza del corpo gravido (per quello bisognerà aspettare il 1976 e un altro testo magnifico, Nato di donna di Adrienne Rich). Il narcisismo che de Beauvoir imputa alle madri viene poi esteso alle donne che amano altre donne, in passaggi decisamente discutibili: «In ogni amore – amore sessuale o amore materno – c’è sia avarizia sia generosità, desiderio di possedere l’altro e di dargli tutto; ma la madre e la lesbica si incontrano in modo singolare nella misura in cui tutte e due sono narcisiste, carezzando nella figlia, nell’amante, il proprio prolungamento o il proprio riflesso».

Eppure, anche quando lo sguardo di Simone de Beauvoir sembra discostarsi da quello contemporaneo, o può rivelarsi lontano dalle nostre sensibilità individuali, è impossibile dimenticare che dallo straordinario lavoro, filosofico, teorico, storico, che ha fatto con questo libro siamo nate tutte. Siamo nate da un’opera che inizia mettendo alla berlina Pitagora, con in esergo la citazione «C’è un principio buono che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo, e un principio cattivo che ha creato il caos, le tenebre e la donna». Così Beauvoir ci avvisa che siamo nate dal lato sbagliato, cioè da quello giusto. Che viviamo nel peggiore dei mondi possibili, un mondo che ci vorrebbe nelle tenebre, e tuttavia che possiamo riorganizzarci attraverso un caos destabilizzante e fecondo. Che possiamo, con un percorso accidentato e doloroso, attraverso la parola, il dubbio, la contestazione e la conoscenza, riprenderci il dialogo su chi siamo e riappropriarci di noi.