Il nostro è un corpo vestito di parole
Chiara Zamboni
7 Dicembre 2021
Mi aggiungo al dibattito su “La differenza sessuale non è un contenuto. L’ostacolo del gender”. La mia riflessione riguarda la difficoltà a capirsi tra posizioni diverse e la necessità di chiarire i concetti in gioco. Quale storia hanno i concetti di genere, gender, e differenza sessuale? Come vengono usate queste parole?
Il primo grande inciampo è un certo modo comune di intendere differenza sessuale e differenza di genere, che vengono per lo più sovrapposti e identificati con il binarismo, cioè riportati ai luoghi comuni della lingua condivisa su che cosa significhi essere donna ed essere uomo, in termini simmetrici e contrapposti. Il binarismo è sostenuto da una cultura antica, rinforzata nelle lingue romanze dai generi grammaticali del femminile e del maschile. Così in italiano la luna è femminile e il sole maschile e ciò porta con sé significati radicati in strati profondi dell’immaginario collettivo.
Abbiamo portato critiche al binarismo, perché, sappiamo, la differenza sessuale non è un contenuto. Il femminismo ha criticato i modelli femminili insiti nel binarismo dei luoghi comuni. Si è detto: donne sì, ma senza coincidere con il femminile stereotipato. Donne, piuttosto, il cui significato è tutto da trovare nel corso di una vita e confrontandosi con altre donne.
Diverso il modo di accostarsi alla questione della normatività dei generi linguistici da parte del mondo anglosassone. Negli anni Settanta e Ottanta è arrivata dal femminismo americano la proposta che, facendo riferimento alla distinzione sex e gender (sesso biologico e genere come costruzione culturale), chiamava all’impegno di lottare politicamente per trasformare il piano del linguaggio stereotipato. Rompendo così con la normatività del simbolico dominante. In questo c’è stata una grande sintonia con il femminismo europeo: la stessa critica agli stereotipi e l’affidare al conflitto nel linguaggio una parte importante della trasformazione della relazione delle donne con il mondo.
Ciò che ha marcato la differenza rispetto al femminismo europeo è stata la divisione netta operata da quello anglosassone, che ha distinto tra sesso biologico (sex) e lingua (gender). Questo ha a che fare in parte ancora una volta con le forme grammaticali della lingua. Sappiamo che le lingue anglosassoni non hanno il femminile e il maschile per i sostantivi e gli aggettivi. Per cui la luna non ha sesso. Hanno sesso gli animali e dunque gli umani in quanto animali. Hanno sesso la maggior parte dei vegetali. Per cui il sesso è una questione solo biologica. Le finestre non hanno sesso.
Io credo che l’aver isolato il sesso biologico dalla lingua abbia portato a delle divaricazioni di cui sentiamo fortemente le conseguenze oggi.
Ora, invece, la sessualità è intrecciata fin dall’inizio con le parole. Per noi è più evidente quello che è vero in generale: c’è porosità tra il piano delle parole e il piano della sessualità. In altri termini c’è porosità tra natura e cultura.
Nel conflitto oggi aperto sulla questione dell’identità di genere e della differenza sessuale uno dei punti centrali è proprio questo: il poter pensare di separare sesso biologico dal piano del linguaggio.
Certo ci accomuna con i diversi movimenti, che fanno capo alla sigla LGBTQI+, la critica ai luoghi comuni binari del maschile e femminile normativi, ma ci separa questa distinzione tra sesso biologico e linguaggio. Per noi essere donna non è riducibile a biologia naturale né identità linguistica. Non abbiamo cercato identità né separato il sesso dalla sessualità e dalla ricerca di senso e da forme politiche di vita in comune. Non abbiamo mai parlato di corpo oggettivo, ma abbiamo parlato di corpo vivente inscritto di parole, aperto a un movimento trasformativo, in cui la sessualità è coinvolta, e che è via per scoperte soggettive in uno scambio con altre e altri.
Venendo al mondo, noi non partiamo da un’identità, bensì siamo accolti da una culla di parole. Mi riferisco ai pensieri, alle fantasticherie, all’immaginario di nostra madre su di noi. Il che significa che il nostro è un corpo “vestito” di parole, perché immaginato nella sua sessualità ancor prima della nostra nascita. Il sesso del corpo lo veniamo a conoscere pian piano, toccandoci e guardandoci, ma lo sperimentiamo da subito “vestito” di parole. Infatti per tutta la vita ci troviamo a fare i conti con l’immaginario di nostra madre, che ha avvolto di parole la nostra sessualità e più in generale la nostra vita di cui la sessualità è uno degli aspetti. Non a caso per tutta la vita cercheremo la nostra via desiderante, differenziandoci da quella prima culla che ci ha accolto. Ma per fortuna che l’abbiamo avuta – e di questo è bene essere grati –, perché altrimenti non potremmo scoprire il singolare desiderio che ci guida e saremmo alla deriva.
Un altro importante elemento di differenza sta nel fatto che il movimento LGBTQI+ ha posto al centro l’eterosessualità normativa, o meglio il maschio bianco, adulto, eterosessuale e tutto il resto sono differenze: la donna eterosessuale, bianca, nera, il gay, la lesbica, il trans nelle sue declinazioni, l’intersessuale. Tutte differenze intese come minoranze. Ora questo è stato un punto molto chiaro nel femminismo italiano: le donne non sono minoranza. Di conseguenza il mio invito a quelle che il movimento LGBTQI+ chiama differenze è di non ridursi a posizione di minoranza, ma di rilanciarne il valore e la forza creatrice degli stili di vita a cui stanno dando forma.
Credo che chiarire sia da parte nostra sia da parte del movimento LGBTQ+ l’uso diverso delle parole e il significato di politica come creazione di modi di vivere assieme, possa liberare energia per il formarsi di alleanze su particolari questioni che si presentano nel nostro paese. Del resto mi interessa quando vedo una loro ricerca di verità soggettiva in rapporto alla sessualità, e sento che in questo ci sono semi trasformativi potenzialmente arricchenti per tutti.