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L’uccisione di Giulia Cecchettin, a due giorni dalla laurea, ha suscitato una tale ondata di attenzione e di partecipazione da farne un importante momento di svolta nella consapevolezza politica. Di quello che è seguito vorrei mettere in evidenza un fatto significativo per una politica come la nostra, che si fonda sul linguaggio: questa volta c’è stata una inedita e generalizzata presa di parola.

In primis ha parlato la sorella Elena che dal suo dolore ha tratto una lucida analisi, poi su questa ennesima uccisione hanno parlato non solo le femministe, ma intellettuali, artisti, donne e uomini comuni. Mi ha commosso un bambino di undici anni che ha appeso davanti alla casa di Giulia un biglietto con su scritto: «prometto che da grande non diventerò mai come lui». In quei giorni perfino la mia parrucchiera parlava di patriarcato.

Considero positivo che la parola patriarcato sia uscita dagli ambiti femministi e sia diventata una parola corrente. Detto questo sono pienamente d’accordo con Laura Colombo quando nella sua introduzione dice che la parola giusta per definire il tempo che stiamo vivendo è post-patriarcato. Il patriarcato, infatti, ha perso sia la sua base nella società che il suo sistema di norme rappresentato dalla legge del padre ed è proprio il post, cioè la distanza, che permette di individuare a colpo d’occhio i comportamenti che si rifanno a quel modello del passato. Se fossimo ancora immersi in quella cornice culturale non ce ne renderemmo conto.

Di post-patriarcato parlano da tempo pensatrici femministe come Ida Dominijanni e Ina Praetorius, e nel 2014 Irene Strazzeri ha pubblicato il suo libro Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico. Ma è una parola che circola ancora poco ed è bene riprenderla e rilanciarla, perché fa chiarezza. Ha ragione Ida Dominijanni a ricordare nel suo bell’articolo su Internazionale che oggi la legge del padre è stata soppiantata dal “discorso del capitalista”, dal godimento immediato e dalla non sopportazione della frustrazione e della mancanza. Filippo Turetta, con la sua impossibilità ad accettare di essere lasciato e di vedere Giulia laurearsi prima di lui, è figura dell’oggi e non residuo del passato. Ma in quel passato trova il privilegio di essere uomo e ha a disposizione tutto l’armamentario prepotente e violento di quella cultura. Come ha detto Elena Cecchettin, «nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto».

Ora la questione è se quell’ondata è una fiammata che si esaurisce in grandi manifestazioni o se ci sarà un seguito di cambiamento e trasformazione. In questi giorni i femminicidi continuano inesorabili ma vediamo anche che non si sta arrestando il desiderio di cambiamento.

Sappiamo bene che la politica essenziale è che ognuno, ognuna parta da sé nel suo vivere quotidiano per trasformare la qualità delle relazioni in cui è inserito e inserita: quelle di coppia, quelle con i figli e le figlie, quelle con amici e amiche, quelle nel posto di lavoro. Inoltre diventa sempre più importante porre maggiore attenzione attorno a sé e non sorvolare sul commento sessista, sulla battuta misogina, sul paternalismo, sul minimizzare, sullo sminuire le donne.

Io penso anche però che il tempo sia maturo per un gesto simbolicamente forte. Nell’invito a questo incontro è citato il Manifesto di Rivolta Femminile che già nel ’70 diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Con le orribili guerre in corso, la militarizzazione del modello di comportamento maschile si è ulteriormente intensificata, per questo penso che ci voglia un gesto di rottura plateale. Ho in mente quello che ha rappresentato per le donne il Me Too, la cui forza è stata in grado di percorrere il mondo. Capisco che per gli uomini la cosa è più complicata perché c’è un doppio passaggio nella presa di coscienza. Il primo passo è senz’altro “mi riguarda” e mi azzardo a dire che la presa di parola di queste settimane ha posto le basi di questo primo passaggio. Il secondo passo è “non ci sto più” e questo va detto a voce alta per aprire a qualcos’altro.

Durante il funerale di Giulia, Gino Cecchettin, il padre, si è esposto con parole significative quando ha detto: «Mi rivolgo agli uomini, noi per primi dobbiamo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi sfidando la cultura che minimizza la violenza da parte di uomini apparentemente normali, non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione cruciale è creare una cultura di responsabilità e di supporto».

Ecco, è il momento per gli uomini di rispondere alla sua chiamata.