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Sono una scrittrice e mi occupo di narrativa, poesia, articoli e recensioni. Le parole e il linguaggio sono il mezzo che mi permette di scandagliare il mondo e di dargli un senso, ma anche (almeno nella narrativa) il luogo di una ricerca che possa produrre uno scarto rispetto all’esistente per concepire delle visioni alternative. Quando creo una storia o compongo una poesia, scrivere diventa incanto e metamorfosi, un rituale dove ogni parola conta e il loro insieme costituisce un modo per modificare la realtà. Il fine ultimo è quello di creare un universo potenzialmente rivoluzionario ed eccentrico rispetto al centro del potere decisionale e politico. In questo universo parallelo, le donne e tutte le persone discriminate e collocate in posizione marginale per via del genere, dell’etnia, dell’orientamento sessuale, della cultura o spiritualità di appartenenza possono dar corpo alla molteplicità delle proprie voci per costruire nuove verità e nuove visioni, finalmente libere dal dominio e dall’oppressione.

Nel far questo, ma anche nell’interpretare ciò che scrivono altre persone, il linguaggio si rivela sempre come uno strumento politico. In quanto donna femminista, analizzo ciò che vedo, leggo e scrivo a partire dalla mia posizione politica, culturale ed esistenziale, scegliendo storie o percorsi che in qualche modo rivelano quanto ho espresso sopra, o smascherando le contraddizioni di quelle opere che si vorrebbero eccentriche ma che in realtà si scoprono essere problematiche. Per quanto mi riguarda, fare letteratura è sempre un modo per creare i possibili mondi futuri, o indovinarne percorsi inediti analizzando il presente e il passato, riscrivendoli in modo più aperto ma anche più critico, che non cancelli le voci divergenti o gli sguardi diversi, ma anzi li renda visibili, tangibili, irrinunciabili.

In un mondo ormai fatto di fake newshate speech e continuo revisionismo non solo della storia passata ma potenzialmente dell’intera civiltà umana, compreso l’istante presente corrotto dal volgare chiacchiericcio e dalla polemica sterile, coltivare ed esercitare il proprio spirito critico è necessario e vitale, per non soccombere all’ignoranza e all’oblio. Sono d’accordo con Laura Colombo quando afferma che il dilagare dell’astrazione rispetto alla precisione nel linguaggio contemporaneo dei social media e della politica possa produrre disorientamento in chi non si riconosce in questo uso deleterio dello strumento comunicativo per eccellenza; citando Chiara Zamboni, Colombo precisa inoltre come il linguaggio dominante produca sempre una forma di alienazione, e mi ritrovo pienamente in questa condizione: in quanto donna femminista, sono sempre partita dal constatare di ritrovarmi in una posizione di alterità ed eccentricità rispetto al potere, perché mi aliena e non mi rappresenta e mio compito è dunque quello di combatterlo (e se possibile abbatterlo). Marina Santini parla anche di “afasia” nel constatare un rifiuto (per me quasi inconscio) di rapportarsi agli attacchi frontali e all’aggressività continua che esponenti dei mass media e della politica utilizzano di continuo, finendo per stritolare il linguaggio e cancellandone la bellezza.

Credo che tutte noi ci sentiamo parte di questa condizione. Personalmente, da diversi mesi ho interrotto quasi totalmente l’abitudine di postare contenuti sui social media, pur essendo consapevole che per una scrittrice questa decisione costituisca una condanna all’oblio, ma in un mondo fatto di corti circuiti e casse di risonanza, ha davvero senso pensare a inseguire i like, piuttosto che costruire senso, e sperare che qualcuna/o possa leggere ciò che ci siamo sforzate di scrivere? Credo che uno dei paradossi più drammatici della nostra fase storica sia che ci ritroviamo dentro un enorme contenitore che si sta trasformando in un contenuto fagocitante che rende la condivisione e la convivenza sempre più aleatorie: la parola scritta e il linguaggio sono ovunque, moltiplicati all’infinito; chiunque può scrivere quello che vuole quando vuole e dove vuole, e questo invece di produrre pluralismo e pluralità di voci produce azzeramento, perché tutto si perde e nulla rimane, salvo poche eccezioni che costituiscono la cresta effimera di un’onda che presto si schianterà a riva. Solo che non si tratta di costruire un mandala per ricordarsi della caducità degli accadimenti umani, come nella pratica buddhista; direi che è tutto il contrario, un ridurre il mondo della comunicazione, dello stare insieme e del parlare, a una discarica, dove se urli forse puoi sperare di farti sentire per quindici secondi.

