Che significa oggi per gli uomini stare di fronte alla libertà delle donne?
Marco Deriu
8 Dicembre 2023
In questi ultimi tempi le forme più distruttive della cultura maschile e dell’idea di potenza e virilità hanno riempito la cronaca e l’immaginario collettivo. Dapprima la brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, e la conseguente guerra di posizione che ha già causato oltre 200.000 morti. Poi il brutale attacco dei miliziani di Hamas a città, villaggi, installazioni militari e un festival di musica nel sud di Israele che ha prodotto circa 1.400 morti con torture, mutilazioni, abusi e stupri sistematici nei confronti delle donne, oltre al rapimento di circa 240 persone. Per arrivare infine al criminale bombardamento e all’invasione israeliana di Gaza che non ha risparmiato palazzi civili, ospedali, campi di rifugiati, infrastrutture fondamentali per l’accesso a cibo, acqua, elettricità, che ha causato nel giro di due/tre mesi il massacro da 20.000 morti, tra cui 8.000 minori e 6.200 donne.
D’altra parte, per restare più vicino a noi, in mezzo a questi orrori organizzati, registriamo il lungo elenco delle vittime delle violenze “ordinarie” quotidiane e dei femminicidi (circa 109 le donne uccise nel 2023).
Riguardando la lunga lista di femminicidi di quest’anno saltano agli occhi diversi aspetti, tra cui l’età molto variabile dei soggetti, le tante nazionalità coinvolte sia da parte degli autori che delle vittime, il gran numero di regioni interessate, la diversità di mezzi utilizzati per compiere il crimine, i motivi o le occasioni disparate, il fatto che queste violenze colpiscano e coinvolgano donne incinte, figli, parenti, o che implichino talvolta anche suicidi o tentati suicidi.
Cosa hanno in comune tutte queste violenze? Molte donne (e alcuni uomini) hanno chiamato in causa il Patriarcato e la sua cultura, suscitando l’immediata reazione di altri uomini che invece vorrebbero riportare questi fatti criminali a motivazioni psicologiche, alla fragilità o alla debolezza delle persone.
Non c’è dubbio che dentro ai codici del possesso, della gelosia, all’incapacità di accettare la libertà e l’autodeterminazione femminile, al ricorso all’uso della forza e delle armi sia inevitabile ritrovare elementi di una cultura patriarcale che ancora abitua gli uomini a pensare alle donne se non come “oggetti”, quantomeno come “soggetti a disposizione” che sono “amate” e “apprezzate” solo nella misura in cui rispondono al desiderio, ai bisogni e alle aspettative maschili.
Tuttavia, non dobbiamo fare l’errore di accontentarci di uno slogan ma dobbiamo sforzarci di andare più a fondo per capire cosa possiamo comprendere di quello che sta accadendo e quanto le tradizionali spiegazioni siano adeguate al caso.
Soffermiamoci sul caso di Filippo Turetta e dell’omicidio di Giulia Cecchettin che ha destato un’ondata emotiva particolarmente forte. Complice il fatto che si trattava di giovani, universitari, dalle facce pulite, di famiglie come tante altre nelle quali era più facile riconoscersi e immedesimarsi. Certamente ha giocato anche la dinamica dell’evento. La sparizione, la ricerca, gli appelli dei parenti, la speranza di un lieto fine e invece la prevedibile tragica fine che ha confermato i sospetti più ovvi. Sono state particolarmente importanti in questo caso anche le voci e le parole dei famigliari dell’uno e dell’altra protagonista, a partire da Elena Cecchettin, la sorella di Giulia che ha puntualizzato: «Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è». Per lei questi personaggi sono figli del patriarcato che si sentono autorizzati alla possessività e al controllo.
La sorella, dunque, ha invitato a guardare anche oltre i singoli protagonisti, a guardare quanto certi gesti si iscrivano in un ordine di possibilità e di significati che rendono plausibili o quantomeno pensabili certe azioni.
Nel comportamento di Turetta, dunque, possiamo rinvenire pensieri e gesti patriarcali, ma in un contesto sociale e anche culturale che è cambiato e che ci ripresenta motivi antichi in forme più intime e personali.
