Guerra e virilità: due no di Benjamin Britten
Marco Emanuele
26 Luglio 2025
da il manifesto
Al Festival della Valle d’Itria per la prima volta in Italia “Owen Wingrave”, tratto da un racconto di Henry James
Le opere di Benjamin Britten pongono domande sull’identità maschile: cosa vuol dire essere uomini, come lo si diventa, a che prezzo. Mentre i protagonisti fanno i conti con se stessi, la musica smaschera le tecniche che li rendono sottomessi, e suggerisce strategie di resistenza. Per farlo, crea contrasti tra linguaggio tradizionale e moderno, imbastendo temi conduttori e un raffinato montaggio sonoro, asso nella manica di un compositore che a vent’anni si era fatto le ossa lavorando per il cinema documentario.
Succede anche in Owen Wingrave, da un racconto di fantasmi di Henry James: l’opera che il Festival della Valle d’Itria propone per la prima volta in Italia domani, a più di mezzo secolo dalla creazione. Obiettore di coscienza durante la Seconda guerra mondiale, Britten la scrive negli anni del Vietnam e dell’invasione della Cecoslovacchia, identificandosi col pacifismo del protagonista. Questi, avviato alla carriera militare, di nascosto legge Shelley e non ci sta a «preparare la mente e il corpo per la distruzione», tanto da abbandonare gli studi, disconoscendo così i valori perseguiti dalla famiglia di cui è ultimo rampollo.
La sua mascolinità dissidente si rispecchia nella storia del giovane antenato colpito a morte dal padre per sospetta pavidità, racconto evocato nella scabra ballata medievale del secondo atto; solo un sacrificio placherà i due spiriti, padre e figlio, la cui presenza Owen avverte nell’antica dimora dei Wingrave, Paramore.
Come spesso accade nel teatro di Britten, Paramore è un luogo che si anima di vita propria e produce musica ispida, spigolosa e urticante, a iniziare da una strana marcia che detta il tono militaresco alla partitura. Simbolo di virilità guerrafondaia, la fanfara è caratterizzata da accenti sghembi, orchestrazione eccentrica (glockenspiel, xilofono, pianoforte, arpa, violoncelli pizzicati) e ritmo irregolare. Manca qualcosa: se è una marcia, c’è qualcuno che zoppica.
D’altronde a Paramore il tempo è fluido, i morti si confondono coi vivi, il passato col presente. A parte sir Philip, anziano generale a riposo, in casa non ci sono uomini, tutti morti in battaglia. Rimangono le donne, custodi della memoria dei defunti, insieme al vegliardo che ormai non canta più, nemmeno lui, da vero uomo. Questa voce di tenore che non si comporta da tenore è uno dei tratti più graffianti usciti dalla penna di Britten, che la spinge al polimorfismo, alla coloratura virtuosistica, a glissandi e vocalizzi come se sir Philip fosse la vera Primadonna dell’opera e la virilità in congedo producesse il suo rovescio, un belcanto malfermo e traballante. Accade quando egli va sulle furie perché teme che la ribellione di Owen nasconda altro: il pacifismo non sarà mica défaillance di genere e sessuale? Dubbio che si insinua anche nel racconto di James, quando il ragazzo riferisce le accuse del nonno: «Mi ha chiamato… mi ha chiamato…», ma non riesce a pronunciare quella parola.
La mascolinità normativa, rappresentata dai temi musicali scheletrici degli antenati, i cui ritratti incombono accigliati dalle pareti, è il vero fantasma dell’opera, che genera morte non solo per Owen. Giustamente la librettista Myfanwy Piper vedeva Wingrave come «a very personal coda» del War Requiem scritto pochi anni prima, di cui chiarisce il messaggio pacifista: il passato coloniale europeo ha portato solo tragedie, l’imperialismo soffoca le vite di tanti giovani uomini e di quelle donne, madri e compagne, che lo sostengono convinte.
“Family” e “war”, virilità e bellicismo si nutrono a vicenda; ma se da un lato il compositore denuncia le responsabilità della famiglia in quella che negli stessi anni Mario Mieli definiva “educastrazione”, dall’altro affida al protagonista parole dure, per esprimere il rifiuto di ogni esercito di stato: «considero un crimine impugnare la vostra spada in difesa del vostro paese e un crimine da parte del governo il fatto di ordinarlo». Il discorso che chiude il primo atto è preparato dall’episodio più delirante dell’opera, in cui la vena di Britten, fino a quel punto un po’ sulla difensiva, prende il volo verso la dimensione dell’assurdo come in un finale rossiniano: sulla parola “scruples” (scrupoli), incautamente pronunciata a difesa del ragazzo, i familiari si lanciano compatti in una serie di sillabati e vocalizzi di scherno.
Le parole di Owen – e di Britten – hanno dunque una valenza politica che non si può disconoscere col pretesto che l’opera riguardi più che altro un conflitto psicologico dovuto alla mancanza del padre o alle incertezze della virilità acerba. Combattere per la patria è un crimine, i governi che lo ordinano sono criminali, la patria è impostura: affermazioni scomode ancora oggi in ogni nazione il cui governo giustifichi immani spese militari.
Owen afferma che sarebbe sufficiente dire di no: basta una parola, se a dirla sono in tanti. «One little word: no! No! No! No!»: è la scena più anarchica e provocatoria mai scritta dal compositore.