Emigrare verso una nuova Europa
Maria Cristina Mecenero, Sara Gandini
6 Settembre 2018
Accettiamo l’invito di Lia Cigarini a impegnarci a interpretare la realtà che cambia e ad aprirci a essa (Alla luce di un credito politico crescente, VD3 14 luglio 2018). Ciò che tocca l’animo di tutti noi in questo momento sono le morti in mare e la situazione di incertezza, povertà e paura di chi arriva in Italia e di chi in Italia vive e vede il proprio paese cambiare. Di fronte a questo problema Lia invita a non limitarci a pronunciare la parola accoglienza e ad ascoltare invece le obiezioni di chi vota Lega. Così ci si siamo chieste come vediamo e viviamo quello che sta accadendo.
Dalle donne emigrate che conosciamo – badanti, donne delle pulizie, madri di alunne e alunni, colleghe – sappiamo che chi emigra lo fa in cerca di un futuro migliore e per farlo lascia tutto: affetti, casa, radici. Entra in una fase di incertezza e di ricerca. Attraversa territori difficili ed emozioni complesse tra cui la paura. Ha mille ragioni per avere paura. Deve imparare una lingua nuova, trovare lavoro e casa, ricrearsi una comunità di legami. Tuttavia, nei media e nei discorsi della gente sono messe in evidenza solo le paure degli italiani.
Ci sono paure di base: c’è lavoro a sufficienza? Ci sono soldi e possibilità per tutti?
E paure che investono orizzonti più grandi: il sistema ambiente può far fronte al nostro sistema capitalistico (se tutti avessimo un’auto il mondo reggerebbe)?
Anche Ada Colau, sindaca di Barcellona, in Italia per sostenere la lotta di Riace, in una intervista sottolinea che: «Fra gli errori più importanti della sinistra di sicuro c’è stato il non aver visto come il liberismo sfrenato stesse portando incertezze e paura nella popolazione: non sappiamo se domani avremo un lavoro, o la pensione, sappiamo che i nostri figli rischiano di stare peggio di noi; oltre alla minaccia del terrorismo globale. Sono paure vere, e legittime che non bisogna negare. Vanno guardate negli occhi. Per trovare però delle soluzioni concrete. Che ridiano spazio alla comunità. E non alla paura» (L’Espresso, 9 agosto 2018).
Per noi è chiaro che la questione delle migrazioni oggi riporta al sistema economico che più di tutti attrae, quello occidentale, in cui si crede di poter fare fortuna, e che secondo noi va cambiato, perché è un sistema capitalistico e il capitalismo regge sul sacrificio delle classi povere. Come riuscirci è la questione.
Alcuni movimenti della sinistra fanno appello alle buone pratiche e all’intento di cambiare lo stile di vita egoistico, che pensa solo in termini di presente e di contesto locale. Esempio di buona pratica è la Consultoria di Milano, cioè l’Ambulatorio medico popolare autogestito che fornisce servizi essenziali a chi rimane fuori dal sistema sanitario nazionale, dai senza dimora agli stranieri senza permesso di soggiorno. Altro esempio è quello del sindaco di Riace, Mimmo Lucano: il paese da lui governato, spopolato da anni, è divenuto una comunità globale di persone che vive in armonia e stabilità, grazie all’immigrazione, per far fronte alla quale si è rilanciata la vita economica e sociale. Nuove opportunità di lavoro per italiani e stranieri, in una terra di ‘ndrangheta e povertà, con un microsistema economico funzionante, col recupero di case e botteghe abbandonate, l’apertura di laboratori tessili e di ceramica, bar e panetterie, il lavoro di 70 mediatori culturali e di 50 maestre per corsi di italiano. Ma dove lo Stato avrebbe dovuto riconoscere il valore di un esperimento di integrazione, anche continuando a sostenere economicamente le azioni avviate, lo Stato si è ritratto: Riace dal 2016 non ha più ricevuto i fondi per i progetti in corso.
Parliamo quindi di pratiche che potrebbero divenire modelli da seguire, che tengono aperti varchi di speranza e di azione, eppure sembrano dare fastidio e non essere sufficienti nemmeno a modificare in profondità la lungimiranza dei politici e il sentire della gente. Noi pensiamo si debba far circolare più verità, sia sui popoli che scappano che sui nostri paesi, in cui si cerca fortuna.
I problemi dell’Africa sono vari, tra cui il debito pubblico e l’oppressione neocoloniale. L’Africa è un continente ricco e in crescita, sfruttato dall’Europa, dagli USA e ora anche da paesi dell’Oriente. Di questi interessi economici i media parlano poco e i fatti – la vendita in corso di terreni dell’Africa all’India, alla Cina, agli sceicchi arabi – non diventano un sapere. Chi parlava in un modo diverso, raccontando di questi giochi di forza tra nazioni, come Thomas Sankara, è stato ucciso. Thomas Sankara (ex presidente del Burkina Faso) negli anni ’80 con lo slogan “Africa agli africani” invitava gli Occidentali a lasciare l’Africa e a cancellare il debito di paesi da sempre depredati e sfruttati.
