Sono diventata una donna che ha un’idea fissa. È una cosa insolita per me personalmente; ho sempre avuto più di un’idea in testa, e nessuna che rifiutasse a priori di esserne sloggiata per far posto ad una migliore. Ed è una cosa penosa, ho scoperto, come trovarsi in prigione. L’idea fissa non solo tende a legare a sé tutte le altre, ma tende essa stessa a concentrarsi in un punto, diventando così di un’intensità che prelude, temo, al mutismo. È come un chiodo che sta inchiodando il cervello ed è anche il martello che picchia sul chiodo: tum tum tum.

Le ho dato un nome, si chiama “Lo splendore di avere un linguaggio”. L’ho trovato in Clarice Lispector, La passione secondo G.H. (si dovrebbe scrivere GH, ma non importa). Nella sua lingua originale il nome è: O esplendor de se ter um linguagem. Il nome è bello; fa pensare all’alba delle persone insonni o malate, alle icone nel buio delle chiese orientali, alle stelle dei viaggiatori di una volta, perduti nel deserto o, peggio, nel mare aperto. In certi momenti della storia, o della vita personale, un linguaggio può fare una luce grande e piena, tolte, pur sempre, le ombre prescritte dall’ottica (la scienza è scienza). Ma la mia presente povertà me lo mostra come una luce non forte e lontana; non per questo meno cara, anzi.

Ho scoperto infatti che il linguaggio può mancare: non relativamente a uno più potente (Lettera a una professoressa del Sessantotto) o più autentico (Le parole per dirlo del femminismo), ma in assoluto. Ho scoperto che ci si può trovare al di qua del linguaggio necessario, e sono arrivata a pensare che oggi ci troviamo, come prova storica, al di qua o al di sotto del linguaggio necessario. 

Come mi sia venuta una simile idea, non so, ma ricordo le volte in cui essa mi torna in mente. Una volta fu in seguito ai primi arresti di Tangentopoli. C’era, nella città di Milano, una tristezza delle cose mute che “parlava” al posto nostro, che non sapevamo parlare il linguaggio necessario. I linguaggi che poi si sono imposti, della legge, della televisione, della vendetta, della riorganizzazione politica, hanno significato qualcosa ma non rendono il patimento collettivo causato dalla scoperta di tanto scandalo.

Altro esempio, dopo le bombe del 27 luglio 1993, scoppiate a Roma, nei pressi di due edifici cattolici, e a Milano nei pressi del Padiglione di Arte contemporanea, causando distruzioni e morte. I giorni successivi la stampa riportò i commenti della Lega Nord («è contro di noi»), degli ex-referendari («si vuole fermare il nuovo»), del ministro dei Beni Culturali («è un attentato alla cultura»), del capo del governo («nel mirino, il governo»), di opinionisti cattolici («contro la Chiesa e il suo capo»), e cosi via, tutti aggrappati al protagonismo delle bombe per rincalzare il proprio senza lontanamente riuscirci, troppo scarsa essendo la sorpresa innocente e dolorosa, ma anche il gusto detective, l’ironia, la mobilitazione interiore. Non si erano nemmeno sforzati, era evidente, come scolari che svolgono il tema assegnato sapendo in partenza che risulterà insufficiente. Commentare bombe e morti diventa noioso per chi ha perduto la fiducia nel linguaggio.

È a causa dell’abuso che l’abbiamo perduta, io dico. Le bombe sono venute dopo, quasi di conseguenza. Ed è, perciò, la storia dell’abuso linguistico che occorre ricostruire. Quand’è cominciata? Se risalgo i cinque decenni della mia vita non infante, fra i ricordi più antichi c’è una crociata via radio contro il pericolo comunista. Eravamo da poco usciti dalle sofferenze di una guerra e di un’occupazione militare, una più maledetta dell’altra, eppure quel programma radiofonico ci fece (parlo di me, dei miei genitori e degli altri familiari) un male più grave. La fiducia nel proprio giudizio umano e politico, che l’esito della guerra sembrava poter rinsaldare, andò perduta per la paura di un avversario nuovo e strapotente, non individuato in tempo utile; alla soddisfazione per la liberazione e la pace cui tutti avevamo contribuito, anche i più piccoli, subentrò il fantasma di un futuro ben più gravemente minacciato. E tutto questo arrivava non dall’esterno, con bombe e carri armati, ma attraverso la voce della radio che prima ci aveva aiutato a sperare e a resistere.

Cominciò così ad offuscarsi per me lo splendore del linguaggio, la luce sacra e aurorale delle parole che, insieme alla forza di mia madre e quasi identificata con essa, mi aveva assistito sul bordo delle fosse anticarro, nella fame e nel freddo, nella contemplazione delle macerie, nell’ascolto di fatti inauditi e tragici, i più tragici di tutta la storia umana conosciuta.

Sto cercando di discolparmi? O attribuisco ad un avvenimento qualsiasi qualcosa che doveva comunque succedere? La colpa sarebbe che poi io stessa cominciai a usare il linguaggio e, soprattutto, a pensare che così si debba fare con le parole e a giustificare che altri lo facessero. Non penso a falsificazioni ottenute con trucchi retorici né a menzogne propagandistiche. Penso agli usi normali, quelli giudicati corretti: c’è infatti una misura che il linguaggio dà a noi e non noi al linguaggio – misura materna la chiamo – ed essa è già perduta quando diciamo “usare” il linguaggio. Uso e abuso in questo senso sono collegati fra loro; non c’è, fra l’uno e l’altro, un salto che ci avverta del passaggio. Denunciamo gli abusi senza notare che discendono dagli usi che noi stessi facciamo del linguaggio. Per marcare il passaggio, dove risulta troppo facile e ha conseguenze troppo gravi, oggi si ricorre a codici deontologici di autoregolamentazione. È un espediente importato dai Paesi riformati, che fa leva sulla capacità umana, forse più sviluppata da loro che da noi, di interiorizzare norme. Ma, anche se ben formulato e rispettato, un codice non può prevenire un abuso micidiale per la vita della lingua, che è l’uso stereotipato. Anzi, i codici lo favoriscono.

Non sono la sola, per fortuna, a criticare la funzione oggi attribuita all’etica nei rapporti umani. L’etica aveva già un suo posto nella civiltà occidentale moderna, e piuttosto grande; ora si vuole dilatarlo, secondo me oltre misura, per farle prendere il posto di un ordine simbolico perduto. Infatti, se passiamo dall’uso all’abuso quasi a nostra insaputa, vuol dire che, nel rapporto con la lingua e gli altri linguaggi, la misura era perduta già da prima. “Prima”, quando?

Ritornando alla mia storia personale, ma comune, una grande perdita di competenza simbolica l’ho patita con l’entrata nella scuola dell’obbligo, a causa del disprezzo scolastico del dialetto, che era la mia lingua materna in senso stretto. L’italiano non mi fu insegnato come una lingua strettamente imparentata con quella che già sapevo, ma come fosse una lingua superiore che doveva prenderne il posto. Da due secoli in Italia, e altrove, si discute dei dialetti e delle minoranze linguistiche, senza arrivare a capo di niente. E questo perché, secondo me, la questione non viene messa sulle sue gambe, intendo il primato della lingua materna letteralmente intesa, lingua che la creatura impara venendo al mondo, quasi sempre dalla madre. Non mi riferisco, sia chiaro, al dialetto veneto o lombardo o alla lingua tedesca nel Sudtirolo: anche questi sono nomi convenzionali, sovrapposti alla lingua materna, la cui finezza è tale da registrare differenze fra un paesino e l’altro (fra un quartiere e l’altro di Palermo, mi informa Maria Schiavo) e oltre, radicandoci in definitiva nel luogo unico della relazione materna.

Ma sono passaggi, non barriere. La lingua, di suo, non conosce frontiere, ma solo passaggi, traduzioni. Tra una lingua e l’altra, non ci sono guardie, ma traduttrici e mediatori. Purtroppo le mie maestre di scuola erano preparate a fare le guardie più che le mediatrici fra cultura infantile e cultura scolastica. Non erano preparate alla traduzione di quello che María Zambrano chiama il sentire originario, farlo cioè passare dal luogo della relazione materna ai diversi luoghi di questo mondo. Uso l’imperfetto perché al presente devo mettere il danno di una deportazione culturale attraverso troppe frontiere. Ho letto sullo “Herald Tribune” di un programma formativo rivolto a giovani madri immigrate per convincerle a parlare alle loro creature neonate: non vogliono, perché la loro lingua non è l’inglese, quella utile per il futuro dei figli. Similmente, noi non possiamo ereditare né far ereditare la ricchezza che si trasmette con le parole e gli altri linguaggi. Dal patrimonio ci separa non la geografia né un’invasione di barbari, ma la mancanza del linguaggio necessario. Chi insegna storia conosce la fatica spesso inutile di far imparare la storia: le persone giovani sembrano capaci di assimilare unicamente le conoscenze che si producono nel loro presente. Vi sono musei che, per non restare deserti, si sono organizzati come saloni di video-games. A questo imprigionamento nel presente (o nel futuro?), risponde la comparsa, fra le persone più giovani, di forti vocazioni storiografiche: oggi si parte per il passato come in altri tempi si andava in Africa o in Cina.

Un viaggio di altro tipo, verso le risorse della lingua materna, suggerisce Giovanni Ferrari in un libriccino sorridente e geniale, Homo scientus (Muzzio, Padova 1993). L’autore, uomo di scienza, si interroga, preoccupato, su ciò che avviene nel suo mondo. C’è un morbo pestifero, egli dice, che ha colpito la ricerca scientifica, la “peste del linguaggio”. In che cosa consiste? «La semiotica della peste del linguaggio è riferibile principalmente alla perdita di potere della parola», perdita che riguarda la parola «come elemento strutturale delle costruzioni linguistiche, capaci di realizzare non solo la collezione di informazioni, ma anche una rete di fatti e concetti connessi mediante implicazioni teoriche, confronti dialettici e riferimenti incrociati, le cui interpretazioni possono essere espresse correttamente solo con parole appropriate, capaci di costruire un linguaggio non approssimativo». La perdita in questione si manifesta specialmente nell’assenza di emozioni dalla comunicazione scientifica, con il risultato che questa non è più capace di comunicare: «Due sono gli elementi emotivi che non possono mancare nel discorso scientifico: curiosità e meraviglia», e risultano invece tristemente mancanti. Alla patologia del linguaggio contribuisce il passaggio obbligato attraverso l’inglese: «Espressioni generiche e stereotipate imperversano nei lavori pubblicati in lingua inglese, ma hanno ormai preso possesso dei testi italiani mediante traduzioni che soffocano qualsiasi conato di originalità». L’inglese, naturalmente, non è una causa del male, e in generale l’autore ci invita a non cercare cause, quanto a riconoscere la malattia. E poi, che fare? Seguiamo l’esempio del Decamerone, è la sua risposta, e facciamo il Decamerone della scienza, ossia un ideale congresso scientifico cui partecipano donne e uomini capaci di raccontare la scienza. Dovrebbe essere organizzato in tre livelli, spiega Ferrari. E nella sequenza dei tre livelli che io vedo abbozzato il viaggio di ritorno verso le risorse della lingua materna. Il primo, fatto di comunicazione elettronica in linguaggio specialistico e in lingua inglese, senza uso di carta stampata, è la comunicazione di ricerche e risultati tra specialisti. Il secondo riunisce fisicamente e liberamente, fuori da calcoli di potere, un pubblico di studiosi, non solo specialisti, che ascolta racconti di ricerche, fatti in lingua nazionale, ravvivati da letture, senza escludere «il contributo dell’inconscio». Il terzo livello coinvolge il grande pubblico, con la divulgazione delle nuove conoscenze.

Al terzo livello, prima della divulgazione, io metterei l’insegnamento, sia scolastico sia universitario, scritto e orale.

Mi ha colpito la parola d’ordine che gli/le studenti si sono dati l’autunno scorso, “Jurassic School”; mi pare il sintomo di un’afasia tecnologica, non smentita dai servizi giornalistici né dalle testimonianze di insegnanti di scuola: «non dicono perché occupano, non hanno niente contro la scuola, dicono solo che vogliono ritrovarsi fra loro». Testimonianze a loro volta afasiche; esattamente come i paper scientifici, anche i rapporti degli adulti con le persone giovani sono o sembrano privi di emozioni. Le emozioni ci sono, ma non arrivano alla comunicazione. Sto pensando al volto di una studentessa che, dal primo giorno di lezione, mi guardava con una concentrazione sempre uguale, senza rapporto apparente con le mie prestazioni, finché, durante un ripasso notturno della giornata, ho capito che quello era lo sguardo delle creaturine davanti al televisore acceso. Nello specchio muto e immobile di quello sguardo, ho potuto misurare la mia perdita. Mia, nostra. In filosofia, da un secolo, non facciamo che ragionare del linguaggio; nello sguardo della studentessa io, come una balena arenata, ho trovato la terra ferma di un sicuro fallimento. Quando qualcuno mi dice: ma hai provato a leggere l’ultimo Habermas, per dirne uno, rispondo come negli slogan: no, grazie. Credo nel lavoro intellettuale, è la mia professione, e apprezzo la tenacia di quel vecchio pensatore, ma ci sono scacchi che domandano di essere registrati.

Un giorno ho trovato le studenti del mio corso fuori dall’aula: c’è dentro una lezione, mi dicono. Non era esattamente così; c’era dentro un personaggio di cui non ho potuto stabilire l’identità, che parlava con cinque o sei studenti, ma sarebbe più esatto dire che li faceva parlare. Un venditore di computer? un assicuratore? un rappresentante di Dio?

La questione è che, rovesciando il punto di vista, non avrei saputo stabilire, sebbene portasse il mio nome e fossi proprio io, chi era e che cosa faceva lì la donna che si affacciò alla porta per invitare il personaggio ad uscire con la sua piccola corte, dicendogli che a quell’ora in quell’aula “c’era lezione”. In effetti, mi muovo nell’università da anni senza essere arrivata a costituirmi, non dico un’identità, ma un’immagine di me per me, dotata di coerenza, e senza riuscire ad orientarmi, se non mi tenessi attaccata a un’aula e a un orario; non bastano infatti i rapporti buoni e la passione di cercare e insegnare, che pure è grande. Faccio spesso un sogno: sono in viaggio, distante, e improvvisamente, con angoscia, mi rendo conto che dovrei andare a scuola, a insegnare, ma ho dimenticato le date, i luoghi, gli orari. In passato mi sono sforzata di pensare che doveva trattarsi di un mio male, come una forma di disadattamento accademico. Dopo di che ho dovuto capire che non c’è un mondo al quale io non saprei adattarmi, perché senza linguaggio non c’è mondo. E ho capito che il male di cui soffro è comune; tutti lo mascheriamo in qualche modo, come una famiglia dove tutti soffrono dello stesso disturbo ma si finge, tacitamente, di essere normali.

C’è nella vita dell’università, e altrove, forse ovunque, una frammentazione e una casualità di accostamenti così estese che le persone, le cose, i nomi, i discorsi non arrivano mai a formare un contesto sensato e duraturo. Come descrivere la natura di questa perdizione? Essa si manifesta nel disordine notorio dell’istituzione accademica: c’è incoerenza e casualità nei soldi, nelle gerarchie, nelle carriere, nella divisione del lavoro, nelle discipline, negli ordinamenti, e via, via. Ma la cosa di cui parla, il morbo di cui soffriamo, non si identifica con i problemi della giustizia, della buona amministrazione o dell’efficienza. È un disordine più elementare, ed è sbagliato, secondo me, ritenerlo esclusivo dell’università. Ascoltando le operaie di un’azienda grande e moderna, ho riconosciuto la stessa cosa insensata che sta avanzando anche in quella diversa realtà. Dicevano: non si capisce più niente, a furia di voler organizzare tutto, è tutto disorganizzato, c’è uno spreco che non riusciamo a impedire, non riusciamo a lavorare bene, ma nessuno ci ascolta. La perdita dell’ascolto, ecco il sintomo, perché infatti, nel linguaggio, prima della parola viene l’ascolto. Pare che cominciamo ad ascoltare ancor prima di venire al mondo; certo, l’ascolto è la pratica simbolica di chi ha il senso dell’autorità della parola. Anche questo è un punto di rispondenza con l’autore di Homo scientus che segnala la sordità che domina nella società scientifica: per il troppo peso che si dà ai rapporti di potere, io suggerisco. Ho notato infatti che chi si concentra sulla questione del potere, si regola benissimo in base a certi segnali e diventa sordo al significato delle parole. Ma la sordità sembra estendersi, sta diventando sordità reciproca fra persone di poco o nessun potere, sui tram, in mensa, fra vicini, fra studenti, fra colleghi.

Un impiegato della mia università, coraggiosamente, ha fatto girare una lettera documento intitolata Contro l’ingiustizia un atto di giustizia. Comincia denunciando che «alcuni alti dirigenti dell’Università usufruiranno di benefici economici arretrati di un centinaio di milioni, in quanto è stato loro riconosciuto il ruolo di dirigenti ab ovo»Questo fatto, dice la lettera, «ha suscitato tra il personale sentimenti che vanno dal disgusto alla rabbia, soprattutto in considerazione delle disuguaglianze economiche esistenti e dei sacrifici che lo Stato ci obbliga a sostenere in nome dell’emergenza economica». Finisce invitando a firmare il documento e a «devolvere l’equivalente di un’ora del proprio stipendio a favore dei disoccupati o per qualche analoga iniziativa di solidarietà». L’autore non intende denunciare illegalità; al contrario, egli sottolinea che le cose da lui denunciate sono legali, ma proprio questo è «l’aspetto più sconvolgente». Come dargli torto? Segue tutto un elenco di sconvolgimenti della giustizia ad opera della legge, un paio dei quali, suppongo, riguarda anche me: «ci sono leggi che consentono ai docenti universitari di avere un orario ridicolo e senza controlli, di insegnare in una sede pur vivendo a centinaia di chilometri di distanza». Dico “suppongo”, perché, a parte i non so quanti chilometri che separano Milano da Verona senza separare il mio vivere dal mio lavorare, c’è la questione di quell’“orario ridicolo”, forse inteso come orario d’insegnamento, e non di lavoro. Ma il “senza controlli” non mi lascia scampo. È dalla prima, elementare che gioco d’astuzia per riuscire a lavorare senza controlli: l’amante del lavoro, esattamente come l’amante-amante, odia i controlli.

