Il caso Cantat
Barbara Carnevali
23 Aprile 2025
da La Stampa
Non riusciamo a notarlo perché lo abbiamo (sempre) aperto davanti agli occhi.
Wittgenstein
In questi giorni, in Francia, si discute di una miniserie che tratta di violenza contro le donne: Da rockstar ad assassino – Il caso Cantat. Non ha le ambizioni estetiche di Adolescence, ma merita di essere guardata: ripercorrendo con la sensibilità di oggi un caso di cronaca di venti anni fa è un’esemplare esperienza di straniamento storico.
L’attrice francese Marie Trintignant fu uccisa nell’estate del 2003, in un albergo di Vilnius, dal compagno Bertrand Cantat. Il carismatico cantante del gruppo rock Noir Désir la massacrò di botte nel corso di una lite dovuta a gelosia, lasciandola in coma per ore prima di chiamare i soccorsi. Processato in Lituania, Cantat fu condannato a otto anni di carcere per omicidio preterintenzionale, ma ne scontò solo quattro. L’epilogo della storia comprende il suicidio della moglie, Krisztina Rády, la cui testimonianza era stata decisiva per dimostrare la tesi dell’incidente: la ricostruzione lascia intendere che anche lei sia stata vittima di abusi prima e dopo la morte di Marie. Cantat, cui non è mai mancato il sostegno dei fan, ha poi cercato di rilanciare la sua carriera musicale, ma il suo ritorno in scena si è scontrato con l’ostilità dell’opinione pubblica maturata in seguito al movimento MeToo.
La serie è sensazionalistica e un po’ superficiale; affronta la vicenda da troppi punti di vista, interrogandosi, oltre che sulla violenza di genere, sull’omertà dell’industria discografica e sul rapporto tra arte e morale. Il suo interesse risiede nel materiale documentario, in particolare quello relativo al dibattito mediatico sul crimine che oggi sarebbe definito “femminicidio” ma che all’epoca fu commentato come “delitto passionale”. Non solo chi difendeva Cantat, ma anche opinionisti neutrali empatizzavano con l’assassino, rilasciando dichiarazioni che oggi suonano allucinanti. Che grande storia d’amore finita male: più che un crimine, un dramma! Marie se l’era cercata: castrante, isterica, poteva “uccidere con le parole”. Bertrand l’amava troppo. Come non sospettare di infedeltà una donna che ha avuto quattro figli da quattro uomini diversi? (Questa è di un collaboratore degli Inrockuptibles, rivista culturale della sinistra alternativa, per nulla turbato invece dal fatto che Cantat avesse abbandonato sua moglie a poche ore dal parto). A ripetere tali assurdità erano spesso persone in buona fede – come una giornalista intervistata che ammette di faticare a riconoscersi nelle opinioni di allora, e non si dà pace all’idea di essere stata complice di un simile accecamento collettivo.
La cecità della giornalista è stata anche la mia, la nostra. Ne soffre chiunque sia immerso in un ordine simbolico, nell’ideologia di un sistema sociale. Chi ci vive dentro non può vederla, la considera trasparente, come un pesce non fa caso all’acqua in cui nuota. Chi osserva l’acquario da fuori perché appartiene a un altro sistema di valori, come un visitatore straniero o come la spettatrice del 2025, viene colto dalla vergogna e dall’orrore: come era possibile, solo due decenni fa, e nella civilissima Francia, parlare di una donna uccisa a pugni e calci come se fossimo nella Sicilia dei film di Germi?
La visione della serie suscita altre domande. Come avvengono le mutazioni ideologiche? Come si passa da un regime percettivo e valutativo fondato su costumi patriarcali alla critica che li mette in causa? Una risposta approfondita meriterebbe un libro, ma suppongo che le svolte avvengano per l’azione congiunta di piccole trasformazioni progressive – le gocce che scavano la roccia – e di cambi di paradigma comparabili a rivoluzioni. Su un piano agiscono le rivendicazioni dei movimenti e dei partiti politici, le modifiche del diritto, l’educazione familiare e scolastica, la diffusione e l’imitazione di nuovi costumi. Sull’altro, gli eventi improvvisi e irreversibili che squarciano il cielo di carta: qualcuno grida per la prima volta “Il re è nudo!”, e nulla sembra più come prima. Da questo punto di vista, trovo condivisibili le conclusioni suggerite dalla miniserie: l’equivalente della presa della Bastiglia per la rottura dell’illusione patriarcale è stato probabilmente il MeToo.
Un’altra questione, di ordine diverso, riguarda la situazione italiana. Il confronto con lo stato del discorso pubblico in Francia è deprimente. Dopo una stagione dominata dalle rivelazioni sui casi di incesto e allo stupro collettivo di Gisèle Pelicot, sono usciti i risultati della commissione parlamentare sulle violenze sessiste e sessuali nel mondo dello spettacolo; le inchieste ora coinvolgono la scuola e la chiesa, e si parla del fenomeno – boccaccesco ma sintomatico, anche perché molto esteso – del voyeurismo nelle piscine pubbliche (filmare sotto le gonne è un reato in Francia). La stessa vitalità nel mondo intellettuale: per citare solo qualche lettura recente, la filosofa Manon Garcia ha appena pubblicato il pamphlet femminista Vivere con gli uomini; la sociologa del diritto Irène Théry ha descritto, nel notevole Moi aussi (Anch’io),l’intreccio tra la storia della giurisprudenza sessuale e la sua esperienza biografica di bambina molestata a otto anni. Leggendo i giornali francesi ci si sente parte della riflessione collettiva su un sistema ormai percepito come intollerabile – un dibattito controverso, non immune da ingiustizie ed eccessi (quale rivoluzione ideologica non ne comporta?). Ma che costringe l’opinione pubblica a confrontarsi con i presupposti inaccettabili della nostra forma di esistenza e a immaginare delle vie d’uscita.
Passando le Alpi, si ritorna nell’acquario. Malgrado lo choc per Giulia Cecchettin ci abbia fatto credere che qualcosa si fosse definitivamente smosso, il copione continua a ripetersi identico: Ilaria Sula, Sara Campanella. Allo sgomento collettivo dopo i casi di cronaca seguono analisi impressionistiche o solo psicologiche, mentre servirebbe un approccio sistemico, cioè globale, in cui collaborino tutte le scienze umane e sociali. Mancano soluzioni concrete, proposte politiche che vadano oltre il richiamo generico all’importanza dell’educazione affettiva; e non mi sembra che una delle poche iniziative meritevoli, la commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere, abbia avuto la giusta eco mediatica. Molti storcono il naso persino davanti alla parola femminicidio. Viene da chiedersi se una delle possibili cause di questa incoscienza non sia il diniego del MeToo, inteso non come delazione selvaggia, ma come liberazione pubblica della parola, indispensabile tanto per rompere l’incantesimo quanto per inaugurare la ricostruzione simbolica, quella che Théry chiama la «nuova civiltà sessuale». Il discorso dominante nel nostro paese – che, d’altra parte, non ha mai fatto vere rivoluzioni – sembra considerarlo una minaccia felicemente scongiurata, una caccia alle streghe puritana che non avrebbe ragione di essere da questa parte dell’oceano. Per non parlare di chi, nemmeno troppo celatamente, attribuisce al movimento la colpa suprema dell’elezione di Trump.
Qualunque sia la ragione dell’apnea italiana, rivedere i filmati del processo Cantat offre una spinta per provare a tirare la testa fuori dall’acqua.
Barbara Carnevali, EHESS