È sul terreno del racconto che si esercita la lotta per l’egemonia
Giovanna Pezzuoli
17 Dicembre 2018
Inizio da un testo di Bia Sarasini scritto per «Alternative per il socialismo» nella primavera 2017, che pubblichiamo nell’allegato “Per Bia” nel prossimo numero di Leggendaria, Trans/Scritture. Si intitola «Se le donne si mettono in marcia. Nuova politica ed elaborazione del lutto». Scriveva Bia: «Cortei imponenti si aggirano e occupano le strade del mondo, e invece di suscitare entusiasmi e adesioni, risultano del tutto invisibili. Al meglio fraintesi, spesso osteggiati e criticati. Sarà perché all’origine si tratta di mobilitazioni femministe?».
Mi colpisce come la sua analisi sia ancora attualissima. La sua domanda essenziale, infatti, è: Perché solo alle iniziative femministe negli ultimi mesi riesce di mobilitare il popolo, di mostrare forza, con obiettivi di sinistra? Questa sarebbe la domanda da porsi, un interrogativo a cui si preferisce sfuggire, tra denigrazioni, slittamenti, sottovalutazioni.
È infatti sul terreno del racconto, della comunicazione che si esercita la lotta per l’egemonia, sulla storia che viene raccontata, su chi sono le/gli interpreti, quali le immagini e i video mostrati, quali le parole e gli obiettivi. È una lotta che si gioca tra media mainstream, come tv e carta stampata, e social dall’altra parte. La differenza la fanno le risorse disponibili, ovviamente, ma non solo.
I fatti: si parte da Black Monday, l’imponente mobilitazione in Polonia, il 3 ottobre 2016, contro la minacciata proibizione della possibilità di aborto, in un paese che ha già una legge vergognosa, un evento ignorato dalla stampa italiana, per proseguire poi con la manifestazione romana del 26 novembre del 2016 (250mila persone in corteo), che pure ottiene scarsa visibilità sui media.
La Women’s march on Washington del 21 gennaio 2017 è un evento impossibile da ignorare con 3 milioni di persone coinvolte in Usa, 2 milioni nel mondo. Allora si fa un gioco diverso: si minimizza, facendo colore sui pussy-hat (i berretti di lana rosa fatti a mano per via dell’orribile battuta di Trump “Grab her by the pussy”), sulle battute di Madonna, puntando sulle celebrities, ma ignorando contenuti, obiettivi, preparazione e discussione. Roberto Saviano, su La Repubblica del giorno dopo scriveva: «Le manifestazioni contro Trump hanno avuto un sapore antico, d’archivio […] Slogan del passato compressi nella versione tweet», mentre i titolisti hanno rincarato la dose: «Se va in piazza l’America vecchia. La protesta delle donne ha un sapore antico»…
Vediamo come questa analisi vale anche oggi. Prendiamo la manifestazione romana organizzata da NonUnadiMeno il 24 novembre scorso e vediamo due esempi di media mainstream (e non di destra): il Corriere della Sera e Repubblica. Il Corriere mette in prima pagina uomini e donne famosi (da Mara Carfagna a Salvatore Esposito) con sul viso il segno rosso di adesione alla campagna contro la violenza e nelle due pagine interne intervista Luca Barbarossa per la canzone L’amore rubato e il colonnello Fabio Federici, co-autore di Menti insolite. Radiografia di cinque femminicidi, oltre alla cugina di Maria Schneider e alla filosofa Nicla Vassallo. Sulle due facciate c’è la foto del corteo dove si vede lo striscione ma non la folla (perché non c’è ripresa dall’alto), mentre non viene mai data la parola a chi manifesta. Più aderente alla realtà La Repubblica con una piccola foto del corteo in prima pagina che lascia intravedere la quantità di manifestanti, foto ripresa all’interno con il titolo «La violenza dei padri. Sei donne su dieci colpite davanti ai figli». Anche qui manca però una riflessione sulla forza della mobilitazione: si parla dei 106 palloncini liberati nel cielo a ricordo delle vittime, si riferisce la polemica su chi abbia destinato i 33 milioni ai centri anti-violenza ma non si cita il numero impressionante delle manifestanti (150mila, sotto la pioggia), né si dà loro la parola.
Condivisibile la riflessione di SeNonOraQuando Factory che si rivolge ai direttori delle testate italiane con un appello forte: «Vi siete accorti della grandezza di quella manifestazione, della sua rilevanza politica, della sua potenza, della sua capacità di mobilitare una marea di persone, nella stragrande maggioranza donne?». E prosegue: «Siamo la voce principale del dissenso. Si parla sempre, o comunque tanto, di noi in relazione alla violenza che subiamo. Ma la cancellazione di noi nel racconto, nelle cronache è già violenza». Un’irrilevanza che incide sulla stessa autostima delle donne. Perché come scrive Alda Merini: «Dovrei chiedere scusa a me stessa per non aver creduto di essere abbastanza».