Chi ha risposto alla lettera documento di quell’uomo?, mi sono chiesta. Forse nessuno, io gli rispondo qui e mi tengo la sua lettera come documento del vicolo cieco in cui è finita la ricerca di giustizia. Forse la sua sorte sarà di approdare, per una sera, in uno di quei programmi televisivi che confezionano e servono al pubblico la sua voce inascoltata.

La televisione, di nuovo. Come la lingua inglese, neanche la televisione è una causa. Ma in essa, più che in altre situazioni, risalta la mancanza del linguaggio necessario. A differenza di altre situazioni, infatti, la televisione appare schiacciata fra la potenza del mezzo tecnologico e la pochezza della parola che esprime. In realtà, è capitato che una straordinaria esplosione di potenza tecnica nelle comunicazioni umane, sia caduta in un’epoca di mancanza di parola. Quando guardo Mike Buongiorno nella Ruota della fortuna o Donatella Raffai in Chi l’ha visto?, non posso non ammirare la continuità delle loro prestazioni, segno di, come chiamarlo? rigore professionale? docilità? con cui fanno la loro parte, non una parte, ma la Parte umana di un mezzo strapotente. Al paragone, di Buongiorno e della Raffai, io credo che noi, nella situazione che si chiama insegnamento e ricerca, stiamo facendo piuttosto male la nostra parte. Abbiamo privilegi che non ci è difficile difendere grazie ad altri privilegi, ma, alla lunga, niente ci difenderà dalla pochezza della nostra comunicazione. Di che cosa parlano i professori universitari quando si parlano? Non di studenti né di studi né di ricerca, non di amori, progetti o sogni, non di lotte, non di passioni, non di piaceri. Ma di concorsi, quasi unicamente. La conversazione fra accademici è noiosissima; al confronto, i minatori sardi sembrano il nipote di Rameau. Sappiamo parlare come chi non è misurato dalle necessità del vivere né dall’urgenza delle altrui aspettative. Cioè meno bene di un venditore di computer o di un rappresentante di Dio, per non fare paragoni sleali con chi offre droga e conduce programmi televisivi.

Sono così tornata sulla porta dell’aula alla quale un certo giorno mi affacciai per dire ad uno sconosciuto intrattenitore di studenti che doveva uscire perché, a quell’ora in quell’aula, c’era “lezione”. Ma non è di un copione migliore che siamo alla ricerca. Serve una cosa ben più semplice e difficile, addirittura un linguaggio, cosa che nessuno può darsi da sé né imporre ad altri, ma solo trovare e praticare. Perciò non possiamo che partire da quello che c’è e dal suo nome, se per avventura lo ha. E infatti un nome, per nostra fortuna, c’è. Sulla porta dell’aula c’è una donna: non una vergine, non una sposa, non una madre, ma semplicemente una donna. Ricalco, come qualcuno avrà riconosciuto, Maestro Eckhart, Sermo 2, cioè un testo allegorico esposto ad essere malinteso per più versi, fra cui quello della sua significanza storica. Un testo allegorico, voglio dire, non è mai solo allegorico; l’allegorismo ruota sempre intorno al perno di una letteralità. Che va scoperta, di volta in volta, poiché la letteralità è una faccenda di contesto. Una donna, non un professore, una disciplina, un esame, una scuola. Io, personalmente, potrei provare a identificarmi con queste categorie, ma di me resterebbe senza nome quello che esse lasciano fuori come un loro di meno e un loro di più, il genere femminile, significante di una dignità umana in forse e di una libertà minacciata, da cui la Costituzione dice che si deve prescindere: “senza distinzione dl sesso”.

Solo diventando donna l’essere umano esce dalla sua sterile verginità, disse il Maestro citato sopra. Invece, il mio caro maestro Bontadini mi diceva ogni tanto: «Luisa, perché vai con le femministe? che problemi ci sono? Ricordati che tu sei homo»finché un giorno gli diedi questa risposta «Prof, dalla filosofia di questo secolo abbiamo imparato che l’essere parla la lingua di un essere situato nello spaziotempo; io sto imparando e ti insegno che parla la lingua di un essere corpo vivente sessuato: donna, uomo». La risposta fu giudicata soddisfacente.

Ma che cosa dice? Che cosa vuol dire, per esempio, che io sono una donna? Niente di niente, se non che prendo su di me la mediazione di tutto quello che è a cominciare dal mio essere corpo. Differenza sessuale: significanza dell’essere a cominciare dall’essere corpo. Avere un nome per questo niente di niente, vuoi dire mettersi nella condizione d’imparare a fare in prima persona il lavoro del linguaggio senza il quale il senso delle cose è perduto. Mediazione vivente io chiamo questo lavoro di mettersi in carne ed ossa sul filo dei linguaggi e imparare a tenerci in equilibrio il mondo. Una volta l’esempio lo davano i poeti e le poete: Emily Dickinson è la mia preferita, ma anche Ezra Pound e Leopardi. Adesso, l’esempio lo danno le sportive e gli sportivi, giovanissimi, che gareggiano in corse mortali per farci gustare le condizioni di un vivere significativo. Non sono in gara fra loro, ma con la nostra crescente povertà simbolica. Dopo la morte sulla neve di Ulrike Maier, «troppo rischio, troppa velocità» ha commentato il padre di un ragazzo morto in circostanze simili. Che cos’è lo sport? «Un male necessario» ha risposto lo stesso; dunque, quelli che si usa chiamare incidenti, sono sacrifici umani di un tipo nuovo? 

Ho contribuito a far bocciare una proposta di “Women’s Studies” nell’università in cui lavoro. Non vorrei che il mio passato fosse servito a impacchettare il senso della differenza femminile dando vita a un altro copione di vita accademica. Ma, ancor più, non voglio essere defraudata del mio compito umano. Ho bisogno di un nome, come un funambulo del suo bilanciere, e ho bisogno proprio di quel nome. Essere donna è per l’essere umano il problema di una dualità che non gli dà pace, ed è la risposta a questo problema. Essere donna è la necessità esistenziale della mediazione. All’altezza del linguaggio necessario – questo chiamo il compito umano, in generale – io so che arriverò, senza escludere per altri altre strade, con la pratica della mediazione vivente, impegnandomi cioè nel lavoro del linguaggio come una sua parte. Non sono sciatrice, non sono poeta ma sono donna, e la differenza sessuale è una forma di vita fra le più drammaticamente presenti nella storia umana, la cui significanza forse è troppo materiale per essere contenuta nei libri di storia e nei libri in genere. Certo, dai libri non l’ho imparata e non credo che si possa imparare, ma dal vivo. Infatti, nonostante i libri che avevo letto e perfino scritto in proposito, io non la conoscevo prima di arrivare sulla soglia che doveva farmi passare (o, meglio, ripassare, nel viaggio di ritorno verso lo splendore aurorale della lingua materna) dalle mediazioni codificate all’inermia della discesa libera.

Il senso delle cose, quali che siano, le più grandi e le più piccole, si trova e si perde storicamente. Che non vuol dire convenzionalmente. Ne cerchiamo le tracce, di preferenza, dove le parole ci mancano e le spiegazioni non arrivano. Su quel bordo io vedo che la differenza sessuale fa luce: è come uno sguardo voltato verso le tenebre culturali di un essere corpo opaco a se stesso, corpo pesante nella storia umana con l’animalità della vita collettiva e con la bestialità del potere.

«Non c’è speranza» ha detto un giornalista di ritorno dal teatro della guerra in corso vicino a noi. È così? e allora lasciamoci cadere; facciamo di queste parole la nostra linea di condotta. Non scelta da noi, naturalmente, come potremmo?, ma impostaci dalle cose. Si può vivere senza speranza una vita non disperata: nata con la guerra, io sopportavo le sue sofferenze e contemplavo i suoi teatri tranquillamente persuasa che facessero parte della vita. (Non mi sbagliavo di molto, ora mi rendo conto.) Non c’è speranza nei sempre più numerosi teatri dell’impotenza della ragione e della buona volontà, fra i quali io metto anche l’università, per quello di cui ho potuto rendermi conto di anno in anno, di tentativo in tentativo. Me ne sono convinta dopo aver visto buone leggi non usate da chi avrebbe avuto interesse personale ad usarle, in obbedienza a un “ordine” simbolico svantaggioso e illegale. In ciò mi trovo d’accordo con l’autore dell’Università dei tre tradimenti, Raffaele Simone, purché andiamo fino in fondo, dove c’è, ho scoperto, un punto di partenza. Avere speranza è volere qualcosa di meglio di quello che c’è; il desiderio di chi spera ha bisogno di pensare che non vi sia limite al meglio. Chi dispera, ne dubita; chi ha lasciato ogni speranza, pensa, più radicalmente, che non vi sia limite al peggio. Smessa così ogni speranza, egli (o ella) si accorge che c’è qualcosa e che questo qualcosa è enormemente più di quello che aveva diritto di attendersi: su questo sorprendente di più il suo desiderio prende lo slancio. Dovremmo trovare una parola per questo rimbalzo del desiderio sulla perdita definitiva della speranza. A pensarci bene, la disperazione appartiene a quelli che continuano a sperare e pretendono, per agire, condizioni che non ci sono.

A questo punto, si pone la questione della politica. Che cosa significa o aggiunge l’impegno politico rispetto a un desiderio che non ha bisogno di speranze per alimentarsi, a un agire in rispondenza con la mediazione primaria, quella della lingua viva? Credo che la risposta sia: niente. All’efficacia di un desiderio senza illusioni e alla potenza mediatrice della lingua materna, la politica non aggiunge niente, non serve. Ma un altro legame si è annodato perché, a questo punto, siamo noi che serviamo alla politica, se abbiamo quel desiderio e quella potenza. Per spiegare come, racconterò la storia, ascoltata a Lugano (Svizzera), di una maestra di lì che amava molto la lingua italiana e perciò anche l’Italia, per cui quando da noi trionfò il nazionalismo fascista, lei si sentì in certo modo fascista e lo proclamò ai quattro venti e a causa di ciò fu processata e passò in prigione parecchi anni. Nelle democrazie moderne, normalmente, non si va in prigione per le proprie idee; siamo però d’accordo che il fascismo avanzante non si poteva considerare un “normalmente”. Ma come non rimarcare la sproporzione fra la severità verso la maestra di Lugano e i mille cedimenti dei potenti che aprirono la strada al Duce e a Hitler? La saggezza popolare risponderebbe: “volano gli stracci”; io penso invece che qui si tratta della sistematica strumentalità di una comunicazione basata sui contenuti dichiarati. La comunicazione fine, di chi ha il senso della mediazione vivente, non stenterebbe a riconoscere il loro nome: i contenuti dichiarati sono etichette e fantasmi. Il nome vero delle cose è tutt’altra cosa. Ma come impararlo? come acquistare il senso della necessaria mediazione e la capacità della comunicazione fine? Come diventare intelligenti?

Io rispondo: con l’inermia della discesa libera, con la mediazione immediata, praticata in prima persona, anzi dal prima della prima persona, che non ha bisogno di rappresentazioni ma di mediazione attiva per sapere il suo desiderio, e commisurare quello che c’è con quello che manca al suo realizzarsi. Utopia? ma no: l’agire politico creativo, così ha origine; il resto, è l’operare meccanico di potenze impersonali, i cui effetti ad alcuni piace rivestire di nomi propri, come si faceva negli atlanti del Seicento: lago Alberto, isola San Salvador, etichette e fantasmi di una geografia non meno stupida dell’Europa antifascista. 

Per i nomi, forse, vale lo stesso che per le speranze: se ci rinunci fino in fondo, c’è un rilancio di sapere e di desiderio. Ma per arrivare a questa mutezza, che grande sforzo di voce, come dice Clarice Lispector: «Ah, mas para se chegar àmudez, que grande esforço da voz». Infatti, è un avanzare sempre più contrastato, fra la dolcezza crescente di un sapere non fissato a contenuti e libero da fantasmi, e la precisione estrema dei suoi comandi. Se non si trova la misura esatta, è il mutismo o il bla-bla, sintomi entrambi di ciò che abbiamo mancato. Che è il perfetto silenzio su cui s’impernia l’operare simbolico. Che grande sforzo di voce per arrivare al linguaggio che significa quello che è, dal suo interno. La mediazione attiva (la Marta di Maestro Eckhart, per intenderci con sufficiente precisione) non produce rappresentazioni di ciò che è: non ne ha tempo né modo né bisogno.

Rinunciare alla esteriorità delle rappresentazioni, è condizione della mediazione vivente; da questa, a sua volta, dipende, secondo me, un uso misurato delle mediazioni codificate. Ma possiamo rinunciarvi? Possiamo rinunciare alle speranze, ai nomi propri, alle etichette e ai fantasmi? Non so. Mi viene in mente che era la scommessa dei primi pensatori della rivoluzione copernicana: disancorarsi dalla fissità della rappresentazione per lasciarsi precipitare nell’infinità celeste. Forse, a ciò allude la sindrome storica delle persone giovani: non abbiamo perduto qualcosa di troppo importante perché valga la pena di mantenere una memoria storica? 

Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, in “aut aut”, 260-261, 1994, pp. 27-37.

Esiste un legame molto stretto fra le parole e la politica, nessuno lo ignora. Per cominciare, «politica» è una parola. In politica, inoltre, si fa grande uso di parole. Pensiamo al parlamento. C’è di più, pensiamo a una frase come «prendere la parola». Mi soffermo su questa. Tra le figure che sì possono usare per far intendere il significato della politica, presa di parola è sicuramente una delle più precise. Le è rispondente, infatti, in senso sia metaforico sia metonimico. Per quest’ultimo aspetto, basta dire che non c’è politica, praticamente, senza un uso determinato della parola, che viene presa, data, tolta, negata ecc. Quanto alla metafora, essa nasce dall’interazione semantica del prendere e del parlare, la cui ricchezza sarebbe troppo lungo illustrare. Pensiamo soltanto al contrasto tra il verbo, materiale e possessivo, e il suo oggetto, fluido, mutevole, inafferrabile. Dalla considerazione congiunta delle combinazioni metonimiche e del significato metaforico, prende luce quello che avviene nel passaggio alla politica, quando cioè si passa da una convivenza regolata da altri, non si sa bene con quali criteri e spesso neanche esattamente da chi o da cosa, a un’esistenza consapevole e libera, che si cerca di rendere praticabile parlando e decidendo insieme alle persone interessate.

Mi viene in mente una lontana lettura, le bellissime lettere del conte (all’epoca si chiamava ancora così) Giacomo Leopardi all’amico Pietro Giordani, lettere con le quali il giovane poeta, costretto in tempi e luoghi senza luce, si apre alla possibilità di un’esistenza libera e grande. Penso, più vicino a noi, a quello che è capitato nel novembre del 1967, quando gli studenti della facoltà serale di Economia e commercio dell’Università Cattolica di Milano si ribellarono a un aumento di tasse e provocarono una rivolta che ci portò, noi dei corsi normali e loro, a occupare la sede principale dell’Università. Ricordo il gran parlare che si fece, prima davanti ai portoni di Largo Gemelli e poi, agli inizi dell’occupazione, nell’assemblea in aula magna (si potrebbe obiettare che un’occupazione non è una nuova forma di convivenza, bensì un atto aggressivo, quasi un inizio di guerra. Per finire, sì, è stato questo, essendo mancata una risposta interlocutoria dell’altra parte, che poteva giungere e, posso assicurarlo, avrebbe corrisposto felicemente alle nostre intenzioni, almeno agli inizi; fu soprattutto per mancanza di quell’interlocuzione che il nostro prendere la parola diventò un prendere la cosa). 

Pochi anni dopo, l’esperienza della presa di parola come esperienza politica sorgiva tornerà nella mia storia e in quella di tante altre con la pratica dei gruppi di autocoscienza che ha segnato la nascita del movimento femminista. I tre esempi sono molti diversi fra loro e fanno così risaltare il proprio del passaggio alla politica, che è operare (o progettare di operare, come nel caso del Leopardi, che insiste con Giordani sulla progettata fuga da Recanati) una rottura nell’ordine simbolico, che modifica il rapporto fra le parole e le cose. Senza parole non c’è politica. I gesti estremi di chi fugge – nei molti sensi che questa parola può prendere – senza dire niente, non è ancora politica, e non lo è neanche l’esercizio di un potere che non ha bisogno di parole.

La figura del prendere la parola si riferisce specialmente all’atto inaugurale della politica e non abbraccia il possibile risultato, ossia una modificazione significativa nelle forme della convivenza. Sappiamo, d’altronde, che questo risultato non sempre si dà. E che si può parlare di politica anche in assenza di quest’esito. Il risultato conta, ma di più conta come lo raggiungiamo, tanto che Simone Weil ha potuto scrivere che sono i mezzi a giustificare il fine e non viceversa. Questo un punto importante, non nuovo ma sempre da richiamare, e cioè che la lotta per un’esistenza più consapevole e libera, e per una convivenza che non sia tutta in balia di potenze superiori ed estranee, dal padre padrone alla polizia segreta fino al cosiddetto libero mercato, questa lotta significa, per se stessa, che c’è libertà. C’è come movente della stessa lotta politica, come altri hanno già ricordato. Ma non solo: c’è anche come libertà in atto, per un paradosso il cui significato troppo spesso si misconosce (e perciò si perde) nella tensione verso un obiettivo posto davanti, che ci fa voltare le spalle all’essenziale e ci fa dimenticare che l’essenziale si era presentato qui e ora, sia pure in forme enigmatiche che bisogna saper leggere. 

Il problema è che la presa di parola, come tutto ciò che è del rapporto fra la parola e la politica, non fa luce sufficiente sul paradosso e tende, anzi, a ignorarlo. Tant’è che restiamo moralmente disgustati, sì, ma senza argomenti politici, davanti all’uso strumentale della parola nella vita politica – anche questa una presa di parola – e davanti alla degradazione che colpisce l’una e l’altra. La tecnologia della televisione, d’altra parte, ha moltiplicato enormemente il potere di penetrazione della parola servile. Le parole non insorgono perché esse, per loro natura, si prestano a tutto e possono significare il falso o l’ingiusto con la stessa forza del bello e del giusto. Ci si allontana dalla politica per la convinzione che non ci sia nulla da fare, invece di allontanarsi, insieme alla politica, dai comportamenti che la degradano. Si sta diffondendo una sorda disperazione che è più appariscente dove si patiscono gli effetti di una sconfitta sociale, ma che non dipende tanto da quest’ultima quanto dal sentimento che il massimo cui possiamo aspirare è troppo poco – o qualcosa del genere. 

