Fare impresa femminista. L’affidamento, pratica mediatrice
Silvia Niccolai
15 Giugno 2025
Per una migliore economia di sé
Mi sembra di aver letto in qualche articolo giornalistico sul cinquantenario della Libreria, e comunque so per esperienza, che entrare qui fa effetto, fa effetto specialmente per una donna, perché è bello, è strano, si sente qualcosa di diverso… il fatto è che ogni donna conosce il piacere, la forza, di stare con altre, lo sente. La pratica dell’affidamento nasce da qui, dall’osservazione di questa esperienza soggettiva, dal pensarla, dal nominarla, in questo modo facendola diventare una risorsa politica. («Ci sembrava un’invenzione ma l’avevamo soltanto scoperto», si legge in Non credere di avere dei diritti, il libro scritto dalla Libreria delle donne, p. 153.)
Io penso che non si possa sorvolare su due o tre cose, tra loro collegate. La prima è che la pratica dell’affidamento presuppone una scelta riguardo al materno. L’elemento consapevole che le donne della Libreria hanno messo nella preferenza femminile per le relazioni con le proprie simili sta infatti in questo: nel vedere, o nel dire, che il bello di queste relazioni è ‘riscattare’ per sé l’amore della madre. E la madre, ‘figura dell’origine’, ti restituisce questo (il senso che hai un’origine) ma è anche figura della ‘disparità’ tra le donne: ti mostra e ti fa fare i conti col fatto che un’altra, per certi versi, sotto certi profili, può avere un di più rispetto a te e che questo di più faresti bene a usarlo per te, e lo puoi fare. Perciò direi che l’affidamento è anche una forma di investimento: di sé, delle proprie energie (e per questo è particolarmente appropriato parlando della Libreria come impresa ‘economica’. Si basa su un buon uso, su una buona economia, delle energie femminili). Tutto questo significa, secondo me, che il significato della differenza sessuale, che ispira il pensiero della Libreria, va ricercato sul piano politico. Presupposto delle relazioni tra simili, la differenza sessuale trova il suo senso sul piano politico, cioè delle relazioni, e vale a dire nel modo in cui entri nella società e ti metti in gioco; non è questione di ruoli, biologia, ecc. In Non credere di avere dei diritti (il libro della Libreria delle donne, apparso nel 1987) lo si dice così: «La differenza sessuale non consiste in questo o quel contenuto, ma nei riferimenti e nei rapporti in cui s’iscrive l’esistenza» (p. 18).
Tutta la prima parte di Non credere è una carrellata di figure femminili che hanno trovato la loro libertà e la loro grandezza eleggendo altre donne a propri riferimenti; e, questo, ben prima che sorgessero movimenti di liberazione femminile, o leggi di parità o di “inclusione”.
Quale è l’idea che corre in quelle pagine, quale è l’idea, o l’‘atteggiamento mentale’ che ha potuto far vedere libertà femminile nelle mistiche medievali, o nel farsi di Maifreda seguace di Guglielma? (Mi riferisco alla storia studiata da Luisa Muraro, e di cui sintetizzerei così il senso: Maifreda sapeva che, essendo lei una donna, la società non le offriva che ruoli in cui essere seconda, la moglie di, o anche l’abadessa di un monastero consacrato a un Dio-maschio; era una donna piena di forza, di volontà e di orgoglio; scelse allora di farsi seconda a una donna, Guglielma, che per Maifreda, era Dio, ciò che le permise di essere se stessa, una donna, senza essere sminuita, ma al contrario ingrandendosi).
L’idea è che la libertà femminile non è il prodotto di alcune istituzioni o di dati tempi ma è una necessità sentita sempredalle singole donne, e che hanno sempre cercato, e trovato, i modi per rispondervi, per metterla in pratica. Si tratta di nominare, di riconoscere, di far diventare risorse consapevoli queste ‘strategie spontanee’.
