Da Concorso Lingua Madre

Pinuccia Corrias, docente, autrice e parte del Gruppo di studio del Concorso letterario nazionale Lingua Madre (CLM)

Pinuccia Corrias aveva appreso da Lia Cigarini l’importanza del “desiderio”, da Luisa Muraro di essere stata allevata secondo “l’ordine simbolico della madre”. Si è spenta oggi, 25 dicembre. Docente e anche amica, autrice e parte del Gruppo di Studio CLM non ha mai smesso di illuminare con il suo pensiero la politica delle donne anteponendo la relazione, l’ancoraggio alla genealogia femminile e fornendo pratiche di verità su di sé e sul mondo.

«Ottanta anni e sono insegnante. Sì, ne ho avuto la conferma da poco. Una mia ex-alunna ha denunciato il marito che l’aveva minacciata con una pistola, al giudice che le chiedeva dove avesse trovato il coraggio, ha risposto: Io ho avuto una docente che mi ha insegnato che una donna non deve mai accettare che qualcuno le manchi di rispetto. Mi pare che non serva scrivere “ex”». Così scriveva di sé.

E così sono nati i suoi libri Abbardente (Neos, 2016) e Rosario sardo, inedito. Ha contribuito a numerosi testi curati dal Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile. Suoi saggi sono contenuti in Il simbolico in gioco. Letture situate di scrittrici del Novecento (Il Poligrafo, 2011); L’alterità che ci abita. Donne migranti e percorsi di cambiamento (SEB27, 2015), Con forza e intelligenza. Aida Ribero 1935-2017 (Il Poligrafo, 2024). 

Aveva ricevuto il premio Macopsissa, per le sue poesie giovanili. All’Università Cattolica di Milano ha vissuto il ’68, che ha dato un’impronta politica al suo insegnamento: a cominciare dalla gestione di un asilo con preti operai a Pomigliano d’Arco.

Viveva tra Torino, la Sicilia e la Sardegna, ma aveva vissuto anche a Milano, Roma e Napoli. Conosceva quindi l’esperienza della migrazione così ben rappresentata nel racconto Shalom Inshallah Amén con cui, nel 2014, ha vinto la sezione donne italiane del IX Concorso Lingua Madre.

Da femminista e come docente ha contribuito alla pedagogia della differenza e nella sua scrittura ha sempre messo in luce la presenza femminile nel mondo. Infatti, aveva fatto suo e praticato – soprattutto nella scuola, dove ha insegnato italiano e storia – il femminismo della differenza, che ha poi approfondito nella Libreria delle donne di Milano e nel Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino, nel Gruppo di ricerca teologica donne valdesi e della comunità di base e nel Gruppo intergenerazionale di Pensieri in piazza, a Pinerolo.

A Casa “Chantal” del Monastero della Visitazione di Pinerolo, ha seguito dal 2008 un percorso di spiritualità e di servizio con le monache e le volontarie e qui, nel 2015, ha accompagnato l’inserimento di una rifugiata di Bangui.

Viveva a Sciacca, di fronte al mar d’Africa, luogo amato dai suoi quattro figli e dai nipoti.

Nel suo saggio Itinerari d’esilio (in L’alterità che ci abita) scriveva che quando il mondo le aveva mostrato il suo volto più solo, più ferito, più fragile, aveva resistito «quel che mia madre mi aveva insegnato, questo solo mi ha aiutato a non perdermi. È qualcosa, io credo, che può servire, ancora nei nostri giorni brevi. Qualcuno la chiama più laicamente “cura del mondo” e una parte di essa spetta, di certo, da sempre a ciascuna di noi».

A lei va il nostro pensiero, il nostro affetto e la nostra gratitudine.

Ho partecipato da remoto all’incontro di VD3 Sono soldi i soldi? ma non sono intervenuta, sia perché troppi pensieri e ricordi si affastellavano nella mia mente in modo disordinato, sia perché il confronto, molto ricco, portava in diverse direzioni, non sempre facilmente riconoscibili e conciliabili. O forse avevo semplicemente bisogno di pensarci su.