Bisogna dunque vedere le cose da un’altra prospettiva, fare propria la consapevolezza che tutto ciò che diciamo e scriviamo si perda ma provarci lo stesso, perché non abbiamo alternative. E porsi anche delle domande. Innanzitutto, se lo scopo è quello di comunicare qualcosa di vero, che vada al di là dell’argomento di tendenza momentaneo e del linguaggio frenetico e istantaneo (spesso anche grammaticalmente scorretto e frettoloso sia concettualmente che sintatticamente), il social network o l’instant book sono sempre e comunque il mezzo giusto per farlo? Magari, prendersi una pausa ogni tanto, soprattutto non leggere i commenti né farli, fare un passo indietro insomma, come suggerisce Vera Gheno, può essere salutare. Inoltre, davvero le cose sono così cambiate rispetto al passato, quando i social network non esistevano? Sì, lo storytelling sta minando la nostra capacità di condividere sostanza e di comunicare qualcosa che produca senso e non un mero insieme di suoni – Byung-chul Han parla giustamente di “crisi della narrazione”, e già nel 2017 profetizzava che lo shitstorm sarebbe diventato la norma del comunicare urlato e distorto in cui ci ritroviamo nostro malgrado. Però mi viene anche da dire che forme di controllo e di distorsione del linguaggio siano sempre esistite, ad esempio nella propaganda e nella retorica usata dai quotidiani e dalle radio sotto i regimi dittatoriali o durante i conflitti bellici. Il potere ha sempre esercitato un controllo sulle persone cercando di annebbiarne le coscienze e di condannare la loro esistenza alla barbarie, e tante epoche storiche hanno visto il prevalere della distruzione del tessuto sociale, culturale e politico sulla convivenza civile, anche attraverso un uso aggressivo del linguaggio e della forza. Mi viene da pensare al Terrore Bianco, quella fase violentissima della storia della Cina moderna in cui il governo nazionalista ordinò la cattura, la tortura e l’uccisione pubblica di tutte le oppositrici e gli oppositori del regime, non ultime le femministe, che vennero anche stuprate e mutilate pubblicamente per mostrare alla popolazione cosa succede se una donna osa ribellarsi alla camicia di forza che il patriarcato le ha cucito addosso. Quello che è cambiato non è tanto il mezzo attraverso cui esercitare il controllo ma l’invasività di tale mezzo, la cui diffusione capillare in potenzialmente ogni angolo del globo (laddove i quotidiani e la radio irradiavano la propria influenza in modo più circoscritto nell’arco dell’esistenza umana, perché un giornale o una radio li puoi chiudere o spegnere, mentre un telefono, avendolo sempre in tasca, avrai sempre lo stimolo a usarlo viste le sue innumerevoli e oramai insostituibili applicazioni e funzioni) rischia di distruggere tutto quello in cui ci riconosciamo come creature umane e parte di una comunità. Già ciò che facciamo è disgregato in messaggi, slogan o like effimeri, che nulla aggiungono alla qualità delle nostre vite, anzi la snaturano. Ha senso dunque ostinarsi a adattarsi a tale forma di comunicazione, o non sarebbe meglio piegarla (per quel che è possibile) al nostro volere, scrivere e condividere solo quello che riteniamo veramente sensato e necessario per la nostra crescita, e per dare spunti a chi ci legge?

