Ibridazioni
Clelia Pallotta
17 Luglio 2024
Di questi tempi mi sento spesso a disagio quando mi confronto anche solo tra me e me, faccio fatica a concentrarmi sulle questioni, mi confonde il frastuono delle voci, delle posizioni, delle interpretazioni che provengono dai media vecchi ma soprattutto da quelli nuovi, se a usarli sono persone distanti da me e con idee diverse dalle mie ma anche se sono persone vicine e con idee simili alle mie. Le parole diventano difficili da tradurre nella mia singolare lingua interiore.
Mi capita di frequente che il tono performativo delle parole e delle argomentazioni, anche di quelle che sono io a dire e a costruire, comprometta il senso di quanto viene detto e ne modifichi il contenuto, la densità delle parole si frantuma in fretta e mi resta la spiacevole impressione di non sapere bene di che si è parlato, che si è detto e chi ha detto cosa a chi. Mi viene in mente una frase di Veronica Giuliani, una mistica marchigiana vissuta nel XVIII secolo: «Dico e ridico e non dico niente». Non credo sia solo un problema di memoria scadente o di un effetto Babele causato dalla molteplicità delle voci e delle fonti a cui ci si trova esposte e con cui si interagisce. È come se le cose che si dicono non riuscissero a farsi strada oltre l’impressione, oltre il momento, è come se le parole avessero vita breve e si nebularizzassero in fretta nel rumore di fondo. Una specie di anestesia, più o meno profonda, anche quando l’argomento mi sta a cuore. Credo sia un problema che riguarda i mezzi e i modi che permettono la comunicazione, cioè il computer, lo smartphone, le reti sociali. Non penso tanto a quelle spiacevoli situazioni in cui capita di imbattersi a volte, quando si incappa nel terribile furore verbale generato dall’autoreferenzialità narcisistica che si euforizza nell’assenza dei corpi ed è impenetrabile all’empatia comunicante, sono frangenti da cui si esce scosse e doloranti, con la sensazione di non avere parole capaci di migliorare lo stato delle cose, davanti al muro del discorso violento. Penso alla normalità della comunicazionesociale tramite smartphone e/o computer, agli scambi consueti, al loro ritmo e alle dinamiche interiori e relazionali che generano, alle ampie porzioni di vita che occupano. Mi sento coinvolta in un mutamento che riguarda me, le cose che sento e penso, le parole che ho per raccontarle e l’attenzione che ho per ascoltare e dare senso alle parole che arrivano da fuori. È una specie di ibridazione che non governo e che non so descrivere perché è sottile e sfuggente, anche se gli effetti sono ben visibili e concreti.
Alla base dello scambio tra i media e i loro utilizzatori c’è stato a lungo il tempo, quello in cui entrambi si rendevano reciprocamente accessibili e disponibili. I giornali, il cinema, la radio, la televisione e anche il telefono avevano porzioni di tempo limitate e ben definite nelle giornate, le vite erano distinte dai media, la comunicazione era mediata soprattutto dai corpi e dalla presenza viva. Con la diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione, in particolare quelle che riguardano Internet e gli smartphone, l’equilibrio si è rotto, la misura è saltata. Lo smartphone è una protesi del corpo, è la sua proiezione virtuale nel mondo e produce l’effetto paradossale di isolare il corpo, di eliminare la contemporaneità delle presenze e dei contesti. È esperienza comune nei luoghi di socialità occasionale (mezzi pubblici, sale d’attesa, bar, ecc.), nelle pause tra un’attività e l’altra e in generale in tutti i momenti liberi, vedere l’immersione collettiva nei telefoni cellulari e l’indifferenza alla presenza fisica delle altre persone, una vistosa espressione di isolamento ma anche di solitudine nel contesto. Questo stato delle cose produce trasformazioni nelle posture relazionali e nel modo di comunicare, si cerca il contatto con la o le tribù di riferimento, restando al loro interno e aspettandosi la loro conferma a prescindere dal luogo in cui ci si trova. Le tribù, favorite dai social e sostenute dalle varie declinazioni del marketing liberista, sono suddivisioni umane omogenee, con molte estensioni oppure selettive, si formano intorno a una condizione, a un tema, a una passione, a un’occasione, possono essere trasversali, distribuite su territori ristretti o molto estesi, durare a lungo nel tempo o esaurirsi con l’occasione da cui sono nate. Sono comunque territori (virtuali) di arroccamento che si percepiscono e si comportano come mondo, con canoni, convenzioni e linguaggi propri, di solito poco accoglienti per chi è estraneo o non addentro ai temi coesivi. Si tratta di una coesione tribale, ombrosa, mutevole e animatrice di conflitti, ben diversa dalla luminosa coesione sociale legata all’idea di democrazia avanzata che alimentava le speranze giovanili della mia generazione. Tutte queste tribù-mondo vivono a sé stanti, dominano loro malgrado solo pezzi ristretti del racconto del reale e per di più ibridati dalle procedure discorsive e affabulatorie della pubblicità mercantile, che è l’esperanto dei media: non hanno alcuna possibilità di arrivare a una visione d’insieme e tanto meno oggettiva del mondo. Nonostante il capillare reticolo di strumenti di comunicazione che avvolge il globo intero ed è utilizzabile da larga parte dell’umanità, siamo dentro a una sorta di sistema integrato e amorale della narrazione, governato dagli interessi di pochi potenti, che sceneggia e racconta attraverso i media reticolari la realtà dando forma a una rappresentazione/finzione indiscutibile, ibridata e declinata a seconda delle culture, dei luoghi e delle competenze interpretative, che diventa senso comune e ordine simbolico. Dunque è preoccupante per me accorgermi che percepisco come domestico l’ambiente a cui mi permette di accedere il mio smartphone/protesi, quello in cui incontro le mie tribù e i pochissimi social che mi autorizzo a frequentare. Perché una parte importante della realtà è che la familiarità è esteriore, si entra in un ambiente di natura industriale, molto strutturato, che non ha niente di domestico, che esercita su di me un controllo interessato e in cui la mercificazione di tutto, comprese le mie parole, è esposta, invisibile e naturale.