E ci ho pensato, lasciando affiorare gli interventi che più mi avevano colpito. Molte delle donne intervenute, la maggior parte direi, ha collegato la propria attuale posizione rispetto al denaro all’ethos di famiglia, riconoscendo – direttamente o non – una sorta di genealogia di atteggiamenti e scelte. E più di una ha menzionato le condizioni economiche difficili della propria famiglia, un retroterra di sacrifici, vissuto con un disagio non solo materiale ma anche simbolico, quasi all’insegna della vergogna, che in molti casi peraltro è stato di stimolo all’emancipazione personale.

Io, al contrario, vengo da una famiglia dell’alta borghesia padovana. Ho avuto il classico padre-padrone, dominante su moglie e figli, che ha imposto una morale famigliare e sociale sulla misura dei soldi, fino ai titoli nobiliari. Come è stato detto nell’incontro, il denaro non solo come mezzo materiale di scambio, ma anche come codice simbolico. Fin da piccola ho respirato questa morale di dar valore a persone, amicizie, eventi, scelte di vita, in base alla capacità economica: i soldi come misura di tutto. Ho vissuto anche l’assurdità della dipendenza di mia madre – che pur proveniva da una famiglia facoltosa – da lui e dalla sua scarsa generosità (per non dire avarizia) nel privato del ménage familiare, mentre in tutto ciò che entrava nello scambio sociale visibile si poteva (si doveva?) esibire la nostra posizione economica previlegiata. Classico esempio di scissione tra privato e pubblico. Nella mia famiglia la cultura contava niente, o quel poco che mia madre riusciva a far circolare e trasmettere a noi figli. 

Nell’adolescenza ho cominciato a riconoscere il mio disagio di fronte a questa doppia morale, come di fronte alla dipendenza economica, per nulla giustificata, di mia madre dal volere paterno. E ho maturato un forte desiderio di indipendenza oltre a costruirmi gradualmente una mia visione del mondo. Sono diventata una comunista (più tardi vicepresidente dell’Istituto Gramsci Veneto), ingenua, ma ostinata a tener testa a mio padre nelle pochissime occasioni in cui si parlava di politica in casa. E quando terminato il ciclo liceale con la maturità, mio padre decise che per me la continuazione degli studi era fuori gioco, tanto potevo aspettare il matrimonio, ho combattuto per fare l’università, con il sostegno seppur debole di mia madre. Avevo in mente l’indipendenza economica, il potermi creare una strada tutta mia, ma anche risuonava in me come un’attrazione l’esempio del mio bisnonno materno, uno scienziato – entomologo di fama – alcune scoperte del quale avevo studiato nei manuali del liceo. La cultura per me era un bene necessario, non sostituibile con succedanei quali il benessere economico e la rete delle amicizie che contavano agli occhi di mio padre. E quando ho portato a casa in dono ai miei il mio primo libro, pubblicato all’età di ventisei anni, quasi come ringraziamento per quanto avevo ricevuto da loro, credo avrebbero preferito la presentazione di un fidanzato benestante. 

Ho avuto la fortuna (non senza qualche fatica e sacrificio) di entrare presto, appena laureata, all’università e il lavoro di docente universitaria, svolto fino alla pensione, mi ha dato oltre all’indipendenza economica molte soddisfazioni, la gioia di rapporti significativi con studenti e colleghe/i, molti scambi e viaggi all’estero, lotte e impegni condivisi per trasformare l’università, fino a incontrare le donne con cui sarebbe nata la comunità filosofica Diotima. In Diotima non abbiamo mai parlato di soldi, non perché fosse un tabù, ma perché di soldi non c’era e non c’è tuttora bisogno, essendo una comunità, eterogenea per età e provenienza sociale, che trova ospitalità (finora gratuita) nelle aule universitarie per gli incontri periodici e il grande seminario annuale. È stata una scelta politica fin dall’inizio.

