Come aiutare le ragazze vittime di tratta
Pinella Leocata
22 Marzo 2017
di Pinella Leocata
L’esperienza dell’associazione Penelope «Scuola, tirocini e accoglienza in famiglia»
Sono sempre di più e sempre più giovani, costrette in strada a fare le prostitute con l’inganno, con la violenza, obbligate dagli sfruttatori, usate e abusate dai clienti. Se fino a qualche anno fa avevano dai 22 ai 24 anni, e arrivavano in aereo, con documenti falsi, ora le donne vittime di tratta hanno 16-17 anni, e sempre più spesso 15. Sono soprattutto africane,
provenienti dalla Nigeria e adesso anche dal Ghana, e arrivano con i barconi, «gestite» da organizzazioni criminali che le «accompagnano» dal loro Paese all’Italia dove poi le smistano nelle varie piazze.
La storia che le ragazze raccontano alle volontarie dell’associazione Penelope segue lo stesso
«copione». Sono giovani povere, poverissime, le cui famiglie accettano
di «venderle» per bisogno, perché contribuiscano al sostentamento della famiglia, convinte – o desiderose di farlo – di andare a fare un lavoro normale.
Oriana Cannavò, responsabile della sede catanese dell’associazione – che nei giorni scorsi ha tenuto un incontro su questo dramma alla Camera del Lavoro, promosso da Cgil e dalla rete La Ragna-Tela – racconta che quasi sempre si tratta di ragazze analfabete che vengono ingannate facilmente e sottomesse alle madame e alle organizzazioni criminali con un doppio cappio: il debito e la magia nera, cioè i riti voo-doo o jù-jù con i quali vengono minacciati gravi
danni a loro e ai loro familiari se non rispettano gli accordi. Inoltre l’ammontare del debito è enorme, ma le ragazze non conoscono il valore delle monete straniere e i criminali, per convincerle che si tratta di una cifra irrisoria, giocano sull’assonanza tra il nome della moneta locale e quello dell’euro pronunciato in inglese. Poi, arrivate in Italia, scoprono che è una cifra
enorme. Nel frattempo sono state costrette a capire: durante il viaggio sono violentate e costrette a prostituirsi nei territori di transito. E anche quando finiscono di pagare il debito molte di loro, prive di documenti e di riferimenti diversi da quelli del circuito nigeriano, continuano a prostituirsi perché non sanno fare nient’altro.
Una situazione difficile che sembra senza vie d’uscita, eppure gli strumenti per sottrarsi ci sono, anche se difficili da utilizzare. Ed è questo l’impegno dell’associazione Penelope, ente accreditato per la realizzazione di programmi di protezione sociale volti ad aiutare le vittime di tratta ad emanciparsi.
La prima fase di questo processo – che si basa sulla capacità d’instaurare un rapporto di fiducia – è quella dell’«aggancio», dell’emersione, ed è condotta attraverso l’«unità di strada». Le operatrici fanno una sorta di mappatura delle zone in cui le ragazze sono costrette a prostituirsi, lungo le strade extraurbane di giorno, in alcune aree urbane di notte. Ci vanno, si presentano, con discrezione, consapevoli di entrare in «territorio altrui» e del fatto che le ragazze sono controllate e che rischiano. Le volontarie fanno in modo di far conoscere la sede in cui operano, in via Sardo 20, e si dicono disponibili ad ascoltare i loro bisogni e a informarle sui servizi cui hanno diritto. Il principio che seguono è quello della riduzione del danno, e cioè
fare conoscere alle vittime di tratta quali sono i loro diritti e fornire loro gli strumenti necessari a dare risposta ai loro bisogni di salute, sicurezza e libertà. In ufficio le operatrici spiegano che si possono rivolgere ad un ambulatorio sanitario, che possono chiedere una visita ginecologica e ricorrere all’interruzione di gravidanza, che possono rivolgersi a centri specializzati per curare le malattie a trasmissione sessuale e che possono contare su di loro se
vogliono essere accompagnate. Spiegano che possono mettere a loro disposizione un avvocato, che possono aiutarle nella richiesta dei documenti e che possono aiutarle a uscire dalla tratta, con l’aiuto della Procura e della squadra mobile della Questura. Un percorso
difficile perché implica la denuncia degli sfruttatori e, nei casi necessari a tutela della loro incolumità, il cambio di città e di regione. «Per chi sceglie di liberarsi dalla schiavitù comincia la complessa fase dell’inserimento che – spiega Oriana Cannavò – significa innanzitutto insegnare loro la nostra lingua, farle studiare, e dunque iscriverle a scuola, e cercare altre coetanee con cui possano fare conoscenza.
E poi occorre che apprendano un lavoro. Noi offriamo dei tirocini formativi, delle borse-lavoro, grazie ai fondi messi a disposizione dalla Chiesa Valdese per un progetto temporaneo che ci ha consentito di fare lavorare alcune ragazze nei ristoranti. Alcune sono rimaste lì, altre hanno trovato altri lavori. E ci sono anche famiglie che decidono di accogliere queste ragazze
vittime di tratta. Per alcune di loro è molto importante vivere in famiglia, mentre per altre vanno meglio le strutture. Dipende. I casi di accoglienza in famiglia sono rari, ma ci sono. E speriamo che aumentino. E del resto anche l’ufficio affidi del Tribunale dei minori – oltre a nominare un tutore per tutti i minorenni non accompagnati – per queste ragazze comincia a dichiarare l’adottabilità e ci sono famiglie che le prendono in affido».
Un lavoro complesso, delicato, difficile, che richiede grande professionalità e sensibilità. Un impegno prezioso e indispensabile che le operatrici di Penelope fanno da precarie e che possono portare avanti solo concorrendo ai progetti nazionali e ai fondi banditi dal dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio del Ministri e contando sul sostegno di privati, come la Chiesa Valdese. Eppure da questo lavoro – condotto in sinergia con la Procura e la Questura – dipende la vita e il futuro di centinaia di ragazze.
(La Sicilia, 22 marzo 2017)