Cavarero e Guaraldo: donna
Annarosa Buttarelli
28 Ottobre 2024
Da Doppiozero – La necessità di contribuire alla fuoriuscita dal caos cognitivo in cui tutto il mondo è precipitato, ha suggerito a due filosofe femministe, del calibro di Adriana Cavarero e di Olivia Guaraldo, di portare un contributo imprescindibile alla chiarezza e all’assunzione di responsabilità soggettiva nel momento in cui si sceglie per quale causa lottare. La causa per cui, nel travaglio contemporaneo, si impone il loro libro Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa), (Mondadori, Milano 2024) ha molti motivi. Tra i più urgenti quelli che occupano il dibattito pubblico, non solo italiano, e che riguardano soprattutto i rapporti tra i sessi, i generi, la maternità, le famiglie, le richieste delle minoranze sessuali, le neolingue, il linguaggio impreciso che, ad esempio, inventa “persona che mestrua” per evitare di dire donna. Parecchie recensioni hanno messo a fuoco l’importanza del libro nell’affrontare temi cruciali come il femminicidio e la violenza contro le donne.
Oppure l’intersessualità che contesta il cosiddetto binarismo maschio-femmina, come fanno anche le identità trans-sessuali. È molto importante l’affondo sull’equivoco prodotto dall’uso eccessivo di gender, tradotto come “genere”, una parola che prende la scena in ogni contesto senza che si sappia veramente cosa significa: «(per il pensiero della differenza) la distinzione tra genere e sesso è secondaria, anche perché ciò che si intende per genere è spesso sostituibile con la categoria di stereotipo culturale» (p.11). Il lavoro di chiarificazione espande il testo delle autrici fino a coprire tutto il campo dell’aspra discussione contemporanea: ad esempio, nel capitolo intitolato “Sesso e genere”, Cavarero e Guaraldo hanno la possibilità di dare ampia voce a Judith Butler, la più famosa teorica del gender, che imposta le sue proposte a livello di «regimi discorsivi che intendono produrre la verità sui sessi e sulle loro differenze» (p. 120). Butler, scrivono le autrici, non lavora sui dettami misogini del patriarcato, ma propone di concentrarsi sulle «ingiunzioni di quella che, riprendendo Adrienne Rich, Butler chiama matrice eterosessuale o eterosessualità obbligatoria […] stabilendo quindi ciò che è normale e ciò che non lo è» (p. 124).
Nel cruciale capitolo “Maternità surrogata. Corpi in vendita?”, si può vedere come sia questo il campo in cui infuria maggiormente la “lotta per il linguaggio”, e nel quale, ancora una volta, si provi a cancellare l’esistenza delle madri proponendo di chiamarle portatrici gestazionali: «È questo forse il sintomo più mostruoso di una terminologia che deve fare i conti con uno stravolgimento del concetto stesso di maternità, ora frammentata in più corpi di donna, dall’assemblaggio delle cui funzioni organiche nasce un bambino che è figlio di terzi (p. 165)».
Dal mio punto di vista di filosofa femminista coinvolta, trovo decisivo assumere l’impegno del libro riportato in quarta di copertina: «Il femminismo della differenza sessuale non intende affatto definire in maniera rigida e stereotipata il femminile, anzi, ne vuole liberare le potenzialità espressive, esaltandone la libertà». Bisogna rendersi conto dell’urgenza con cui è presentato il compito dal libro, un’urgenza che deve farsi largo tra le più drammatiche del nostro tempo non certo privo di pericoli radicali: la divenuta precaria presenza nell’agonica cultura del presente dell’autorevolezza del femminismo, sostengono le autrici. Il femminismo si è certamente diffuso tanto da moltiplicare le sue declinazioni e da obbligare a dire che ormai esistono parecchi femminismi.
La diffusione, da un lato, è un bene, poiché significa l’irreversibilità della rivoluzione mondiale delle donne che fa accedere a un senso comune della libertà femminile; dall’altro lato può anche significare perdita di qualità e di pensiero profondo, significato come “espressività” dalle autrici, cosicché la “libertà” può declinarsi facilmente in una generica richiesta di diritti o, ancor peggio, può indurre a rendersi complici dei consumi culturali che il neoliberismo propone di continuo, sfruttamento dell’ondata queer compresa. In un momento storico in cui si gioca quasi tutto sulla scena mediatica, in cui l’appello ai diritti è sostenuto dall’individualismo identitario che ha forgiato la cultura europea-occidentale, in cui la scientificità ha abbandonato l’insegnamento, la formazione, la cultura umanistica stessa, il confronto tra posizioni, il moltiplicarsi dei femminismi, e la conseguente difficoltà a unirsi in lotte comuni urgentissime, tutto questo sta producendo quasi una rimozione della presenza vivificante del pensiero e delle pratiche della differenza sessuale.
«Il (vocabolario pubblico) è in perpetuo accrescimento strutturalmente equivoco, e i singoli termini, assumono un significato diverso a seconda dello schieramento politico e culturale di chi li usa (p. 7)». Non è solo per questo che si è persa la scientificità del pensare e dell’agire (una perdita incalcolabile nel campo dell’istruzione e della formazione delle giovani generazioni), ma si è persa generalmente anche nel compito fondamentale di un filoso-fare degno di questo nome: saper leggere la realtà per come è, «le cose per ciò che esse sono». E non è stata solo la fenomenologia di inizio ’900 e reindirizzare così la ricerca filosofica, lo è stata ancor di più e differentemente la ricerca filosofica delle pensatrici del secolo scorso (Weil, Murdoch, Arendt, Lonzi, Zambrano, Lispector, Irigaray…) che hanno forgiato la loro offerta di discernimento, di coraggio di fronte alla realtà, di rivoluzione filosofica improntata dal segno differente del loro pensiero di donne. Oggi sarebbe il momento di ripristinare quella che un tempo si chiamava “onestà intellettuale”, e di ribadire che c’è ignoranza nel mondo della cultura e dell’insegnamento dove si è installata una certa mancanza di scientificità. Le letture della realtà che prescindono pervicacemente dalla differenza sessuale sono astratte e troppo imprecise.
Le rimozioni del materno, quindi delle origini concrete di ogni essere umano, e del fatto che anche le donne fanno filosofia eccellente, ribadiscono le autrici, hanno creato all’interno della filosofia stessa, che ha a sua volta creato la cultura occidentale dicotomica, la differenza sessuale negativa «tradotta in inferiorità femminile», dunque hanno imposto la caduta verticale della capacità scientifica di presentare letture aderenti alla realtà così com’è raccontata, almeno, dalla Rivoluzione francese in poi, come pervasa dall’utile metafora dell’uguaglianza. Tanto che le autrici si interrogano sulla probabile incompatibilità tra democrazia moderna ugualitaria e esistenza concreta della differenza femminile, genealogicamente capace di praticare politicamente la «soggettività relazionale e anti-individualista» (p. 136).
A questo punto, come ringraziare adeguatamente Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo per il contributo che stanno dando al cambio di civiltà in corso, nel quale, se lo vogliamo accompagnare, non si potrà più ignorare l’autorità del pensiero della differenza sessuale?