Sono vissuta del mio stipendio fino alla morte dei miei genitori. Allora ho ereditato. Ma ho anche subito ceduto una parte dell’eredità al mio primogenito, sia per alleggerire il mio carico economico che sentivo eccessivo, fuori misura, sia per aiutarlo a costruirsi la sua strada.

Quando nell’incontro ho sentito alcune intervenute (poche per la verità) parlare di un sentimento di vergogna per le proprie umili origini, è affiorato alla mia coscienza un sentimento simile, ma in forma capovolta: ora so di aver sofferto una sorta di disagio, se non di vergogna, per la ricchezza di cui disponevo. Sono sempre stata sensibile alle disparità/disuguaglianze sociali e cercato forme, per lo più ingenue ma poi sempre più politiche nell’ambito della sinistra, per combatterle. Continuo a farlo, non più nell’area della sinistra ma ormai da molto tempo nell’orizzonte politico delle donne e della differenza sessuale. Ma non è facile, come è stato sottolineato più volte.

Alla domanda rilanciata da Laura Colombo, «come guardare al denaro in modo libero e creativo?», risponderei dicendo che conosco il valore del denaro, credo di saperlo amministrare bene, senza (eccessiva) subalternità a istituti finanziari con cui mio malgrado ho rapporti, ma lo ritengo un semplice mezzo per la vita propria e altrui, compresa la vita dell’ambiente e del pianeta, cosa che sempre più mi sta a cuore. Mi sottraggo al consumismo nelle sue varie forme, sono attenta agli sprechi (e sostengo e pratico come posso l’economia circolare) e personalmente non amo fare shopping. Gli unici beni eccedenti i bisogni della vita quotidiana a cui non rinuncio sono i libri, e tutto ciò che mi nutre l’anima e mi fa star bene come spettacoli teatrali, mostre, concerti, cene con le amiche, ecc. E ricorro a cure private a pagamento quando proprio è indispensabile, non smettendo di denunciare il disfacimento del Servizio Sanitario Nazionale e di sostenere in vari modi le giuste richieste delle sue operatrici e dei suoi operatori, il cui lavoro, come ha ricordato Buttarelli, è inestimabile e andrebbe pagato più di quello dei manager.

Da anni ho una pratica, che chiamerei pratica del dono. Non certo in senso filantropico, bensì relazionale e politico. Ho la propensione a soddisfare con i miei soldi desideri di giovani amiche, anche se non sempre li condivido ma so che per loro sono importanti. Forse in qualche modo ammiro il loro stare sopra le righe quando coltivano un desiderio che sanno di non poter esaudire per mancanza di soldi, ma a cui tengono. E per me è una gioia vedere la loro gioia, scambiare con loro tempo, passioni, relazioni. Anche se non sempre accade quella dinamica propria dell’economia del dono, che è il dare, ricevere, ricambiare (v. Giannina Longobardi, Sono soldi i soldi? In Aa.Vv., La Rivoluzione inattesa, 1997), e la relazione con l’altra non prende (o non mantiene) la piega che mi aspettavo e in alcuni (rari) casi si dissolve.

Nell’economia del dono mediato dal denaro stanno anche le mie pratiche di sostegno finanziario ad associazioni, imprese sociali e cooperative, di volontariato, che da anni seguo per il loro impegno politico di cambiamento dell’esistente in vari e diversi ambiti. Le scelgo (e le seguo) accuratamente, escludendo quelle che si ispirano alla filantropia, all’assistenzialismo, all’opportunismo, restando subalterne all’economia neoliberista anzi confermandola. 