E così l’affidamento non è una ‘teoria’, è un modo per mettere in parola (ovvero: far pensiero di) qualcosa che già c’è (per questo il pensiero della differenza è pensiero del simbolico). E il solo fatto di pronunciare l’idea, il solo fatto di vedere, in comportamenti spontanei delle donne, in loro bisogni, una risorsa, è affidamento. È dare credito a quello che le donne fanno, pensando che dentro vi sia qualche cosa di sensato, di importante, anche se finora, o nella maggior parte dei casi, non visto, non nominato.
Se c’è un ‘metodo’ nel pensiero della differenza (o del simbolico) è quello di «ragionare tenendosi in contatto con la sfera del sensibile e una certa capacità di utilizzarla nel lavoro teorico» (Non credere, p. 40) e questa è una enorme differenza rispetto ai modi ‘accreditati’ di ragionare nel campo ‘teorico’, i quali tendono a separarsi dalla pratica, se non altro perché la subordinano a sé (la teoria che stabilisce come la realtà deve essere. E diventa ideologia). Il pensiero del simbolico non conosce la distinzione/gerarchia tra teoria e pratica: «Più volte … i nostri ragionamenti sono terminati con la scoperta del senso di cose che erano già davanti a noi. Meglio così, perché sapere leggere quello che è, è più importante del progettare i cambiamenti e i cambiamenti migliori sono quelli dettati dalle cose, quando si capisce quello che vogliono dire. Anche la proposta politica dell’affidamento è nata in questa forma e in questa forma desideriamo che sia presa» (Non credere, p. 188). E d’altronde: «Legarsi all’esperienza è stato il punto di leva del femminismo. Significa scoprirne il nucleo di verità che non è solo soggettivo, ma riguarda, con le giuste mediazioni, la verità del mondo in cui viviamo» (Chiara Zamboni, Sentire, in La carta coperta, Moretti & Vitali, Bergamo 2019, p. 67).
Perché investire sulle relazioni con altre? Alla base vi è la consapevolezza, e l’esperienza, molto dolorosa, dello ‘scacco’: l’esperienza dell’inesistenza, o svalutazione sociale, del nostro sesso. Questo è un problema molto grosso, è decisivo, ma la soluzione non potrà venire dalla società, dal sociale, il quale di per sé è sempre vissuto benissimo senza la libertà femminile; vi va portata e vi può essere portata a partire da un movimento individuale, singolare, e relazionale, grazie al quale ciascuna, dando credito al proprio bisogno interiore di essere in rapporto con la propria simile, per ricevere da un’altra un’immagine migliore di sé e delle proprie possibilità, mette quel bisogno in pratica nel mondo esteriore. E lo fa riscoprendo quel che una già sapeva sin dall’infanzia, ma che la svalutazione sociale del sesso femminile le ha fatto dimenticare: e cioè che «per diventare grande, ha bisogno di una donna più grande di lei» (Non credere, p. 142). La scommessa è che in tal modo prendano forma e visibilità sociale relazioni in cui le donne guardano l’un l’altra come fonti di forza e non strumentalmente, ma sulla spinta di un fine in sé, la propria libertà.
Inserendosi in una genealogia femminile «che non mi definisce ma mi riconosce» diventa possibile «trovare la forza e l’immaginazione» di ragionare «al di là degli stereotipi», ha spiegato una volta ai miei studenti Clara Jourdan, per mostrare come da questo movimento interiore nascano forza politica e mutamento sociale (come quello per cui lavorano le Città vicine: il mio era un corso dedicato al diritto all’abitare).
È questo un movimento interiore ed esteriore di ripristino di una fonte di autorità, quella materna, il cui aspetto più prezioso è di rappresentare la possibilità di relazioni «senza secondi fini» (Luisa Muraro, Non è da tutti, Carocci, Roma, 2013: p. 25): il genere cui appartengono le «cose che non progrediscono e questo non perché rimangano ‘indietro’ o risultino ‘superate’ da altre che cambiano col tempo: non fanno progressi perché sono semplicemente chiamate a ripresentarsi antiche e nuove» (Ib., p. 81 enfasi aggiunta).