Certo, i settimanali danno più spazio alla riflessione: dall’Espresso («Quello che le donne dicono») a Venerdì e Sette che descrivono con grande rilievo la “carica delle donne” nelle elezioni mid term americane del 6 novembre scorso. Ma parlare dell’America è più facile…
A proposito di differenza fra la stampa americana e quella italiana, vale la pena di esaminare il modo del tutto differente in cui si parla della rivoluzione del #Metoo. Sappiamo tutte/i che sono proprio due giornaliste del New York Times il 5 ottobre 2017 a dare il via alle accuse a Harvey Weinstein, seguite dal celebre reportage di Ronan Farrow, mentre il Time mette in copertina le 5 “Silence breakers” (Ashley Judd, Susan Fowler, Adama Iwu, Taylor Swift e Isabel Pascual) come persona dell’anno e l’Economist definisce il MeToo la forza più dirompente dai tempi delle lotte per il suffragio femminile.
A distanza di oltre un anno l’attenzione della stampa americana non accenna a diminuire e il New York Times del 23 ottobre 2018 presenta una mappa dettagliatissima con i profili di 201 uomini potenti licenziati per le accuse di abusi e molestie e sostituiti nel 43 % dei casi da donne: ecco chi sono. E non manca l’elenco di tutti i 920 uomini, attori hollywoodiani, ma anche tantissimi politici, senatori e deputati, e poi magistrati, manager, direttori editoriali, produttori cinematografici, giornalisti, sceneggiatori, architetti, ristoratori, ballerini, ecclesiastici… che sono stati coinvolti in simili accuse.
E i giornali italiani? La stampa mainstream da noi registra inevitabilmente lo scalpore del movimento #MeToo ma con modalità differenti e abbastanza peculiari. Concede cioè moltissimo spazio ai casi singoli con spreco di voci a favore o critiche, e spesso un corredo irritante di gossip, foto, interviste, apparizioni televisive, ma si sbilancia raramente in analisi approfondite. E soprattutto si chiede con insistenza se il MeToo rappresenti davvero un cambiamento radicale, arrivando talvolta a decretarne il fallimento o in ogni caso relegandolo a una bizzarria molto americana, esasperata dagli eccessi del politicamente corretto e da un puritanesimo dilagante.
E non parliamo della stampa di destra, che non perde l’occasione di dare ampio spazio alle voci critiche del movimento, da Melania Trump a Woopi Goldberg.
Naturalmente esistono delle eccezioni, ma sono sistematicamente ignorate iniziative come Dissenso Comune, la lettera-manifesto firmata da oltre 120 attrici, registe, produttrici e donne del mondo dello spettacolo contro l’attuale sistema di potere, o l’hashtag «Quella volta che», lanciato da Giulia Blasi 3 giorni prima del #MeToo americano, che ha raccolto in poco tempo migliaia di testimonianze di lavoratrici molestate (ne ha parlato tempestivamente e diffusamente solo il blog la 27esima Ora).
In cambio, ampio spazio viene dato alle polemiche, meglio se coinvolgono celebrities, da Catherine Deneuve a Brigitte Bardot e ogni volta si decreta la morte annunciata e/o il fallimento, probabilmente desiderato, del MeToo. Così il 14 ottobre 2018 Antonio Polito, editorialista e vice direttore del Corriere della Sera, ci spiega «Perché il MeToo fallisce», chiarendo che il movimento non sta davvero cambiando le relazioni tra uomini e donne (sarebbe stato un vero miracolo, dopo tremila anni di storia!). E anche se le punizioni esemplari, che hanno colpito uomini potenti, sarebbero state inimmaginabili sino a pochi anni fa, «la bufera ha riguardato quasi solo gente dello spettacolo», ma non ambiti professionali e luoghi di lavoro meno glamour. Poi, si tratterebbe di una storia troppo americana, che ha avuto grande audience ma finora pochi imitatori. Affermazioni azzardate e superficiali, che restano intrappolate in una visione densa di pregiudizi, prigioniera degli stessi gossip così amati dalla stampa italiana: che dire, ad esempio, dei ristoratori come dei volontari di Ong coinvolti negli scandali (ambienti glamour?), o del seguito mondiale del movimento, che non si è soltanto diffuso in Europa (con #BalanceTonPorc, in Francia, e #Quellavoltache in Italia) ma ha raggiunto l’India, e poi la Cina con l’hashtag WoYeShi, e persino il Pakistan con il movimento #UnbanVerna, togliete il veto su Verna, film bandito in quanto affrontava la ribellione di una donna a uno stupro. Ed è arrivato a lambire l’Islam con la campagna #MosqueMeToo, lanciata all’inizio di febbraio dalla femminista e giornalista egizio-americana Mona Eltahawy, che per prima ha denunciato la sua esperienza di molestie sessuali durante il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca. Tutto questo viene ignorato dalla stampa mainstream. Come mai? La domanda infatti è: perché in Italia dove quasi 1 milione e mezzo di donne subiscono molestie o abusi durante la loro vita lavorativa, il MeToo è stato monopolizzato dalla vicenda di Asia Argento?
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 La parola giusta ha in sè il potere della realtà, del 2 dicembre 2018