Mi sono esposta finanziariamente anche in modo importante per sostenere alcune imprese femminili cultural-politiche di cui ho condiviso finalità e senso, avendo fiducia nelle relazioni con le donne che le promuovevano, perché sentivo che il mio previlegio economico poteva contribuire a mettere in moto cambiamenti significativi, a tagliare l’ordine esistente aprendo altre prospettive di rapporti umani e sociali, di formae mentis, di circolazione non individualistica ma comunitaria di beni. Senza sicurezza del loro esito, dunque una scommessa politica.

Il nostro mondo attuale è dominato sempre più dal denaro come forma diretta e “sublimata” del potere, anche politico, e il denaro detta ormai le regole della convivenza. Penso a Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, che si appresta a governare con – o al posto di – Trump la cosiddetta maggior democrazia del mondo, e condiziona con i suoi innumerevoli satelliti e invenzioni tecnologiche le sorti di interi popoli in guerra. Penso alla mole di denaro investita in armamenti sempre più sofisticati e costosi. E penso alla compravendita di beni essenziali come l’acqua e l’aria pulite, ormai ridotte a merci investite in borsa, o al mercato di corpi umani o di parte di essi, messi sul mercato come prodotti qualsiasi, alle agenzie internazionali che si arricchiscono per esempio con la gestazione per altri, sfruttando a senso unico l’integrità umana, senza la quale alla convivenza non resta che il baratro della disumanità. 

E penso agli enormi interessi economici che muovono multinazionali, banche, assicurazioni alla ricerca/accaparramento di materie prime, depredando soprattutto paesi poveri, e al loro sostegno finanziario dell’agro-business che devasta foreste e aumenta la distruzione della vita sul pianeta: sostegno finanziario a cui non è certo estranea la politica dell’UE. E i soldi per i soldi (l’accumulazione di denaro per sé come imprenditori e per i propri azionisti), con l’impresa che si occupa di comprare e vendere capitale e molto meno di produrre beni, sembrano diventare il criterio primo dell’imprenditoria di un paese, e non solo in Italia, a scapito degli investimenti industriali utili alla crescita economica del paese e al benessere di tutti e nel calcolato disinteresse per la sorte dei lavoratori. Un fenomeno questo ormai riconoscibile, ma il cui carattere sistemico viene ignorato anche da una parte della sinistra, poco efficace nel prendere le distanze dal capitalismo neoliberista e individualista. E uno degli effetti è la povertà dilagante, oltre alla disoccupazione delle giovani generazioni, delle loro vite allo sbaraglio o in fuga verso paesi più promettenti. Come quella del mio secondogenito e della sua compagna, espatriati in Belgio da anni (dove sono riusciti a guadagnarsi da vivere e hanno messo al mondo il loro primo figlio) a scapito delle relazioni amicali e famigliari, di consuetudini e passioni lasciate non senza sofferenza in Italia.

Sono solo gli esempi più vistosi di un capitalismo in veste nuova, a cui forse tendiamo ad assuefarci per un senso di impotenza o rassegnazione. E questo è il pericolo più grande. 

Guardiamo allora alle innumerevoli iniziative “dal basso” (così si diceva una volta), che volano alto grazie alla energia desiderante delle soggettività in gioco e alla forza delle relazioni. Alcune sono state ricordate nelle parole delle intervenute, altre hanno evocato la pratica del conflitto tra economia del desiderio ed economia del profitto, dalle case, alle città, all’intero mondo. Più donne che uomini ne sono le autrici, sanno far tesoro della propria esperienza e della propria storia, non temono di relazionarsi con persone di altri mondi, amano e proteggono la vita rigenerandola. Penso al moltiplicarsi degli orti urbani e comunitari, dove si generano cibo buono e buone relazioni, penso ai luoghi di incontro, piccoli e grandi, in cui si fa insieme cultura e politica attraverso poesia, musica, arte, teatro. Penso alle battaglie per università e scuole a misura di desideri e bisogni di chi le frequenta, e biblioteche di quartiere che riprendono vita e fanno comunità. E vediamo generazioni diverse che si confrontano e si alleano, corpi e menti: dai ragazzi e ragazze di Ultima generazione, Extinction Rebellion eccetera, alle donne che hanno dato vita a livello globale a gruppi di attiviste per il clima e per arginare le destre dilaganti, fino alle nonne dell’associazione Senior Women for Climate Protection, che senza paura hanno denunciato il governo svizzero alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo per le insufficienti politiche di protezione dell’ambiente e della vita. Sono solo alcuni esempi, ma significativi di quanto la presa di coscienza a partire da sé e in relazione con altre, altri, possa generare trasformazioni passando dall’immaginazione all’azione, da un sé solitario e impotente al muoversi insieme, corpo, mente e desiderio, verso un altro oggi e un domani differente.   

