I nostri figli uccisi. Ebrei e palestinesi, basta odio
Lucia Capuzzi
11 Marzo 2024
L’una è ribelle dalla nascita: sostiene di aver compiuto il primo gesto di disobbedienza civile a cinque anni. L’altra non avrebbe mai pensato di diventare un’attivista.
L’una è cresciuta nel Sudafrica dell’apartheid, ha un passato nelle pubbliche relazioni e un’ironia dirompente. L’altra ha studiato economia, alle parole preferisce i numeri e ha un carattere tranquillo, quasi timido.
L’una ha settantasette anni e l’altra ne ha quarantasei.
Sulla carta queste due donne non potrebbero essere più diverse. Soprattutto perché l’una – Robi Damelin – è israeliana, l’altra – Layla al-Sheikh – è palestinese.
Ciò che le accomuna, però, è più forte di quanto le divide. Primo, a entrambe la guerra ha strappato un figlio. David, secondogenito ventottenne di Robi, è stato vittima di un attentato mentre era in servizio come riservista nella zona di Hebron, il 3 marzo 2002, nel pieno della Seconda Intifada. Poco più di un mese dopo, l’11 aprile, Qusay, figlio di Layla di appena otto mesi, ha avuto un’infezione respiratoria dopo aver inalato gas lacrimogeni scagliati durante un’incursione israeliana. I genitori hanno cercato di portarlo in ospedale, situato ad appena venti minuti di distanza. Ci hanno messo quattro ore a causa dei militari che volontariamente li hanno trattenuti ai checkpoint. Troppi per Qusay che si è spento quarantott’ore dopo.
Il secondo punto di unione è che Robi e Layla hanno deciso di trasformare il dolore in motore per costruire pace in una terra dilaniata da settantacinque anni di conflitto. Nemmeno il 7 ottobre ha fatto cambiare loro idea. Anzi, da allora hanno intensificato ulteriormente l’impegno in Parents circle. L’organizzazione, dal 1998, fa incontrare persone di entrambe le parti che hanno perso un familiare e attraverso l’empatia, promuove il dialogo. Spesso Robi e Layla sono chiamate a dare la propria testimonianza insieme. Da anni fanno coppia quasi fissa. Stavolta, all’incontro promosso dall’Alta scuola Federico Stella sulla giustizia penale dell’Università Cattolica di Milano, però, Robi è venuta da Tel Aviv da sola. Problemi con il passaporto da parte delle autorità israeliane hanno costretto Layla a restare a Battir, villaggio del governatorato di Betlemme dove risiede: è, comunque, riuscita ad essere presente attraverso lo schermo del pc.
Dunque, a dispetto di tutto, continuate a credere nella pace…
Layla: Sennò non sarei qui.
Robi: Altrimenti sarei rimasta a casa a fare la maglia e a giocare con il mio gatto.
Robi, che cosa è accaduto quando avevi cinque anni?
All’epoca vivevo in Sudafrica e adoravo gli animali. Ogni mattina, vedevo l’un uomo che ci consegnava il latte frustare con violenza il suo cavallo per spingerlo a camminare. Quel gesto mi faceva arrabbiare. Un giorno non ce l’ho fata più e, insieme alla mia amica Barbara, abbiamo rubato e nascosto il cavallo. Quando l’ha scoperto, mio padre si è infuriato. Quando, però, ha compreso le ragioni per cui l’avevo fatto, mi ha capita. Sono sempre stata una ribelle: come figlia e come donna.
Per te Layla, invece, l’approdo all’attivismo è stato un processo più lento…
Soprattutto la scelta di impegnarmi per la pace. Quando, in Giordania, dove sono nata e cresciuta prima di sposarmi, sentivo le notizie provavo rabbia per il modo in cui gli israeliani trattavano i palestinesi. La mia indignazione è cresciuta dopo il trasferimento a Betlemme. Poi Qusay è morto ed è cambiato tutto.
Da subito?
