Cinquant’anni senza credere di avere dei diritti
Jennifer Guerra
20 Ottobre 2025
da Sibilla
A pochi passi dal Duomo di Milano, dietro il palazzo che ospita l’enorme store di Mondadori, c’è una via ricurva dove i tram passano a malapena. Oggi ci sono negozi alla moda e trappole per turisti; negli anni Settanta c’era una piccola libreria sulla cui porta era affisso un cartello che diceva:
Non esiste punto di vista femminista. I libri cosiddetti femministi che sono in questa libreria valgono, se valgono, per il legame che hanno con la lotta delle donne e con la modificazione della realtà. In ogni caso non contengono il punto di vista femminista.
La libreria di via Dogana 2 aveva aperto le porte il 15 ottobre 1975 e si chiamava Libreria delle donne. Resterà lì fino al 2001, quando traferirà la sua sede in Via Calvi 29, dove è ancora in attività. Nacque «per iniziativa di un gruppo di donne legate tra loro da una lunga pratica politica, […] dal desiderio di rendere più ricche e articolate le relazioni tra donne […] misurandosi in un progetto concreto che impegnasse energie, tempo e denaro». Questo gruppo di donne, che si diede la forma della “cooperativa Sibilla Aleramo”, ebbe l’idea di aprire una libreria dopo aver visitato la Librairie des Femmes di Parigi, inaugurata soltanto un anno prima dal Mouvement de Libération des Femmes – Psychanalyse et Politique.
A metà degli anni Settanta, il femminismo era ormai ovunque: si era appena conclusa la campagna per il referendum sul divorzio e si stava avviando quella per l’aborto; le piazze erano piene di donne che protestavano; c’erano gruppi e collettivi femministi in ogni città italiana, da Nord a Sud; la neonata casa editrice La Tartaruga recuperava o traduceva i classici del pensiero femminista. Il femminismo, da avanguardia politica e culturale, nel giro di cinque anni si era trasformato in un movimento di massa. In questo lasso di tempo aveva strutturato la propria pratica attraverso lo strumento dell’autocoscienza, chiamata anche “piccolo gruppo”, che prevedeva il confronto e la condivisione delle esperienze personali, attraverso il riconoscimento dell’esperienza condivisa in quanto donne. Ma dopo qualche anno, questo strumento era entrato in crisi: alcuni gruppi, più vicini alla politica di movimento, ritenevano conclusa la fase dell’analisi e dello scavo interiore e volevano passare all’azione. Altri, credevano ancora nella potenzialità dell’autocoscienza ma sentivano l’esigenza di rinnovarla.
Il femminismo milanese, sin dagli albori, si era caratterizzato per una certa diffidenza nei confronti dell’azione politica. Carla Lonzi, con Sputiamo su Hegel, aveva “vanificato la presa di potere”, rifiutando come irrimediabilmente patriarcale ogni forma di politica istituzionale o rivoluzionaria. Nel 1972 alcune donne fondarono sempre a Milano il Collettivo di via Cherubini, che fece propria quella tendenza, mettendo in secondo piano le questioni di uguaglianza giuridica ed economica per concentrarsi su un progetto più ampio, esistenziale, di ridefinizione di donna. Mentre passano gli anni, racconta la femminista Lea Melandri, «sorge l’esigenza di concretizzare materialmente, e non solo enunciare teoricamente, una pratica di vita comune. Dopo tanti gruppi di parola, si fa avanti il desiderio di un “fare insieme”, una progettualità che implicasse anche il denaro e il lavoro». L’incontro con la Librairie des Femmes, ma soprattutto con Antoinette Fouque del gruppo francese Psychanalyse et Politique segnerà una svolta cruciale, non solo per la Libreria delle donne, ma per tutto il femminismo italiano.
Il femminismo del fare
Che la Libreria non è soltanto un negozio, lo si capisce dal testo che oggi viene considerato una sorta di statuto di questa esperienza, intitolato Il tempo, i mezzi e i luoghi:
Il tempo, i mezzi e i luoghi adeguati vogliono dire creare delle situazioni in cui le donne possono stare insieme per vedersi, parlarsi, ascoltarsi, mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre; vuol dire coinvolgere in queste situazioni collettive il corpo e la sessualità, in un luogo collettivo non regolato dagli interessi maschili. In questo luogo noi affermiamo i nostri interessi ed apriamo una dialettica con la realtà che vogliamo trasformare.