Le famiglie e i contesti dei due protagonisti non ricalcano le strutture delle famiglie patriarcali, non sembrano riflettere le gerarchie, i modelli tradizionali. Non è la stessa cosa di un clan patriarcale in cui la violenza è espressione di un modello famigliare e sociale rigorosamente definito. Per intenderci non è la stessa cosa del delitto di Saman Abbas in cui la violenza è ordinata e perpetrata da gran parte del nucleo famigliare. Qui il contesto è completamente diverso, non solo la famiglia della vittima, ma anche la famiglia dell’autore è distrutta. Non solo non si riconosce nel gesto ma fatica a comprendere da dove viene.
Val la pena per comprendere la peculiarità del contesto sottolineare le tre voci maschili che per le due famiglie hanno preso parola in quei giorni.
La prima è quella di Nicola Turetta, il padre di Filippo che intervistato dai cronisti ha dichiarato:«È pur sempre mio figlio. Non lo giustifico in niente, per quello che ha fatto. E per questo deve essere giudicato, dovrà assumersi la responsabilità. E penso al papà di Giulia, al quale ci sentiamo vicini. Anche noi siamo pieni di dolore». «Giulia l’abbiamo conosciuta bene. Veniva qua con Filippo, ci vedevamo. Sembrava una coppia perfetta, nessuno riporterà più Giulia. Siamo molto vicini a questa famiglia, e non riusciamo a capire come possa aver fatto una cosa così un ragazzo a cui abbiamo cercato di dare tutto». «Io da padre – ha proseguito ancora Turetta – ho pensato che fosse un figlio perfetto, perché non mi aveva dato mai nessun problema, né a scuola, né con i professori, mai un litigio con qualche compagno di scuola o che altro. Mai. Con il fratello più piccolo neanche una baruffa. E ora trovarmi con una cosa del genere, voi capite che non è concepibile, ci dev’essere qualcosa che è entrata in lui».
Come si nota il padre ha empatizzato con la vittima e la sua famiglia e non ha difeso per nulla il figlio, non ha minimamente accennato alcuna sorta di giustificazione o di scusante. In un’intervista riportata da fanpage.it ha addirittura lasciato intendere che avrebbe quasi preferito «che la cosa fosse finita in un altro modo».
Una seconda voce maschile è quella di Andrea, lo zio della giovane studentessa, che alla fiaccolata per Giulia a Vigonovo si è sentito di abbracciare Nicola, il padre di Filippo Turetta, che partecipava all’evento per ricordare la ventiduenne uccisa a coltellate.
«Ho abbracciato il papà di Filippo, un gesto che lui ha voluto fare lontano dalle telecamere. Lo avevo invitato per farci sentire uniti in questo dolore: noi per la perdita di Giulia, loro nella sofferenza di un figlio che ha provocato una perdita grande. La famiglia non c’entra, non è colpa dei genitori, questo è quello che penso io […] Sono due persone provate con un dolore enorme, forse con un dolore più grande del nostro, ma non sono loro che hanno fatto male a Giulia. Adesso il perdono per Filippo non lo sento, sento pietas per la famiglia perché sono anche loro vittime del figlio».
Infine, c’è stata la voce di Gino Cecchettin, il padre di Giulia, che in seguito al delitto ha raccontato di non aver percepito dei segnali premonitori del pericolo: «Non ci sono riuscito e purtroppo ne ho fatto le spese. Da papà è inevitabile farsi delle domande: potevo fare qualcosa per lei? I primi a colpevolizzarci siamo noi genitori. Ho sempre cercato di preservare la privacy di Giulia, anche perché è sempre stata una ragazza coscienziosa, responsabile, e mi sono sempre affidato al suo giudizio».
Poi ci sono le parole del discorso che ha fatto durante il funerale della figlia, in cui si è rivolto direttamente agli uomini con parole nuove: «Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto».
Come si nota, in questo caso, le figure maschili e paterne coinvolte nella vicenda hanno saputo trovare delle parole diverse dal linguaggio stereotipato e sessista tipico della cultura patriarcale. Non va sottovalutata questa novità.