Tuttavia, io sostengo che, se si attribuisce a qualcuno o a qualcosa, dittatore o mercato, padre o padrone, o servo di padrone, il potere di fare tutto quello che vuole con le parole si sbaglia. Niente e nessuno ha veramente tanto potere simbolico. Il disgusto per la politica per quanto motivato, non è giustificato se solo ricordiamo la potenza che è e rimane nostra in quanto siamo «animali parlanti» e come tali capaci di politica e di libertà. Ma, per rendercene conto dobbiamo spostare la nostra attenzione e prendere in considerazione non la parola ma la lingua e, precisamente, la politicità della lingua. Chi ha letto Leopardi scrittore conosce la sua insistenza proprio su questo tema, che torna anche nelle lettere a Giordani.

Devo fermarmi sull’opposizione parola/lingua, che riprendo dal Corso di linguistica generale di de Saussure, tenendo conto dei principali commenti che ha ricevuto, dalla Scuola di Ginevra fino a Tullio De Mauro, che ci invitano a leggerla nel senso di una polarità – e non di una dualità – nel campo dei fatti linguistici. Una polarità, aggiungo, che non ha soltanto un valore per la teoria, ma che ci aiuta a capire la nostra stessa esperienza linguistica – si può infatti parlare di una vera e propria esperienza linguistica, secondo me. 

La scoperta saussuriana della langue ha fatto risaltare che il significato delle parole dipende né dai parlanti singolarmente presi né dal popolo come entità collettiva, ma dagli innumerevoli scambi di parola fra parlanti: la lingua è il medium e, al tempo stesso il risultato di questi scambi, la lingua, paragonabile a un codice, è necessaria ai parlanti per comunicare fra loro, ma la lingua fa ben di più, perché i loro scambi, che le sono ovviamente necessari per essere una lingua viva, essa li registra e li avvalora, trasgressioni comprese. La lingua è in questo senso un’istituzione (la parola risale a de Saussure), ed è l’istituzione più democratica che ci sia, perché il suo ordine non esclude, non inferiorizza, non discrimina, coinvolge tutti in prima persona, non impone deleghe né rappresentanza, non censura né penalizza. Parlare di «codice» e di «istituzione», per la lingua, è un aiuto mentale per pensare la sua autorità e il suo funzionamento, ma si tratta in fondo di semplici approssimazioni, perché, in realtà, non c’è codice che sia disposto a riordinarsi secondo le esigenze degli utenti, quali che siano, anche quella di trasgredirlo, e non c’è istituzione che rinunci a esistere fuori dal riconoscimento che riceve. La lingua invece lo fa, glielo consente la sua connaturata potenza mediatrice. 

La politicità della lingua consiste nel suo essere costantemente fatta e rifatta da ciò che essa stessa rende possibile, che è il vasto, incessante flusso degli scambi fra parlanti, tradizionalmente paragonato alla circolazione sanguigna o a quella del denaro, in una sorta di inesausta, mai definitiva ma non vana, contrattazione perché il nostro essere al mondo abbia un senso comunicabile e condivisibile con altri.

Spostare il punto di vista dalla parola alla lingua equivale a privilegiare la competenza rispetto alla prestazione, la performance. La competenza simbolica appartiene di diritto non ai letterati o agli eruditi, ma ai parlanti nativi. Con ciò, io non sono interamente d’accordo che s’insegni la lingua materna senza insegnare la grammatica e la sintassi, anzi, purché si insegnino riscattate da ogni normatività antipoetica: c’è infatti una «poesia della grammatica» come la chiama Roman Jakobson, e c’è una musica che si scrive con la sintassi. Che cosa significa insegnare italiano a un ragazzo, a una ragazza, se non far loro provare e praticare il passaggio dalla mutezza di un vissuto ancora verde alla costruzione di un mondo intersoggettivo? E poi, mostrare loro come la lingua sia genialmente attrezzata per rispondere ai loro bisogni simbolici, e non solo; come anche sia disposta a tener conto dei loro apporti idiomatici e a valorizzarli. Questa risposta di avvaloramento, agli inizi della vita viene da chi insegna a parlare, che di fatto spesso è la madre. In seguito, può venire direttamente dalla lingua, purché sappiamo sollecitarla. Come? Usandola e imparando a usarla meglio ancora, così come D.W. Winnicott ha parlato di usare lo psicanalista e Clarice Lispector, Dio, in La passione secondo GH – parlo di un saper usare la lingua, e non semplicemente le parole, parlo cioè della scoperta e del godimento del valore d’uso dietro e oltre il valore di scambio.

Ecco che a questo livello, nella prospettiva aperta dall’attenzione per la lingua, la prestazione verbale riprende credito come possibilità di un agire simbolico che è avvalorato dalla lingua, e del quale nessuno può appropriarsi contro o sopra gli altri. E cominciamo a poter pensare a una politica che, pur nella tensione verso il cambiamento, non volta le spalle al nuovo che si è fatto presente qui e ora fra noi che ci parliamo, con la lingua che ci parliamo. 

Per uscire dalla vaghezza di questo nuovo che si fa presente con la lingua, devo aggiungere qualcosa. Fin qui si è trattato di scambi fra le/i parlanti e ho detto che la lingua li rende possibili. La lingua rende possibile anche un altro tipo di scambi, scambi o negoziati, quelli che passano tra ciò che siamo-viviamo e ciò che (ne) diciamo. Vorrei essere più precisa. Mi aiuterò con un punto di dottrina della linguistica, punto antico ma sempre un po’ bisognoso di essere ricordato, riguardante la natura peculiare del segno linguistico.

Ci sono segni che agiscono evocando nella nostra mente qualcosa di esterno a essi, così come un cibo mi ricorda l’infanzia o il rosso del semaforo mi comanda di non attraversare. I segni della lingua non agiscono in questa maniera, un segno linguistico non rimanda a qualcosa di esterno, perché a rigore niente gli è esterno, in quanto esso nasce, necessariamente insieme a tutti gli altri segni di quella lingua, nel momento in cui, per così dire, il mondo si consegna tutto alla possibilità di essere significato, che è quello che avviene a mano a mano che impariamo a parlare. Si può dire, in altro modo, che un segno linguistico è tale in quanto parte di una totalità, la lingua, che ha il potere di significare la totalità delle cose, compresa se stessa. Una lingua, fosse pure la più rudimentale, è l’universo-mondo che si rende dicibile. Con la sua natura composita di significante e significato, e con il rimando necessario agli altri segni, ogni segno linguistico non fa che ricordare e rinnovare questo scambio tra l’interezza muta e l’esperienza parlante, scambio che è la fonte del suo valore d’uso. E in quest’orizzonte che il «nuovo» può presentarsi. 

Aggiungo che gli scambi o negoziati in cui il mondo esce dalla chiusura ermetica dell’immediatezza per lasciarsi abitare, conoscere, trasformare, non sono separabili dagli scambi linguistici in senso stretto, quelli fra le/i parlanti, come è evidente a chi considera il processo di apprendimento di una lingua e, ancor più, quello dell’imparare a parlare. Probabilmente, è il desiderio o il piacere o il bisogno di comunicare con gli altri, in primis con la madre, che fa di noi, in prima persona, il luogo della resa del mondo alle possibilità espressive di una lingua qualsiasi. Sicuramente, il valore linguistico, ossia il significato dei segni, ha due fonti, una è costituita dal modo in cui il reale si arrende al simbolico, seguendo le caratteristiche di questa o quella lingua; l’altra e la società, ossia l’insieme degli scambi tra i parlanti di una stessa lingua. Da cui risulta quello che è risaputo per altre vie e cioè che lo stato dei rapporti sociali è sempre anche una questione di lingua. 

Anche il cambiamento dello stato dei rapporti sociali è sempre pure una questione di lingua. Parlando degli scambi o negoziati che passano fra l’esperienza che viviamo e i discorsi che facciamo, ho lasciato credere che si tratti di un processo senza resti né problemi come se il mondo si consegnasse tutto e docilmente alla possibilità di essere significato. Non è così. Il mondo è uno e le lingue sono molte, e questo è un segnale. Ci sono altri segnali e altre esperienze della difficoltà di passare dalla mutezza alla parola. Una, che riguarda forse più le donne che gli uomini, più gli adolescenti che gli adulti, è l’esperienza di una personale «acosmia», ossia non ritrovarsi in quel mondo (cosmo) che si rende dicibile nella lingua che si parla; come se il negoziato che dicevo fosse in perdita di qualcosa, di un sentire, di un desiderare, di un sapere perfino dei quali la lingua non rende conto, dando così luogo a un difficile rapporto con il mondo delle parole. Alla semplice ignoranza della lingua si rimedia con lo studio. Ma lo studio può solo coprire i resti e i problemi legati alla significazione del mondo, nulla di più. Perché, quando i conti non tornano, resta al fondo un insormontabile, inesprimibile, quasi sempre inconsapevole, eppure continuo, forte e sensibile senso d’inadeguatezza che fa della lingua un’istituzione non accogliente e democratica ma ostica e usuraia. Sto enfatizzando l’aspetto di sofferenza di esperienze che però si conoscono anche e meglio dal loro frutto positivo, che è una decisione (decidere alla radice è un tagliare via) più radicale della semplice presa di parola.

Di quella primaria e mai conclusa contrattazione tra mutezza e parola, in cui consiste il saper parlare noi siamo informati in qualche modo, specialmente quando qualcosa «non va». La perdita di competenza simbolica, infatti, dà al mondo una consistenza estranea, quella di una pietra messa sulla tavola al posto del pane. Allora può succedere che esigiamo la cosa che è fuori dal potere di decisione di chicchessia, che è cambiare la lingua e volere addirittura una lingua mai parlata prima. Diciamo «non voglio più parlare una lingua qualsiasi» ma una lingua che mi risponda, che è il modo più radicale di mettere in questione un certo stato dei rapporti sociali. Naturalmente, ma bisogna dirlo, non ci sono lingue «qualsiasi»; ci sono, bensì, molte lingue, ma neanche questa pluralità è sufficiente. Si vuole una lingua «nuova».

Nel frangente creato dalla domanda di un’impossibile lingua nuova, la politicità della lingua s’incontra con la poesia e la poesia si mette a essere politica, restando fedele a se stessa. La politica, invece, nell’incontro – se ci sta – guadagna la capacità di tenere presente l’essenziale.

La poesia, intesa come arte della parola, lavora per vocazione sul confine convenzionalmente stabile, in realtà mobile e combattuto, dei rapporti che i segni intrattengono fra loro e, ciascuno al proprio interno, fra significante e significato, in un gioco da cui dipende la figura che prende il mondo. L’esperienza poetica, che sia di scrittura o di lettura o di ascolto, fa scoprire questo gioco e che si può giocarlo; in altre parole, fa scoprire che il mondo da fuori, separato e fisso, può passare a essere dentro-fuori di noi, in circolo con la nostra esperienza, modificabile e aperto, com’era quando abbiamo imparato a parlare.

Ricordo, del tempo in cui insegnavo alla scuola dell’obbligo, nella periferia milanese, l’effetto che fece la lettura di Pinocchio su un alunno di cui ho dimenticato il nome, ma non l’aspetto fisico: minuto, scuro, nervoso. Era il classico ultimo della classe, refrattario al lavoro scolastico e, apparentemente, incapace di scrivere e perfino di leggere un testo di una certa complessità. Ma questo risultò non essere vero, perché quando lesse Pinocchio trovò un libro che lo comprendeva e che lui capì ex novo. Ci scrisse sopra un commento che mescolava la sua vita personale, tutt’altro che lieta, con le avventure del burattino nel quale aveva riconosciuto un suo alter ego, facendo un racconto in cui parlava comicamente di suo padre, un operaio invalido del lavoro e costretto in carrozzella, del suo segreto bisogno di amarlo e di rispettarlo, e della disperazione di non riuscirci.

Faccio questo racconto e dico queste cose non per concludere con la celebrazione della letteratura e della poesia, ma, quasi al contrario, per contrastare l’esaltazione dell’arte per l’arte che ha continuato a crescere e a diffondersi, in passato, forse al posto della perduta cultura religiosa e ora anche al posto della partecipazione alla vita politica, come una specie d’incantamento che fa da surrogato ai ripetuti disincanti della modernità. Penso che la grandezza della letteratura sia la grandezza della lingua che parliamo resa manifesta da una pratica di parola che disfa e rifà la maglia dell’ordine simbolico in rispondenza a quello che c’è. Un poeta, Giacomo Trinci, riflettendo sul suo lavoro, ha detto che la poesia è «profetica di ciò che già c’è». Non ci sono valori estetici, ma linguistici. Voglio rendere pensabile quest’idea, che il valore della letteratura si afferma quando l’esperienza della lettura si iscrive nello spazio non letterario della vita di tutti i giorni. E tanto meglio lo fa, tanto più grande è. Vorrei poter pensare che il successo di pubblico sia una misura più esatta di tutte le critiche letterarie, com’è stato per Dante e Shakespeare. E per Jane Austen, con Orgoglio e pregiudizio, e per Collodi, con Pinocchio. Vorrei che il tempo dei musei e delle avanguardie fosse finito.

Forse, parole come «creazione» e «creatività» portano fuori strada? Il poeta appena citato non parla di creazione, dice «quello che c’è». Scomparsa l’estetica della creazione, ritroviamo il paradosso incontrato agli inizi riflettendo sulla presa di parola, e non c’è da meravigliarsi, se è vero che la decisione politica ha un effetto poetico, e la poesia uno politico, ed entrambi attengono alla politicità della lingua. È quest’ultima che ha la capacità di far perdere al mondo la sua consistenza di sasso. Spesso si crede di celebrare la poesia per contrasto con quello che non è poesia – scienza o vita quotidiana. È una implicita rinuncia a qualcosa cui io non posso rinunciare. Che cosa? Difficile rispondere: la possibilità di altro…, ma intendiamoci, altro presente qui e ora, l’impossibile imprigionato nel reale. Crediamo veramente che si possa vivere senza? 

Luisa Muraro, Non una lingua qualsiasi, in AA.VV. Lingua bene comune (a cura di Vita Cosentino), Città Aperta Edizioni, Troina (EN) 2006, pp. 79-87.

Da La Stampa – Per quanto la maggioranza dei maschi di sesso maschile si ingegni ad apparire in primo piano nelle cronache, non riuscirà più a strappare il protagonismo alle donne. Da leader, da uccise-una-al-giorno, da bottino di guerra, da campionesse sportive, da pensatrici, da scienziate, da affaccendate nella cura, da premier, da combattenti rivoluzionarie… saremo sulla scena della storia da protagoniste, nel bene e nel male. Esistono, certo, quelle che considero la vergogna del mio sesso, ci sono sempre state e stanno aumentando, da collaboratrici all’ingiustizia e alla violenza attraverso l’avidità di potere, da invidiose, da puntelli del patriarcato, da femministe di Stato, come chiamano le femministe radicali tedesche le donne che fanno il gioco del governo di turno. Ma questo lo posso dire e scrivere io e altre come me, che si affannano da decenni a mostrare l’esistenza operativa della differenza di chi, tra le donne, si assume storicamente le conquiste della rivoluzione femminista nel mondo. Non è in alcun modo accettabile, invece, il revanscismo misogino di un noto giornalista –per fare un recente esempio – che sembra felice di titolare un pezzullo Le tre macho (Venerdì di Repubblica, 5/7/24), riferendosi a Giorgia, a Marine Le Pen, a Marina Berlusconi. La soddisfazione con cui scrive che “la moderna donna italica (sic!) non persuade, ordina”, e che “fa suo l’archetipo maschile del comando assoluto” testimonia dell’imbarazzo e dell’ansia (italica?) con cui è vista l’avanzata inarrestabile delle donne, ovunque e in qualsiasi modo le muova il desiderio o la brama, o l’eccellenza. Oggi sarebbe più che mai doveroso guardare a occhi aperti e limpidi la vergogna o la differenza positiva del mio sesso. Prendiamo le elezioni francesi, sapendo che sono le donne in tutto il mondo a determinare l’esito delle competizioni elettorali. In Francia, sono state il 30% dei votanti al ballottaggio mentre prima erano “quasi assenti”. Significa, niente meno, che hanno determinato la vittoria dei progressisti. Poi, ci stiamo impegnando a ringraziare gli sforzi delle vittoriose Jasmine Paolini, di Paola Egonu, delle pallavoliste italiane, oscurate dai media alla sequela delle vittorie di Sinner, a senso unico. Intanto, suggerirei ai giornalisti di provare a notare l’impegno delle tante che hanno raggiunto il potere pubblico e sono rimaste non assoggettabili dalla seduzione maschile: Ada Colau a Barcellona, Sonia Gandhi, Elisabetta I e II, Rosy Bindi, Simone Veil, e centinaia di altre che fanno la differenza femminile nella storia. Sono l’onore del mio sesso. Ma perfino le tre definite “macho” sono differenti nella loro ambiguità anche se sono di frequente la vergogna del mio sesso, ma il giudizio di quando e di come lo sono, può essere espresso solo da chi vuole bene al mio sesso, e ne sa riconoscere anche l’eccellenza, quando c’è. 

Dalla contraddizione dell’uguaglianza al “nostro strano potere”: abbiamo invitato Terranova a trascorrere un giorno con la filosofa per raccontarla

Cominciamo dalla fine. L’ultima cosa che Adriana Cavarero fa prima di salutarmi, dopo una giornata trascorsa insieme a parlare di femminismo, filosofia e narrazione, è portarmi nel suo studio, la stanza della sua casa veronese dove si ritira per scrivere. Proprio sopra la scrivania c’è una cornice con tre foto: in una c’è Hannah Arendt che fuma, in un’altra lei da giovane, la terza non si vede bene, è scivolata dietro le altre. Insieme la tiriamo fuori e scopriamo Adriana e la filosofa Judith Butler sedute su un muretto, la mano dell’una sulla spalla dell’altra, alla fine degli anni 90 a Berkeley, dopo qualche impegno universitario che le aveva viste insieme, uno dei molti. Cavarero indossa un cardigan a righe azzurre e viola, Butler una camicia scura. Non sono molto diverse da adesso le due filosofe, l’autrice di Nonostante Platone (Castelvecchi) e quella di Questione di genere (Laterza), spartiacque del pensiero femminista pubblicati parallelamente (il primo fu tradotto quasi subito in America) che hanno avvicinato due pensatrici straordinarie e spesso su posizioni diverse, se non opposte.

Mi piacerebbe sapere qualcosa in più del vostro dialogo, che non si è mai interrotto.

