Donne in piazza per gridare “Fuori la guerra dalla storia”
Pinella Leocata
28 Giugno 2025
da La Sicilia
In tante città d’Italia e di altri Paesi europei le donne scendono in strada per gridare «Fuori la guerra dalla storia». E lo fanno con l’iniziativa “10, 100, 1000 piazze per la pace” che giovedì pomeriggio si è tenuta sotto la statua di Bellini in una piazza Stesicoro [a Catania, Ndr] colorata di striscioni e bandiere, da quelle arcobaleno a quelle della Palestina. L’idea è nata circa due anni fa da tre realtà femministe, l’Udi di Palermo, il Presidio donne per la pace di Caltanissetta e le donne di Pinerolo, e poi si è diffusa ovunque inglobando anche la lotta contro il genocidio a Gaza e quella contro il riarmo. Una lotta segnata – come spiega Anna Di Salvo di La Città Felice e la Ragna-Tela – da un preciso aspetto sessuato, quello delle donne che lottano contro il patriarcato, che sta alla base delle sopraffazioni e delle guerre, e che hanno assunto su di sé il lavoro di cura, la responsabilità di altre vite e l’impegno per la giustizia.
Le persone e le associazioni che hanno aderito all’iniziativa si alternano al microfono con poesie, canzoni, musiche, interventi creando uno spazio fisico e simbolico di confronto, pensiero e azione, uno spazio politico autonomo e femminista che intreccia territori, saperi e pratiche di resistenza alla cultura della violenza, uno spazio di donne in relazione e costruzione collettiva vissuto come presupposto necessario per una trasformazione profonda volta a smilitarizzare le menti e la società e a ridare senso alla convivenza. Le donne di questa piazza invocano la pace usando le parole delle loro madri simboliche fissate in cartelli colorati: «La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri», Hannah Arendt; «La guerra non appartiene alla storia delle donne», Virginia Woolf; «La guerra è stata sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile», Carla Lonzi; «La società matrilineare non costruiva armi né fortezze. La loro era una cultura di pace», Marija Gimbutas.
I discorsi si intrecciano. Rosaria Leonardi della Cgil legge le parole di una ragazza di Gaza che racconta l’intimità e la quotidianità violata dalle bombe e dalla distruzione quando anche solo avere le mestruazioni diventa un dramma perché non ci sono assorbenti, non ci sono prodotti per l’igiene né acqua e neppure la riservatezza, costrette come sono a condividere un unico bagno con centinaia di persone. Chiara Petrelli di Rifondazione rileva come le prime vittime delle politiche militariste sono le donne, e non solo quando le guerre scoppiano, ma anche prima, quando i governi decidono, come ha appena fatto la Ue piegandosi alle pretese di Trump e della Nato, di destinare alle armi il 5% del Pil, scelta che si traduce in taglio dei servizi e del welfare state e in povertà. Renata Governali dell’Udi spiega come fare la guerra e uccidere è il suicidio di noi stessi, della nostra parte capace di comprensione. E Irene Litrico di “Pari amore” ricorda che pace vuol dire imparare ad abbracciare le differenze e che ci vuole più coraggio a stare fuori dalla guerra che a farla. La tunisina Samia, di Freedom Flotilla, annuncia che l’associazione in cui milita si sta raccordando con la March to Gaza e con la Carovana Sumud per forzare via mare via aria e via terra il blocco di Gaza in modo da portare aiuti umanitari ad una popolazione stremata e alla fame. Quello che si sta perpetrando a Gaza, gridano queste donne, è un “futuricidio”, cioè la distruzione di esseri umani e delle condizioni per vivere e immaginare un domani. Discorsi intrecciati dai canti di ragazze immigrate e da quelli del gruppo “Coro Scatenato” e delle professoresse di “Kloster – le sarte dell’antropop”.
«La pace – scandiscono queste donne – non è un’utopia lontana, né un fatto privato o diplomatico. La pace è una pratica collettiva, un atto politico quotidiano, un bene comune da costruire insieme, qui e ora». E aggiungono. «Ad una politica fondata sul dominio, sullo sfruttamento e sull’indifferenza verso la vita umana e il pianeta opponiamo pensieri e pratiche di pace, consapevoli che la guerra non è un’eccezione, ma è un dispositivo strutturale di potere. È parte integrante di un sistema economico e politico che trae profitto dal disastro e dalla paura». Un sistema che queste donne vogliono scardinare e superare.