Esserci richiede la stessa fatica che nascere. La mia esperienza dell’autocoscienza
Roberta Cordaro
20 Ottobre 2023
Sono arrivata alla storia delle donne tramite la storia degli uomini, non posso negarlo, perché io sono una donna e questa è la storia di come sono tornata a me stessa.
Quando alla facoltà di Filosofia – dopo tanto parlare di Platone, Cartesio ed Hegel – arrivai finalmente al corpo, mi accorsi che del mio corpo non c’era traccia! Così, dopo aver scoperto che ogni re era sempre stato nudo, trovai le filosofe. De Beauvoir, Irigaray, Butler, Brownmiller, Young, Martin Alcoff e le altre mi aprirono le “porte della percezione”, quelle che mi portarono a chiedermi – fuori dal fatto solo mentale, ancorché morale – chi fossi. Come una donna che per la prima volta si scopre del patriarcato mi chiedevo: chi sono io se non quel (poco e male) che hanno detto e dicono loro? Ma la risposta non è mai stata lì pronta per me (anche se lo avrei tanto voluto e talvolta, probabilmente, lo vorrei ancora). Ogni passo che facevo presentava timori ed esitamenti. Ad esempio, per tanto tempo mi era bastato leggere dei gruppi di Autocoscienza (Cavarero, Le filosofie femministe) senza indagare oltre, verosimilmente perché ciò mi consegnava a un approccio politico a me noto (quello maschile, dei compagni e delle lotte appassionate!), tenendomi contemporaneamente lì, dov’ero, sulla sedia di un’aula universitaria, in un luogo certo non rischioso. Così decisi di spingermi oltre e finalmente, sotto impulso di una donna concreta, Rita, mi decisi a formare un collettivo. La mia intenzione ufficiale e nobile (!) era quella di recuperare insieme ad altre donne la storia delle donne per combattere le storture del presente. Tuttavia il movente personale, quella pulsione corporea che mi invischiava nel rapporto con le donne, era capire perché in fondo non sentissi di avere con loro un rapporto concreto, solido e reale. D’altra parte, più stavo con loro per loro (le donne) più sentivo di non potermene staccare neanche un momento, che di me non sarebbe rimasto più nulla. Chi sarei stata altrimenti? Se non fossi stata quella che si prendeva cura delle donne e del mondo, sarei stata ancora? Stavo per scoprire che i miei strumenti prima intellettuali e poi morali erano per me una bella arma di difesa: donandomi alle donne mi sarei permessa di rimanere integra emotivamente. E anche se la mia soggettività sarebbe stata al cieco giogo della dipendenza da loro, mi sarei sempre potuta dire che dovevo fidarmi delle donne! Realisticamente nessuna/o – mi confortavo – potrà mettere in pericolo questo mio cantuccio morale. Poi è arrivata Daniela Pellegrini con la sua Autocoscienza e io me ne innamorai: risuonava forte in me ciò che aveva scritto e che diceva. E pensavo: «Sono in contatto diretto con più di mezzo secolo di storia del femminismo italiano; mi porterà in dono il suo bagaglio». Sarebbe stato perfetto per me se fosse semplicemente stato così. Lei sarebbe stata distante da me, nelle sfere celesti della sua storia così piena di materiale, e io in posizione di ascolto, libera di – o, come direbbe Cecilia, piuttosto “abbandonata” ad – agire le mie elaborazioni mentali senza toccare me stessa. L’incontro fu invece per me uno scandalo (!): l’aspettativa di senso alla base della mia intera esistenza di donna era stata disattesa. Daniela non si rivolgeva a me come ad una madre-bambina: né come Crista, la bambina che salverà il mondo e rappresentante di una fantomatica nuova generazione che avrebbe soddisfatto dei bisogni (i suoi?); né come risorsa-oggetto che, convenientemente ridotta alla postura naïf di bambina, le avrebbe concesso di riaffermare i propri convincimenti da capo, ancora e ancora. Non mi arrivò nulla di tutto questo: né sovradeterminazione, né alienazione, né affidamento. Ero libera di esser-ci e questo mi faceva anche un po’ paura (talvolta forse persino rabbia o frustrazione). Era forse questo essere “solo” una donna? Iniziai ad andare all’Autocoscienza con lei e con Valentina, Annamaria, Irene, Tommasina, Antonella, Erica e le altre. Con loro, non senza difficoltà, ho scoperto anzitutto che il rapporto con mia madre che avevo sempre amato, il conflitto con le sorelle che avevo sempre sofferto, l’ambiguità nel rapporto con le amiche che avevo sempre evitato erano il senso stesso del movimento politico che ora toccava anche me. Fuori dalle definizioni date in terza persona, infatti, anche la “(as)senza (di) azione” – di cui scrive Antonella Ortelli – smise di essere il significato opposto di movimento e riprese a vivere la lunghezza del suo significato nella mia prima persona: attraverso il corpo vivo che sono, come una sapiente cassa di risonanza, prassi (politica) e sentimento di me stessa cominciarono ad agi(ta)re un jazz intricato di note e silenzi. Tuttavia, tornava come un mantra una domanda: una (o ogni) volta che avessi ritrovato questa politica me stessa, cosa me ne sarei fatta? Epilogo: quando torni a respirare, non fai che ricercare ossigeno Dopo circa un anno con quel primo Gruppo di Autocoscienza ne desiderai anche un altro e venne fuori molto presto “Autocoscienza 2.0”. In cosa differisse dal primo o perché farne un altro non furono mai domande che mi feci o che mi fecero. Imparai infatti che questo era il senso del separatismo, di quel luogo senza direzioni puntuali o assertive, quandanche spazialmente disponibili e significativamente corpose: non solo lo spazio delle donne (me compresa) non era limitato, non era neppure limitante. Al momento, quindi, so che non c’è una risposta a quella domanda, di me non voglio farmene nulla! E proprio questo è nella mia esperienza il famoso “luogo terzo” di cui dice e scrive Daniela: essere indipendente insieme alle altre, in uno spazio differenziale che non stringe mai le vie del senso e della sensatezza, per il solo fatto che ognuna è sé stessa e nessun’altra, mentre ogni altra risuona facendo spazio a sé stessa. Questo è quanto sperimento ogni settimana, con Claudia, Valentina, Alessandra, Francesca, Brenda, Maria, Tommasina, Silvia, Daniela e tutte le donne che fanno autocoscienza con me. Questo è quello che mi porto anche fuori dal Gruppo dell’Autocoscienza: nell’incontro con le donne che di teoria non sanno proprio nulla e con quelle che invece percorrono strade parallele. Ci si chiede se l’Autocoscienza sia morta e in quale forma possa rivivere, ma nella mia esperienza questa domanda è priva di senso! Suona come “Dio è morto, viva Dio!” L’Autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia. Parliamo, purché siamo, perché la nostra esistenza non consiste in un atto mentale e non è neanche chiusa in una crisalide di senso, come una bella teoria! Il fatto è che esserci, in questo sì Cartesio c’ha azzeccato, richiede la stessa fatica che nascere. Un ultimo appunto vorrei sottolineare prima di dover chiudere questo testo: se la storia delle donne è pur sempre una genealogia del dolore che consiste nella profonda discrepanza tra l’esserci e il fare, tra una politica autocoscienziale e una politica della coscienza collettiva, a maggior ragione credo che sia necessario rimetterci a rischio. Ci sarà sempre un “fantasma che si aggira per la politica delle donne” finché ci aspettiamo di essere tutte una sola parte.