«Dialogo è una parola insufficiente, preferisco parlare di sforzo per capire il linguaggio dell’altra. Judith viene dallo strutturalismo postmoderno e io ho una formazione classica, non parliamo la stessa lingua madre, ma tra me e lei non è mai mancata la volontà di capirsi e di capire».

Uno sforzo che dovrebbe innervare sempre le discussioni fra donne. Per le femministe della mia generazione, la comunità filosofica femminile che ha creato a metà degli anni 80, Diotima, è rimasta un modello.

«Diotima è nata dall’incontro con Luisa Muraro, io ero una militante dell’uguaglianza, ma la posizione emancipazionista mi risultava insoddisfacente, mi rendevo conto che mi veniva chiesto di trasformarmi in un uomo e sentivo qualcosa che strideva. L’incontro con Muraro e con i testi di Luce Irigaray mi hanno permesso di esplorare la contraddizione dell’uguaglianza, rimettendola al suo posto di elemento strategico per la conquista della parità economica e dei diritti, per rivolgermi al più complesso pensiero della differenza sessuale».

In Tu che mi guardi, tu che mi racconti (Castelvecchi), scrive: “l’Uomo è contemporaneamente l’intera specie maschile e uno dei due generi. È neutro e maschile. È tutt’e due, nessuno dei due e uno dei due”. Trovo in queste righe uno sbocco per l’asfissia che provo nella guerra al femminile in perenne atto nella nostra lingua. Una guerra che mi sembra coincidere con l’occultamento fazioso della maternità.

«La propaganda sulla maternità pesa sulle donne attraverso molte forme: una, ricorrente, è l’idealizzazione della donna in carriera che molla tutto perché sente la vocazione di dover crescere i figli. Per non parlare del ricatto della natalità, come se partorire fosse un dovere sociale. Ma questo non può giustificare la censura, dobbiamo scappare dalle trappole senza dimenticare che siamo nate e nati tutti da un corpo femminile, perché solo un corpo femminile può partorire. È quello che Virginia Woolf chiamava “lo strano potere”, e rimane un potere anche se si sceglie legittimamente di non esercitarlo».

Oggi però molte femministe sembrano vedere solo la trappola, il limite. Credo serva più divulgazione approfondita, meno da slogan, per tenere la discussione sul materno su piani meno banalizzanti.

«In settembre uscirà per Mondadori un libro che ho scritto insieme a Olivia Guaraldo, Donna si nasce: gioca ovviamente con la famosa frase di Simone de Beauvoir secondo cui donne si diventa. Affrontiamo antiche e nuove questioni, è diretto a tutte e tutti, in particolare ai più giovani».

Non vedo l’ora. Nel frattempo, torno a Tu che mi guardi, tu che mi racconti: un libro chiave, non a caso Elena Ferrante ha scritto che per lei è stato uno spartiacque quando ha scelto il punto di vista dell’amica per raccontare la vita di un’altra.

«Hannah Arendt, che insieme a Platone e María Zambrano è la filosofa di cui più mi sono occupata, ha sostenuto che la Storia, quella con la maiuscola, non è che l’intreccio di molte storie. Io non sono una narratrice, ma la letteratura è una mia passione, mi è venuto naturale interessarmene, come è accaduto per la musica. Indagando la distinzione fra biografia e autobiografia, mi sono accorta della potenza che si sprigiona quando è l’altro a raccontare la tua storia, quando addirittura si arriva a chiedere: dimmi chi sono. Succede con la madre, che conosce di te un segmento che tu stesso non puoi ricordare, o con gli amanti, tra cui si stabilisce un rapporto di narrazione biografica reciproca».

Edipo e Ulisse sono i personaggi che lei porta come esempio perché ignari di una parte della propria storia e desiderosi di sentirla raccontare. È un caso che siano uomini?

«Le donne sono di solito grandi narratrici. Vede, noi due ci siamo viste poche ore fa e già a pranzo ci siamo raccontate dei momenti intimi della nostra storia personale. Gli uomini non hanno questa consuetudine, si scambiano interessi, opinioni, non narrazioni. Ovviamente parlo sempre di un maschile e femminile stereotipico, non di singole esperienze».

Anche se abbiamo parlato di femminismo e di letteratura, forse il libro che tutti dovrebbero leggere in questi tempi è quello in cui lei teorizza e dimostra l’oscenità della violenza, Orrorismo (Castelvecchi).

«Purtroppo, sì».

E non sappiamo più dove guardare, mentre le parole, cui entrambe abbiamo affidato la nostra vita, d’improvviso spariscono.

Tutto è lingua e le parole ti toccano, spesso ti feriscono. È vero, possono far male, ma il più delle volte aprono la via per formulare un pensiero tuo, a patto di non rimanere nelle reazioni automatiche già previste. Oppure capita che le parole mancano e senti la realtà che ti pesa addosso come un macigno. È ciò che vivo in questi giorni, è ciò che ho da dire.

Mi sento come schiacciata da questo presente così gonfio di guerra e di rivalsa maschile e vengono meno le parole. Ai miei stessi occhi rischia l’insignificanza quello che faccio: ha ancora senso farlo quando parole sinistre come “guerra nucleare” e “riarmo dell’Europa” non sono più tabù e rientrano a far parte delle prospettive plausibili? Come uscirne?

Lavorando a questo numero di Via Dogana3 ho capito che nel produrre la sensazione di schiacciamento un ruolo decisivo hanno i mass media per come raccontano la realtà. Al riguardo rimando alle acute analisi di Ida Dominijanni e Giulia Siviero presenti nel video https://www.youtube.com/watch?v=7xHjYM9-Xj0. Senza dimenticare Luisa Muraro che già in Maglia o uncinetto (1981) ha mostrato come siamo dentro un regime ipermetaforico che traduce la materia viva delle esperienze, annullandola e restituendola secondo i suoi codici. E valeva allora, come vale ora, una lingua metonimica, che rimanga vicina a ciò che viviamo e patiamo.

È capitato a me, ma capita comunemente, di cogliere la discrepanza che c’è tra il racconto di chi ha partecipato in prima persona a un evento pubblico e quello che dello stesso evento fanno i mass media. Oggi la torsione comunicativa è tutta volta alla militarizzazione e all’esaltazione dello scontro. Un piccolo esempio. Alcune mie amiche hanno partecipato alla manifestazione dello scorso 25 aprile a Milano. Sono tornate a casa contente, perché secondo loro la manifestazione era riuscita a rimanere pacifica, nonostante qualche piccola tensione. Il giorno dopo erano indignate da come la manifestazione era stata raccontata dai telegiornali e da gran parte della stampa: i brevi scontri occupavano tutta la scena e tutto il resto era sparito.

Tuttavia, per uscire dall’effetto schiacciamento, in gioco non c’è solo la consapevolezza di come operano i mass media. Molto dipende anche dalla concezione che abbiamo dell’esistente. Ho capito questa questione rileggendo in Parole non consumate la polemica che Chiara Zamboni apre con lo scritto di Sartre Immagine e coscienza. Zamboni fa vedere come Sartre abbia una concezione soffocante del presente, come un tutto pieno massiccio e incombente, che supera con l’attività immaginativa. Per lui l’immaginazione è un “fare come se” che diventa luogo di libertà, ma al prezzo di annullare la realtà. Per Chiara invece l’essere non è massiccio e immobile, ma in continua metamorfosi per cui aprirsi al gioco del linguaggio permette di trovare potenzialità nell’occasione che si presenta e nel saperla riconoscere. Per lei l’immaginazione è una dimensione dell’essere, non è fuga dalla realtà ma apertura (pp. 93-94). Richiamo queste considerazioni di Chiara Zamboni perché mi fanno pensare che per uscire dalla stretta del presente si possa mettere all’opera un pensiero immaginifico che colga e potenzi quello che c’è già, che nutra quei semi che già fanno intravvedere un possibile cambio di civiltà.

Ragionando attorno a questi problemi, tuttavia, bisognerà pur dirsi che la logica violenta della contrapposizione da un po’ di anni a questa parte è entrata anche nel campo femminista, compreso quello della differenza.

Se vado indietro nel tempo, rivedo gli anni in cui il comune sentire era di far parte di un esteso movimento delle donne, e le polemiche anche aspre tra posizioni e gruppi diversi non intaccavano questo sentimento. Invece oggi, proprio in un tempo in cui il femminismo è davvero in tutto il mondo – e il recente libro di Giulia Siviero, Fare femminismo, ben lo mostra – prevalgono gruppi incomunicanti, spezzettamenti, chiusure identitarie, accompagnate spesso da furia etichettatrice. Troppo spesso la posizione diversa viene rapidamente catalogata come nemica e ci si comporta di conseguenza. Si adottano modalità aggressive, magari inchiodando una giovane che è ancora in ricerca, a cose dette cinque anni prima. Più che conflitti che da posizioni diverse portano avanti la riflessione, si aprono guerre con le parole, tendenti a screditare le presunte “avversarie”. Le guerre verbali, come le guerre sul campo cominciano da una prima aggressione, a cui segue una risposta e così in un crescendo. Quello che so per me è che la mossa giusta è non entrare nella spirale, non rispondere, non giocare a quel gioco, che è il gioco della guerra. Ma, a parte questa pratica, che non è poi così semplice per una come me che ha una natura sanguigna, cosa pensarne? 

Ritengo che qui scontiamo il riflesso del narcisismo individualista del nostro tempo. Nei nostri incontri abbiamo sempre detto che le donne sono meno narcisiste degli uomini, e questo è vero, però è ora di constatare che c’è un narcisismo femminile da guardare più da vicino, che porta a posizione egocentrate che facilmente individuano come nemica ogni differenza e entrano nella spirale della contrapposizione violenta. In effetti, come ha ben spiegato Cristina Faccincani ne La carta coperta, il narcisismo presenta un io compatto, in cui «risulta compromessa la relazione con l’alterità, sia interna al soggetto, sia riguardante l’altro da sé» (p. 37). Quindi, a maggior ragione, ritengo che il problema principale sia un difetto di senso della differenza. Ci vuole infatti più senso della differenza all’opera per dare spazio e risalto alla differenza tra donne e farne una fonte di pensiero e di pratiche.

In passato molto si è lavorato sull’asse della verticalità, simbolicamente rappresentato dal rapporto con la madre, producendo elementi di teoria e di pratica politica, quali l’autorità e la disparità, indispensabili per uscire dall’indistinzione di una notte in cui tutte le vacche sono nere. La disparità fa vedere una realtà in movimento perché non si è mai pari. C’è sempre un gioco mobile di più e di meno. Riconoscere un di più a un’altra donna ci rende più intelligenti perché fa comprendere meglio le possibilità che la realtà offre.

Penso però che all’interno di questa pratica sia rimasta troppo in ombra l’idea della differenza tra donne che allarga ancora di più il campo d’azione, soprattutto quando in ballo non ci sono grandi disparità intellettuali e umane facilmente riconoscibili, bensì disparità di minore entità. L’altra differente mi interessa, mi incuriosisce, mi interpella, mi fa arrabbiare e da lì passa conoscenza. Pensare l’altra nella sua insormontabile differenza, mi rimanda a me stessa per quello per cui differisco e rende più comprensibile il contesto che ci accomuna, che è il mondo presente con le contraddizioni che attraversano entrambe. Queste mie osservazioni scaturiscono dal riflettere su alcune mie relazioni nella redazione di Via Dogana3 e da alcune nuove relazioni con donne giovani politicamente distanti. Penso anche al rapporto con le mie sorelle.

In un vecchio numero di Via Dogana (34/35, dicembre ’97) Letizia Tomassone, teologa, apre una polemica con padre Vanzan sul fatto di intendere come paradigma della differenza la differenza uomo/donna, perché così «si cade nella trappola patriarcale della classificazione». Lei invece frequentando il pensiero della differenza intende la sua libertà di movimento non in relazione a «un differente da me» bensì nella consapevolezza della sua parzialità che le «permette di essere in una relazione di differenza e di alterità in primo luogo con le altre donne». Lì si gioca la sua differenza. «Si tratta di un luogo dove non posso mascherarmi, dove non posso abitare spazi già costruiti, ruoli già dati».

In un numero di Via Dogana 3 dal titolo La parola giusta ha in sé il potere della realtà, (dicembre 2018), Luisa Muraro riprende e approfondisce la stessa questione e la considera una buona intuizione su cui riflettere e su cui si aspetta commenti e contributi.

Lei dice: «Primo: sia chiaro che la differenza sessuale non è tra uomini e donne, sarebbe insensato perché, se distinguo i due sessi, maschile e femminile, vuol dire che la differenza ha già operato; diciamo perciò che la differenza sessuale è in. È in me, per cominciare, per cui dico: “io sono una donna”. Secondo: la differenza sessuale che ha già operato, traspare con il mio (tuo… nostro, vostro…) riconoscermi nelle altre donne. Essa consiste dunque nelle differenze tra donne; ma non è una consistenza, è un principio evolutivo della vita che si sviluppa e traduce nella cultura umana».

Per finire penso che c’è tutto da guadagnare a portare avanti questa riflessione.

Sin da quando ero alle elementari, vedendo i miei compagni di classe musulmani uscire da scuola durante il pranzo, mi sono sempre domandata cosa fosse effettivamente questo Ramadan di cui loro parlavano e in seguito, quando mi fu spiegato, ho sempre ritenuto fosse una prova ardua. Così quando la mia compagna di classe il mese scorso, a pochi giorni dall’inizio del Ramadan, mi ha proposto scherzando di fare un giorno di digiuno con lei, l’ho presa come una bella occasione per capire di più quella cultura che abita accanto a noi ma non è la mia.

Come mi aveva consigliato, mi sono svegliata alle quattro del mattino per fare colazione e poi sono tornata a letto, purtroppo per poco dovendo andare a scuola. Le prime ore di digiuno sono passate abbastanza in fretta, le lezioni mi tenevano impegnata, allo stesso modo i giri in corridoio. Non avevo fame né sete, mi mancava solo la mia pausa caffè, ma intorno alle quattordici la situazione si è fatta più critica, non tanto perché mangio intorno a quest’ora, ma soprattutto per il caldo e il lungo tragitto da scuola a casa della mia amica. Ho iniziato a sentire una gran fame e la mia pancia ha iniziato a contrarsi dolorosamente. Per di più la metro era bloccata e siamo state costrette a prendere un bus suppletivo pieno di persone che, strette strette, rendevano l’ambiente ancora più caldo e asfissiante ma finalmente siamo arrivate a casa dove abbiamo aiutato sua madre a finire di cucinare gli involtini per la cena. Per passare le ultime ore prima dell’iftar (fine del digiuno) abbiamo fatto un giro al parco vicino per poi tornare e scaldare la cena. Arrivati a casa la madre, il padre e il fratello della mia amica, abbiamo cenato; c’erano gli involtini, dei tacos, un po’ di insalata, ma soprattutto un delizioso tajine, piatto tipico marocchino di carne e spezie. Il tempo della cena è trascorso in fretta, a mia sorpresa non ero così affamata e sono rimasta incantata ad ascoltare i loro discorsi in marocchino, lingua che ritengo affascinante per la sua fluidità e anche con una strabiliante similarità, in certe cadenze e parole, con il dialetto lombardo.

Mi chiedo da dove venga questa mia grande curiosità verso religioni e tradizioni diverse che ormai da molto tempo convivono con il mondo occidentale. Io non ho ricevuto un’educazione cattolica, a differenza dei miei genitori, e i miei nonni sono religiosi. Ho chiesto loro informazioni su riti e tradizioni del cattolicesimo e so che ci sono tratti simili nelle grandi religioni monoteiste (per esempio durante la Quaresima). Ma credo che il mio desiderio di capire e conoscere sia spinto da un moto interiore di non limitarmi alla superficialità di leggere e studiare ciò che è diverso da me, al contrario, di viverlo in prima persona per renderlo davvero mio e vedere fatti e persone il più possibili rispondenti al vero e non attraverso le inevitabili lenti dei preconcetti. Quindi questo desiderio attiene più alla sfera esistenziale, che oltrepassa quella culturale, perché mi coinvolge in prima persona e chiama in causa le mie relazioni più strette. Riflettendo su questo punto, credo di essere arrivata al nocciolo della questione: sono convinta che la differenza sia innanzitutto ricchezza e non distanza. Voglio dire che vivere dall’interno un’esperienza che culturalmente non ci appartiene, mettersi nei panni di un’altra persona, è il primo passo verso una conoscenza autentica che può abbattere barriere che sembrano invalicabili e che può rendere le relazioni tra persone culturalmente diverse non solo limitate alla tolleranza una verso l’altra ma a una consapevolezza più profonda e completa l’una della cultura dell’altra. È così che un’esperienza che pare confinata nella sfera personale può assumere una valenza politica, nel senso più vero di questa parola: stare insieme, in una comunità solidale e variegata.

Rossella Bertolazzi non è più tra noi

di Laura Minguzzi

Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, vincitrice nel 2020 del Compasso d’oro, il primo e prestigioso premio mondiale di design, negli anni ’80 caporedattrice del mensile SE\Scienza Esperienza fondato da Giovanni Cesareo, non è più tra di noi.

Per come l’ho conosciuta io più di trenta anni fa, al Circolo della rosa, una donna di straordinaria vitalità, intelligenza, generosità e ironia. Una presenza unica e insostituibile. Una forza della natura si direbbe con parole comuni. Possedeva una versatilità molteplice che ha espresso in campi differenti, nella scrittura, nella comunicazione mediatica, nella capacità direttiva di un’importante istituzione europea ecc.. Sono indimenticabili per me le sue qualità di chef al Circolo della rosa, dove in occasioni speciali, con passione e inventiva metteva a punto originali menù con il gruppo relazionale Estia. Una figura che comunicava forza e desiderio di stare insieme, fare insieme. Sapeva coniugare il femminismo con la progettualità e l’amore per le relazioni, valorizzando quelle e quelli con cui lavorava alla Scuola di Arti Visive IED di Milano che ha diretto dal 2001. Non amava le luci della ribalta ma la sostanza delle cose e con il suo approccio diretto e sincero, scevro da formalismi, metteva a proprio agio e trasmetteva il piacere della compagnia. «Una donna burbera e dolcissima, con uno spirito da combattente, che le ha consentito di puntare sempre all’innovazione», così è scritto nelle motivazioni per cui le hanno conferito il premio oltre ai suoi titoli e meriti professionali. Cara Rossella, ci mancherai moltissimo, a me e a tutte le amiche e gli amici della Libreria e del Circolo della rosa.