Pur pensando che gli spostamenti dei popoli non si possano fermare, facciamo posto all’idea che, se lasciassimo la possibilità all’Africa di decidere del proprio futuro, il fenomeno migratorio potrebbe essere differente.
Nel presente comunque abbiamo più di centomila africani che arrivano in Italia, un quarto sono donne che arrivano terrorizzate. Durante il viaggio alcune (e non poche) sono vittime di stupri. Non si può far altro che accoglierle.
Ma accoglierle in che modo? «Cosa vuol dire accoglienza?» chiede Marisa Guarneri su Via Dogana in Accoglienza, una parola che ha cambiato senso. Perché per alcuni accoglienza significa persino l’allargamento di centri (praticamente dei lager) costruiti nei paesi come la Libia. Stefania Prandi in Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo, una inchiesta durata più di due anni con centinaia di interviste, racconta delle violenze di ogni tipo che subiscono le donne che raccolgono e confezionano il cibo che arriva sulle nostre tavole.
Cosa significa accogliere chi scappa, se poi stipiamo donne e uomini nei sobborghi delle città, senza di fatto cercare soluzioni e alimentando la paura e la rabbia di chi vive nei quartieri delle periferie? Finora sono state le classi sociali più povere a pagare i costi delle politiche di chi governa comuni e territori.
Ciò che fa problema non sono i tanti immigrati, ma la mancanza di un progetto di integrazione. La cartografia del voto alle elezioni parla di questo: non ha votato Lega l’elettorato del centro, l’ha votata la periferia.
Noi conosciamo la periferia di Milano e sappiamo che è in difficoltà, lo sanno anche tutti i sindaci che si sono succeduti di giunta in giunta. Pensiamo per esempio al Giambellino, un quartiere in cui finiscono tutte le famiglie che non trovano assistenza da parte del Comune. D’altronde l’edilizia pubblica a Milano riesce a soddisfare solo il 4% delle richieste di case popolari.
In questi quartieri sono soprattutto le donne quelle impegnate in prima fila a tenere la decenza, un minimo di civiltà e il senso di non essere proprio al fondo della scala sociale. Creano cooperative sociali che si basano prevalentemente sul volontariato, efficientissime nel sostegno alle famiglie e nel reinserimento abitativo e lavorativo delle persone in condizioni di disagio sociale. D’altro lato le donne conoscono anche la fatica della condivisione del proprio spazio con popoli che hanno un’altra cultura. Sono quelle che creano lo spazio per l’incontro con l’altro da sé, ma hanno anche paura dei giovani maschi che arrivano qui senza famiglia, senza relazioni che possano dare loro una misura e, infelici, si mettono a bere, diventando violenti.
Se le classi più abbienti e la Confindustria ricordano che gli immigrati fanno comodo al nostro sistema sociale, sia a livello pensionistico, perché pagano le tasse, e sia facendosi carico di mestieri che noi non vogliamo fare – dalla badante al bracciante – d’altro lato chi vive in periferia sa che il costo del lavoro si abbassa per la presenza degli immigrati: dai cinesi che vendono servizi e prodotti a prezzi super concorrenziali, agli africani di fatto schiavizzati come manodopera nelle campagne.
Per uscire da questa rappresentazione in cui l’altro è lo straniero che ci porta via il lavoro, che ci spaventa, c’è bisogno di riformare dal basso «quest’Europa unita per le merci e i grandi patrimoni, non per le persone», partendo soprattutto dalle città dove si può ricostruire la comunità, come dice Ada Colau. La politica locale, in prospettiva, sarà sempre più centrale. Anche negli Stati Uniti la resistenza a Trump si sta consolidando a partire dalle città. Le relazioni tra città possono dare forza a progetti condivisi e fare in modo che le paure non vengano strumentalizzate. Perché lo sappiamo: individuare ogni volta un nemico è funzionale a distogliere la gente da quello che fa o non fa il governo, da quello che riesce o non riesce a risolvere.
Per noi è ora di impegnarsi per cambiare l’immaginario e far emergere più verità, partendo dalle narrazioni delle periferie e delle campagne, e delle donne e degli uomini migranti.
Detto tutto questo, ci arrestiamo e sentiamo di non poter proseguire nel pensiero, se non poniamo alcuni punti fermi, che rappresentano il nostro irrinunciabile. Si tratta di punti che per noi sono alla base della nostra civiltà:
-Non si possono rinchiudere le persone in hotspot che diventano galere.
-Non si possono lasciare morire persone in mare.
-Non si possono rimandare indietro persone che fuggono dalle guerre e dalla miseria.
La convenzione di Dublino va cambiata. Non si devono più porre distinzioni tra immigrati economici e politici. Noi siamo per il libero movimento dei popoli.
E se gli altri paesi si rifiutano di accogliere? La questione è connessa al senso di Europa da dibattere e riformulare. Su queste scelte ci giochiamo la nostra umanità.