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Parlerò, e ne avrò sollievo 

Giobbe 32, 20

Da Doppiozero – «Pazienza, assennatezza, speranza, coraggio, lucidità, sete di verità». Ritrovo queste parole tra i miei appunti del 2009, in occasione del Premio letterario Città di Napoli di quell’anno, della cui giuria facevo parte. Le scrivevo a proposito di un saggio autobiografico folgorante, Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico (trad. it. e cura di Elena Loewenthal, Neri Pozza, 2008), dell’ebreo israeliano Avraham Burg (1955), presidente della Knesset dal 1999 al 2003, figlio dell’ebreo tedesco Yosef Burg, uno dei padri dello Stato di Israele. Quel libro avvincente, accorato, scomodo, che denunciava apertamente l’implosione etica, ancor prima che politica, di Israele, si poneva come una questione di coscienza. «Mi sono sentito in dovere», scriveva l’autore, «di dire le cose che mi bruciavano dentro». Un atto di responsabilità di contro alle morte gore della convenienza e della comodità. Dall’interno della cultura ebraica, amata e rispettata, amata perché rispettata, Burg denunciava l’establishment politico e la società di Israele, perché «ho la sensazione che il paese si sia trasformato in un regno senza profezia». Quel suo appello autoriflessivo avrebbe ottenuto il massimo riconoscimento, rassicurando in qualche modo tutte e tutti noi: nel microcosmo israeliano, autoproclamatosi la sola democrazia del Medio Oriente, una sorta di Occidente dislocato a Levante, c’era ancora chi aveva a cuore la giustizia e sapeva esercitare con acutezza priva di ideologismi l’arte critica del pensiero.

Sono passati, da allora, quindici anni, cinque cosiddette guerre di Gaza e un aumento vertiginoso degli insediamenti coloniali nei Territori occupati di Cigiordania. Il regime di apartheid si è, se possibile, aggravato e il processo di “pulizia etnica” intensificato. L’ipotesi dei “Due stati per due popoli”, oggi sveltamente riattualizzata dalla vulgata mediatica e dalla prassi poco più che discorsiva di troppi governi nazionali, fa pensare a una cristallizzazione dell’intelligenza, a un inciampo non innocente della volontà, a un deficit di immaginazione politica. 

L’artista ebrea israeliana Sigalit Landau, le cui opere accompagnano questo mio testo, ha osservato da vicino i processi di “incrostazione” provocati dal sale del Mar Morto: il sale si stratifica, corrode e al contempo conserva. Non è quello che sta succedendo da più di un secolo nella Palestina storica? Non è quanto da lì si riverbera sulle diaspore ebraiche e palestinesi di tutto il mondo? Non siamo, tutte/i noi, parte in causa di una situazione di stallo evidentemente voluta, perseguita, facilitata, concessa?

In un libro fresco di stampa, Gaza. Odio e amore per Israele (Feltrinelli, 2024), scritto – io credo – con mani tremanti e un’enorme inquietudine nel cuore, il nostro Gad Lerner sembra porsi quesiti simili, un’analoga tempesta di dubbi. La sua, tuttavia, è una posizione asimmetrica rispetto a quella di Burg: se quest’ultimo ha scelto la nazionalità israeliana e l’impegno civile e politico nel proprio paese, Lerner è un cittadino italiano che in questa nostra povera patria ha combattuto le sue battaglie politiche e intellettuali facendo opera incessante di buon giornalismo. Ed è da qui che oggi si domanda e ci domanda: «Si può vivere in paradiso sapendo di avere l’inferno accanto?» Postulando, pur senza esplicitarlo, un interrogativo persino più destabilizzante: e se “l’inferno accanto” fosse la precondizione del mio paradiso e, insieme, il suo esito diretto?

A ripercorrere quietamente una serie di imprese coloniali che hanno trasformato il nostro Occidente in un temporaneo paradiso è inevitabile constatare che ogni giardino dell’Eden si fonda su un abuso originario, una sottrazione, un diniego, un atto di cecità, un’amnesia o una memoria a senso unico, un vuoto di empatia, una cancellazione… Eppure, in duecentocinquanta pagine febbrili, affollate di ricordi personali, notizie di cronaca, date e dati storici, incontri, scambi di pensieri con amici e persone della parte “avversa”, riferimenti a opere lette e scrittori amati (magnifiche le pagine sull’intervista del 1984 a Primo Levi), l’autore compie a sua volta una curiosa, forse involontaria, operazione di omissione. La Gaza che dà titolo al volume, sovrastata dalla riproduzione di Sansone l’eroe – la scultura monumentale di Baruch Wind che dal 2009 arreda la città di Ashdod – è alla lettera assente dalla narrazione. Non c’è la sua geografia, non c’è la sua storia, non c’è la sua economia, non c’è soprattutto la sua popolazione.

In un saggio del 2012 sul “contratto civile della fotografia”, la studiosa israeliana Ariella Azoulay, autrice tra l’altro di Atto di Stato. Palestina-Israele, 1967-2007. Storia fotografica dell’occupazione (Bruno Mondadori, 2008) cita Edouard Glissant che cita Gilles Deleuze, dicendo: «Funzione della letteratura e dell’arte è inventare un popolo che manca». Ecco, nelle pagine di Gaza quel popolo continua a mancare, miticamente evocato solo come oggetto della frustrazione e dell’ira dell’accecato Sansone. Mi si dirà che gli interrogativi di Lerner, che nel corso del libro si riconosce più volte il ruolo disagevole dell’“ebreo buono”, sono altri, che il suo corpo a corpo è piuttosto con la sua gente, con la complessità vertiginosa di un’appartenenza dai margini a un centro in caduta libera. Lo capisco e mi sforzo di immaginare i costi di un tentativo controcorrente, per sua natura inevitabilmente solitario. Eppure, rimugino, se il problema fosse proprio questo, questa fissazione su di sé, questo sbarramento dell’orizzonte, questo fermarsi sulla soglia di casa, questo continuare a interrogarsi su ciò che di terribile è accaduto a te, alla tua famiglia, ai “tuoi” senza riuscire ad assumere quello sguardo analogico teorizzato tanti anni fa da Tzvetan Todorov. So che la memoria traumatica crea fortezze e blinda il pensiero. So che l’invito di Gad Lerner a riscoprire il «filone ebraico della tolleranza» – come lo definiva Primo Levi – e a onorare la figura del Giusto dovrebbe bastarmi. E invece credo serva qualcosa di più, una mossa a lato. Perché Gaza, se tutto si riduce a una questione di odio e amore per Israele? Se dici Gaza, devi dire Gaza. E così propongo a lettrici e lettori di leggere attentamente questo libro «dettato dall’urgenza degli eventi» per provare a immaginare quali sono le immagini mancanti, quale il fuoriscena sincronico e diacronico che gli fa da tacito sfondo. «A meno che non si venga colti dal panico», infatti, «l’oscurità tende a ridurre la fretta. C’è più tempo».