Rossella e l’anello

di Silvia Baratella

Ho iniziato a frequentare la Libreria delle donne quindici anni fa e, dopo i primi tempi, a partecipare alle cene del sabato. In cucina c’erano le cuoche di Estia, tra cui Rossella Bertolazzi. La vedevo indaffarata insieme a Ida Faré, Stefania Giannotti e le altre quando passavo a prendere il vino, e man mano che mi sentivo più a casa, le stoviglie per apparecchiare i tavoli. Apprezzavo gli eccellenti risultati dei loro sforzi congiunti, i menù spiritosi delle cene speciali, scritti con rime, battute, giochi di parole, ma non avevamo molto tempo per conoscerci.

Una sera dopo una cena, quando quasi tutte erano andate via, Rossella e altre cuoche di Estia si sono sedute a chiacchierare. Mi sono seduta con loro e ho avuto la prima vera conversazione con lei. Rossella stava raccontando con brio la sua disavventura con un anello antico, un bellissimo gioiello di famiglia di una sua amica che lei aveva molto ammirato e che le aveva chiesto in prestito per far bella figura in un’occasione professionale importante. L’amica aveva acconsentito volentieri. Ma durante la giornata il dito si era gonfiato e l’anello non usciva più. Ricordo tutta una serie di peripezie: il sapone che non aveva funzionato, i tentativi inutili di farsi aiutare da gioiellieri, poi da medici. Aveva avvisato l’amica, che le aveva detto senza esitare di far tagliare l’anello perché il suo dito era più importante, ma lei non voleva sacrificare il cimelio di famiglia dell’amica. Alla fine, non mi ricordo più come, era riuscita a far sgonfiare il dito e a sfilare l’anello senza rovinarlo. Da quando qualche anno fa anche a me hanno iniziato a gonfiarsi le dita, controllo compulsivamente che gli anelli mi si sfilino, pensando sempre a Rossella: credo che mi abbia salvata da incidenti analoghi.

Gli anni sono passati. Ida non c’è più, la salute di Rossella è peggiorata gradualmente, colpendo anche la vista. Eppure per tanto tempo è venuta lo stesso a cucinare e mi stupisce ancora come fino a pochi anni fa ci sia riuscita lo stesso, al tatto, seduta a un angolo del tavolo di cucina con il necessario disposto intorno a sé. Poi c’è stato il Covid, il confinamento, tante cose sono cambiate, ma anche quando non cucinava più Rossella finché ha potuto è venuta in Libreria. E ora la sua compagnia ci mancherà terribilmente.


Rossella per me

di Fiorella Cagnoni

Oggi è morta a Milano Rossella Bertolazzi. Ha diretto per anni e anni la Scuola di Arti Visive dell’Istituto Europeo di Design, ha vinto il Compasso d’oro – il più antico e autorevole riconoscimento mondiale nel design. Ha anche ricevuto un Ambrogino d’oro.

Ma Rossella per me e per molte amiche milanesi, della Libreria e delle città, era la più grande cuoca del pianeta, la perfetta benché severa socia di scopone scientifico, la più sinuosa elegante e leggera ballerina malgrado la bella rotondità delle sue forme. La più attenta e affettuosa compagna di pensiero e di divertimenti, nella mai ridondante attenzione e amabilità lombarda.

Quante cene “pan e pachett” – quante nottate di poker con suo marito Giovanni Cesareo, il mio diletto Silvio, la Stefi, la Lipschitz… –

A sua figlia Magdalena Barile un abbraccio da qui a là.


Paola Mattioli, Rossella Bertolazzi 2018

Di questi tempi mi sento spesso a disagio quando mi confronto anche solo tra me e me, faccio fatica a concentrarmi sulle questioni, mi confonde il frastuono delle voci, delle posizioni, delle interpretazioni che provengono dai media vecchi ma soprattutto da quelli nuovi, se a usarli sono persone distanti da me e con idee diverse dalle mie ma anche se sono persone vicine e con idee simili alle mie. Le parole diventano difficili da tradurre nella mia singolare lingua interiore.

Mi capita di frequente che il tono performativo delle parole e delle argomentazioni, anche di quelle che sono io a dire e a costruire, comprometta il senso di quanto viene detto e ne modifichi il contenuto, la densità delle parole si frantuma in fretta e mi resta la spiacevole impressione di non sapere bene di che si è parlato, che si è detto e chi ha detto cosa a chi. Mi viene in mente una frase di Veronica Giuliani, una mistica marchigiana vissuta nel XVIII secolo: «Dico e ridico e non dico niente». Non credo sia solo un problema di memoria scadente o di un effetto Babele causato dalla molteplicità delle voci e delle fonti a cui ci si trova esposte e con cui si interagisce. È come se le cose che si dicono non riuscissero a farsi strada oltre l’impressione, oltre il momento, è come se le parole avessero vita breve e si nebularizzassero in fretta nel rumore di fondo. Una specie di anestesia, più o meno profonda, anche quando l’argomento mi sta a cuore. Credo sia un problema che riguarda i mezzi e i modi che permettono la comunicazione, cioè il computer, lo smartphone, le reti sociali. Non penso tanto a quelle spiacevoli situazioni in cui capita di imbattersi a volte, quando si incappa nel terribile furore verbale generato dall’autoreferenzialità narcisistica che si euforizza nell’assenza dei corpi ed è impenetrabile all’empatia comunicante, sono frangenti da cui si esce scosse e doloranti, con la sensazione di non avere parole capaci di migliorare lo stato delle cose, davanti al muro del discorso violento. Penso alla normalità della comunicazionesociale tramite smartphone e/o computer, agli scambi consueti, al loro ritmo e alle dinamiche interiori e relazionali che generano, alle ampie porzioni di vita che occupano. Mi sento coinvolta in un mutamento che riguarda me, le cose che sento e penso, le parole che ho per raccontarle e l’attenzione che ho per ascoltare e dare senso alle parole che arrivano da fuori. È una specie di ibridazione che non governo e che non so descrivere perché è sottile e sfuggente, anche se gli effetti sono ben visibili e concreti.

Alla base dello scambio tra i media e i loro utilizzatori c’è stato a lungo il tempo, quello in cui entrambi si rendevano reciprocamente accessibili e disponibili. I giornali, il cinema, la radio, la televisione e anche il telefono avevano porzioni di tempo limitate e ben definite nelle giornate, le vite erano distinte dai media, la comunicazione era mediata soprattutto dai corpi e dalla presenza viva. Con la diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione, in particolare quelle che riguardano Internet e gli smartphone, l’equilibrio si è rotto, la misura è saltata. Lo smartphone è una protesi del corpo, è la sua proiezione virtuale nel mondo e produce l’effetto paradossale di isolare il corpo, di eliminare la contemporaneità delle presenze e dei contesti. È esperienza comune nei luoghi di socialità occasionale (mezzi pubblici, sale d’attesa, bar, ecc.), nelle pause tra un’attività e l’altra e in generale in tutti i momenti liberi, vedere l’immersione collettiva nei telefoni cellulari e l’indifferenza alla presenza fisica delle altre persone, una vistosa espressione di isolamento ma anche di solitudine nel contesto. Questo stato delle cose produce trasformazioni nelle posture relazionali e nel modo di comunicare, si cerca il contatto con la o le tribù di riferimento, restando al loro interno e aspettandosi la loro conferma a prescindere dal luogo in cui ci si trova. Le tribù, favorite dai social e sostenute dalle varie declinazioni del marketing liberista, sono suddivisioni umane omogenee, con molte estensioni oppure selettive, si formano intorno a una condizione, a un tema, a una passione, a un’occasione, possono essere trasversali, distribuite su territori ristretti o molto estesi, durare a lungo nel tempo o esaurirsi con l’occasione da cui sono nate. Sono comunque territori (virtuali) di arroccamento che si percepiscono e si comportano come mondo, con canoni, convenzioni e linguaggi propri, di solito poco accoglienti per chi è estraneo o non addentro ai temi coesivi. Si tratta di una coesione tribale, ombrosa, mutevole e animatrice di conflitti, ben diversa dalla luminosa coesione sociale legata all’idea di democrazia avanzata che alimentava le speranze giovanili della mia generazione. Tutte queste tribù-mondo vivono a sé stanti, dominano loro malgrado solo pezzi ristretti del racconto del reale e per di più ibridati dalle procedure discorsive e affabulatorie della pubblicità mercantile, che è l’esperanto dei media: non hanno alcuna possibilità di arrivare a una visione d’insieme e tanto meno oggettiva del mondo. Nonostante il capillare reticolo di strumenti di comunicazione che avvolge il globo intero ed è utilizzabile da larga parte dell’umanità, siamo dentro a una sorta di sistema integrato e amorale della narrazione, governato dagli interessi di pochi potenti, che sceneggia e racconta attraverso i media reticolari la realtà dando forma a una rappresentazione/finzione indiscutibile, ibridata e declinata a seconda delle culture, dei luoghi e delle competenze interpretative, che diventa senso comune e ordine simbolico. Dunque è preoccupante per me accorgermi che percepisco come domestico l’ambiente a cui mi permette di accedere il mio smartphone/protesi, quello in cui incontro le mie tribù e i pochissimi social che mi autorizzo a frequentare. Perché una parte importante della realtà è che la familiarità è esteriore, si entra in un ambiente di natura industriale, molto strutturato, che non ha niente di domestico, che esercita su di me un controllo interessato e in cui la mercificazione di tutto, comprese le mie parole, è esposta, invisibile e naturale.    

La lingua è politica. In effetti, ho sempre pensato che la politica si facesse soprattutto con le parole. Programmi, articoli, discorsi, dibattiti. Giornali e volantini da diffondere, manifesti da affiggere. Le parole sono un’arma per dimostrare e confutare, convincere! Al limite, per lasciare l’altro senza parole: disarmarlo. Magari, voi preferite usare le parole in modo più relazionale, per creare connessioni e comprensione reciproca. Sì, tra parenti, amici e compagni dovrebbe funzionare così. Perciò biasimo le lotte intestine, pur prendendovi parte. Ma il mondo è pieno di estranei, avversari, nemici con cui bisogna essere pronti a combattere. Meglio, allora, usare le parole come armi che le armi come parole. Dove li trovo tutti questi nemici? La militanza nei gruppi politici li fa incontrare di rado, salvo essere impegnati nelle assemblee elettive. Nel gruppo si sta quasi sempre insieme tra compagni. Motivo per cui ci si divide. Nemici ne ho incontrati a frotte da quando sono sbarcato su Internet, nel 1998.

All’epoca, c’era molto poco in confronto a oggi, tuttavia il web era già una miniera di parole, documenti, informazioni, sempre più in tempo reale. C’era la posta elettronica! Soprattutto, c’erano i gruppi di discussione, mailing list e forum. Tante arene in cui combattere. Anche troppe. Incontravo avversari normali, tipo democristiani e liberali, ma rimanevo impressionato dagli incontri ingestibili. Fascisti, nazisti, negazionisti dell’olocausto, razzisti, antisemiti, indipendentisti padani, comunitaristi, rosso-bruni, mascolinisti che volevano liberare l’Occidente dal femminismo. Le parole diventavano un mare di delirio. Rispetto al quale la reazione repulsiva delle persone democratiche e civili mi pareva debole. Selezionai ambienti e interlocutori, sebbene pure quelli “normali” cominciassero ad apparirmi strani.

Era il tempo della guerra del Kosovo, la seconda Intifada, il popolo di Seattle; subito poi vennero il G8 di Genova, l’11 settembre, la guerra al terrorismo, le invasioni di Afghanistan e Iraq. Io mi sentivo dalla parte dei movimenti. Pacifisti e cosiddetti no global (preferivo new global, globalizzazione sì, ma democratica). Mi colpivano le persone sostanzialmente di destra collocate convenzionalmente a sinistra. Estremisti di centro. Sostituivano la guerra fredda con la guerra di civiltà. Sostenevano in modo aperto il ricorso alla forza militare. Inorridivano per i propri morti, vittime del terrorismo islamista, ma giustificavano le vittime civili altrui, sotto i bombardamenti occidentali, anche con un cinismo ostentato. Inoltre, accusavano i pacifisti in modo grossolano di essere dalla parte della Russia, della Cina, del fondamentalismo islamico, pregiudizialmente ostili all’America (antiamericani) e a Israele (antisemiti). Molti, identificandosi con le parti in conflitto, esibivano bandiere nazionali nei loro avatar e slogan bellici come firma. Per parte mia, cercavo di adottare questo metodo: mostrare un atteggiamento temperante, differire le repliche, rimanere concentrato sull’argomento qualunque cosa mi dicessero. Come avatar usavo un mappamondo e come firma una frase della scrittrice indiana Arundhati Roy: «Le bandiere sono pezzi di stoffa colorata che i governi usano prima per avvolgere il cervello della gente e poi come sudario per seppellire i morti». In quel contesto, i miei modi neutri erano considerati urbani, ma anche poco umani e persino subdoli. Per me, era una tattica di autodifesa. In presenza sarebbe stata più complicata, per iscritto mi riusciva abbastanza bene. Negli schemi manichei della guerra, sfumature e problematizzazioni erano rifiutate come tentativi di fare il furbo o di essere, senza volerlo, l’utile idiota del nemico.

Quell’attivismo grafomane-interattivo era eccitante e frustrante. Dava la sensazione di partecipare e contribuire a orientare l’opinione pubblica. Se l’avversario non si poteva convincere, c’erano altri che leggevano. Inoltre, per sostenere le proprie posizioni, confutare quelle avversarie, rispondere alle obiezioni, respingere le accuse, demistificare la propaganda e le false notizie, bisognava informarsi un sacco. Improvvisamente, imparai tante cose sui Balcani, il Medio Oriente, la globalizzazione. Imparavano anche gli altri. Era una corsa informativa e formativa agli armamenti delle parole. Tuttavia, saperne di più mi pareva una buona cosa. Non solo. Poiché i media più importanti, tra le televisioni e i giornali, sostenevano la guerra, il dibattito in rete sembrava l’occasione per promuovere i media alternativi, quello classico, il manifesto, ma anche tanti nuovi siti pacifisti e antagonisti. Fonti che venivano subito attaccate sul piano della credibilità, da scegliere quindi con attenzione, per poterne poi difendere la reputazione.

Ogni tanto sentivo di meritarmi interlocutori più raffinati. Giornalisti, scrittori, intellettuali, filosofi, dirigenti politici. Era il 2008, anche in Italia arrivarono i social media. Facebook e Twitter. Ogni barriera sembrava saltata; potevo raggiungere chiunque. Ahimè, i miei desiderati interlocutori non portavano sui social la stessa qualità dei loro libri e articoli, anzi cominciavano a somigliare sinistramente agli utenti dei forum. Tuttavia, il volume delle interazioni era altissimo. Potevo parlare a centinaia, anche migliaia di persone, direttamente e tramite le condivisioni. Era l’illusione del giocatore d’azzardo, che vince le prime giocate, finisce irretito nel gioco e poi, piano piano, perde tutto. In breve tempo, i social fagocitarono ogni cosa: partiti, aziende, istituzioni, giornali, televisioni, vip di ogni genere. I blog amatoriali, prima vincenti, finirono ai margini. I loro link persero di visibilità. Per un attimo, ci fu un rilancio con la pubblicazione diretta dei propri testi, ma poi anche la visualità di questi si attenuò. Siamo negli anni della pandemia e subito dopo. Ad oggi, insomma. Il feed della home page di Facebook è ormai pieno di inserzioni pubblicitarie, messaggi sponsorizzati, link acchiappa click, umorismo volgare, un’infinità di roba che non ho mai chiesto di vedere e che continuo a vedere, pur oscurando post e profili, perché come funghi ne saltano fuori altri di nuovi e uguali. Sempre più difficile essere seguiti, sempre più difficile seguire chi mi interessa. L’illusione di partecipare finisce nell’essere rimessi nella posizione dello spettatore passivo. Forse anche nomi e marchi sono in difficoltà. Vedo agenzie di stampa e altri enti importanti mettere i propri link solo nel primo dei commenti, secondo la credenza di poter così aggirare la presunta penalizzazione dell’algoritmo. Le grandi piattaforme digitali seguono modelli di business per il profitto a breve termine. All’inizio si sono proposte di servire noi, fin quando e quanto è stato necessario per convincere noi a servire loro. Dovremo trovare il modo di smettere di farlo, risolvendo la paura di rimanere tagliati fuori.

In questo contesto social-mediatico, è molto difficile trovare il modo di darsi una parola forte e autorevole, quale che sia il suo fine, senza essere forti e autorevoli in partenza. Si può coltivare la competenza e l’efficacia comunicativa, ma questa coltivazione implica molto tempo e lavoro, risorse di cui dispongono quelli già forti e autorevoli, non quelli che lo vogliono diventare, a meno che non siano molto giovani o arzilli pensionati. Salvo eccezioni legate a nicchie stravaganti. Se sai raccontare bene l’esistenza dei dischi volanti, un pubblico di seguaci ufologi potrebbe seguirti. I social strutturati in profili individuali vestono bene l’individualismo, l’idea che sia meglio e più gratificante agire da soli, senza mediare con altri, a cui compete solo il feed-back. Eppure, questa è l’alternativa più naturale. Tornare ad associarsi. Come molte realtà già fanno e alcune non hanno mai smesso di fare. La stessa Libreria delle donne.

C’è poi una questione ulteriore. Nella mia foga di saperne di più, sono arrivato a consultare la stampa estera, in particolare quella anglosassone. Mi sembra di una qualità diversa da quella italiana. Il livello di dibattito più alto, informazioni più accurate, polemismo e dileggio molto più ridotti. Sulla prima pagina del New York Times non troviamo l’elenco dei putiniani in America o il corsivo che sbeffeggia una professoressa come Donatella Di Cesare. L’accusa di antisemitismo usata come una bomba stupida sul dibattito pubblico è continuamente discussa. Di genocidio dei palestinesi si può parlare. Perché? Mi sono fatto questa idea. La stampa americana è la stampa di un paese che ha il potere di influire sulle sorti del mondo, la stampa italiana no. Se non siamo giocatori, possiamo solo tifare. Ai tifosi basta urlare slogan. L’argomento ultimo (o il primo) di molti filoccidentali, quelli della narrativa per cui noi siamo i buoni contro i cattivi, è questo: l’Italia sta nella Nato e non può pensare, dire, fare diversamente dagli Stati Uniti. Pena, pagare un prezzo militare, commerciale e finanziario troppo alto. Lo afferma a chiare lettere la presidente del consiglio nel suo ultimo libro intervista. Ha ragione? Bisognerebbe capire cosa può davvero fare un paese come l’Italia. La “nazione”, nella lingua dei nostri attuali governanti.

