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Da il manifesto

Marianne Heier racconta la mostra “La passione” alla Fotogallieret di Oslo. Il nucleo principale tra fotografie, video e libri proviene dalla celebre collezione di Donata Pizzi

«Il mio ruolo è soprattutto di guida per il pubblico norvegese nella conoscenza del femminismo radicale italiano e della sua relazione con le arti visive», afferma Marianne Heier (classe 1969, vive e lavora a Oslo), co-curatrice della mostra La passione (fino al 29 dicembre) insieme a Antonio Cataldo, ex direttore artistico della Fotogalleriet di Oslo, lo spazio istituzionale che la ospita.

Realizzata con il sostegno della Arts and Culture Norway e dell’Istituto italiano di cultura di Oslo, la collettiva offre una panoramica sul lavoro di artiste italiane di diverse generazioni che riflettono l’energia e la forza nella lotta alla parità di genere: Chiara Fumai, Pippa Bacca, Silvia Giambrone, Bingöl Elmas, Betty Bee, Ottonella Mocellin, Marcella Campagnano, Agnese De Donato, Tomaso Binga, Lisetta Carmi, Lucia Marcucci, Alessandra Spranzi e il Gruppo del Mercoledì (Diane Bond, Bundi Alberti, Paola Mattioli, Silvia Truppi).

Il nucleo principale tra fotografie, video e libri proviene dalla collezione di Donata Pizzi, la più importante collezione privata italiana dedicata alla conoscenza del lavoro delle artiste italiane dagli anni ’60 ad oggi. In occasione della serata inaugurale Heier, il cui lavoro artistico è collegato alla tradizione della critica istituzionale, ha reso omaggio alla figura di Carla Lonzi (1931-1982) attraverso una performance-monologo in cui ha raccontato aneddoti e metafore sulla condizione della donna all’interno della storia patriarcale.

Un’altra parte del lavoro sono i poster che affissi in giro per Oslo. «Serigrafie in tiratura limitata con due foto di sculture classiche dell’Afrodite di Knidos che ho scattato una ad Atene e l’altra a Napoli. La venere pudica che si copre o indica i genitali, invita o è intimorita, si protegge o si apre. Un’ambiguità che è ancora oggi alla base della raffigurazione del corpo femminile nell’arte. Sopra ho scritto le informazioni sulla mostra e alcune note che mi sono appuntata leggendo i testi di Lonzi ed altri sul femminismo italiano. Ho, poi, invitato sui social gli abitanti di Oslo a prendere quei poster-opere per appendere una parte di questa mostra nelle loro case, in modo che questo pensiero si espanda anche fuori dalla galleria. Volevo che la mostra fosse il più vicino possibile all’idea stessa di Carla Lonzi sulla porosità dell’arte, sia in termine di creatività che di relazioni. È importante la partecipazione».

In che modo si pone come artista e curatrice di “La Passione”, un omaggio al femminismo radicale italiano?

«In questo caso sono sia artista che curatrice e, allo stesso tempo, né l’una e né l’altra. Una posizione che rispecchia un po’ la mia condizione personale. Infatti, sono nata e cresciuta in Norvegia ma la mia formazione artistica è legata all’Italia, dove ho incontrato le esperienze, le voci e le espressioni delle artiste femministe che mi hanno formata. Quando studiavo all’Accademia di belle arti di Brera a Milano, negli anni ’90, sono rimasta folgorata da quella tradizione di grande complessità e coraggio. Ancora oggi è il mio punto di riferimento nel modo di pormi politicamente come artista. All’Accademia la maggior parte dei docenti erano uomini e i corsi di storia dell’arte erano solo su figure del genio maschile, ma c’erano anche delle artiste che insegnavano e dalle loro conversazioni si coglievano delle frasi. La presenza delle artiste femministe italiane era sospirata ma pervasiva, come fossero spiriti, sotto al monologo costante di quei grandi geni maschili che tutti conosciamo.»