Sarà anche vero che se sei una scrittrice ma non sei sui social network o non posti regolarmente nessuno ti vede (che è un po’ come il «se un albero cade su una foresta ma non se ne parla su instagram ne sentiamo il suono?» di cui parla Daniela Santoro) ma postare di continuo ti rende davvero più visibile se non avevi già visibilità in partenza? In altre parole, solo se hai già un nome in quanto personaggia/o di fama allora puoi aspirare a tanti followers, altrimenti, ti ridurrai ad avere la tua piccola tribù, fatta di dieci persone che ti seguono, che non porterà a nulla se non ad alimentare il tuo ego. Non credo abbia senso. Rinunciare a comunicare non può essere la soluzione, ma bisogna trovare la forza di farlo in maniera intelligente e non accontentarsi dell’effimero. Ritengo che se vogliamo fare senso e dunque politica quando scriviamo sia nostro dovere scavare a fondo per ritrovare la vitalità che solo la parola e il raccontare storie riescono a darci, usare il linguaggio da una posizione eccentrica e critica rispetto al potere, e quindi in qualche modo sperare nell’utopia del possibile. Per chi scrive in particolare, penso sia anche un modo di “inventare il futuro”, per dirla con Nick Srnicek e Alex Williams, un modo per aprire le faglie della realtà e dipanare una possibile via di fuga dal potere e dalle sue forme di controllo, smascherarle dunque ma anche ribaltarne i meccanismi e costruire mondi dove non solo uno sguardo eccentrico sia possibile, ma si riesca anche a superare il confine stesso fra centro e margine, viaggiando direttamente lungo le venature di giada che soggiacciono alle cose. Aggiungerei che per me il linguaggio e la scrittura sono i luoghi dell’utopia dell’indagare forme nuove di convivenza e di trasformazione. È questa per me l’essenza del fare letteratura e tessere l’arazzo della scrittura a tutti i livelli e oltre i confini di ogni genere: intonare il proprio canto alla metamorfosi, o all’irriducibile mistero dell’esistere. L’idea stessa di poter cambiare il mondo scrivendo, o indagando il reale e il suo invisibile rovescio nelle pieghe della scrittura, è per me un’utopia. In un mondo in cui la narrazione e il cantare storie sono costantemente minacciati dall’imperversare dello storytelling effimero e superficiale imposto dai social network, scrivere diventa di per sé un atto utopico, e dunque un atto politico.

Ma l’utopia, per me che non sono né linguista né filosofa, si estende anche ad un dialogo possibile fra due universi all’apparenza inconciliabili: da una parte, il riconoscersi nell’istanza femminile e femminista posizionandosi come donne a partire dal dato biologico, oltre che culturale; dall’altra, il riconoscersi nell’istanza (trans)femminista posizionandosi come persone all’interno dello spettro LGBTQAI+, che comprende anche le donne ma non solo le donne. L’aver assistito sia a una conferenza pubblica di Judith Butler presso l’Università di Bologna (e online) che all’incontro della redazione di Via Dogana 3, non ha fatto che rafforzare una convinzione in me già radicata da tempo: le due posizioni non sono così lontane come potrebbe sembrare, almeno da chi come me le osserva dall’esterno. In entrambi i casi, ci si interroga sull’uso del linguaggio, si analizza e si decostruisce il potere e si fa politica non riconoscendosi come parte della narrazione e della rappresentazione dominante. Per quanto mi riguarda, se lo scopo è cambiare la realtà e rendere l’utopia possibile anche solo per un istante, ossia all’atto pratico combattere il dilagare della destra e del suo discorso oppressivo sui corpi, sulle identità e sull’esistenza, bisogna trovare un linguaggio comune e superare le divergenze, altrimenti non si produrrà mai quel salto necessario ad inventare il futuro. Nella mia scrittura, e nel mio analizzare la scrittura altrui, cerco di accogliere entrambe le istanze perché le ritengo entrambe valide in quanto eredi di un’esperienza di lotta per molti versi parallela e comune, se pensiamo a quante realtà del pensiero e delle azioni siano nate dalle proteste degli anni ’50 e ’60 nel mondo anglosassone (che, scrivendo anche in inglese, per me è un punto di riferimento culturale e politico importante, anche se non esclusivo). Sono contemporaneamente a favore dell’uso del femminile e dell’uso di una desinenza che possa accogliere tutta la pluralità delle differenze nella lingua italiana, e non vedo contraddizione in questo perché la ritengo la forma più vicina all’utopia che ci possa essere, l’espressione non di un’inclusione (parola che trovo paradossale in quanto donna che lotta per creare un mondo utopico e aperto rispetto a una realtà monolitica e di per sé escludente in partenza), ma di un’apertura alla molteplicità di fronte al potere che fa di tutto per negarla. Dal mio punto di vista, ritengo che i due discorsi possano cercare un punto di incontro, dando alla lingua e ai corpi la possibilità di modificarsi a seconda delle circostanze; fermo restando che parlando di me stessa e di donne non esito a usare la desinenza al femminile plurale, probabilmente se dovessi scegliere una desinenza che possa esprimere questa idea di apertura in tutta la sua pienezza, non userei lo schwa, che mi sembra anche graficamente una figura che si ripiega su se stessa, ma una forma di abbraccio, magari simile a un &&&&&, come fa (probabilmente in senso provocatorio) Arca nel suo omonimo disco. Un accogliere, non un cancellare.