Penso, così, che questa sia la risorsa più importante per darsi una parola forte e autorevole. La convinzione, credibile a sé stessi, di essere influenti, di poter fare qualcosa di importante. Senza la quale rimangono solo il tifo o il sottrarsi.

Chissà se era una provocazione quella dello scrittore Walter Siti quando ha dichiarato a Rivista Studio, in questi giorni, in riferimento al Premio Strega, che «[…] vincerà una donna, e sarà così per ancora due o tre anni, e poi finito un ciclo si tornerà a un regime normale». Certo è che ha sentito la necessità di aggiustare il tiro dopo che si è alzato il vento della polemica. «Viviamo in una società che accetta ancora la disparità di genere e mi è evidente la necessità di riportare l’attenzione sui libri scritti da scrittrici» ha aggiunto. «Il mio augurio è che nella società del futuro si possa tornare a concentrarci sull’opera letteraria indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’etnia di chi l’ha scritta». L’idea che lo spazio (conquistato) delle donne sia una tendenza, una moda del momento, mi appare un’affermazione pericolosa che però riesce a farmi sorridere: una forma di esorcismo maschile verso la rivoluzione femminista, oramai inesorabile persino ai loro occhi, al punto che c’è bisogno di minimizzare, o fare dell’ironia. La seconda idea invece, che per superare la disparità di genere sia necessario il ritorno al neutro, mi fa sorridere e basta. Poi a smorzare il sorriso subentra una rabbia pacata. Una rabbia che immagino condivisa dalle donne che come me sanno bene che nel mondo contemporaneo e anche in quello del futuro l’opera letteraria delle donne, come ogni altra opera intellettuale o pratica, non è neutra affatto, come non è neutro il trattamento che ai lavori delle donne è stato riservato ed è ancora riservato in molti campi della cultura. E se gli effetti dell’atteggiamento discriminatorio nei confronti dell’opera creativa delle donne sono stati ampiamente denunciati, smontati, superati grazie all’impegno e all’ingegno del lavoro condiviso di donne di tutte le generazioni, e della cooperazione anche con gli uomini, rimane in buona parte ignorato nel dibattito odierno il peso del neutro (o per meglio dire del neutro-maschile) e dell’universale nelle generazione di opere creative, lo schiacciamento esercitato da questo costrutto moderno, figlio prediletto dell’Illuminismo, sulla soggettività femminile. Solo la creazione di un nuovo ordine simbolico, a partire da sé, ha permesso alle donne di pensare al di fuori dall’ordine patriarcale prestabilito, e di dare vita così a un linguaggio proprio, nuovo, vivo, vissuto, ardente, politico, sessuato. Prendendo in prestito un’espressione di Adriana Cavarero, «eliminando la parola donne si elimina il soggetto che ha davvero compiuto la rivoluzione»1. Anche parlare della vittoria delle donne come di un trend passeggero cancella la storia del femminismo, oltre che rinforzare la posizione neoliberista che il femminismo possa diventare l’ennesimo brand, operazione che sta sfociando in ideologia da più parti, consegnandoci sui media di ogni genere una versione semplificata, altamente digeribile oltre che politicizzata (per non dire strumentalizzata) del “femminismo” contemporaneo. Ma il punto non è solo la storia e la portata del femminismo, a cui dobbiamo riconoscere ed essere grate per il cambiamento sociale a cui assistiamo: è l’esistenza di una società femminile, a cui tutte le donne e tutti gli uomini partecipano attivamente. Nelle parole di Luisa Muraro, «prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo»2. Se a vincere lo Strega è una donna anche quest’anno (Donatella Di Pietrantonio con L’età fragile) lo dobbiamo anche, e soprattutto, all’esistenza di questa società, ed è questa la più grande rivoluzione. Se teniamo presente infatti che «la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse», come afferma sempre Muraro, è evidente che il futuro non sarà affatto riaffacciarci sul panorama uggioso del neutro, ma continuare a salpare verso rotte nuove e inesplorate, alla ricerca di parole che provengono da dentro di noi, che sono corpo e che in quanto corpo tracciano un cammino, lo segnano, lo animano. Sono parole che noi donne andiamo in giro scovando e che germogliano dall’interno quando incontriamo l’Altra e l’Altro, nella scintilla del dialogo, dello scontro, dello scambio, del corpo a corpo. Fare società femminile, e poi femminista, è anche questo, generare nella mediazione, saper confliggere, e imparare da questo processo. Inanellando parola dopo parola, corpo dopo corpo, ne sta giovando oggi anche il panorama letterario, che non sempre coincide però con quello intellettuale, e su questo dovremmo ancora lavorare facendo uno sforzo in più nel creare confronti e spazi di conversazione. Vedo nella possibilità di un confronto con autori come Siti, tuttavia, nella sopita città di Milano, un’opportunità di moltiplicazione del senso libero del partire da sé nell’incontro con l’alterità della soggettività altrui. Perché il contrasto, non inteso come ostacolo ma come componimento, è un qualcosa da tenere vivo, tantopiù in un mondo in cui espressioni come “disparità di genere”, grazie alla libertà femminile, si sono svuotate di senso. La logica della spartizione dei poteri edificata dalla cultura maschile deve essere finalmente superata con prospettive nuove, tra cui la possibilità proprio di rapporti diversificati e forti, «rapporti dove le diversità entrino in gioco come una ricchezza e non più una minaccia»3[3]. A questo proposito, come ha scritto la Libreria delle donne di Milano già negli anni Ottanta, la “disparità”, se vista dalla prospettiva relazionale tra donne, diventa un’attribuzione di valore e una vera e propria pratica femminista. Tolto il bisogno di sentirsi alla pari non solo con l’uomo ma con le altre donne, entra in gioco quel “di più” che ognuna di noi ha con sé, ed ecco che il nostro essere diverse ci appare come una risorsa e una leva nei nostri rapporti a fare di più, meglio e insieme. Ed è così che una parola logora assume un nuovo, scintillante significato.


  1. A. Cavarero, Mai dire donna, intervista di P. Tavella, in Il Foglio, 16 agosto 2023, https://www.ilfoglio.it/societa/2023/08/16/news/mai-dire-donna-la-filosofa-femminista-adriana-cavarero-contro-la-neolingua-che-parla-di-persone-con-utero–5590326/ ↩︎
  2. L. Muraro, Imparare a parlare bene delle donne, in Via Dogana 3, maggio 2018, https://puntodivista.libreriadelledonne.it/imparare-a-parlare-bene-delle-donne/ ↩︎
  3. Sottosopra. Più donne che uomini, Libreria delle donne, gennaio 1983. ↩︎

Da il manifesto – Troppo facile vantarsi a urne chiuse e risultati festeggiati, ma ho sempre dubitato dell’attesa grande vittoria della signora Le Pen. Arrivata prima alle elezioni europee, certo. Ma altrettanto certamente non gradita alla maggioranza degli elettori, quel circa 69 per cento che non l’aveva votata. E tanti altri tra i non votanti, che poi sono in parte corsi alle urne proprio per manifestare questa scelta: non possiamo consegnare il paese alla destra estrema.

Inoltre, detesto Macron e il suo modo di fare politica, ma quando ha deciso di andare subito al voto non nego di aver apprezzato il suo coraggio tattico, e forse più che tattico. Un primo risultato paradossale è stato spingere la sinistra a unirsi e a diventare motore della reazione al rischio di destra.

Qui in Italia, alla vigilia del secondo turno, c’è stato un proliferare di voci preoccupate sul rischio che si rimanesse abbagliati da questa sinistra francese, larga, plurale, e sbilanciata verso il partito dell’esecrabile Mélenchon. Il quale però, tra uno slogan a effetto e l’altro, ha detto subito che bisognava fare le desistenze a favore degli odiati macroniani contro i candidati del Rassemblement National.

Un estremismo stranamente realistico? Mi è già capitato di ricordare che anche il Marx del “manifesto” scriveva che i comunisti, laddove siano in gioco alleanze determinanti per gli interessi di classe, scelgono “i democratici”.

I problemi oggi sono diversi da quelli aperti nel 1848. Ma non proprio del tutto. L’aspetto farsesco della situazione mi sembra questo: Tony Blair si è precipitato a dare una serie di “consigli”, con uno scarso senso dell’opportunità, al neo primo ministro laburista Starmer, che forse si è sbilanciato in affermazioni troppo di sinistra, come chiedere un cessate il fuoco a Gaza e il riconoscimento di uno Stato ai palestinesi, il rifiuto di proseguire la politica di deportazione di immigrati in Africa. Blair insiste invece sulla priorità di reprimere l’immigrazione irregolare per non rischiare il successo del populismo di Farage.

Riecco la ricetta oltre che assurda mi sembra già usurata: la sinistra può vincere contro la destra attuando direttamente, e più rigorosamente, le sue stesse politiche!

La sinistra invece dovrebbe sottrarre alla destra il voto che una parte sempre troppo ampia dei cittadini le assegna dando risposte diverse al disagio che soprattutto strati popolari e di ceto medio impoverito esprimono con quel voto.

Qui ci vorrebbe un pensiero a sinistra molto radicale, per riconiugare da capo parole appesantite da qualche secolo di fraintendimenti più o meno tragici: capitalismo e mercato.

Il capitalismo, per dir così abbandonato a se stesso, cioè all’egoismo materiale e alla competizione accesa fino alla guerra, non funziona. Distrugge il pianeta e per quanta ricchezza monetaria e materiale produca, solo in troppo piccola parte viene redistribuita, e comunque costringe a un modo di vivere che alla fine produce infelicità e malattie.

Ma bisognerebbe prendere finalmente atto che il rimedio non può essere quello di immaginare un potere supposto saggio che rimette il mondo a posto facendo decidere tutto allo Stato, limitando se non eliminando il mercato.

Andrebbe ripresa una intuizione troppo dimenticata del femminismo della differenza quando ha detto che al mercato, per sovvertirlo, bisogna portare tutto: non solo lavoro, merci e denaro, ma sentimenti, affetti, relazioni, capacità di gestire non mortalmente i conflitti, e i desideri più profondi.

Non solo regole, necessarie, per mitigare il suo carattere selvaggio (oggi invocate anche da chi il capitalismo lo difende). Ma una vera rivoluzione simbolica.

Caro Presidente,

siamo due donne legate da un’amicizia politica più che ventennale. Una di noi vive in Calabria, a Catanzaro, l’altra in Veneto, a Spinea (Venezia). La nostra relazione politica, fatta di scambio, fiducia, stima, affetto e amore per il mondo, ci ha tenute sempre unite, nonostante la distanza geografica. Entrambe ci sentiamo prima di tutto donne e poi cittadine di questo Paese dove siamo nate, cresciute e abbiamo vissuto la nostra vita, restando fedeli a noi stesse. Abbiamo deciso di scriverLe per avere da Lei una risposta a domande che ci siamo poste dopo che ha firmato, senza alcun rilievo, la legge approvata dalla Camera sull’autonomia differenziata. Ci siamo chieste: «Il presidente della Repubblica non è il garante dello Stato e dell’unità nazionale (art. 87 della Costituzione)? Non è dovere dello Stato assicurare a tutte/i le/i cittadine/i uguali diritti (art. 3 della Costituzione)? Lo Stato non ha il dovere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza?» Presidente ritiene che l’autonomia differenziata risponda a questi dettati costituzionali, di cui Lei è il garante? Non siamo due costituzionaliste ma sappiamo leggere la realtà con sapienza femminile, a partire dalla nostra esperienza. Capiamo, per esempio, che quella legge demolirà il tanto o poco di buono che ancora resta del Servizio Sanitario Nazionale, voluto da una donna, la Ministra Tina Anselmi, che aveva come principi fondanti la solidarietà, l’universalismo e la gratuità delle cure per tutte/i, da Nord a Sud. Sappiamo come il primo colpo per indebolire e frantumare quel sistema, come la pandemia da Covid19 ci ha mostrato, l’hanno dato la riforma dell’art. V (n. 3/2001) della Costituzione e l’introduzione in essa del pareggio di bilancio (20.04.2012). L’autonomia differenziata, che dà a ogni regione la possibilità di trattenere e spendere le entrate fiscali esclusivamente all’interno di sé stessa e non più distribuirle a livello nazionale, rilancerà o distruggerà definitivamente quel sistema sanitario? Lei come noi conosce le disuguaglianze tra Nord e Sud, tra la Calabria e il Veneto, il cui presidente Zaia si è già affrettato a chiedere 9 deleghe delle 23 previste, e per la sanità il problema non è garantire alle regioni ricche del Nord una sanità di eccellenza e al Sud i Livelli Essenziali di assistenza (LEP). Noi, come Tina Anselmi, pretendiamo una buona sanità uguale per tutte/i, da Nord a Sud dove, tra tanti disastri e mala politica, non manca la buona sanità. Io l’ho trovata a Catanzaro al Centro oncologico “Ciaccio-De Lellis” dove sono stata curata con professionalità e umanità dal dottore Stefano Molica e dal personale infermieristico. Non ho avuto la necessità di emigrare al Nord, come sono costrette tante/i calabresi. L’autonomia differenziata fermerà l’emigrazione sanitaria o l’aumenterà? Le eccellenze che abbiamo anche nel Sud da chi saranno garantite? I mali che Lei e noi conosciamo della sanità pubblica – carenza di posti letto, mancanza di personale medico e infermieristico, costretto a turni massacranti, lunghe liste d’attesa che spinge chi se lo può permettere a rivolgersi a pagamento al privato e chi no a restare in attesa o rinunciare a curarsi, anche nel ricco Nord – chi li risolverà? La fiscalità regionale con le assicurazioni private che lucrano solo profitti, come negli USA? No, tutto andrà per il peggio. E che dire della scuola, Presidente? Ogni regione avrà il suo sistema scolastico finanziato dalla fiscalità regionale e dalle Fondazioni private? È questa l’unità nazionale di cui è garante? Presidente, noi siamo propense a pensare che quella legge non la doveva firmare, perché l’ha fatto?

Con cordialità

Franca Fortunato e Adriana Sbrogiò

(Quotidiano del Sud Calabria, 6 luglio 2024, rubrica “Io, Donna” curata da Franca Fortunato)

Franca Fortunato e Adriana Sbrogiò fanno parte della rete delle Città Vicine. Questa lettera si può firmare: https://chng.it/tZBNY6JvjW

Riprendo l’idea espressa da Vita Cosentino, e cioè che c’è un difetto del senso di differenza. E specifico che io registro un difetto del senso della differenza sessuale che non sia ridotto a un pensiero dicotomico. 

Come ha fatto notare Chiara Zamboni nel suo libro Parole non consumate (Liguori 2001), molte culture, tra cui la nostra occidentale, si fondano su simmetrie e opposizioni: alto-basso, chiaro-oscuro, vero-falso. Il linguaggio dominante, come spiega Zamboni, descrive anche «le posizioni simboliche delle donne e degli uomini come parallele, simmetriche e oppositive», in realtà invece sono caratterizzate da uno squilibrio, da un’irriducibile asimmetria. L’autrice racconta come in un incontro con uomini e donne dove tutti sembravano aver accettato come vera quell’asimmetria, nella discussione scivolavano in modo inconsapevole nelle contrapposizioni: «gli uomini…, all’opposto le donne…» Questa “dicotomizzazione del mondo” è stata ampiamente discussa anche da Ina Praetorius che ne ha tracciato la storia a partire da Platone e Aristotele dimostrando come la nostra cultura ne sia profondamente segnata ancora ai giorni nostri (Ina Praetorius, L’economia è cura. La riscoperta dell’ovvio, IOD Edizioni 2016). Maschile e femminile sono inglobati dentro uno schema che divide il mondo in alto e basso, natura e cultura, immanenza e trascendenza… 

Tutto nella logica dell’uno nella quale un’asimmetria può essere concepita al massimo come complementarità oppure come svantaggio delle donne, da riparare, per portarle alla parità.

Questa logica è stata rotta radicalmente da Carla Lonzi che ha scritto in Sputiamo su Hegel del 1970: «La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano». E aggiunge: «Questo è il punto su cui difficilmente arriveremo a essere capite, ma è essenziale che non manchiamo di insistervi» (p. 42).

Anche dopo Carla Lonzi, il movimento delle donne ha prodotto testi importanti che ripropongono la questione di fondo della differenza sessuale, «come può significarsi l’essere donna, come può uscire dalla sua intimità senza parole, in un ordine simbolico che definisce il soggetto di sesso femminile per opposizione e somiglianze con il soggetto maschile, e questo per sé medesimo?» (Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, p. 33). L’asimmetria tra i sessi è stata messa in luce da Luisa Muraro con il fatto che tutte e tutti siamo nate/i da una donna, le bambine dello stesso sesso della madre e quindi nel continuum materno, dal quale i maschi sono estromessi. Luce Irigaray ha approfondito in moltissimi testi l’idea della genealogia femminile, sviluppata poi nella pratica e nel pensiero della Libreria delle donne, e io e altre ci siamo ritrovate su questa strada della libera espressione della differenza che rompe tutti gli schemi, stereotipi e attribuzioni di ruoli e che mi ha autorizzata a essere come sono e ad amare chi voglio.

Oggi invece la logica dell’antitesi viene sempre più acutizzata, anche dai social media che non permettono posizioni differenziate creando solo opposizioni e schieramenti.

Il linguaggio che opera con il sistema oppositivo è sfociato direttamente nell’idea del binarismo che oggi per molte e molti sembra una possibile sistemazione della differenza sessuale. Di fronte a questa narrazione mi chiedo come il sistema binario, concetto che richiama il linguaggio informatico (anche se di origini più antiche), un’idea di massima astrazione, rigidissima, possa parlare di un’esperienza viva! E spesso mi trovo in difficoltà quando mi dicono che il pensiero della differenza sarebbe binario e io devo rettificare ogni volta, spiegare che non è biologismo, ma libera espressione di sé. Aveva ragione Carla Lonzi quando diceva che questo «muoversi su un altro piano è il punto su cui difficilmente arriveremo a essere capite». Mi sento intrappolata nella polarizzazione, che è una trappola per il pensiero di tutte e di tutti. Secondo me oggi il discorso politico e culturale dominante rischia di rimanere bloccato in questa gabbia, e temo che ci rimanga intrappolato anche chi vuole uscire dai percorsi prestabiliti definendosi non binary. Questo concetto è recentemente entrato anche nella cultura pop, da quando il cantante svizzero Nemo ha vinto l’Eurovision Song Contest, una specie di Sanremo europeo. Il pubblico è rimasto affascinato dalla sua estrema bravura nel canto e nello show (anch’io), ma altrettanto colpito dalla sua “identità non-binaria”, espressa non solo dai vestiti rosa ma anche dalla sua canzone che recita I broke the code, ‘ho infranto il codice’, che sarebbe quello dicotomico maschile-femminile. Ma non è depotenziante per il proprio essere, per la propria originalità, definirsi in negativo rispetto a un sistema che si reputa pienamente vigente e determinante per sé? 

