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Da il manifesto – Anni fa – era il 2006 – con alcuni amici di «Maschile plurale», scrivemmo un testo che, in sintesi, affermava una cosa che dovrebbe essere evidente: la violenza maschile contro le donne la agiamo noi uomini. Tocca a noi farcene carico per estirparla. Scoprimmo che non eravamo i soli a pensarlo.

Oggi, dopo le parole della sorella Elena e del padre Gino di Giulia Cecchettin, è diventata più evidente una presa di coscienza maschile su questo dramma del nostro vivere comune. Non certo grazie a quel vecchio testo. Ma avevamo intravisto una tendenza.

Martedì scorso c’è stata a Roma la presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, con gli spropositi del ministro dell’istruzione Valditara sulla violenza degli «stranieri» e sul «patriarcato» come ubbia ideologica. E le risposte adeguate di Gino Cecchettin.

Ho poi partecipato a un incontro sul tema «Politica senza amore». Si discuteva sulla validità delle pratiche politiche inventate dal femminismo: dall’«autocoscienza» alla ricerca di un fare politica «partendo da sé». Frutti derivati dalla famosa affermazione: «il personale è politico». Circolavano dubbi. Giusto cercare di fecondare con amicizia, e amore – pronunciamola questa parola ingombrante – l’esperienza della politica che oggi vediamo in grandissima crisi. Ma quelle parole non saranno inattuali? È maturo il tempo di condividere esperienze simili tra donne, uomini, persone che non si identificano in nessuno dei due sessi?

Alla sera assemblea al centro Spin Time – spazio sociale che ospita famiglie straniere e gestisce ampi locali pubblici – con un centinaio di uomini e donne di diverse generazioni, venuti e venute all’invito di gruppi di maschi che sulla violenza interrogano se stessi, con il titolo «Disertare il patriarcato». Ascolto ragazze ripetere quel «il personale è politico» a proposito delle dinamiche di potere nelle relazioni amorose, e uomini giovani e meno giovani rispondere alla domanda di un’altra ragazza: che cosa vi muove a mettervi in discussione?

Nelle risposte tante esperienze: dalla ricerca dei propri comportamenti violenti (spesso quelli psicologici più dolorosi delle «botte»), al senso di imprigionamento negli stereotipi maschilisti, fatti di competizione, di censure e distorsioni del desiderio, di disagio per un vivere e viversi male. E poi la prova di un altro modo di parlare di se stessi e con altri nei «gruppi» maschili.

Si esita a dire «autocoscienza» – ricorda forse, dice uno, l’autoaffermazione solitaria dell’io: meglio mutuare dall’inglese il termine «autoconsapevolezza»?

Vedo il manifestarsi un desiderio nuovo di incontrarsi tra donne e uomini, e qualcuno che parla anche di altre identità sessuali: qualcosa di indispensabile, credo, all’invenzione di una politica capace di cambiamento. Di sé e del mondo.

E il discorso arriva a questo mondo in cui prevalgono tirannie, predicazioni violente e guerre, e crisi delle nostre «democrazie liberali» in corsa verso riarmo e politiche razziste, disuguaglianze abissali create da un capitalismo sfrenato che produce nuovi schiavi, mostri tecnologici, disastri ambientali e poteri personali smisurati, assurdi.

Penso al valore di quella parola nel titolo dell’incontro: disertare il patriarcato.

Disertare prima di tutto vuol dire rifiutarsi di fare la guerra. Di giocarsi la vita e di uccidere sconosciuti chiamati «nemici». In nome di cattivi sentimenti identitari, nazionalistici, e per me discutibili anche quando è in gioco la libertà. Credo legittima la domanda se la guerra non sia una caratteristica, la peggiore, proprio dell’ordine simbolico che chiamiamo «patriarcato».

Se non sia la violenza maschile che si manifesta nel ricorso sistematico agli stupri «di guerra», come ha scritto Edoardo Albinati (https://maschileplurale.it/lo-stupro-bellico/), il fondamento «quintessenziale» della guerra: la violenza dell’uomo sulla donna come violenza primaria.

Credo, con una parte del femminismo, che la capacità regolativa di questo «ordine simbolico» sia finita, o comunque in crisi in tutto il mondo. È il risultato della rivoluzione disarmata, ma dotata di un potente «altro genere di forza», delle donne. Una rivoluzione riconosciuta a parole ma non ancora compresa dalla politica figlia di culture – socialiste e comuniste, liberaldemocratiche, religiose – di matrice maschile. Quando guardiamo ai decisori delle guerre che ci sconvolgono vediamo maschi che professano idee e offrono immagini orribili, tragiche e ridicole: gli integralismi religiosi opposti della destra israeliana e delle fazioni islamiche armate. Le figure di questi vecchi e nuovi americani: Biden e il binomio Trump-Musk. E del russo Putin. E di Netanyahu.

La «follia» bellica di questi «stati maggiori» maschili per me assomiglia molto alla violenza personale dei «figli sani del patriarcato» contro le donne che vogliono vivere libere.

Disertiamo il patriarcato. E disertiamo la guerra riconoscendola finalmente come secolare forma collettiva della violenza maschile. Apriamo su questo una discussione pubblica.