Tra gli importanti contributi che hanno aperto l’incontro della redazione aperta di Via Dogana sul tema del denaro e la discussione che ne è seguita c’è una parola/un concetto lanciato da Daniela Santoro nella sua introduzione che ha trovato, non solo in me, un’eco speciale, una risonanza che connetteva istantaneamente il presente e il passato. È la parola “energia”.

Il presente evocato è l’adesso, raccontato parlando del proprio rapporto con il denaro, complesso in sé, radicato nei vissuti familiari di ognuna e rielaborato individualmente o collettivamente dentro un percorso femminista.

Oggi è quasi più difficile parlarne che in passato – il denaro è ancora molto “tabuizzato” per usare un’espressione di Ida Dominijanni – perché la questione si scontra con una situazione inedita e che molti definiscono “di caos”, cioè dove nulla sembra più funzionare.

Le disuguaglianze sono aumentate in maniera inaudita, il lavoro è cambiato e va in una direzione di impoverimento che non sembra dipendere dai comuni mortali, siamo finiti con sorpresa e sconcerto dentro una situazione di guerra, c’è difficoltà a far avanzare la consapevolezza sui rischi climatici ed ecologici che corriamo.

Chi l’avrebbe mai pensato in questi termini così radicali? Che cosa ne deriva?

Per me direi che ne deriva un umore basso, un pensiero connotato di ansia e pre-occupazione, entrambe alleate nell’immobilizzare e passivizzare. 

D’altra parte pre-occuparsi non vuol dire occuparsi.

Chi ha approfondito cosa avviene all’interno delle persone e nelle relazioni dice che l’Italia e tutto l’occidente è caduto in una tristezza/un umore depresso che si manifesta con disinteresse per la politica, un sentimento di impotenza verso l’enormità della guerra e aspettative di un potere autoritario che faccia ordine. 

È a partire da qui, da questo umore o sentimento, che ha preso il via per me il ricordo del passato e la ricerca di che cosa ci muoveva allora, così decise, così sicure. 

Parlo del periodo che sinteticamente definiamo “il ’68”, ispirato agli ideali di giustizia sociale, che ha visto germogliare e poi prorompere il femminismo. È stato per noi donne un periodo magico dove si è avviato il nostro “riposizionamento” nel mondo.

Riportare ad allora può far pensare a visioni utopistiche, non trasformative. Non è stato per nulla così. Alla rivolta del ’68 e al grande movimento delle donne sono seguite le più importanti conquiste degli ultimi cinquant’anni sul piano dei diritti essenziali: la riforma del diritto di famiglia con l’abolizione del pater familias, le possibilità di scelta nei rapporti donna-uomo (divorzio), la possibilità di una maternità consapevole e voluta (liberalizzazione degli anticoncezionali, aborto). E altre ancora tra le quali, di primaria importanza, la sanità pubblica introdotta da Tina Anselmi.

Ripenso a cosa ci muoveva allora. 

Per quella generazione c’era la giovinezza, certo, ma questa non è di per sé garanzia di un cambiamento positivo e per me auspicabile. C’era invece tanta motivazione, passione e desiderio perché venivamo da un passato buio, sessuofobico, fatto di proibizione e sottomissione. 