Sembra che non ne usciamo più dalle opposizioni, anzi, se ne aggiungono sempre altre, sovrapponendosi a quelle esistenti e creando un disordine incredibile, una spirale micidiale. L’ultima coppia di opposti che è entrata nel discorso sulla differenza sessuale, già distorto dal pensiero binario, è quella destra-sinistra. Certo, scontiamo il fatto che la sinistra, in cui il femminismo è nato, per eccesso di ugualitarismo ha sempre avuto difficolta a concepire il pensiero della differenza come forza propulsiva per cambiare il mondo, mentre la destra nazionalista l’ha intercettato, per sfruttarlo spudoratamente a suo favore, stravolgendo il senso delle parole – come del resto fa da sempre il capitalismo. Ora, in una specie di cortocircuito mentale, chi parla di “donne” e “uomini” viene considerata/o di destra! Distorsioni su distorsioni che creano risentimenti e diffidenza anche all’interno del femminismo, bloccano il libero scambio e l’apertura verso l’altra/o e portano all’impossibilità di decifrare la realtà. 

C’è sempre più bisogno di un pensiero fuori dalla logica oppositiva. Il pensiero della differenza sessuale è quello che è a portata di mano di tutte e di tutti e che non scansa il nostro sentire e la nostra esperienza. A partire dal nostro essere sessuate/i che in ogni contesto storico si mostra in altre forme e con altri sintomi che vanno interrogati. Con il lavoro di VD3 continuiamo a riflettere su cosa ne è del desiderio femminile, della relazione tra donne e tra donne e uomini nel nostro disordinato presente post-patriarcale. Abbiamo riscontrato un forte interesse nelle persone più giovani a confrontarsi a partire da sé, invece di posizionarsi di qui o di là, sotto una bandiera o sotto l’altra. E non è un caso che oggi molti giovani donne e uomini (ri)scoprano Carla Lonzi, le cui parole trovano in loro risonanza. E io continuo a sentire il bisogno di un ulteriore lavoro di pensiero, per mettere meglio a fuoco quell’asimmetria della differenza sessuale che per me è la chiave per poter pensare altre differenze al di là o meglio al di qua delle antitesi.   

Vorrei partire dalla frase con cui si è conclusa la riunione, che ricordo così: «Noi non stiamo vivendo una guerra. Questo deve esserci chiaro: noi non stiamo vivendo una guerra».  

Parto da qui perché per me il punto cruciale è proprio questo: che cosa stiamo vivendo? E subito mi sembra di non avere molte parole. Per dire quello che provo di fronte a una guerra (anzi due) che forse non stiamo vivendo, ma che mi riguarda. E già in queste quattro sillabe (“mi riguarda”) c’è dietro un mondo, di sguardi appunto, o cecità, rimandi, connessioni. Che mondo è? E cosa provo? Rabbia? Paura? Spaesamento? Non bastano, non dicono, non aprono pensiero. Ci sono molte guerre nel mondo di cui probabilmente sappiamo ben poco, almeno io che gli sottraggo sguardo. Ma queste due, in Ucraina e in Palestina, coinvolgono il mio quotidiano, il mio stare nelle cose mentre lavo i piatti, mentre guardo un telegiornale, mentre scelgo che libro leggere, mentre parlo. Ho scoperto uomini e donne, che stimo, ingrovigliati nell’apparente imperativo di prendere posizione. Ho scoperto me stessa, nel parlarne, inchiodata dai miei interlocutori a pensieri o posizioni che non ho, come se non ci fosse altra possibilità che schierarsi. Questo la guerra lo fa. Prima ancora di cancellare corpi e vite, cancella le mediazioni, la complessità: polarizza, astrae, semplifica. Non tanto e non solo fuori di me, ma dentro, nascostamente. Si insinua il dubbio che non ci sia alternativa allo schieramento, da una parte o dall’altra, pena la condanna all’irrealtà, all’utopia, a una qualche idea di pace non vera, non possibile perché slegata dal reale, dalla Storia.

Mi sono sentita chiamare dall’intervento da Vita Cosentino, dalla sua dichiarata difficoltà a prendere parola sulla guerra. E mi tremava la voce, perché sapevo di non avere nulla da offrire di sensato, se non domande, necessità, bisogni magmatici (poco salvifici in fondo, poco stimolanti).  Eppure questa necessità la sento nella carne: dare parola a quello che viviamo. Proprio a quello che donne stiamo vivendo rispetto alla guerra, qui e ora. 

Come si vive una guerra a distanza? Fenomeno relativamente nuovo, dovuto alla pioggia, anzi alla tempesta di informazioni e immagini che piovono dal cielo, quasi come bombe. Da anni ormai, abbiamo l’impressione di vivere quasi in diretta stragi, bombardamenti, la conta dei morti, le case distrutte. Ricordo le immagini delle prime bombe “intelligenti” su Bagdad nel 2003. Era già successo, ma mi accorsi per la prima volta della “bellezza” di quelle immagini, le luci perfette, perfetti i colori, la messa a fuoco, la stabilità della telecamera. Come in un film. E come un film ipnotizzava. Praticamente in diretta e quasi in mondovisione, come le partite di tennis o di pallone. Sei lì, partecipi, ma non ci sei. Sono scaraventata lì, partecipo, ma non ci sono. Che razza di esperienza è? Cosa significa nella mia vita? Far parte di un paese che invia armi per la difesa di un paese amico invaso? Lo stesso paese (il mio) che appoggiò l’invasione dell’Iraq in una guerra preventiva, le cui motivazioni, si ammette dopo vent’anni senza troppo scalpore, erano false? Che luogo abito, o mi abita? Uno spazio nel quale, soprattutto, le notizie che arrivano non so più, non ho modo di sapere se sono vere o false? 

Non sono analitica. Nel senso che non riesco a usare capacità analitiche per aprire uno squarcio creativo, di pratiche, azioni, parola, di cui sento il bisogno, enorme. Ma sono grata agli interventi che hanno analizzato l’uso della lingua in questo momento nei media. Grata al prezioso intervento registrato di Giulia Siviero e Ida Dominijanni, che svela sapientemente i meccanismi, le dinamiche della finzione, della costruzione ideologica di ogni racconto sulla guerra. Penso alla verità, a questa parola che mi si frantuma tra le labbra. E svela la sua inconsistenza (sicuramente più antica di quel che credo). Tanto che la ricerca della parola come verità, in un momento storico in cui nulla è fermo, ma tutto si muove e si confonde, rischia di essere fuorviante, di chiudermi, chiuderci nella stessa logica di opposizione dalla quale desidero uscire. Faccio un esempio. Quando Paola Mammani si è alzata e ha detto in modo perentorio: «Non siamo in guerra, questo deve esserci chiaro!», ho pensato ce l’avesse con me. E subito: ma io non ho detto questo! E perché dice che non stiamo vivendo una guerra? Non è vero! La viviamo invece, eccome! Forse in altro modo senza saperlo…

Per fortuna la riunione è finita. E dopo pochi minuti ho potuto riconoscere come funzionava in me l’abitudine malata, contratta quasi per osmosi, di pensare secondo una logica di opposizione: questo sì, questo no, vero/falso, giusto/sbagliato, democrazia/totalitarismo. 

Vado per salti, lo so e me ne scuso. Ma riesco a pensare solo così, saltando da un livello all’altro. Un pensare ballerino, salto a ostacoli, a dimensioni. Provo a prendere pausa, respirare e spiegarmi.  Ho tentato di pensare, non da sola, alla necessità di un universale donna, di una parola autorevole come quella divina. Le guerre gli uomini le fanno in nome di Dio, della patria, della democrazia, della giustizia. In nome di cosa posso fare la pace io donna? Un salto in alto, a cui non sono allenata. Mi faccio piccola allora, salto nella pozzanghera, nel piccolo stagno, nella minuscola palude in cui affondano i piedi. E mi mancano le parole delle palestinesi, delle ucraine, delle madri dei soldati russi, persino quelle dei soldati, per capire cosa sta accadendo, cosa mi accade in questa distanza prossima, o vicinanza lontana, attraverso la quale passano emozioni senza voce, guidate da un narrare falsato e parziale, ma passano eccome e fanno male. Mi mancano parole di donne a me fisicamente vicine, spesso sospese tra il silenzio, che momentaneamente evita quel male, e la voglia di opporsi, di prendere posizione. Parole che dicano semplicemente cosa e come stiamo vivendo, o vogliamo vivere in questa guerra (a distanza). Mi manca il vissuto. E non credo in una verità senza vita, così come in una lingua che fatica a dire l’esperienza. 

Provo sconnessamente a dirne e chiedo. Per favore, continuiamo a parlarne.

Da più di vent’anni collaboro con Il Quotidiano del Sud – Calabria dove dal 2019 ho una rubrica settimanale che ho chiamato “Io, Donna”, nata dal mio desiderio. La redazione di Via Dogana è arrivata una settimana dopo il convegno a Torreglia dal titolo “Incontriamoci… così come siamo… sulla soglia”, organizzato da Identità e Differenza e dalle Città Vicine. In quella occasione ho raccontato il senso politico della mia scrittura, che ben si lega al tema “Lingua è politica” di cui abbiamo discusso nella redazione. La rubrica oggi è il mio luogo privilegiato in cui faccio politica – per me scrivere è sempre stato un atto politico – che porto avanti con le pratiche del femminismo: partire da sé e relazione. Mi relaziono con le donne a cui mando i miei articoli, con la redazione del sito della Libreria delle donne a cui li faccio arrivare con la mediazione di Clara Jourdan, e a volte vengono pubblicati.  

Mi relaziono in particolare con Katia Ricci della Comunità di Storia vivente di Foggia. A lei faccio leggere i miei articoli prima di inoltrarli al giornale, ne parliamo, mi dà suggerimenti e io mi affido al suo giudizio. Una pratica che mi dà forza e sicurezza. Di fronte a ciò che succede nel mondo e di cui voglio scrivere non sono obiettiva ma mi ci metto dentro, mi faccio coinvolgere con il mio sentire, il mio sapere, i miei sentimenti, le mie passioni, il mio femminismo. Insomma mi lascio toccare dalla realtà che cerco di leggere e capire, facendomi aiutare dalle parole di donne del passato e del presente a cui faccio riferimento. Scrivo sempre dopo essermi data un tempo di silenzio, di cui ho bisogno per capire quello che mi sta a cuore e trovare le parole giuste per dirlo e farmi capire da chi mi legge. Infatti, non dimentico mai che sto scrivendo per un quotidiano. Immergermi nella realtà con tutta me stessa fa tutt’uno con la lingua sessuata che uso per narrarla. Quando molti anni fa da docente di filosofia chiesi a Luisa Muraro come insegnarla, lei mi rispose: «Tu insegni la filosofia che sei». Ecco, io parlo e scrivo la lingua che sono, la donna che sono, donna della differenza sessuale.

Quando sono arrivata al giornale, il direttore mi consegnò un “Prontuario per l’unificazione del linguaggio” in cui il linguaggio neutro maschile era la “norma”. Sin da allora mi sono autorizzata a non seguire quel prontuario e a scrivere nella mia lingua. Ero l’unica a usare il linguaggio sessuato ed è capitato che donne della redazione lo correggessero, ritenendolo sbagliato. Spiegai loro che quella era la mia lingua che rendeva riconoscibili i miei articoli, correggerla voleva dire che quegli articoli non mi appartenevano più perché non rispecchiavano la mia soggettività. «Io non vi dico di scrivere come me ma lasciatemi la libertà di scrivere come voglio». E loro me l’hanno lasciata.

Più volte ho scritto pezzi sul senso dell’uso del linguaggio sessuato, partendo dalla cronaca. L’ ultimo “Quando una donna slega la parola dal suo corpo”, in risposta alla richiesta di Giorgia Meloni di essere chiamata al maschile, richiesta che ha cercato di imporre ai giornali e ai tg della Rai con una circolare ai direttori, ma non tutti/e hanno obbedito. Meloni parla il linguaggio che è, una donna fieramente emancipata in un mondo di uomini qual è il suo partito, che non a caso si chiama “Fratelli d’Italia”, e qual è il potere che lei ha scalato fino a rompere il tetto di cristallo per essere, sulla guerra, prova da sempre di virilità per gli uomini, più realista del re nei comportamenti e nel linguaggio bellicista. Ma non è l’unica. È vero che molte parole sessuate al femminile che nel passato facevano sorridere oggi vengono utilizzate da giornaliste/i anche nel mio giornale, ma molta è ancora la confusione, che è disordine simbolico, per cui in una stessa pagina o nello stesso articolo si alternano parole al femminile e al maschile neutro.

La mia esperienza di docente mi ha insegnato che il linguaggio sessuato si può insegnare, io l’ho fatto con il testo di Alma Sabatini, ma non lo si può imporre, lo si può solo mostrare parlandolo. Questo vale anche per le/i giornaliste/i per cui credo che i corsi di formazione, senza una trasformazione di sé, non siano sufficienti. A tal fine non aiuta né il linguaggio paritario né quello “inclusivo” che di fatto cancellano la soggettività femminile.

La questione essenziale, per me, resta cosa e come vogliamo narrare la realtà e questo vale soprattutto per la guerra dove è vero che è prevalso il linguaggio militarizzato, che ha lasciato ai margini quello della vita con cui donne e uomini, le cui storie sono centrali nei miei articoli, sin dall’inizio si sono opposte/i alla guerra, in Ucraina come in Russia. Il fatto che in Tv a parlare di guerra vengono invitati più giornalisti che giornaliste, sempre gli stessi, è funzionale alla narrazione che si vuole fare passare, zittendo e insultando chiunque se ne discosti, con l’accusa di “putinismo” e adesso di “antisemitismo”, se si parla di “genocidio” per Gaza. Giornalista coraggiosa è Francesca Mannocchi, i cui reportages che leggo sempre, su Gaza, Cisgiordania e Israele, mostrano una donna che si lascia toccare dalla tragedia della guerra che racconta con i volti, le storie, le sofferenze delle vittime e le brutalità e la violenza dei carnefici, chiunque siano. Una donna la cui autorevolezza non le viene dalla rottura del tetto di cristallo né dalla pubblicazione dei suoi reportages in prima pagina, ma da come si autorizza a narrare ciò che il suo sguardo di donna vede.

Noi donne nei giornali ci siamo, credo siamo la maggioranza, e siamo anche brave, resta però il problema di come ci stiamo là dove siamo. Io non ho mai fatto parte di una redazione, i miei articoli poche volte sono stati pubblicati in prima pagina, ma questo non mi ha mai fatto sentire ai margini. L’essenziale, per me, è avere la libertà di scegliere cosa raccontare e come, nella lingua che mi è propria.  

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Nellie Bly

Da il manifesto – Il giornalismo sotto copertura lo ha inventato una donna. Nel 1880 Nellie Bly (nella foto), pseudonimo di Elizabeth Cochrane, si finse pazza per farsi internare nell’ospedale psichiatrico di Manhattan. Da dentro poté vedere e raccontare per il New York World di Joseph Pulitzer le condizioni in cui erano tenute le ricoverate. Donna era Barbara Ehrenreich, giornalista, scrittrice e attivista che per mesi lavorò in incognito per un’impresa di pulizie, esperienza raccontata in Una paga da fame: come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo. Quando è morta, nel 2022, il New York Times l’ha definita una «Esploratrice del lato oscuro della prosperità».

Donna è la francese Florence Aubenas che nel 2009 si iscrive a un ufficio di collocamento di Caen per svolgere un’inchiesta sulla reale situazione dei disoccupati in Francia. Ne uscirà un libro intitolato Le quai de Ouistreham, da cui è tratto un film con Juliette Binoche e diretto da Emmanuel Carrère. Donna è la giornalista di Fanpage che si è finta adepta di Gioventù nazionale per raccontare la realtà razzista e antisemita che anima il gruppo giovanile del partito di Giorgia Meloni.

Poiché nel mio piccolo anch’io ho dieci anni di esperienza come inchiestista in incognito, so che cosa significa infilarsi in luoghi che sarebbero di difficile accesso se ci si presentasse con la reale professione. Al di là dell’identità da darsi, dell’aspetto o dell’atteggiamento da assumere, il giornalismo undercover è prezioso perché può raccontare una realtà dal di dentro, senza maschere, senza filtri. Si può scoprire l’imbroglio, la corruzione, il ladrocinio, la violenza, oppure viene a galla il non detto che è sotto gli occhi di tutti, ma che si preferisce ignorare.

È, questa, l’esplorazione del lato oscuro di cui parla il New York Times e proposito della Ehrenreich che non svelò nulla di illecito, ma gettò in faccia all’America il suo lato rapace, la sua capacità di sfruttare il lavoro senza farsi domande perché così va il mondo, perché la legge te lo permette e quindi ti assolve.

Qui devo dirlo, c’è una diversa sensibilità anche fra giornalisti e per spiegarlo mi tocca raccontare un’esperienza personale. Quando lavorai in incognito come cameriera ai piani in un grande albergo di lusso a Milano, proposi l’inchiesta a un importante settimanale di politica e attualità le cui firme erano soprattutto di uomini. Mi risposero che sì, era interessante, ma in fondo raccontava solo che culo si fanno le cameriere d’albergo e lo rifiutarono perché non faceva notizia. Pubblicai con un’altra testata, anche quella con parecchie firme maschili, ma più sensibili agli anfratti della società e vinsi il premio cronista dell’anno per la Lombardia. Entrambe le testate erano di sinistra.

Se le inchieste di Günter Wallraff, che si finse operaio, alcolista, studente in cerca di alloggio, o quelle di Fabrizio Gatti che si è infiltrato nelle rotte dell’immigrazione irregolare, nel caporalato dell’agricoltura e dell’edilizia hanno svelato le illegalità e irregolarità di un occidente a cui i disperati fanno comodo, quelle delle giornaliste finte donne delle pulizie o finte pazze o finte lavoratrici precarie mostrano la parte indecentemente tollerata della società in cui viviamo.

