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da il manifesto

Per Voland l’ultimo romanzo della scrittrice ungherese che descrive il presente

La foto alla parete che ritrae una scimmia cui è stata trapiantata la testa è l’immagine ricorrente dell’ultimo romanzo della scrittrice ungherese Krisztina Tóth, reso in italiano dalla chiara traduzione di Mariarosaria Sciglitano. Essa fa da filo conduttore a una storia distopica, che si intitola, appunto, Gli occhi della scimmia (Voland, pp. 314, euro 20), si inserisce nel solco tracciato da George Orwell, ci parla di potere, di sofferenza senza voce ed espressione e dipinge a tinte fosche un’umanità divenuta anaffettiva e succube, povera immagine di sé stessa.

Ci troviamo in un luogo non definito, in un paese reduce da una paurosa guerra civile che ha diviso la sua società creando in essa un fossato incolmabile fra gli ambienti agiati contigui al potere e i derelitti che vivono nelle zone di segregazione, là dove si esaurisce ogni speranza di riscatto e rinascita. In questo mondo distonico si muovono le figure di Giselle, insegnante universitaria ancora giovane, e del dottor Kreutzer, lo psichiatra al quale la donna si affida in preda a uno stress emotivo. La docente è stata seguita a lungo da un giovane sconosciuto, comparso e scomparso chissà in quali circostanze quasi senza una ragione apparente, che dice di essere suo figlio. A lei che non ha mai partorito.

Giselle e il dottor Kreutzer si incontrano nello studio di quest’ultimo per un percorso di analisi, le loro vite si intrecciano e vengono da essi ripercorse con uno sguardo incapace di capire appieno il senso di quanto vissuto. I due sono espressione di un’umanità stretta nelle pieghe del potere, della sua capacità di controllo e di annullamento delle volontà. La foto della scimmia dalla testa trapiantata è appesa dietro la scrivania di Kreutzer; l’animale rattoppato, ricomposto, che non è più sé stesso e non è altri, guarda quasi incredulo davanti a sé, fermo nella sua impotenza che è anche quella di chi lo fissa.

I personaggi che affiorano in questa storia sono anche un po’ vittime di loro stessi, e anche quando compiono azioni riprovevoli, come lo psichiatra che usa la sua professione per portarsi a letto le pazienti e annota amplessi e orgasmi in un diario aggiornato, suscitano quasi un senso di compassione per la miseria che li tiene prigionieri e dalla quale non sanno liberarsi. Kreutzer è un uomo disturbato ma anche solo, di una solitudine non condivisa, incapace di andare oltre sé stessa. Giselle viene da una sofferenza senza nome e senza volto e quindi ancora più subdola e sotterranea.

Scappa dal giovane che pretende di essere suo figlio, corre via in macchina sotto la pioggia per sfuggire all’incubo e prova a interrogarsi sulla sua vita. In essa si vede affiancata da un uomo anonimo, dall’alito pesante, insopportabile come ogni esistenza andata a male. È il suo compagno che affiora nel racconto in modo residuale per poi sparire così com’era apparso. Pagina dopo pagina, Gli occhi della scimmia scava nella fragilità dell’individuo, nella complessa realtà del rapporto fra uomo e donna, fra padre e figlia, fra madre e figlio, fruga nelle dinamiche familiari quasi impietoso.

La narrazione si snoda in un continuum fatto di oscurità e motivi a tratti grotteschi. Su tutto grava il macigno del potere che sa assumere diverse forme e riesce a non farsi riconoscere. Chi ne è manovrato non se ne accorge e finisce per muoversi lungo percorsi da esso inesorabilmente tracciati. Una storia del potere nel potere che vede anche Kreutzer, nel suo piccolo, usare quello che gli viene dall’autorità di psichiatra che gli è propria. Con essa fruga nella mente delle persone, le riduce a uno stato di subordinazione che nel caso delle donne assume una connotazione sessuale. Il suo, però, è un piccolo potere, marginale, inglobato in quello sovrastante di un sistema che ricorda il grande fratello orwelliano.

Scrittrice e poetessa, autrice di numerosi libri per l’infanzia e di Pixel (Edizioni ETS, 2020), nella versione italiana a cura della stessa Mariarosaria Sciglitano, nonché traduttrice dal francese, Tóth si muove con agilità nell’esporre i disagi dell’esistenza, di vite insufficienti, spolpate fino all’osso. La sua è una narrazione partecipata che passa in rassegna dolori e travagli muti ai quali dà voce non senza una punta di ironia, amara ma efficace come il ritmo che caratterizza questo romanzo.

Beniamina del recente Nobel ungherese per la letteratura, László Krasznahorkai, Tóth è originaria di un paese che da quindici anni vive sotto un sistema di potere che, dalla sua formazione, si è impegnato a realizzare un controllo sempre più stretto e capillare su tutte le manifestazioni della vita pubblica. Una situazione politica, quella in cui si trova l’Ungheria, che vede la scrittrice in prima linea nella critica al regime creato e tenuto in vita da Viktor Orbán e la trova nei panni di intellettuale non esattamente approvata dal governo per le sue posizioni.

È allora verosimile che l’autrice, per il romanzo, abbia tratto spunto dalla realtà che sta caratterizzando lo Stato danubiano in questo ciclo politico. Gli occhi della scimmia offrono uno sguardo smarrito ma forse anche indulgente nei confronti di tanta umanità vessata, impoverita, chiusa negli spazi asfittici predisposti dal potere e dotata di una volontà ridotta ai minimi termini. Una volontà magari non esaurita del tutto ma nascosta nei recessi di memorie e coscienze da riattivare.

(*) Due tappe sarde per Kristina Tóth, nell’ambito del festival letterario «Lèggere emozioni»: venerdì 31, a Villacidro (Aula consiliare, ore 17), Tóth parlerà del romanzo con la traduttrice Mariarosaria Sciglitano (introduce Gianni Usai). Sabato 1° novembre, a Nuoro (Fondazione Satta, ore 17), il dialogo tra la scrittrice e la traduttrice sarà introdotto da Bastiana Madau.