In particolare, cosa la aveva colpita nella lettura di “Sputiamo su Hegel” e degli altri scritti di Carla Lonzi?

«La sua disponibilità e il coraggio nella radicalità. La pratica dell’autocritica è molto difficile, perché si tratta di riconoscere il patriarcato dentro di sé come presenza nella quotidianità, nelle relazioni, nel modo di porsi o di esprimersi. Una pratica continua di cui liberarsi. La stessa Lonzi nel Diario di una femminista scrive: «Vent’anni fa ero una studentessa dell’università/ quindici anni fa ero una dottoressa in storia dell’arte/ dieci anni fa ero scrittrice d’arte e amica di artisti/ due anni fa ero femminista […] Adesso non sono niente, niente assolutamente». C’è questo ridursi, il togliersi di dosso un bagaglio che è la stessa società a proiettarci. M’ispira molto questa richiesta di autenticità che è uno standard altissimo e che funziona come una specie di bussola. Un altro aspetto è la possibilità di trasformare la società. Quella in cui viviamo è una costruzione sociale e politica determinata da determinate condizioni storico-politiche ed economiche, ma che fondamentalmente può essere cambiata, riscritta e ripensata. Questo pensiero, per me, ha uno spazio d’azione e libertà illimitata che riconosco nel lavoro delle artiste presenti in questa mostra. Quante posizioni divergenti, in tensione tra loro, coraggiose, appassionate e che incredibile energia! Come pure l’insistere nell’affermare «io dico io», il peso dell’unicità.»

Ha affermato che in Norvegia si conosce ben poco delle artiste femministe italiane…

«Dopo aver trascorso 11 anni a Milano, durante la mia formazione artistica e personale, nel 2000 sono tornata in Norvegia perché in Italia, per me, era impossibile vivere da artista. Qui la condizione finanziaria e la produzione dell’arte è diversa, ci sono sovvenzioni pubbliche che rendono possibile l’esistenza di un’artista come me che non ha un mercato. Però l’Italia mi manca moltissimo, soprattutto l’energia, il rischio che si riflette – lo sottolineo ancora una volta – nel lavoro delle artiste femministe italiane. Un femminismo che è diverso da quello norvegese che ha ottenuto tantissimo, ma che non ha passione e neanche il fuoco sul lavoro interiore. Il femminismo norvegese è rivolto soprattutto alla ridistribuzione del potere, alla sua accessibilità per le donne, mentre per Carla Lonzi si trattava di ridefinire lo stesso concetto di potere. Due approcci diversi. Molte volte mi sono chiesta se questa radicalità italiana, il dramma, la passione e l’energia quasi febbrile del lavoro femminista derivino dalla presenza del cattolicesimo. Qui non c’è mai stata quell’aggressione, oppressione e controllo sul corpo e sulle vite delle donne.»

Un approccio che si riflette anche nel titolo della mostra?

«La scelta del titolo La Passione deriva proprio da queste considerazioni e implica l’ambiguità di amore e sofferenza. Tutto nasce dalle conversazioni che ho avuto con Antonio Cataldo che è il vero curatore della rassegna, perché la mia è una co-curatela da artista esterna. Anche Antonio, che è uno dei più importanti curatori in Norvegia, si è trasferito qui dall’Italia. Abbiamo scoperto di avere tanti riferimenti in comune. Per me è stato come un ponte tra lì e qui, passato e presente. Per la prima volta c’era qualcuno che poteva confermare quelle figure sulle quali basavo molta della mia pratica artistica. Materiali, voci, donne che esistevano ma di cui in Norvegia non si sapeva nulla. Non si era mai parlato del lavoro di queste artiste, né tradotto e reso accessibile il pensiero di Carla Lonzi, malgrado si conoscessero i movimenti italiani come quello dell’arte povera. Però era tutto declinato al maschile. La storia raccontata è parziale, non è questione di qualità, volontà di sperimentazione o fervore intellettuale, artistico ed estetico. Il modo stesso in cui se ne parla deriva dalla visione patriarcale.»