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Da La Stampa

Continuano a moltiplicarsi i commenti sul discorso d’insediamento di Trump. C’è chi cerca di sdrammatizzare, scommettendo sull’irrealizzabilità dei funesti propositi, e chi, come Bernie Sanders, suona la campana a morto per la democrazia, incitando l’opposizione al risveglio

Non avevamo certo bisogno dell’Inauguration Day per preoccuparci dello stato di salute della democrazia. Ma la cerimonia di “incoronazione” è apparsa a molti l’atto di inizio di una distopia che sta per realizzarsi. Perché è indubbio che con gli Stati Uniti alla guida di un movimento di destra radicale e globale, ciò che si riteneva fino a pochi decenni fa impensabile sta diventando possibile.

Tante sono le prospettive da cui la scienza politica cerca di concettualizzare questo cambiamento di regime. Come sempre accade, però, la realtà supera la teoria e l’unica conclusione a cui possiamo giungere è che per ora nessun nome, nessun concetto, può da solo venire a capo del passaggio che stiamo vivendo.

Esiste, tuttavia, una verità mai smentita, che ci giunge dall’antico insegnamento platonico. Come afferma Socrate nella Repubblica (435b), «la giustizia nell’uomo e la giustizia nella polis sono una cosa sola». Ovviamente vale anche l’opposto: sono una cosa sola l’anima ingiusta e la polis ingiusta. Detto in termini odierni, esiste una circolarità irrisolvibile tra coloro che detengono il potere e i soggetti che quel potere subiscono. Perché lo subiscono, certo, ma, allo stesso tempo, lo sostengono. Persino quando, come nel caso degli Stati Uniti, la distanza economica tra i cittadini e gli oligarchi è siderale.

Quello che sempre avviene, direbbero gli psicoanalisti, è una duplice dinamica identificativa, dal basso verso l’alto ma anche dall’alto verso il basso.

Vale la pena ricordare che Trump anche questa volta è stato eletto soprattutto grazie al voto maschile, che supera di un buon 10% il voto femminile. Se ha vinto per il supporto sostanziale dei maschi della classe medio-bassa, è qui che dobbiamo guardare per capire meglio che cosa muove questi uomini, relativamente giovani, impoveriti e poco istruiti, a incanalare il loro risentimento verso la vittoria del tycoon. Non si tratta solo di giuste recriminazioni economiche che ripongono speranze nelle mani sbagliate.

Abbiamo a che fare con frustrazioni di maschi bianchi, e anche latinos, «vittime» della crisi della loro identità maschile.Come ha sostenuto Ida Dominijanni, «il patriarcato gioca duro perché è ferito, non perché è florido» (Internazionale, 5/11/2024). A chi parla infatti quella rivoluzione del «common sense» che Trump promette e che lo porta a ribadire con fermezza che si è maschi o si è femmine? Il buon senso che condivide con il suo elettorato vuole, allora, che il sacrosanto dualismo venga ripristinato, per togliere di mezzo le fandonie dei movimenti femministi e Lgbt+.Non basta, tuttavia: ai maschi avviliti va restituito l’orgoglio, insieme al loro primato.

Non a caso la parola più usata nel discorso di insediamento è “forza”. Ritorna a ogni frase, e il richiamo alla «casa che brucia» è il suo correlato. Non solo come metafora di una sovranità nazionale ferita e umiliata, ma dello spazio propriamente domestico.

E così il gioco dei rimandi tra la nazione e «la casa degli americani» percorre l’intero discorso, e ritornerà in tutti i discorsi a venire, per agevolare quel gioco di identificazione reciproca su cui The Donald ha costruito la vittoria. Non importa se le sue azioni contraddicono le sue affermazioni. La coerenza è sempre un intralcio alla forza.

L’efficacia dell’identificazione è garantita dalla potenza che egli mette in scena, dalla velocità degli impulsi che trasmette, dalla volontà che batte i pugni sul tavolo. Trump si conforma benissimo ai desideri del maschio-tipo del suo elettorato.

Il cappellino da baseball si accompagna ai movimenti da bullo, ai quali dà voce con un linguaggio sciatto e un vocabolario ridotto.Non importa se la sua intelligenza appare mediocre, perché il suo narcisismo sfacciato e infantile funziona, tramite uno sguardo ora sfottente ora feroce. Egli è il maschio che ancora troppi maschi vorrebbero essere o vorrebbero diventare: uno che rompe le regole e si pone sopra la legge; che decide senza perdere tempo con la riflessione; che determina quali accordi onorare e quali relazioni interrompere.

È l’uomo che fa i soldi e non paga le tasse. Ed è soprattuttoil maschio che ristabilisce l’ordine infranto, perché prima di ogni altra cosa non ha paura delle donne. Pensa al loro bene, anche quando queste non riescono proprio a vederlo. Le governa come meglio crede e ne dispone come vuole. Non da ultimo, sessualmente.

Se il buon senso è stato sovvertito dal disordine femminile – dalle troppe libertà rivendicate alle assurde pretese che i maschi mettessero in questione la loro mascolinità autoritaria –è ora di rimettere le cose a posto, al loro posto! È ora di rendere il maschio grande di nuovo. Make the Male Great Again!