Vogliamo una nuova consapevolezza maschile
Laura Colombo
8 Dicembre 2023
Il numero di Via Dogana 3 “È ora di cambiare” è quanto mai opportuno in questo momento storico, la mia vuole essere una breve introduzione che dà alcuni spunti di riflessione a partire dai recenti efferati casi di cronaca e dalla conseguente risonanza mediatica.
Per ragioni contingenti e personali, mi sono ritrovata in quest’ultima settimana a vedere alcuni dei cosiddetti talk show televisivi incentrati sul caso di femminicidio di Giulia Cecchettin, e la parola più diffusamente utilizzata e controversa era patriarcato. Sono rimasta molto colpita dall’approssimazione e superficialità di quello che veniva narrato, e trovo che la stessa cosa succeda sui social e alla radio: vengono espresse posizioni che man mano si radicalizzano per contrapposizione, ma sono per lo più inaccurate. Invece ho trovato molto lucido e prezioso il contributo di Ida Dominijanni su Internazionale, dal titolo “Il campo di battaglia del patriarcato vacillante”[1], che tutte e tutti dovrebbero leggere, come pure un’intervista, sempre a Ida Dominijanni, pubblicata sull’Unità, e intitolata “Il patriarcato è ferito, per questo è più feroce”[2]. In estrema sintesi, il punto che voglio sottolineare è che si tratta di saper nominare quello che sta capitando per far ordine, e la parola giusta per il nostro imbrogliato presente è post-patriarcato.
Il n° 23 della rivista cartacea Via Dogana aveva come titolo “La fine del patriarcato”, è uscita a settembre del 1995, e Luisa Muraro nell’articolo “Salti di gioia” scrive: “questi sono i tempi della fine del patriarcato, dopo quattromila anni di storia e chissà quanti di preistoria. È finita! È finita! È finita!”. Ma cosa precisamente è finito? È stato interrotto il secolare destino prescritto per le donne, la legge e il desiderio maschile hanno smesso di essere riferimento e misura per le donne. In altri termini, le vite femminili sono diventate ricerca di senso in prima persona, le relazioni tra donne sono diventate visibili nello spazio pubblico. È chiaro quindi che bisogna parlare di post-patriarcato, perché, se non è finito il potere maschile e la sua ricerca da parte degli uomini, è cessato l’assoggettamento delle donne, è terminato il credito che le donne davano al sistema socio-simbolico rappresentato dal patriarcato. Ida Dominijanni efficacemente dice che nel patriarcato le “donne non c’era neanche bisogno di ammazzarle, perché erano addomesticate”. E continua dicendo “Adesso abbiamo un patriarcato ferito, ferito dalla libertà femminile guadagnata, che quindi reagisce a questa libertà in modo efferato”.
Se poi pensiamo alle guerre in corso, il quadro della mascolinità si tinge ancor più di fosco. Sui social spopolano i modelli più violenti e machisti, gli stupri e le violazioni dei corpi femminili sono armi trasversali di una guerra generalizzata.
Torno al femminicidio di Giulia Cecchettin, perché ritengo sia paradigmatico di elementi retrivi e fatti del tutto nuovi. Nella narrazione piena di sproloqui sul patriarcato, una certa vulgata di destra lo rubrica a fatto legato alla criminalità, a un malessere individuale, un raptus e un gesto di follia. Elena Cecchettin, la sorella della vittima, ha creato una cesura nella narrazione della violenza sulle donne[3], mostrando chiaramente il problema sociale e politico dei femminicidi, ovvero il problema di un maschile che non sa stare alla misura della libertà femminile, che non può sopportare l’indipendenza delle donne da desideri e imposizioni di un lui debole e in affanno, e ciò vale a tutte le latitudini e in tutti i sistemi sociali, quelli dove le donne non hanno diritti e quelli dove le donne sono più emancipate. Il punto nodale non è quindi il patriarcato, inteso come sistema socio-simbolico di dominio dell’uomo sulla donna. La vera questione è la cultura patriarcale, alimentata da guerra e violenza, che fissa l’identità maschile in una tradizione anacronistica.
