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Da Adista – «E quando mi si dice che una donna è libera di fare del proprio corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri», ha chiosato brillantemente Alessandra Bocchetti già nel 20131.

Voci di “donne indisponibili” a questa malintesa idea di libertà sempre più prendono parola: per decostruire e affermare l’inaccettabilità di una idea di libertà disincarnata, che disconosce la logica del Due per riaffermare l’Uno, in una riedizione della logica universalistica androcentrica. Voci di autrici femministe che resistono a una cultura conformistica imperante che si spaccia per progressista; ma non lo è, piuttosto si tratta di “progressismo”, come precisa Francesca Izzo; un “pensiero unico” che vorrebbe bellamente spazzare via teorie e pratiche guadagnate dal femminismo anni ’70 (il cui cardine si incentrava sulla differenza sessuale), ritenute da quest’ondata dilagante un’ammuffita anticaglia da “superare”; e in un luciferino gioco trasformistico, si approderebbe a una novella riedizione – sotto “travestite” spoglie – dell’ineffabile e immarcescibile dominio del neutro maschile.

Tra le voci più incisive ed esaurienti che si sono esposte per dire no, spicca per limpidità e assertività il libro Noi le lesbiche, preferenza femminile e critica al transfemminismo; vanno citate poi le traduzioni dalle opere di Sylviane Agacinski (per es. L’uomo disincarnato, prefazione di Francesca Izzo), Le avventure della libertà, di Francesca Izzo, Libertà in vendita, il corpo tra scelta e mercato, di Valentina Pazé, e mi scuso per le omissioni.

Ora è apparso Vietato a sinistra, dieci interventi femministi su temi scomodi (Lit edizioni, 2024), libro atteso, auspicato, di più, necessario: introduzione di Francesca Izzo cui seguono i saggi di (in ordine alfabetico) Silvia Baratella, Marcella De Carli Ferrari, Lorenza De Micco e Anna Merlino, Daniela Dioguardi, Caterina Gatti, Cristina Gramolini e Roberta Vannucci, Doranna Lupi, Laura Minguzzi, Laura Piretti, Stella Zaltieri Pirola.

Quali sono in estrema sintesi i temi esposti nell’agile ma sostanzioso pamphlet, quali i temi “vietati a sinistra”, che «hanno allontanato molte (me compresa) – scrive Izzo – da partiti e organizzazioni di sinistra»? Si dislocano in un arco tematico che va dall’affido condiviso, alla gestazione per altri (GPA), dall’identità/fluidità di genere alla prostituzione/sex work, alle norme anti-separatismo imposte dai regolamenti del terzo settore; temi visitati e interpretati secondo varie angolazioni e accenti, puntuali nel documentare episodi di censura, intimidazione, discriminazione; vicende vissute dalle autrici, episodi incresciosi, imbarazzanti, inquietanti.

«Vogliamo richiamare l’attenzione su alcune pratiche che impoveriscono lo spazio critico, un tempo fiore all’occhiello del campo dell’alternativa, e – inaudito – giungono a minacciare le donne indisponibili a sostenere presunti nuovi diritti sessuali quali la surrogazione della maternità, il blocco della pubertà, il lavoro sessuale… riferiremo solo alcuni episodi…», si legge nel saggio di Cristina Gramolini e Roberta Vannucci.

Non manca un’altra barbarie sessista: «Vorrei riflettere a cosa succede alle bambine, perché anche le bambine accedono alla pornografia… gli stupri sono comuni e la narrazione fa credere che alle donne possa piacere essere violentate», scrive Caterina Gatti, saldando prostituzione e pornografia, due questioni cruciali non separate tra loro.

Questioni divisive nel movimento delle donne, si sa: con grande coraggio il libro si assume il compito di affrontare tali argomenti “prendendo parola”, una parola scomoda, una parola audace: osa dire che il re è nudo; mettendola in circolo, restituendola alle tante – e io fra queste – che il femminismo l’hanno conosciuto, vissuto, praticato per anni, e ora sono sconcertate da come il mainstream della cultura dell’inclusione abbia deviato dalle premesse di giustizia sociale da cui era partita, stravolgendola, e si è giunti a invocare libertà – per qualcuno (al maschile) – che danneggiano o calpestano esistenze di altre (femminile), e chi non ci sta è omofoba o transfobica o fa discorsi d’odio.