(È perché parla di queste cose che Non credere è una lettura ‘interminabile’, come l’ha definita Laura Minguzzi nella discussione).
Secondo il pensiero del simbolico, concepire la libertà femminile come il prodotto di alcune istituzioni, o di dati tempi, è incentrarsi su una mediazione non felice e non sicura (la sorte della nostra libertà dipende in quel caso dalle vicende di quelle istituzioni, o dei tempi); laddove la relazione con un’altra donna che sia veicolo di forza, di fiducia, di libertà, è una mediazione a portata di mano, che rende possibile un “possesso sicuro” (altra espressione cara al pensiero del simbolico) della nostra libertà.
Invece, «la politica delle rivendicazioni, per quanto giuste, per quanto sentite, è una politica subordinata e della subordinazione perché fa leva su quello che risulta giusto secondo una realtà progettata e tenuta in piedi da altri, e perché adotta logicamente le loro forme politiche» (Non credere, p. 19).
L’affidamento è la ‘giusta mediazione’, la vera scoperta del femminismo «Prima del femminismo molte ignoravano il fatto che tra sé e il mondo c’era una struttura mediatrice» (Non credere, p. 184).
La politica della relazione, in cui l’affidamento si traduce, è prendere le energie femminili e usarle per sé, per le proprie simili, per un’altra. Non per amore di un fine sociale, anche se una trasformazione sociale è già in gioco quando una fa questo per te. Lei sta facendo un gesto libero, ti apre la via per un libero uso delle tue energie (cfr. Non credere, p. 105 e dintorni). Perché se lei ha libertà e ne fa uso, ti mostra che ce l’hai anche tu. Questo in effetti mette le cose ‘sottosopra’, è sovversivo, perché è un uso ‘irregolare’, o anche ‘deviato’ delle energie femminili, a cui, di solito (è anche questa una cosa che ‘si ripresenta’) si chiede di essere spese per tutto e per tutti, meno che per se stesse.
La mia cittadinanza
Per quanto mi riguarda, mi ritrovo tantissimo in queste parole: «La differenza femminile non domanda di essere descritta. Per esistere, ha bisogno di una mediazione così da poter uscire da sé e diventare a sua volta mediatrice in un circolo di potenza illimitata. L’affidarsi dà praticamente avvio a questo movimento liberatore di energie femminili. Comincia con un rapporto tra due ma non è un rapporto di coppia e vediamo che ben presto si dirama in altri rapporti suscitati dalla possibilità nuova di mettere in gioco la propria umanità, mente e corpo di donna» (Non credere, p. 186-7).
Per me è andata così, in effetti, perché a un certo punto da giovane, più di trent’anni fa, sono arrivata in Libreria per effetto di una relazione di affidamento e poi è venuto fuori per me un modo di vivere che passa attraverso una socialità femminile. Dico che sono arrivata in Libreria per una relazione di affidamento perché mi fidai di questa donna che mi aveva presa a cuore, che in un certo senso investiva su di me (si chiama Susanna), che diceva che dovevo entrare in contatto con quelle ‘della differenza’. Era una posta in gioco tra me e lei (una volta che l’aveva detto io che facevo, finta di nulla?) e le ho dato retta: poi sono successe tante cose, che mi hanno abituata a vivere in una socialità femminile, l’hanno semplicemente costruita intorno a me un pezzo alla volta e io spesso tra me e me l’ho chiamata la mia cittadinanza, perché in effetti abito il mondo passando attraverso le mie relazioni femminili.