Oggi, a condizioni profondamente mutate, quell’energia stenta a riprodursi e mi pare che tutte/tutti soffriamo un po’ di questa assenza. 

Rinalda Carati si chiede: «Come si elabora il lutto di tutto quello che in questo mondo sta finendo perché ne sta cominciando un altro?»

Personalmente ho spesso l’impressione che viaggiamo su un piano inclinato che porta verso il basso, mentre abbiamo bisogno di trovare di nuovo direzione e orizzonte. In questo contesto penso che l’energia vada intenzionalmente alimentata perché non trova condizioni favorevoli e, spontaneamente, si produce a stento. 

C’è bisogno di esempi positivi. 

C’è bisogno di aiutarsi, dice Vita Cosentino, «l’aiuto risolve la questione dell’energia». 

Linda Marana invita a «portare l’etica dentro il lavoro», fa esempi di attività di fundraising e dell’acquisto da parte dei cittadini di un’isola a Venezia per sottrarla all’acquisto privato e alla speculazione.

C’è bisogno di lotta. 

La parola lotta oggi è un po’ desueta. Va risvegliata e rinverdita. Ovviamente intendo lotta non violenta, quella che mette in pista immaginazione e creatività, non armi e violenza. 

È lotta anche, di grande importanza simbolica e comportamentale, produrre un linguaggio del cambiamento, non stereotipato, capace di sfuggire alle semplificazioni banalizzanti e alla neutralizzazione dei due sessi. 

Quello che ci siamo dette nell’incontro e la ricerca collettiva di prospettive e di azioni concrete esemplificate nelle relazioni introduttive e nel dibattito, sono già un esempio positivo di quella che per me è una direzione e un orizzonte auspicabile. 

da il manifesto – La violenza subita per oltre dieci anni da Gisèle Pelicot non è risarcibile né riparabile. Bisogna sgomberare il campo, che non è morale e neppure giudiziario, per evitare che si immagini una restituzione o, peggio, un apparato giustificatorio per chi l’ha stuprata, con la connivenza del marito che la drogava per offrirne il corpo privo di sensi a chiunque si prenotasse via internet. Una prassi talmente ben collaudata da ispirare uno dei 50 stupratori che ha pensato di drogare la propria di moglie offrendola pure a Dominique Pelicot.

La violenza subita da Gisèle Pelicot, che oggi ha 72 anni, e che con il marito ha condiviso gran parte della sua vita, oltre a tre figli e sette nipoti, non è quantificabile. Anche se fa una certa impressione la totale liceità in cui decine di uomini, che hanno ricevuto pene dai 3 ai 15 anni, si siano serviti al banchetto domestico organizzato da Dominique Pelicot, che dopo i 20 anni che gli sono stati attribuiti nella sentenza di ieri per stupri aggravati, ha detto un laconico «ne prendo atto». Da come si sono svolti i fatti e dalla loro reiterazione, sembra che nessuno abbia mai inteso di essere fermato, o di fermarsi. Era tutto piuttosto regolare e accettabile nel suo automatismo.

Dagli scenari di guerra alle case perbene, questo patto patriarcale tra maschi che si scambiano dei corpi di donne cui danno al massimo la dignità di rifiuti, di cose, indica una sottile ossessione per l’inanimato. Nella cultura dello stupro si parla raramente di questo aspetto, un istinto primigenio di soppressione che il caso di Mazan chiarisce forse meglio di altri: la normalizzazione della violenza originaria è infatti nei confronti di un soggetto doppiamente prevaricato, vessato sessualmente e in uno stato di incoscienza. A leggere gli stralci delle dichiarazioni rilasciate dagli uomini che hanno abusato di lei, alcuni dei quali hanno detto di non essersi accorti di averla stuprata, ci si domanda quanto abbia contato la possibilità di eccitarsi assaltando un corpo non consenziente cui si aggiungeva la privazione di coscienza.