La Libreria è luogo “del fare”, ma non nel senso che è un luogo dell’azione e della rivendicazione, ma del «fare per la vita, semplicemente vivendo». La Libreria, cioè, non vuole essere dipendente da tutto ciò che le parole portano inevitabilmente con sé, (come il giudizio, la rabbia, la frustrazione) come aveva dimostrato l’esaurirsi dell’autocoscienza. La pratica del fare, si legge nel libro del 1987 Non credere di avere dei diritti, «metteva insieme donne non legate necessariamente da affetti o familiarità né mobilitate dietro una sommaria parola d’ordine, bensì da un progetto comune cui ciascuna aderiva con le sue ragioni, i suoi desideri, le sue capacità, mettendoli alla prova di una realizzazione collettiva». Fare cassa, maneggiare soldi, pagare le bollette della luce è «una politica che non aveva nome politica».
Le madri di tutte noi
E poi c’è la letteratura. L’incontro con le francesi, e in particolare con il pensiero di Luce Irigaray (il cui Speculum verrà tradotto in italiano dalla filosofa Luisa Muraro nel 1975), conduce la Libreria delle donne a ragionare profondamente sulla dimensione del simbolico. La comunità di pensiero che si riunisce intorno alla Libreria delle donne, e nello specifico intorno a Muraro, riconosce il fallimento del femminismo di movimento nella sua incapacità «di tradurre in realtà sociale l’esperienza, il sapere e il valore di essere donne», come si legge in un altro importante documento del 1983, Più che donne che uomini. Questa incapacità sarebbe dovuta al mancato riconoscimento delle differenze tra le donne, che si esprimono anche in differenze di potere, capacità e autorità e che il “femminismo ideologico” cercava di nascondere riunendo le donne in un’unica grande categoria. Per uscire da questa trappola si rendeva quindi necessario trovare «figure simboliche che traducono il fatto di appartenere al sesso femminile nella ragione sociale di tutta la libertà che una donna può desiderare per sé».
Le riviste femministe, le nuove case editrici come La Tartaruga o Scritti di Rivolta femminile, la nascita di biblioteche e centri delle donne favoriscono la ricerca di queste «madri simboliche». Nel 1982 la Libreria pubblica il “Catalogo giallo”, intitolato Le madri di tutte noi, che più che un elenco di “libri femministi”, «serviva a significare quello che la cultura umana non sa della differenza di essere donne»: Jane Austen, Emily Brontë, Charlotte Brontë, Elsa Morante, Gertrude Stein, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann, Anna Kavan, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett. Il Catalogo si configura come il catalogo della disparità dell’esperienza delle donne, ma è proprio la sua stesura che evidenzia la difficoltà di nominarla. Pur vendendo libri, il lavoro della Libreria si poggia sulla consapevolezza che la vita sta fuori dalle parole stampate, nelle relazioni dirette che si creano fra le donne, e fra le donne col mondo.
La Libreria non è mai stato un luogo “facile”. Le sue pratiche sono diverse da tutto ciò che siamo abituate ad associare al femminismo e non sono mancate polemiche e conflitti per le sue prese di posizione. Negli ultimi anni molte donne si sono allontanate, altre si sono avvicinate. Ma ciò che rende la Libreria, anche dopo cinquant’anni, un luogo così importante, è proprio l’essere riuscita a fare il femminismo, a renderlo un’esperienza concreta, autonoma e originale per tutte le donne che hanno attraversato la sua soglia, tanto per restare quanto per prenderne le distanze.
Il consiglio
Sul sito di MemoMI (La memoria di Milano) è possibile vedere gratuitamente il documentario Libreria delle donne, realizzato da Sabina Fedeli, che ripercorre la storia della Libreria. Sempre sullo stesso sito si può trovare la serie Il documentario – Il femminismo a Milano.