Naturalmente non vi racconto tutta la storia ma un punto sì: a un certo punto smisi di venire in Libreria, ma è rimasto come un orientamento che ha dato una struttura al mio modo di vivere; per esempio a Roma mi sono sposata, poi ho avuto la figlia, ma intanto conoscevo e frequentavo donne, …poi a Cagliari, con le mie amiche, dico sempre abbiamo fatto tanta politica al tavolo della colazione, parlando, e cioè dandoci reciprocamente le parole. È politico lo scambio in cui io provo a dire una cosa che sento, che vivo, e tu mi aiuti a capirla meglio, a dirla meglio. (Nella discussione Michela Risi ha notato come in Libreria la parola circola, le ‘introduzioni’ fatte da coloro che sono al tavolo non sono sentite come un tutto compiuto che ‘il pubblico’ riceve. Dicendo questo ha toccato il cuore del lavoro del simbolico, che è fatto di parole messe in circolo, e cioè non utilizzate come definizioni già pronte, normative; parole invece che, nella loro incompiutezza rispetto all’esperienza, al vissuto, al sentire, fanno spazio per un lavoro, un lavoro certamente sociale, perché simbolico. Un lavoro nel quale lo scambio col punto di vista dell’altra, che ti suggerisce un’altra parola, o ti fa pensare meglio al senso della parola che usi, tende a ricercare le parole giuste per dire quello che c’è. Si è discusso tanto anche su ‘affidamento’ e ‘autorità’, parole come si sa ‘difficili’ e che ad alcune non piacciono, lo si è detto anche oggi nella discussione. Ma è così che le parole restano occasione di vita, di coscienza, di essere, di politica. Che ne sarebbe altrimenti della parola ‘donna’ o della parola ‘madre’?)
A proposito del parlare con le mie amiche, della politica fatta al tavolo della colazione, voglio aggiungere che secondo me è così che si rompe un patto sociale e se ne costruisce un altro. Riferendomi al giudizio di altre ha smesso per me di venir prima l’accordo con l’uomo, o col professore, ma è venuto prima l’accordo con la donna che conta per me. Metto l’una cosa nella prospettiva dell’altra. Mi sono abituata a ragionare così, a mettere le cose in questa prospettiva, a dare la precedenza al punto di vista e alle parole delle donne (non in generale e in astratto, ma di quelle concrete cui mi affido, di cui mi fido).
E, sempre per raccontare come sono andate le cose per me, in tutto questo passavano gli anni, una buona decina tra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila, in cui in Libreria non venivo, ma ero al corrente, mi incontravo con altre donne, studiavo, a un certo punto, sempre tramite una donna, Ida Dominijanni, conosciuta in tutti questi giri, scrissi una cosa sul Manifesto e cosa successe, successe che ricevetti una email da Clara, la mia ‘referente’ nella Libreria, che a quel punto non sentivo da tantissimo tempo! E Clara mi scriveva che era importante che quello che pensavo non rimanesse ‘chiuso nell’università’. Mi scrisse proprio così, che a pensarci, per una che ha anche patito tanto, come me, per stare nell’università, e a quel punto ero ‘riuscita’ ti puoi anche offendere, ma ovviamente non mi offesi affatto, era un riconoscimento enorme ma soprattutto per me fu un segno incredibile del senso della relazione di affidamento: lei non solo non aveva smesso di fare attenzione a me, non solo aveva sentito di dovermi dire una cosa, ma si aspettava qualcosa da me, continuava ad aspettarselo, e nell’aspettarselo me lo mostrava possibile, al tempo stesso necessario (per essere all’altezza di questa aspettativa). Mi dava credito, ed era chiaro che era un’altra misura del mio valore.
Quando mi scrisse quella e-mail Clara sapeva, io penso, che ne andava della mia libertà. A quel punto della mia vita, giovane ordinaria e intellettuale in via di ‘riconoscimento’, potevo dimenticare, ma grazie a lei non ho dimenticato, che «il fatto di appartenere al sesso femminile è la ragione sociale di tutta la libertà che una donna può desiderare per sé» (Non credere, p. 126). La libertà necessaria per vivere.
La questione infatti era: dove vuoi mettere le tue energie? Dove cerchi riconoscimento?
