Fare e disfare
Vita Cosentino
10 Ottobre 2022
In un panorama politico in cui si parla a proposito o a sproposito di maternità, in cui si esercita una forte pressione sociale sulle donne, è più che opportuno che siano le femministe a prendere parola per significare la loro esperienza, sia quella di essere madre che quella di non esserlo. Parlarne, anzi riparlarne, aumenta lo spazio di libertà delle donne che si trovano oggi ad affrontarla.
In questo senso, a quasi cinquant’anni di distanza, ho riconsiderato la mia esperienza. La lontananza nel tempo è una lente che filtra e fa decantare i fatti. Sì, i dolori del parto sono stati tremendi, ma subito dimenticati. Ma cosa continua a riaffiorare prepotente e vuole essere detto?
Ho provato sì la fatica, la stanchezza, le notti quasi bianche nei primi mesi di vita di mio figlio, ma riemerge soprattutto la fiducia piena e l’amore speciale che una madre riceve dalla sua creatura, soprattutto negli anni dell’infanzia. Pensando ad allora, mi accorgo che la narrazione patriarcale sulla maternità fa acqua da tutte le parti. Non mi corrisponde e sento fasulla soprattutto la retorica per cui l’amore di una madre sarebbe gratuito e lei si annullerebbe nell’altro. Non è un amore gratuito, a perdere, è un amore ricambiato. È una relazione in cui si dà molto e si riceve molto.
Quando si sente dire da una donna, che sia madre o no, «mi piacciono i bambini», in realtà si allude a quella relazione speciale che sanno creare le creature piccole non solo con la madre, non solo nella cerchia familiare. Bambine e bambini posano «uno sguardo primo» (Ortese) sul mondo: per me i primi anni di Marco sono stati anche pieni di meraviglia.
Marta Equi ha messo a disposizione delle giovani donne, che oggi vivono l’esperienza di essere madre, un’immagine potente tratta da Carla Lonzi: con la maternità «la donna si disaccultura. Vede il mondo come un prodotto estraneo alle esigenze primarie dell’esistenza che lei rivive».
L’ho trovata una idea forte, che toglie la maternità dall’essere un intrappolamento nel ruolo, ne fa una fonte di pensiero e delinea una delle possibili strade di fuoriuscita dalla cultura patriarcale.
Con il suo viaggio lei esperisce come il mondo sia retto da altre esigenze (potere? denaro?) che non sono quelle della vita. Penso, però, che questo viaggio possa essere trasformativo a condizione che lei non rimanga nel chiuso della casa, come vorrebbero alcune forze politiche del tempo presente. È essenziale che lei oltrepassi quelle mura e possa portare il suo nuovo sguardo nel mondo. Leggendo “I sogni si spiegano da soli” di Ursula Le Guin, ho capito che questo passaggio è stato ed è ancora più complicato se si tratta di una donna artista o di una scrittrice. La nota autrice di fantascienza, e madre di tre figli, ne parla a fondo nel saggio “La figlia della pescatrice” e a un certo punto richiama le parole di Alicia Ostriker che sento in grande sintonia con quelle di Carla Lonzi:
«Se un’artista è stata addestrata a credere che le attività dell’essere madre siano banali, tangenti rispetto al vero argomento della vita, irrilevanti rispetto ai grandi temi della letteratura, è arrivato il momento di disaddestrarsi. Quell’addestramento è misogino, protegge e perpetua sistemi di pensiero e di sentire che prediligono la morte e la violenza rispetto all’amore e alla nascita, ed è bugiardo». (p. 178)
Anche per lei la questione è dis-fare le costruzioni culturali in cui siamo immerse e aprire a qualcos’altro. Molto è già cambiato e una scrittrice, un’artista oggi può contare sulla grande autorizzazione che viene dall’assegnazione del Nobel per la letteratura a Annie Ernaux, che non si è mai allontanata dal racconto della propria vita e ne ha fatto un punto di vista sull’intera società.
Tornando alla mia vicenda personale, io, mentre crescevo mio figlio, insegnavo a scuola a preadolescenti. Ricordo che sono rimasta affascinata, e poi piena di curiosità scientifica, per come Marco imparava a parlare e a fare tutto il resto. In quegli anni ho misurato la distanza tra un processo di apprendimento galoppante nella prima infanzia e la lentezza, per non dire la stasi, dell’apprendimento a scuola. Consapevolmente, e anche inconsapevolmente, a quelle esperienze ho attinto per decostruire l’insegnamento tradizionale e trovare, insieme alle altre e agli altri dell’Autoriforma della scuola, modalità più vicine alla vita.
È vero, le donne sono dappertutto, ma ci può essere cambiamento solo se portano lì dove sono l’interezza della loro esperienza umana. Scrive Ursula Le Guin: «Quando le donne parlano sinceramente sono sovversive».