No, al contrario. Per anni ho provato solo una furia incontenibile. Ho perso la fede in Dio, litigavo ogni giorno con mio marito. Davo la colpa a lui per quanto era accaduto, agli israeliani, a me stessa. Ci ho messo tanto per comprendere che quella tragedia era accaduta per una ragione anche se non sapevo quale. L’ho capito quando ho incontrato i Parents circle. Era il settembre del 2016. Sono andata a una loro conferenza a Betlemme grazie all’insistenza di un’amica. In realtà, ho accettato solo per farla smettere, ma non ero per niente convinta. Quando, però, ho sentito i genitori israeliani e palestinesi parlare del proprio dolore, per la prima volta dalla morte di mio figlio, ho sentito che non ero sola. Non li conoscevo, non sapevo niente di loro. Ma li sentivo vicini, inclusi gli israeliani che in teoria erano “nemici”. Non mi ero mai imbattuta in un ebreo che non fosse un soldato o un colono. Invece di fronte a me avevo madri e padri che condividevano con altri madri e padri palestinesi i propri sentimenti. Sentimenti così simili ai miei… Le loro parole mi svelavano degli aspetti della mia vita che non avevo mai considerato. In quell’istante ho capito l’assurdità di questo conflitto. E ho deciso di combatterlo. Penso che sia sufficiente un momento per cambiare un’esistenza. Il mio momento è stato quello.
Robi tu, invece, eri già impegnata per la pace da prima della morte di David.
Sono arrivata a Israele come volontaria in un kibbutz dopo la Guerra dei sei giorni. Non ho mai capito perché l’ho fatto. È stato un impulso. Dovevo restare sei mesi. E, invece, contro ogni previsione, sono rimasta. Fin dall’inizio, ho fatto attivismo per il dialogo in ambito sociale, non politico. Quando i miei figli, Eran e David, sono andati a fare il servizio militare sono rimasta sconvolta nel vederli con un fucile in mano. Perché hanno accettato la leva? Non è facile spiegarlo. C’è un senso di paura atavica radicato negli israeliani a cui corrisponde un istinto molto forte di protezione della comunità. Devi difenderla, è un dovere e una responsabilità sociale a cui non puoi sottrarti. Non so come viene inculcato ma è così. Si deve partire da questo per comprendere il comportamento attuale degli israeliani. La sconfitta inflitta da Hamas all’esercito israeliano il 7 ottobre ha messo in crisi le convinzioni esistenziali delle persone. Le ha fatte sentire indifese, le ha scosse nel profondo, le ha terrorizzate. E cosa si fa quando ci si sente umiliati e impotenti? Si attacca in modo feroce. La presenza degli ostaggi a Gaza e l’impossibilità di liberarli con la forza prolunga il senso di fallimento rendendo ancora più dura la risposta.
Robi, la morte di David l’ha spinta a un maggiore attivismo?
Dopo il militare anche David era entrato nel movimento pacifista. Quando è stato chiamato come riservista, non voleva prestare servizio nei Territori occupati. Alla fine è andato perché pensava che avrebbe potuto trattare i palestinesi in modo degno e il suo esempio avrebbe ispirato altri commilitoni. Così è morto. Quando i militari sono venuti a darmi la notizia, ho detto loro, di getto: «Non uccidete nessuno nel nome di mio figlio». Tre mesi dopo, dovevo andare a una manifestazione contro l’occupazione. I promotori mi hanno chiesto di parlare. E ho accettato subito. Quando perdi un figlio, contestualmente, perdi anche la paura. Non temi più nulla. Delle persone di Parents circle mi hanno ascoltato e contattato. Ho cominciato a partecipare agli incontri e alla fine l’organizzazione è diventata la mia vita.
Credete che le donne abbiano una “marcia in più” nella costruzione della pace?
Layla: Credo che le donne abbiano un potere e che abbiano il dovere di utilizzarlo. Per settantacinque anni abbiamo subito le scelte degli uomini, che hanno distrutto le nostre vite. È il tempo di dire la nostra. Per questo ho scelto di impegnarmi anche in Women of the sun, organizzazione di donne palestinesi che lavora insieme alle donne israeliane di Women wage peace. Uno delle nostre colonne era Vivian Silver, assassinata da Hamas il 7 ottobre. Era una mia amica.
Robi: Yonatan, il figlio di Vivian, è entrato in Parents circle. L’organizzazione è stata fondata da un uomo, Yitzhak Frankenthal. Nei primi incontri le donne erano poche. Anche quando sono arrivata io era così. Le palestinesi erano ancora meno: quando c’erano, stavano fuori con i bambini. Ho capito che le cose dovevano cambiare. Così è nato il gruppo femminile che pian piano è diventato il motore dell’organizzazione.
Layla: A chiunque abbia perso qualcuno il 7 ottobre, vorrei dire: mi dispiace, mi dispiace davvero per chi ora è in lutto, sia israeliano o palestinese. Tutti, io per prima, abbiamo il dovere di fare qualcosa per fermare questa barbarie. Non possiamo stare a guardare. Ogni essere umano è così prezioso. Come ci permettiamo di sacrificarlo? E per che cosa poi?
Da Avvenire