Dunque, se il tema è la cultura e l’educazione patriarcale, in questo contesto essa va ricercata a un livello differente più personale e individualizzato che produce una violenza più disorganica, imprevedibile, di risentimento. Nell’autore della violenza, qualcosa è penetrato e ha lavorato in profondità, in forma più sottile e insidiosa, a strutturare un certo tipo di mentalità, a costruire un certo senso di sé e dell’altro, a definire delle aspettative e dei modelli relazionali. Il risultato è qualcosa di vecchio e di nuovo allo stesso tempo, che val la pena provare a evidenziare.
Intanto rispetto al senso di sé emerge una profonda fragilità maschile, il forte bisogno della partner, della donna, l’esatto contrario del mito dell’uomo indipendente. Io credo che questa dipendenza maschile dalle donne, dalla madre, dalla fidanzata, dalla moglie e perfino dalla collega di lavoro, ci sia sempre stata ma finché si era dentro una struttura sociale e famigliare patriarcale solida questa dipendenza non poteva emergere, era protetta dalle sicurezze dei ruoli e delle regole prestabilite. Emerge invece oggi di fronte alla libertà femminile e a percorsi di individuazione e di costruzione di senso più forti e più a fuoco da parte delle donne. Si evidenzia quindi il chiaro bisogno della partner per la propria stabilità, ma una partner, tuttavia non riconosciuta nella sua alterità.
Rispetto al senso dell’alterità, occorre insistere sul fatto che la donna, la partner non è affatto percepita come inferiore, come minore, come qualcosa da educare, sviluppare o proteggere. Al contrario Giulia Cecchettin appare come più autonoma, più matura, più brava negli studi, e persino più felice. Quindi non c’è un senso maschile di superiorità, ma semmai l’opposto, il senso di inferiorità o quantomeno di inadeguatezza maschile. È il maschio che non si sente all’altezza che chiede a lei di rallentare, di aspettarlo, di attendere a laurearsi.
Quindi rispetto al senso della relazione, è chiaro che il contesto non è quello di una relazione patriarcale tradizionale, ma quello di una relazione “democratica”, “paritaria”. La cultura è quella, il modello sociale delle nuove generazioni è quello. Eppure, il maschio non ci sta dentro.
Molti uomini sono abituati a provare affetto e sentimenti dentro a relazioni che controllano, che dominano, che dirigono, ma non in una relazione senza reti. Una relazione libera dove puoi sentire il taglio dell’alterità. Il punto è che senza questa esperienza, questa ferita e la sua accettazione – l’accettazione che l’altra è altra anche quando sta con te – non c’è possibilità di un amore sano.
La questione, dunque, non è solo la dimensione ideologica del patriarcato (che comunque persiste in una parte del mondo maschile), ma piuttosto la dimensione esperienziale e relazionale, l’incapacità di misurarsi fino in fondo con una soggettività altra in quella che Lia Cigarini ha chiamato “relazione di differenza”.
La cultura – almeno in parte – si è evoluta, la società si è andata trasformando, anche se non abbastanza a fondo. Anche se il patriarcato ha perso gran parte del suo riconoscimento e del suo appoggio c’è ancora molta strada da fare per congedarsi veramente dal sessismo e dalla violenza. Il fatto è che non basta cambiare le leggi, occorre lavorare sulle mentalità, sulle aspettative sociali, sui modelli di relazione.
“La libertà delle donne è libertà per tutti” recita l’invito a questa discussione. Questa è stata in effetti anche la mia esperienza, nelle esperienze di gioia e condivisione tanto quanto in quelle di delusione o di separazione. Ma questa libertà non è semplicemente un valore, un principio, ma è un’esperienza, una pratica, una scuola.
Che significa oggi per gli uomini stare di fronte alla libertà delle donne? Che significa non sentirsi diminuiti, o minacciati, ma fare di questa libertà un’esperienza di apprendimento – anche quando è conflittuale o dolorosa – un terreno di maturazione per il proprio modo di amare, di sentire e di stare al mondo?
È urgente cominciare a parlarne insieme.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024