La ragione per cui Gisèle Pelicot ha scelto che il processo si svolgesse pubblicamente è di acquistare finalmente una voce. Per dire Io esisto.

Ha preso parola con tutta la forza, dopo aver guardato i video girati dal marito durante i suoi ripetuti stupri. Avrebbe potuto non farlo, avrebbe potuto trattare la questione come un fatto privato. Eppure ha sentito, dallo sprofondo in cui certamente ha vissuto e vive ancora, di riferirsi a tante altre sue simili affinché non si sentano sole e, nel non sentirsi sole, sottraggano dall’isolamento anche lei: ridiventare donna a sé stessa ed essere rimessa al mondo da chi la ascolta e le crede. È un cambiamento di segno, che è la rabbia amorosa delle proprie simili e di nessun altro. È insufficiente ma è la scelta di un inizio, di un cammino. Che non è privato ma politico e collettivo.

Non c’è guarigione e non c’è neppure vergogna, si devono vergognare loro, ha ripetuto Gisèle Pelicot. Che in questi mesi, dopo aver scoperto che suo marito la considerava carne da macello, oltre a essere sopravvissuta – non era scontato – lo ha ascoltato in un’aula di tribunale, senza battere ciglio, mentre le chiedeva perdono. Ci auguriamo non succeda. Noi non lo faremo. Ma la vorremmo abbracciare.

Sono vissuta a Venezia fino a 19 anni in una famiglia borghese professionale, dove tutti e tutte erano laureate. Nonostante una grande casa, una famiglia osservante non restrittiva, l’incertezza sociale c’era: riguardava i soldi, che erano pochi. Quindi era ovvio lavorare per mantenersi. Mi ero convinta che la mia realizzazione dipendesse dal livello culturale, più che dal patrimonio, o dal destino delle donne e degli uomini.

Ho scelto la facoltà di lettere per mantenermi (allora era facile trovare delle supplenze anche prima di laurearsi).  Stava iniziando il ’68 e la cultura era l’impegno per inventarne un’altra, in grado di contraddire gli ordini, anche affettivi. Poi ho scelto l’ultima occasione per ottenere una baby pensione e garantirmi una sopravvivenza per lavorare nell’arte contemporanea. Avevo assorbito l’dea che era importante un luogo critico, più che uno dove essere pagata per scrivere correttamente. Così mi sarei costruita una credibilità professionale, e non solo uno stipendio. 

Le prime recensioni le ho fatte per il manifesto dove il compenso, non solo per collaboratori, era una questione “politica”: chi poteva vi rinunciava e altri e altre accettavano ritardi. 

Ho privilegiato il desiderio di scrivere per essere letta, a quello di ottenere un reddito.

Ora mi accorgo che era un’adesione indifferenziata a un comportamento culturale tradizionale. Patriarcale? E qui, riconosco una difidenza, o almeno una lentezza, a progettare non tanto i luoghi dove garantire il lavoro delle donne a pieno titolo, ma quelli economici per finanziare e pagare il nostro lavoro culturale, e non solo il nostro gratuito, ineliminabile, confronto critico. 

La Libreria è un luogo di produzione senza “scopi di lucro”: un carattere specifico della ricerca intellettuale, che mi ha molto aiutato a formulare pensieri dissidenti, oggi però penso che, rispetto al perenne squilibrio tra i compensi delle donne e degli uomini, procurarci da noi i soldi per produrre, noi, le nostre iniziative culturali, sia una bella differenza. 

E anche una cosa di buon senso, visto che quando si pubblicano libri con case editrici professionali, si fanno conferenze o mostre in luoghi pubblici, in forme laterali ci viene quasi sempre chiesto di partecipare al budget! 

Forse è arrivato il momento di fare un balzo imprenditoriale, magari si sblocca il binomio oppositivo, soldi-contenuti, visto che la credibilità culturale, prodotta dalle donne è il cambiamento invocato da tutti. 