È una realtà che a volte si nutre di indifferenza, altre viene subìta o combattuta, altre ancora è votata. Quando qualcuno fa cadere le maschere si produce un gioco di specchi e siccome non sempre gli specchi rimandano un’immagine edificante, a qualcuno fa più comodo additare non ciò che è stato svelato, ma chi ha tolto quel velo.

Da Il Quotidiano del Sud – Scrivo per esprimere la mia solidarietà e il mio sostegno all’archeologa Maria Teresa Ianne, direttrice della Biblioteca calabrese di Soriano, piccolo borgo a pochi chilometri da Vibo Valentia, mia città natale. Nei giorni scorsi la vicenda della biblioteca e della sua direttrice è arrivata alle cronache nazionali per aver contrastato il sindaco che voleva cambiare la serratura con l’intenzione di chiudere la biblioteca e farla “sloggiare”. Lei si è opposta energicamente, ha mandato via il falegname e si è barricata dentro per difendere con il suo corpo l’amore per i libri e per la Calabria. A quel punto, il sindaco è accorso con aria “feroce” con degli impiegati e, indispettito perché aveva mandato via il falegname, le intima di “sloggiare”. La direttrice per difendersi chiama il 112, i carabinieri accorrono e liberano lei e i libri dalle intenzioni del sindaco. «La biblioteca – dice la direttrice in un’intervistata al Fatto Quotidiano (24 giugno 2024) – ha bisogno di libri e non di serrature». Come mai un sindaco appena eletto alle ultime amministrative, come primo atto si occupa della biblioteca per fare “sloggiare” la direttrice, che presta servizio da volontaria, e chiuderla definitivamente? Il suo gesto, come spiega la direttrice, «documenta la ritorsione ignorante, in un paese dominato dalla ’ndrangheta». Ritorsione nei confronti del suo avversario politico, fondatore della biblioteca, in un paese il cui consiglio comunale è stato sciolto due volte per infiltrazioni mafiose, l’ultima prima delle elezioni. Un gesto di ignoranza ma anche di mancanza di amore per la Calabria. La biblioteca, infatti, la cui storia inizia nel 1979 come Centro culturale del folklore e delle tradizioni popolari di Soriano e divenuto Istituto della Biblioteca calabrese nel 1992, possiede documenti rari, testi autentici, cinquecentine calabresi, incisioni, testi del XVII e XIX secolo. Un patrimonio che conta 31.265 volumi a disposizione di ricercatrici e ricercatori, di intellettuali e di chiunque ami la cultura, se solo la biblioteca venisse riaperta al pubblico. Da un anno, infatti, è chiusa perché «si è scoperto che non è rispettata la normativa antincendio» e le uniche a cui è concesso entrare sono la direttrice e l’impiegata che sta digitalizzando. Quell’immobile, dato alla biblioteca in comodato d’uso tanti anni fa, non appartiene al sindaco ma alla comunità di Soriano, la biblioteca non appartiene al sindaco ma a chi la dirige, la frequenta e la tiene in vita. Il sindaco come primo atto avrebbe dovuto cominciare a mettere a norma l’edificio, restituire al pubblico la biblioteca e ringraziare la direttrice per averla tenuta in vita anche se chiusa. Invece ha pensato di intervenire per farla “sloggiare”. La direttrice giura che lei non abbandonerà il suo posto e c’è da crederle. Chiudere una biblioteca, per ripicca o altro, è segno di disprezzo per i libri, un gesto che ci riporta alla memoria tempi bui di un passato che non passa, in cui ci sono state donne e uomini coraggiosi che hanno salvato la loro biblioteca per amore dei libri, come la direttrice, le bibliotecarie e i bibliotecari della biblioteca americana di Parigi, American Library, che durante l’occupazione nazista e la seconda guerra mondiale non solo hanno resistito all’ordine di chiuderla ma hanno continuato a fare circolare i libri, anche quelli “proibiti”, salvandoli dal rogo. Una storia straordinaria che ho avuto modo di raccontare recensendo il romanzo “La biblioteca di Parigi” di Janet Skeslien Charles.

Una storia di coraggio e di amore che oggi ritrovo nella direttrice della biblioteca di Soriano, che va aiutata e non lasciata sola per salvare la biblioteca, bene comune, dalla chiusura definitiva.

Da Corriere dello spettacolo – Nel Chiostro “Nina Vinchi” del Piccolo Teatro di Milano si è svolta la dodicesima edizione della Rassegna teatrale Anima Mundi. Ho ricordato al pubblico che il Premio nasce nel 2010 con l’intento di offrire al pubblico e agli addetti ai lavori una rassegna, una mini-vetrina non certo esaustiva ma significativa, di opere di qualità scritte da autrici affermate ma anche esordienti. Dopo i doverosi ringraziamenti a: il Comune di Milano, nella persona dell’Assessore alla Cultura, dott. Tommaso Sacchi e alla Coordinatrice all’Assessorato, dott.ssa Antonella Amodio, al dott. Andrea Barbato, Responsabile degli Eventi Speciali del Piccolo Teatro, ho ringraziato la U.I.L.T. (Unione Italiana Libero Teatro), che da sempre ci sostiene e sostiene il Teatro tutto con le sue centinaia di compagnie sparse sul territorio. A rappresentare la stessa UILT ho invitato sul palco la regista Lara Panighetti e l’attrice Raffaella De Martino della Compagnia GHOST di Bollate che hanno parlato della commedia, già rappresentata con successo, intitolata Madri interrotte in cui quattro donne, chiuse in un centro di recupero, confrontano le loro drammatiche, anche estreme, esperienze.

Entrando nel vivo della serata, ricordo che questa edizione è dedicata ad una donna vissuta seicento anni fa che scrisse uno dei massimi capolavori della letteratura spirituale di tutti i tempi e che si fece bruciare sul rogo come eretica relapsa per aver rifiutato di rinnegarlo. La donna di chiamava Margherita Porrete da Valenciennes e il suo libro Lo Specchio delle anime semplici. Abbiamo quindi proiettato alcuni minuti di un video che ho creato con l’intento di divulgare questa incredibile storia, sconosciuta ai più. Il video è stato realizzato con la preziosa collaborazione degli attori Domitilla Colombo, Daniela La Pira, Sergio Scorzillo e Paolo Tedesco, che ne ha anche curato il montaggio, ed è visibile su YouTube.

Tornando alla contemporaneità, sale sul palco Domitilla Colombo che legge un brano tratto da Riunione di famiglia, una commedia scritta da Maricla Boggio, nostra ospite d’onore e drammaturga di fama internazionale che, com’è noto, dirige la S.I.A.D. (Società Italiana Autori Drammatici) e la storica rivista “Ridotto”.

Fra le nuove proposte procediamo quindi con Chiara Antonutti,autrice del toccante monologo autobiografico intitolato Anna. Qui una giovane Chiara interroga idealmente la bisnonna Anna, uccisa nel 1936 con quaranta coltellate da un uomo che lei aveva rifiutato. Tante sono le domande di Chiara e le risposte di Anna come quella, fondamentale, di non aver potuto chiedere aiuto, ne legge un brano la stessa autrice. A seguire Mara Crisci presenta la sua coraggiosa e spiazzante pièce Arma, in cui il titolo “guerriero” fornisce direttamente il sottotesto dell’opera e si condensa nella scioccante frase«Scusa mamma, sono una puttana e mi piace!». Vero, falso? Il tema qui, come in altre opere presentate, è quello della libertà femminile ma non una libertà del fare o dell’avere ma dell’essere, una libertà da introiettare e da costruire in noi stesse per essere agita in totale consapevolezza e assecondando i nostri veri desideri. «Quanto costa la verità?», «Un corpo liberato dalla morale può diventare un’arma?»,le domande che Crisci propone al pubblico. Ne legge un intenso brano la stessa autrice. In seguito, il commosso intervento di Attilia Cozzaglio, leader dell’associazione Donne di Parola, che ci ricorda la fondatrice, Donatella Massara, scrittrice, femminista e autrice di testi teatrali, purtroppo di recente scomparsa. Leggono alcuni brani tratti dai suoi scritti Domitilla Colombo e Raffaella Gallerati. Succedono sul palcoDanielaDorigo e Daniela Zorzini, autrici di Bulimica, operain cui, con perfetto ritmo teatrale e sapienza letteraria,affrontano un tema purtroppo sempre più attuale, la bulimia. Si racconta il diario giornaliero, dal luglio 2023 al novembre 2024, di una donna affetta da bulimia che registra, ora per ora, le diverse fasi della sua malattia: la rabbia, i dottori, l’ansia di fronteggiare le ricadute, il rapporto con la madre e soprattutto il desiderio di risalire al “bandolo della matassa”. Ne legge un brano con la ben nota perizia Daniela Zorzini. Altro tema di triste attualità è la condizione delle donne nelle realtà mafiose. Lo presenta Marianna Faga con la pièce Non è per sempre. In questo caso parliamo di ndrangheta evediamo, in un unico ambiente claustrofobico, le donne del boss che, assente dalla scena, tuttavia domina figlie, moglie e anche amante. Ma «non è per sempre» sembra volerci dire l’autrice, ma come e in che modo? A parte la fuga, quale potrebbe essere? Questa è la questione. Infatti la giovane Gelsomina sembra optare per un’altra soluzione: rimanere sul posto e resistere alla corruzione e alla tirannia. Con l’autrice ne leggono un brano le attrici: Yasmina Luccisano e Rita Saldaneri.

Con Caravanserraglio, incubo contemporaneo, Nadia Marcuzzi racconta con toni altamente poetici, a tratti al ritmo musicale di un rap, le perversioni di una società odierna alienata e alienante. La stessa autrice ne legge uno dei brani più efficaci. Altro tema di forte impatto drammatico è presentato dalla nota drammaturga Francesca Sangalli. L’opera ironica e apparentemente disimpegnata, intitolata Non essere ridicola,pone la domanda: ridicola agli occhi di chi? Il tema della pièce richiama quello trattato da Mara Crisci in Arma, e cioè la libertà interiore della donna che combatte contro la tentazione del vittimismo. Il personaggio principale è un fantasma, Letizia, morta a cinquant’anni, che dialoga con la sorella Amalia, una donna di settant’annicon un figlio di quaranta. Letizia vorrebbe che la sorella superasse il tabù della donna anziana che intesse una relazione sentimentale con un uomo molto più giovane di lei. Ne leggono brillantemente un brano la stessa Francesca con Laura Pozone. Conclude egregiamente le letture sceniche Patrizia Schiavo con Donne senza censura, una commedia che ha già riscosso un notevole successo di pubblico e di critica. Qui un’attrice, arrivata al pieno successo, viene intervistata da una voce off che la incalza con domande indiscrete sulla sua vita privata, sui suoi partner, con riferimento a Carmelo Bene… mentre compaiono, alternandosi, alcuni alter ego della protagonista in conflitto fra loro e con la stessa protagonista. Ne legge un brano con la sua trascinante verve la stessa Patrizia Schiavo.

Per il Premio alla Regia, Chiara Malpezzi e Sergio Scorzillo presentano il trailer dellapièce Amiche in cui due donne fra loro diversissime, Edith ed Helen, nell’Irlanda degli anni settanta sconvolta dal conflitto fra protestanti e cattolici, iniziano un conflittuale rapporto che coinvolgerà tutta la loro vita. Brillante l’interpretazione delle due protagoniste: Chiara Malpezzi e Daniela La Pira. Dulcis in fundo Stefania Porrino presenta il trailer di Figlio non sei più giglio,una pièce che sta già riscuotendo un grande successo in molte città e che è interpretata dalla nota attriceDaniela Poggi e dalla musicista Mariella Nava. Qui una donna, Daniela Poggi, scrive un’accorata, durissima lettera all’amatissimo figlio, colpevole di aver ucciso la sua donna. Le musiche di Mariella Nava creano un flusso di emozioni fra le due protagoniste che si trasmette al pubblico.

In conclusione emerge dai testi presentati, oltre all’elevata qualità, il tema di quella libertà femminile, in parte ancora da conquistare, fuori da schemi mentali, a volte auto-imposti, che sovente sfociano nel vittimismo e nella recriminazione. La serata si è così conclusa fra gli applausi del pubblico che gremiva la sala.

Da Il Quotidiano del Sud – Mentre il governo e la sua maggioranza con la riforma dell’“Autonomia differenziata” erano impegnati a dividere l’Italia in tanti staterelli, a danno del Sud, e a rafforzare il potere della/del presidente del consiglio di turno stravolgendo la Costituzione italiana con la riforma del “Premierato”, lontano dalla scena del potere, nella notte tra domenica e lunedì, a poche miglia dalle coste della Calabria, a un anno dalla tragedia di Steccato di Cutro, si consumava sulla stessa rotta l’ennesimo naufragio. Un vecchio veliero, carico di esseri umani, per lo più famiglie afghane, curde irachene e siriane, partito dalla Turchia, è affondato, trascinando con sé negli abissi marini 65 esseri umani di cui 26 bambine/i, il più piccolo di soli quattro mesi annegato insieme alla sua mamma. Dodici i sopravvissuti, salvati da un veliero francese che si è fermato per soccorrerli, mentre altre imbarcazioni passate da lì hanno fatto finta di non vedere. I migranti avevano lanciato l’SOS quando la barca aveva cominciato a imbarcare acqua, ma nessuno aveva raccolto il loro grido di aiuto. Solo dopo l’SOS del veliero francese sono arrivati i soccorsi della Marina e della Guardia costiera calabresi. I 12 sopravvissuti, di cui due donne e una bambina, sbarcavano a Roccella Jonica, nella Locride, dove venivano affidati alle cure mediche e psicologiche. Delle due giovani donne una, le cui condizioni erano gravi al momento del salvataggio, è morta durante lo sbarco. Quando si sono imbarcate su quel veliero le madri alle loro creature che stringevano a sé o tenevano per mano avranno detto di stare tranquille, che ce l’avrebbero fatta ad arrivare sane e salve e che la loro vita sarebbe cambiata in meglio. In cuor loro ci credevano, volevano crederci. Quante speranze, desideri, sogni, storie viaggiavano su quel veliero che per tre giorni e tre notti, tre albe e tre tramonti, ha navigato su acque tranquille! Poi, il mare è diventato grosso, sulla barca c’è stato un forte scoppio che l’ha fatta tremare, facendo volare quegli esseri umani da una parte all’altra. Alla fiducia e alla speranza allora è subentrata la paura e il terrore. Non c’era nessuno, non c’era l’Europa, non c’era l’Italia in quelle acque per salvare quelle madri e le loro creature. Non c’erano le Ong, criminalizzate da questo governo e tenute lontane per impedire soccorsi e salvataggi. Un giorno la storia farà giustizia di questi che sono veri crimini contro l’umanità e allora chi ha governato le istituzioni europee e italiane dovrà darne conto alle generazioni che verranno. Allora le cose saranno chiamate col loro vero nome e quello che oggi è un vanto per l’Europa e per questo governo, come la costruzione di un centro di detenzione in Albania per migranti, sarà un’ignominia. Forse prima degli storici lo faranno bambine come la bimba curda iraniana di dieci anni, Nalina, i cui bellissimi occhi color ambra hanno visto sparire nel mare la madre, il padre e la sorellina ed è sbarcata in uno stato confusionale. «Non ricorda nulla e continua a chiamare la madre» racconta la pediatra cubana Taily Rodriguez Jaime, in servizio all’ospedale di Locri, che insieme a Concetta Gioffrè, vicepresidente della Croce Rossa, si è offerta a tenere con sé la piccola se la zia in gravi condizioni non dovesse farcela. Quanta umanità in queste donne e nei medici e infermiere che hanno preso in cura le/i sopravvissute/i! Non una parola di umana pietà è venuta dall’Europa o dal governo. Vite le loro che non contano, come quella del bracciante Satnam Singh, l’emigrato indiano gettato dal “padrone” davanti casa sua insieme al braccio strappatogli da un macchinario mentre lavorava a nero nelle campagne laziali. Anche lui è morto. È tra tanta disumanità che le destre avanzano ovunque.

Da il manifesto – Il livello di violenza e crudeltà in Palestina, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, ha oltrepassato da molto tempo ogni limite.

Ci eravamo espressi a gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, e lo facciamo di nuovo, a distanza di cinque mesi, perché l’inerzia e l’indifferenza di fronte alla strage della popolazione palestinese decimata e affamata è insopportabile. Da mesi, la risposta di Israele all’aggressione di Hamas si è trasformata in guerra di sterminio contro il popolo palestinese. L’azione del governo Netanyahu sta infliggendo al Paese un vulnus che peserà per generazioni.

Il nome stesso di Israele, già compromesso, desta ora ostilità e disprezzo crescenti nel mondo, crea isolamento e insicurezza, e fomenta antisemitismo. Crediamo che mai come ora spetti agli ebrei della diaspora e a chiunque abbia a cuore il futuro di Israele e dei palestinesi appoggiare le donne e gli uomini che in Israele, da settimane, si vanno ormai mobilitando non più solo per la liberazione degli ostaggi, ma chiedendo anche le dimissioni del governo Netanyahu. Sosteniamo gli israeliani che vogliono uscire dal tunnel di strage e distruzione in cui è stato trascinato il Paese.

Si cessi il fuoco immediatamente e sia adottato un piano che ponga fine alle sofferenze, ora.

Firmatari/e

Francesco Moshe Bassano, Guido Bassano, David Calef, Paola Canarutto, Giorgio Canarutto, Franca Chizzoli, Beppe Damascelli, Annapaola Formiggini, Paola Fermo, Sabetay Fresko, Bice Fubini, Nicoletta Gandus, Adriana Giussani Kleinefeld, Bella Gubbay, Joan Haim, Cecilia Herskovitz, Francesca Incardona, Stefano Levi Della Torre, Annie Lerner, Gad Lerner, Bruno Montesano, Guido Ortona, Giacomo Ortona, Bice Parodi, Mario Davide Sabbadini, David Terracini, Renata Sarfati, Eva Schwarzwald, Susanna Sinigaglia, Sergio Sinigaglia, Stefania Sinigaglia, Jardena Tedeschi, Mario Tedeschi, Fabrizia Termini, Claudio Treves, Roberto Veneziani, Micael Zeller, Marco Weiss.

Per adesioni: aderisco@maiindifferenti.it