Le questioni trattate quindi sono identificabili all’interno delle aree tematiche che ho menzionato; che, come si può capire, sono legate tra loro con un fil rouge, da una precisa economia simbolica, radicate in un impianto politico, filosofico e di diritto sessuato che lo sorregge, impianto acutamente argomentato nella introduzione di Francesca Izzo, dove le tessere del discorso sono poste e sviluppate in una prospettiva di politica sessuale coerente con l’eredità del femminismo.

«I problemi che ci stanno di fronte non sono affrontabili accumulando e sovrapponendo diritti, si tratta invece di rivoluzionare i fondamenti della cittadinanza perché l’ingresso delle donne significa la rottura e lo sconvolgimento degli assetti istituzionali. La logica dei diritti impedisce di “vedere” questi dati sistemici e punta invece a neutralizzarli con un approccio individualistico e neutro-maschile. Mai come dalla prospettiva delle donne il paradigma individualistico… appare fuorviante. I risultati li abbiamo sotto gli occhi, con un uno scambio della concezione della libertà come affermazione positiva dell’integralità della persona con l’idea mercantile della libertà come assenza di vincoli nel disporre di sé sul mercato. Sino al punto di invocarla per giustificare la pratica della maternità surrogata, per ridurre la prostituzione a sex work, un lavoro come un altro, o per pensare la sessualità come scelta soggettiva, come nel caso dell’identità di genere».

L’idea di libertà si è inquinata, stritolata dalla morsa narcisistica dell’ultraliberismo. La tendenza che si sta affermando, dunque, è quella di rivendicare libertà in spregio alla benché minima idea di reciprocità e interdipendenza; rivendicazioni che sgomitano per emergere sopra le vite dell’altro/a, che si vuole tacitare o manipolare o dipingere come consenziente, in una relazione alla pari, dove invece tra i due si configura un rapporto di potere.

Molteplici sono gli elementi che sbalordiscono in questo delirio idolatrico: una sistematica appropriazione di elementi della soggettività femminile; un oblio o un travisamento della cultura femminista, tra cui spicca l’irrilevanza del corpo, oscurato nella celebrazione dell’identità di genere (essendo il genere una costruzione sociale performativa che si declina in pura esperienza interiore, personale, svincolata dalla corporeità); la confusione di elementi contraddittori: «Contemporaneamente si moltiplicano gli appelli per la parità e il rispetto per le donne… e sono molto partecipate le manifestazioni al grido di “donna, vita, libertà”. Tante, in questa confusione di parole e di slogan, non vedono il punto in cui l’esecrazione della violenza domestica si trasforma in acclamazione della violenza a pagamento nella prostituzione e nella GPA», scrive Stella Zaltieri Pirola.

Fanno parte di quest’atmosfera mafiosa l’intolleranza, l’insulto, l’ingiuria, il boicottaggio, lo screditamento sul piano politico per chi si sottrae al «conformismo ideologico che vuole fare piazza pulita della pluralità delle idee… la nuova intolleranza di chi impone il pensiero unico» (Daniela Dioguardi); per chi pensa che sex work, GPA, ecc. siano un arretramento, non un progresso, e lo si bolla di moralismo, oscurantismo e di collusione con la destra. E nemmeno ci si prende l’onere di argomentare le proprie ragioni, si squalifica e basta; tecniche tipiche dei regimi autoritari, messe in atto anche nel consenso acritico e conformista nel dibattito pubblico veicolato dai media, medusizzati dal progressismo di cui sopra. «L’accusa di moralismo sposta immediatamente le posizioni contrastanti da un piano che dovrebbe essere di parità antagonista a un piano dove una delle due parti è automaticamente preminente: l’una progressista, l’altra retrograda» scrivono Lorenza De Micco e Anna Merlino.