Ho avuto l’opportunità di deviare da un uso ‘regolare’ delle mie energie (diventare un’‘esperta di femminismo’, restare per sempre la prima della classe… le cose che non bastavano) e il fatto che ci fosse ‘un luogo’ a cui orientarmi, la Libreria, ‘concretamente incarnato’ (Non credere, p. 126), ha pesato molto. Deviare le proprie energie, in modo che non vadano disperse, è possibile se non si perde di vista da dove vengono, quelle energie, da dove viene quella voglia di libertà, che è già libertà.
Esistenza
Per esempio, io non ho allieve, ma ci sono alcune colleghe più giovani di me che, senza dovermi nulla né aspettarsi nella da me sul piano della loro carriera, hanno mostrato, apertamente, di sentirsi autorizzate da me, da quello che io scrivo eccetera, per dire il loro. Se in qualche modo anche io sono una a cui altre in qualche misura si ‘affidano’ lo sono perché continuo a essere una che si affida; conosco colleghe che considero bravissime, sono le donne che mi autorizzano a sostenere certe cose e con cui misuro gli argomenti, donne a cui io mi affido perché attraverso quello che pensano e dicono penso meglio e di più. Non c’è bisogno di una dichiarazione ufficiale, di un patto formale (tu sei la mia madre simbolica, a te mi affido), non c’è bisogno di dichiararsi aderenti al ‘femminismo della differenza’ è semplicemente una condotta pratica (ti stimo, ti nomino, faccio riferimento a te, ti prendo a interlocutrice e sento che questo mi ingrandisce). L’autorità femminile c’è, basta vederla, e anche saperla assaporare, comincia da me che la cerco, allora la vedo che ce l’ho al fianco, la nomino, e sapendola me ne arricchisco.
(Ha ragione Lia Cigarini, quando dice che la relazione di affidamento è un guadagno per colei che si affida, così come è vero che l’ordine simbolico della madre… lo fanno le figlie! E allora, cosa guadagna colei su cui si fa affidamento? Tenendo conto che non è un ruolo fisso, ma ‘un andirivieni’ – prendo una parola usata a altro riguardo nel dibattito da Silvia Baratella – io penso che anche quando a una capita di sentire di essere colei a cui un’altra si affida, anche per lei, io credo, il guadagno è lo stesso: è la forza di sentirsi in un ordine simbolico generativo e reale, cioè la stessa cosa che per ‘l’affidata’; e forse il sentire, che vale anch’esso per entrambe, di aderire a una necessità. Questo, per rispondere un poco alla domanda fatta durante la discussione da Carlotta Grassi.)
Quando sono stata qui per parlare con Angela Condello del Catalogo giallo, nella discussione sorse il tema, sollevato da Laura Colombo, delle domande, fatte alla Libreria in occasione del Cinquantenario, sul se qui ‘si fa inclusione’. Come rispondere? Personalmente non penso proprio di aver ricevuto dalla Libreria ‘inclusione’; di certo ho ottenuto esistenza e mi pare una parola molto più bella (c’è un punto in Non credere, a p. 98, proprio sull’esistenza, che mi piace molto), ma lascio a voi decidere se libertà non è ancora più bella. Nel senso di queste parole: «Nel lavoro necessario per avere esistenza sociale libera il mezzo è eguale al fine. La libertà, infatti, è il solo mezzo per arrivare alla libertà» (Non credere, p. 182).
L’affidamento è una pratica di libertà, se non altro perché riflette una scelta (la preferenza per le proprie simili). Nella discussione è stato posto il problema se, per la propria sopravvivenza economica, la Libreria possa e debba chiedere fondi a soggetti pubblici, nel quadro dei finanziamenti per le politiche ‘sociali’. Penserei che il tema delle pratiche di libertà non vada perso di vista, e anzi possa essere di aiuto, nell’orientarsi in questa decisione.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Fare impresa femminista, 8 giugno