Di cosa parliamo quando parliamo di femminismo?
Sara Gandini, Laura Colombo
29 Marzo 2017
Domenica 12 marzo la riunione allargata di Via Dogana 3 ha affrontato con Alessandra Pigliaru e Luisa Muraro il grande tema del manifestare, a partire dall’ultimo libro di Judith Butler L’alleanza dei corpi (Nottetempo, 2017). Sullo sfondo la giornata dell’otto marzo contro la violenza sessista, svoltasi sotto la sigla “Non Una Di Meno”, con la grande mobilitazione composita ed eterogenea, uno sciopero che ha raccolto manifestazioni, performance, modi creativi di stare in piazza. L’8 marzo di quest’anno è stato particolarmente importante perché connesso con altre manifestazioni in Italia e nel mondo, che mostrano il femminismo come un movimento globale, come ben racconta Ida Dominijanni su Internazionale (il 3 ottobre 2016 in Polonia, il 17 ottobre in Argentina, il 26 novembre a Roma, il 21 gennaio negli USA e in tutto il mondo, e infine l’8 marzo).
L’8 marzo di quest’anno, in Italia, è stato particolarmente importante perché le pratiche del femminismo radicale, quelle dei centri antiviolenza (a Milano la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate) sono state accolte dal movimento e rilanciate, e si è sentita la forza nella prossimità dei corpi e il desiderio di andare al di là delle rivendicazioni, come diceva Alessandra Pigliaru. Di più, nell’utilizzare uno strumento fortemente connotato come lo sciopero, levando tuttavia qualsiasi pretesa “concreta” (e suscitando in questo modo l’irritazione di alcune parti del sindacato) si è sperimentata la potenza della politica tra donne, come diceva Marisa Guarneri.
Non sono mancate critiche ai documenti ufficiali e alle parole d’ordine, anche da parte di alcune presenti all’incontro di Via Dogana 3, che hanno parlato di “cancellazione della politica delle donne”. Si riferivano solo al linguaggio usato, ma anche così intesa a noi sembra un’espressione esagerata, anzi sbagliata. La mancata coincidenza delle parole con l’esperienza narrata da molte, dice della difficoltà di pensare ed elaborare a partire da sé, ma non deve oscurare la nostra capacità di leggere un presente segnato dal protagonismo femminile. Il femminismo deve vedere e interpretare il protagonismo femminile e qui sta il punto: in ciò che si sceglie o meno di vedere, in ciò che si decide di interpretare, in ciò che si stabilisce o meno di narrare. Vogliamo guardare solo al numero di donne presenti nei CDA e ai vertici delle istituzioni o chiederci anche se e come cambia la realtà grazie a questa presenza?
Su Internazionale dell’8 marzo 2017 Costanza Rizzacasa d’Orsogna intervista Jessa Crispin, autrice di Why I Am Not a Feminist: A Feminist Manifesto (Paperback, 2017), che mette in guardia rispetto al movimento che nasce dal femminismo americano, dove le donne si battono per avere più potere e sembra sia in gioco principalmente la competizione con gli uomini per ottenere soldi e posizione, per “declinare al femminile il capitalismo maschile”. Cosa cambia con un femminismo così? E rincara: “Dietro l’ipocrisia del self-empowerment c’è solo la domanda: dov’è la mia metà dei profitti?”. Anche per noi il neocapitalismo, che si appropria della vita e dei pensieri di donne e uomini colonizzando intelligenza e desideri, rimane la contraddizione più significativa del nostro presente. In particolare le donne sono state e sono l’oggetto privilegiato della rivoluzione neoliberale. L’egemonia neoliberale traduce la libertà femminile guadagnata col femminismo in autoimprenditorialità, che si spinge fino alla libertà di vendere il proprio corpo, anzi i propri organi genitali, al servizio della sessualità maschile o della procreazione per altri. Questioni che non emergono tra i famosi otto punti con cui “Non Una Di Meno” ha promosso l’evento in Italia. Il linguaggio usato nel documento mostra il tentativo di mettere d’accordo le diverse anime del movimento delle donne, per rimanere unite e non lacerarsi in conflitti che avrebbero disperso le forze. Comprensibile ma rischioso, perché si rischia di perdere di vista il campo di battaglia.
Per fortuna la giornata dell’otto marzo ha mostrato contraddizioni interessanti. Da una parte a Milano, dal palco delle istituzioni in piazza Duomo, le oratrici parlavano della lotta per i diritti delle donne insieme ai diritti dei cani e dei gatti (perché il genere finisce per diventare una delle tante differenze e la violenza sulle donne una delle tante violenze). Nello stesso tempo, il tappeto bianco di fronte al palco è stato riempito da studentesse e studenti della manifestazione del mattino con scritte colorate e vivaci, che nominavano la violenza come violenza maschile (non come violenza di genere) e parlavano della fierezza di essere donne, della forza data dalle relazioni tra donne, delle genealogie femminili, con un linguaggio che mostra un cambiamento di sguardo profondo. Lo stesso cambiamento è visibile anche nel linguaggio usato da Chloé Barreau, la giovane autrice dei video-inviti alla manifestazione dell’8 marzo. Intervistata sul Manifesto il 3 marzo 2017 da Alessandra Pigliaru, dice: “Al risentimento senza fine preferiamo una rabbia gioiosa” e ancora: “Al pianto di una narrazione da vittime ho preferito piantarla, cioè finirla lì, mostrare quindi l’azione consapevole di andarsene”, scioperare nel senso di “non farsi trovare” spiega Alessandra Pigliaru. E quella folla enorme e gioiosa era proprio bella da vedere, bella come possono esserlo solo le donne.