Farsi Forza
Laura Giordano
29 Settembre 2015
Il 13 settembre 2015 sono stata invitata a parlare a Via Dogana3 e ho accettato.
Nell’ultimo incontro di luglio avevo raccontato la mia depressione, quella che mi fa perdere la capacità di ragionare e quella che opacizza il mio slancio vitale lasciandomi una sorta d’infelicità costante. È la mia fatica di vivere con cui combatto ogni giorno e che mi fa sentire minacciata dalla sofferenza, soprattutto degli altri. Tenerla a bada non è facile, anzi è un bel po’ faticoso, bisogna puntare sulle proprie risorse, riconoscerle e nutrirsi.
Io trovo la mia principale risorsa nelle relazioni con altre donne che in questi anni, soprattutto in Libreria, ho imparato a costruire. Sento che mi aiutano a guadagnare spessore: imparo a portare avanti il mio sentire e la mia verità, imparo a dargli valore.
All’inizio era un guadagno solo per me ma poi ho capito che posso farne di più e non devo lasciarlo muto e ho deciso di cominciare a raccontarlo. Qui come altrove, nel lavoro per esempio, dove un paio d’anni fa, per mancanza di spazio, l’ufficio del personale dell’istituto ospedaliero dove lavoro ha deciso di ricollocare la mia scrivania in un open space. Ho trascorso delle giornate pesanti, amareggiata. Sentivo una forte svalutazione del mio lavoro e ho deciso di parlarne con la referente del personale. All’inizio mi rispondeva che non c’erano altre possibilità, che non si poteva fare nulla, invitandomi ad avere pazienza. Ma io non ho rinunciato: sono tornata a parlarle tempo dopo, spiegandole che non riuscivo a fare bene il mio lavoro e che questo per me era mortificante, che mi faceva perdere passione e che il rischio di errore era alto e questo era un problema, anche se non direttamente, anche per i pazienti dell’ospedale. Ho preso il coraggio di dare voce a questo mio sentire confidando che si capisse dalle mie parole il valore che aveva per me e alla fine non ho ottenuto una scrivania migliore ma ho ottenuto qualcosa di più. Ho ottenuto un riconoscimento di fiducia che si è tradotto nella libertà di poter lavorare fuori istituto se ne ho la necessità, per potermi concentrare adeguatamente o collaborare con altri. E questa libertà è diventata una possibilità anche per la mia collega. E in modo simile altri colleghi di un altro Istituto hanno pensato che anche per loro, in condizioni di spazio inadeguate come le mie, questa potesse essere una possibilità da cercare.
Anche durante l’incontro di Via Dogana 3 del 13 settembre, mettendomi alla prova, ho trovato un modo per farmi forza e l’ho trovato nell’assumermi la responsabilità di parola, pubblica, con le donne e gli uomini che erano presenti lì.
Le relazioni fra donne, il femminismo, mi hanno aiutato, ma la fatica di vivere rimane. Dobbiamo sapere che non si può pretendere di trovare la soluzione definitiva che ci permetta di uscire dal senso d’impotenza una volta per tutte, ma potersi affidare a relazioni che rendano più sopportabile la mancanza non è poco. Marta Equi nel suo testo intitolato Farsi forza stanca e pubblicato in Via Dogana 3, il 23 settembre 2015 scrive: «Farsi forza è un atto solitario, ma a volte c’è bisogno anche di un aiuto, di un segnale dal mondo per non desistere». La depressione toglie energia e ci fa chiudere in noi stessi, ci fa vedere principalmente le nostre mancanze. Ma anche riconoscere una mancanza può essere un punto di partenza: parto da dove manco io e mi affido a qualcun altro perché magari insieme riusciamo a vedere altro, possiamo darci forza.
La crisi fa parte della vita perché implica trasformazione e questo non ci deve spaventare, sostiene Claudio Vedovati durante l’incontro. Riprendendo il tema degli immigrati, Claudio ha evidenziato come la loro scelta di emigrare sia una scelta verso la vita e le nostre preoccupazioni nei confronti degli immigrati provengano dalla nostra paura del cambiamento. La scommessa è vedere l’opportunità che ci stanno dando e il primo passo è cambiare lo sguardo su di loro. Non è vero che non hanno scelta, questa è la visione depressiva nostra che attribuiamo a loro. Ed è la stessa che ci porta a dire che non possiamo accogliere gli immigrati perché non abbiamo abbastanza ricchezze, lavoro, spazio… Il sentirci senza possibilità di scelta nasce dal fatto che rappresentiamo le nostre difficoltà materiali come miseria simbolica. Questo secondo me è un bell’esempio di quello che dicevamo la volta scorsa: la verità soggettiva è ciò che muove, sentirsi ricchi o poveri, sentire la possibilità di dare o di chiudersi in una posizione difensiva, dipende tutto dallo sguardo, mettendo a tacere per un po’ il proprio senso di impotenza e dando valore all’incontro con l’altro (con l’altra nel mio caso).