Femministe a più voci
Nadia Terranova
12 Maggio 2025
da La Stampa
Aprire le porte a un’amica in difficoltà, offrirle spazio e sostegno in casa propria, è una cosa che nel femminismo ha un nome preciso, sorellanza; ma offrire lo spazio e il contesto accademico di una vita a una interlocutrice che ha avuto successo con idee e con una postura opposte alle tue è un gesto di nobiltà personale, da vera insegnante oltre che femminista. Un’occasione di questo tipo si è verificata il trenta aprile scorso, con l’atteso incontro tra l’americana Judith Butler e l’italiana Adriana Cavarero, amiche oltre che colleghe in confronto da almeno tre decenni, l’una teorica del gender, l’altra filosofa del pensiero della differenza sessuale. L’incontro è stato voluto dall’Università di Verona, dove Cavarero ha insegnato per trentacinque anni filosofia politica ed è professoressa onoraria, e dove Butler è stata invitata a dialogare intorno a un tema potenzialmente macroscopico, l’etica della vulnerabilità. Un’occasione così importante da far accorrere pubblico da tutta Italia: due intellettuali che si confrontavano in presenza, senza streaming, per mettere in scena la necessità, genuinamente femminista, di lasciare dissonare voci diverse all’interno di uno spazio materiale. Un tentativo che aveva generato grandi attese e che però è riuscito solo in parte, anche per la scelta, dettata da una generosa ospitalità, di chiamare una moderatrice sbilanciata non solo linguisticamente in favore di Butler e tenere l’intero evento in inglese, nonostante il pubblico fosse italofono (peraltro, la traduzione in italiano è stata affidata a un traduttore automatico con esiti grotteschi e inadatti alla qualità dell’evento).
Negli ultimi anni Butler e Cavarero, nonostante il loro dialogo mai interrotto che ha sempre tenuto conto delle divergenze, sono diventate icone di una guerra amara e a tratti faticosa tra transfemminismo e identità queer da un lato (Gender Trouble è il titolo più famoso di Butler) versus femminismo radicale e della differenza dall’altro (Donna si nasce. E qualche volta si diventa l’ultimo di Adriana Cavarero, scritto insieme a Olivia Guaraldo). Da intellettuale che non compiace nessun pubblico, Cavarero è stata chiara e spiazzante con la parte di uditorio che si aspettava un match: «Non credo che la questione del nostro tempo sia sesso e genere». A metà degli anni Novanta era stata lei a proporre all’editore Feltrinelli di tradurre in italiano Bodies that matter (Corpi che contano) di Judith Butler: quante femministe si muoverebbero oggi per portare nella propria lingua studi che aprono strade così diverse dalle proprie? E quante sono disposte ad ammettere che le polemiche a cui ci affezioniamo, sulle quali ci arrocchiamo, sono state esaurite da anni sul piano del pensiero, che basterebbe conoscere e studiare? Anche se il pubblico butleriano si è scaldato contestando la semplice affermazione che tutta la vita umana sul pianeta nasce da donna, gli esiti migliori della discussione sono nati altrove: il neologismo “scolasticidio” come complemento della pratica genocida attraverso la distruzione dell’istruzione (Butler), la definizione di essere umano come forma di vita vulnerabile in relazione con altre forme di vita vulnerabili rispetto alle quali non esiste privilegio (Cavarero), la puntualizzazione secondo cui il contrario della vulnerabilità non è la forza perché è forte solo chi sa essere vulnerabile (Butler); la consapevolezza che vulnerabilità sia una parola etica e politica (entrambe); la postura inconciliabile tra chi guarda alla differenza pensando all’“inclusione” da un lato (Butler) o alla “varietà” e “singolarità relazionale” dall’altro (Cavarero). Il confronto, più che tra due voci, era tra due universi: da un lato il pensiero europeo, fondato su categorie autenticamente filosofiche (Cavarero citava Aristotele, la fattualità e la logica, usando termini greci come “pleonaxia”), dall’altro il mondo americano dove la filosofia è diventata attivismo e si confronta con la questione del consenso. Possono questi due mondi parlarsi? A giudicare da quella parte dell’uditorio butleriano intervenuta con modi e slogan più adatti a un corteo che a una disputatio accademica, bisognerebbe riconoscere di no, e ammettere il fallimento. Ma sarebbe femminista questa rinuncia? Nei giorni precedenti all’incontro, con amiche con cui condividiamo una generica e salutare avversione al patriarcato, ci dicevamo scherzando: se riescono a parlarsi Butler e Cavarero, figurarsi se non possiamo farcela noi! Ci dicevamo anche, come ci siamo sempre dette, che gli uomini sono bravissimi a spalleggiarsi (non credo di averne mai sentito due litigare sulla definizione di padre) e che però il loro cameratismo gli garantirà pure il potere ma è così noioso che non lo vorremmo nemmeno in un’altra vita. Che fare adesso che questo dialogo non potrà assurgere a iconico per una spaccatura che, fuori dal confronto di Verona, appare insanabile? Innanzitutto capire quale rottura personale sia emersa fra Judith Butler e Adriana Cavarero prima e dopo l’incontro dal quale sono emerse quelle divergenze fra sesso e genere riconosciute pubblicamente da entrambe come insormontabili: nessuna. Dopo aver scansato con ironia una possibile virata paternalista («Adriana, di cosa hai paura, voglio prendermi cura della tua paura» ha detto a un certo punto Butler corrucciata; «Non ho nessuna paura, non sono una persona molto emotiva a dire il vero» è stata la tranquilla risposta), le due hanno passato ancora del tempo privato insieme e continuato a discutere come sempre: questa è l’immagine che dobbiamo tenere come iconica. Olivia Guaraldo, nell’introduzione all’evento, ha sottolineato che siamo figlie e figli del confronto fra queste due pensatrici, una eredità impossibile da ignorare, e ha parlato di come la brutalità, la violenza politica patriarcale possano essere affrontate solo con la forza della creatività: quando le risposte si incancreniscono, è tempo di cambiare le domande. Come hanno evidenziato sia Butler sia Cavarero, le alleanze non devono coincidere con l’amore, figurarsi con l’appiattimento. Possiamo ancora ipotizzare, forse sognare, strade lungo le quali nessuna donna arriverà un giorno a sentirsi fraintesa, anche se sono costellate di conflitti e incomprensioni: non saranno le migliori, le più semplici o prive di delusioni e cadute, ma sono di certo strade femministe.