I nodi al pettine: sulla soglia di un cambio di civiltà
Laura Minguzzi
18 Dicembre 2019
Elena, una giovane attivista del movimento Extinction rebellion (XR), racconta di avere scelto la sua pratica politica perché mossa, in primo luogo, dalla preoccupazione per il rischio di estinzione del pianeta e di tutte le forme di vita, a causa del cambiamento climatico. Secondariamente, dall’insoddisfazione verso le modalità politiche di altri movimenti, troppo improntati a forme di organizzazione tradizionali e gerarchiche. Ciò che l’attrae in questa pratica è l’attenzione ai cambiamenti interiori che gli scambi relazionali delle/dei partecipanti producono. Le relazioni, la loro qualità, le emozioni sono esigenze anteposte alle azioni di protesta.
Simbolo del movimento XR è una clessidra. Il tempo stringe i nodi, il tempo è alla base del ragionamento su cui posa l’azione e lo stare insieme. I nodi hanno un duplice significato: sono vincolo, legame o inciampo che blocca, groviglio da sciogliere. I nodi al pettine della crisi climatica sono anche quelli delle relazioni. Non si riesce a pensare il futuro perché la politica ha perso il senso delle relazioni, del legame sociale e perciò c’è stasi, una sorta di impasse evolutiva, come sostiene Marco Deriu. Ma c’è un senso positivo del nodo, come vincolo, dipendenza necessaria dall’altro e c’è la gioia del fare insieme, come dice Elena, del creare significati autonomi, del rigenerarsi e rigenerare la realtà, vie d’uscita dal vicolo cieco, dal tempo sospeso. Dove ci sono nodi ci sono legami, amicizie, società in fieri. Mi viene in mente il nodo di cui parla l’artista Maria Lai, spiegando la sua celebre installazione/azione, nel paese in cui è nata in Sardegna. Un lungo nastro azzurro che le/gli abitanti annodano e stringono nelle mani e con cui simbolicamente tengono unite le case e il luogo. Infatti, dice, dove non c’è il nodo non ci sono relazioni. L’architetta e cuoca Ida Farè nei suoi scritti faceva riferimento al doppio significato della casa come nido e nodo. L’abitare femminile nella città crea relazioni e nella civiltà nascente dopo la fine del patriarcato anche la casa è stata attraversata dalla libertà femminile, è stata risignificata.
La mia presa di coscienza della gravità del fenomeno del riscaldamento globale ha radici in una crisi personale e nel desiderio di indagare le motivazioni profonde e inconsapevoli del negazionismo ambientale di mio fratello, operaio specializzato in una fabbrica che produce plastica. Il mio punto di partenza è stato l’insopportabilità che la mia storia cadesse nell’oblio. Il timore dell’estinzione della memoria, madre della storia a radice femminile, mi provocava un dolore sordo, muto, paralizzante. La casa brucia se non avviene il passaggio interiore del cambiamento. Passaggio o casa interiore, come io definisco questo spostamento in profondità nella Spirale del tempo, dove elaboro il mio nodo irrisolto, che scioglie dall’identificazione schiacciante sul presente e fa intravedere una prospettiva creando una frattura, un’interruzione nella saturazione del tutto pieno, in cui non c’è spazio per il pensiero e dà parola alla verità soggettiva come ponte con la realtà e i suoi nodi problematici. La verità soggettiva apre a un reale e profondo capovolgimento del vivere e della vita urbana, un salto di civiltà.
Nella presa di coscienza c’è un inizio del desiderio di dare spazio alla costruzione del passaggio interiore, fare vuoto per lo spazio desiderante. Il troppo pieno, la saturazione della civiltà delle merci toglie respiro, spazio/tempo allo sguardo lungo di una prospettiva, di un orizzonte in cui poter immaginare e immaginarsi una civiltà, che oggi stiamo sperimentando. Riafferrare la freccia del tempo con la fiducia di poterne cambiarne la direzione rileggendo i contesti, la storia, i luoghi di lavoro, i fatti, dove possiamo agire la libertà di reinterpretarli prestando ascolto al sentire dell’esperienza femminile, mettendo in atto la politica delle relazioni che disfano il potere. La memoria fa parte dell’immaginario, del simbolico di cui tutti sentono la necessità, ma di cui le donne soffrono di più la mancanza. Un bene immateriale che migliora la vita, fa parte del ben vivere, della buona vita e della democrazia!
Elena ci ha detto che uno degli obiettivi del movimento di disobbedienza civile XR è la messa in atto di assemblee di quartiere dove ci si parla e si ascolta l’esperienza dell’abitare, del vivere quotidiano e si fa opera di presa di coscienza dell’urgenza di un cambiamento di stili di vita per salvare se stessi, oltre che il pianeta e tutte le forme viventi. Questa necessità di de-saturazione interiore/esteriore, di sciogliere nodi creando vuoti portatori di desideri nuovi, è il motore del cambiamento, un passo verso la possibilità di spezzare l’impasse che ostacola la politica del desiderio e fa rimanere sulla soglia del cambio di civiltà.
C’è un crescente desiderio di spazi liberi in cui poter parlare e porsi in ascolto per conoscere e costruire relazioni di fiducia. Io ho percepito questo bisogno, quasi una corale urgenza, anche al convegno europeo «Un tempo per sé, un diritto per tutti», per un rilancio delle politiche temporali urbane, cui ho partecipato in novembre a Strasburgo. Luoghi terzi, li hanno chiamati questi spazi di incontro né familiari né lavorativi. Anche la Libreria delle donne di cui ho raccontato la pratica e la storia è stata rinominata “luogo terzo” in quel contesto, dove erano presenti molte associazioni femminili, femministe e figure istituzionali di varie città europee. Perfino una proposta di trasformare il cimitero di Strasburgo in un grande parco dove incontrarsi, passeggiare, parlare, mi è sembrato, a dire il vero dopo un primo momento di sconcerto, un esempio della necessità di non perdere la memoria di sé, del proprio passato, non cancellare la storia, la vicenda umana singolare ma esemplare… «Città dei morti e dei vivi, quando i vivi si parlano veramente, fuori dai riti e dai sepolcri imbiancati dell’ipocrisia e della rimozione.»
Ho trovato un’assonanza con la mia esperienza. Per me è stato così, quando una decina di anni fa ho rielaborato il mio passato, nella Comunità di storia vivente, spazio transizionale per citare Wanda Tommasi (dal libro La carta coperta, Moretti&Vitali 2019), ritrovando una relazione con mio fratello, negazionista allora del cambiamento climatico, davanti alla tomba di famiglia. Ho dato vita con lui, dopo avere risvegliato la sua memoria, a un romanzo politico della storia italiana, a partire dall’osservazione delle fotografie di famiglia e dal mio interrogare in chiave soggettiva la nostra comune origine. Una storia sessuata, non di regime, che ha preso parola e forza dal varco creato dalla presa di coscienza, dal mio bisogno di narrare una storia soggettiva di libertà femminile, una storia che non oblitera l’esperienza e la relazione con la comune matrice: nostra madre, morta tragicamente nell’anno in cui l’uomo è andato sulla luna, in un tempo, prima della rivoluzione femminista, che non ammetteva la libertà di una donna di decidere il proprio destino. Un’epoca, gli anni Sessanta, non in grado di ascoltare la voce di una donna, la voce di una figlia, la voce di una madre che desideravano altro, coltivare la terra, in contrattempo con la modernità e il progresso, con la tecnologia e la scienza al servizio del capitalismo.