Il movimento #MeToo ha fatto un lavoro importante mostrando in quale misura l’atteggiamento maschile che avanza soverchianti pretese, incurante del desiderio di lei, permei la nostra cultura. Ma questo non basta: smascherare, svelare, denunciare non è abbastanza per attuare una modificazione del sistema. Pensiamo alla frase agghiacciante pronunciata dall’assassino durante l’interrogatorio, così come la riportano i media: “Non accettavo che non fosse più mia”, la quintessenza di una cultura del possesso e del dominio. E qui si innesta anche il discorso del neoliberismo, inteso come quella forma specifica di biopolitica dove la dimensione sociale, politica ed economica implodono in un sistema che è tutt’altro che repressivo, al contrario, è un sistema che produce, incrementa e risignifica la libertà degli esseri umani secondo il codice del mercato. Se per le donne la questione cruciale è l’assimilazione della libertà femminile da parte del neoliberismo, e per approfondire questo accenno rimando al libro curato da Stefania Tarantino e Tristana Dini Femminismo e neoliberismo[4], per gli uomini il punto critico è l’evaporazione del padre e della sua Legge, ovvero la sparizione dell’interdizione a favore dell’ingiunzione al godimento, del godimento immediato dell’altra ridotta a oggetto. A questo proposito, scrive Ida Dominijanni: “Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego così insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme: “i nostri bravi ragazzi”, insospettabili fino a un attimo prima di estrarre un coltello dallo zaino”.
In questo quadro, tuttavia, abbiamo visto sorgere un grande desiderio di politica delle giovani donne, non solo nelle manifestazioni del 25 novembre, ma anche in un fiorire di iniziative di collettivi e gruppi di giovanissime, in cui si mette in parola l’esperienza, si fanno circolare idee, si condividono gesti di discontinuità. Ne voglio citare una, il lavoro fatto da ragazze e ragazzi della redazione de L’Urlo, la rivista mensile del Liceo classico Manzoni di Milano. In occasione del 25 novembre, hanno lavorato al progetto Morgana, producendo un podcast con le testimonianze raccolte tra le ragazze della scuola[5] e realizzando interviste ai professori della scuola, sulla scorta della discontinuità che il caso di Giulia Cecchettin sta evidenziando. Martina Ghanbari, che frequenta il secondo anno, ha svolto le interviste con altre ragazze e ragazzi della redazione de L’Urlo, redatte poi in un fascicolo che è stato distribuito a tutti gli e le studenti della scuola. Riporto due passaggi significativi:
“Quale messaggio vorrebbe trasmettere ai propri studenti?
Professor Sivelli: […] Se sono maschio, docente o studente che sia, e mi conosco sia dal punto di vista morale sia nei rapporti col genere femminile, mi ritengo di conseguenza esonerato da questo discorso perché tanto “io non sono così, lo so”. Non dovremmo mai considerarci immuni. Solo se siamo costantemente minacciati, solo se pensiamo che può accadere anche a noi, solo se facciamo tutti un continuo lavoro di introspezione, si può pensare a un cambiamento. Non lasciate che gli eventi vi vengano messi davanti agli occhi, sentiteli come problemi vostri, che incombono anche sulla vostra identità di maschio”.
È notevole il passaggio dalla ferma certezza del proprio fondamento morale, che dispensa da qualsiasi implicazione e mette l’uomo nella consueta posizione giudicante, a una inedita vulnerabilità, che domanda la presa di coscienza in prima persona, per tutti e ciascuno.
“Hai mai assistito a episodi di violenza? Come hai reagito?
Professor Morelli: […] Quello di cui mi sono stupito è che persone che io reputavo civili, educate, rispettose delle regole del prossimo, dei rapporti, tendenzialmente anche abbastanza consapevoli dal punto di vista sociale[6], hanno poi manifestato atteggiamenti inaspettati e inesplicabili nei confronti della propria compagna o della propria partner: di non accettazione, di rifiuto e di incapacità di accettare l’esito di una relazione amorosa che non mi sarei mai aspettato da loro. Stiamo parlando di violenza verbale e, nella peggiore delle ipotesi, di stalking, che sono manifestazioni odiose del proprio modo di essere. Tutto è concentrato in quel sottobosco di relazioni tossiche che rendono ancora più grave il problema di cui parliamo. Parliamo della normalità, non stiamo parlando di un ragazzo che uccide una ragazza”.
Lo stupore iniziale lascia il posto alla consapevolezza che si tratta di una violenza endemica e strutturale alla “normalità” dei rapporti tra i sessi.
C’è un filo di speranza, se la percezione che sia ora di cambiare diventa moneta corrente tra gli uomini e se questo dolore collettivo riesce a essere un efficace agente di cambiamento.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024