Una delle parole d’ordine è “autodeterminazione”. È bene soffermarsi su questa pietra miliare del movimento degli anni ’70, anch’essa stravolta: «Con lo slogan (“L’utero è mio e lo gestisco io”) non si mutilavano i corpi. Negli anni Settanta quelle parole erano antitetiche a una visione che istituisce una barra di separazione tra mente e corpo: l’utero/corpo non era assolutamente vissuto come strumento di cui si poteva disporre, anzi, ci si opponeva radicalmente alle logiche biopolitiche strumentali, prefigurando piuttosto una riappropriazione di sé, del proprio organismo, nell’orizzonte di un insieme inscindibile di mente e corpo, di una ritrovata ricomposizione. L’impianto della regolamentazione (e della legittimità del sex work) si fonda, al contrario, su una disunione con il corpo, su un’ideologia di individualismo proprietario acquisitivo, da cui discende il disporre del proprio corpo, interpretato come “bene economico a disposizione”, strumento inscritto nell’orbita della merce: la dissociazione tra mente e corpo è evidente già in queste premesse di fondo… Comprendersi incarnati/e è assai più difficile che inneggiare alla libertà: una libertà che non fa i conti con il principio di realtà, che non accetta il limite, la relazione e l’esistenza dell’altra/o»2. Il brano è tratto da Religioni e prostituzione, le voci delle donne, dove il focus era il sistema prostituente; ma è possibile estendere le argomentazioni a tutta l’area delle questioni trattate in Vietato a sinistra, un pamphlet in cui si respira indubbiamente la voce femminile inaddomesticata, una voce che fin dalle origini del femminismo è sempre stata a favore della libera espressione e manifestazione dell’orientamento sessuale; ma come narrano con lucidità le donne di Noi le lesbiche, essere lesbiche non coincide con il conformismo ideologico dai tratti mafiosi così bene documentato in Vietato a sinistra.

La voce di una cristiana e femminista quale io sono è forse inopportuna, alla fin fine, in merito alle finalità del libro? Voci come la mia confermerebbero le accuse di moralismo e bigottismo che ci vengono rivolte?

La Chiesa cattolica, per lo più affossata in un clericalismo misogino, si è spesso pronunciata irriducibilmente contraria alle questioni qui esposte.

Ma non si cada in rozze semplificazioni. A volte le istanze convergono negli esiti finali, pur partendo da visioni e posizioni inconciliabili, nella teoria come nella prassi. Per esempio la Chiesa cattolica si colloca su posizioni di sostanziale esclusione dei gay all’interno nel clero, praticando così una inaccettabile discriminazione.

Non poche femministe cristiane, alcune presenti tra le autrici, partono quindi da assunti assai distanti da quelli dell’istituzione ecclesiastica; piuttosto hanno come apice quella carica sovversiva che è la libertà delle donne; hanno ben chiaro che «le religioni istituzionalizzate sono state il più fermo piedistallo della millenaria supremazia maschile» (Carla Lonzi)3, sono attrezzate e mature nell’operare discernimento sulla realtà di una Chiesa per lo più sessista, immersa in stereotipi antifemministi e per lo più maestra in strategie mafiose (occultate: vedi le dinamiche che la coinvolgono negli abusi di coscienza e sessuali) per ostacolare la presenza delle donne, per umiliarle, per inferiorizzarle.

Ripeto: alcuni posizionamenti possono avere esiti simili, ma hanno radici differenziate. Rigettiamo l’accusa di moralismo: i nostri cammini e la teologia femminista a cui ci richiamiamo sono esempi di spirito libero antidogmatico. Pensiamo e agiamo senza preoccupazione alcuna di un possibile accordo o disaccordo con l’insegnamento disciplinare della Chiesa. L’energia della Ruah affiancata alla luce della fede (e non della religione) ci sono compagne, in armonia con le parole di Simone Weil: «… Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni d’amore nell’ambito del pensiero»4.

(Paola Cavallari)

Note

1. Alessandra Bocchetti (2013), “Il diritto alla felicità”, intervista ad Alessandra Bocchetti realizzata da Barbara Bertoncin, in Una città, 200, febbraio 2013.

2. Paola Cavallari, Doranna Lupi, Grazia Villa (a cura di), Religioni e prostituzione. Le voci delle donne, VandA edizioni, 2024.

3. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Rivolta femminile, 1970, p. 16.

4. Simone Weil, Lettera a un religioso, Adelphi, 1996, p. 91-92.