Quanti soldi sono abbastanza? È una domanda provocatoria che invita a farsi trovare allo scoperto, a rivelare l’intreccio che tiene insieme aspirazioni e condizioni materiali. L’argomento soldi è capace di stanare le contraddizioni dentro e fuori di noi per la peculiarità quasi impudente e sfacciata che lo contraddistingue, al tempo stesso si svela nella sua pretestuosità, nel suo continuo e imprescindibile evocare altro: relazioni, vicende, retaggi, storie.

Quanti soldi sono abbastanza? A questa domanda istintivamente mi viene da replicare in cerca di chiarezza: abbastanza per cosa?

Chiedere di quantificare l’avverbio abbastanza quando si parla di soldi è un po’ come cercare di stabilire quanto olio o latte ci voglia nella preparazione di un piatto quando la ricetta suggerisce “q.b.” (quanto basta); denaro e cibo non di rado occupano gli stessi spazi dell’esistenza: sopravvivenza del corpo, relazioni, affetti, dimensione sociale. L’avverbio “abbastanza” relativizza istantaneamente, mi chiama a incarnare il pensiero, cioè a dire ciò che so e a prendere le distanze dall’astrazione, dalle ipotesi che mi sono convenientemente lontane. Per me parlare di soldi è come camminare su un laghetto ghiacciato, sento gli scricchiolii, incedo con cautela mista a paura; scivolare in modo ridicolo sulla superficie dura e sprofondare nelle acque gelide sono due eventualità ugualmente probabili. All’inizio della mia vita i soldi – quelli pensati, voluti e prodotti dal pensiero maschile – sono stati una variabile dotata di una forza capace di imprimere una deviazione radicale a quello che sarebbe stato il mio futuro, quantomeno nelle sue potenzialità: il potere e la centralità riconosciuta ai soldi mi hanno imposto l’adozione e mi hanno consegnata a una extra-ordinaria vita con due madri. Proprio pochi giorni prima dell’incontro di redazione ho dovuto aprire il fascicolo della mia adozione nel quale sono contenuti documenti di ogni tipo, ricevute, traduzioni di documenti dal brasiliano1 all’italiano e viceversa, biglietti, prenotazioni, lettere; fra i vari fogli uno riesce sempre a trascinarmi a sé, si tratta di una lista di spese vive sostenute dai miei genitori adottivi e antecedenti l’adozione definitiva, cioè l’emissione del dispositivo giuridico; fra queste spese svettano cinquecentomila lire per spese di degenza ospedaliera e duecentocinquantamila lire di farmaci. Nel Brasile del 1985 l’accesso alle cure era un nodo pericolosamente economico e i soldi potevano divenire lo spartiacque fra la vita e la morte. Ero gravemente malata a causa della malnutrizione, in condizioni così precarie da essersi resa necessaria l’ospedalizzazione e la mia giovanissima madre, Angela, che allora aveva diciotto anni, non era in grado di sostenere quelle spese; un’altra donna le avrebbe coperte, una trentaquattrenne messinese di origini borghesi che lavorava, ironia della sorte, per una banca, la mia madre adottiva, Raffaella. Quelle cifre, scritte col solito ordine chiaro che contraddistingueva l’azione di mia madre Raffaella, fanno emergere ancora oggi il campo in cui le mie due madri si sono avvicendate, toccate, legate e i presupposti maschili ai quali entrambe hanno dovuto in parte subordinarsi ma ai quali si sono ribellate in un modo forse imprevisto. Da un lato un Brasile emerso dalla feroce e fallocratica dittatura militare e nel quale la più ineludibile delle fragilità – la salute – era un affare privato, dall’altro l’Italia che aveva beneficiato pochi anni prima della genialità di Tina Anselmi, madre volitiva di quel Servizio Sanitario Nazionale che ha reso quasi cosa viva il concetto di solidarietà; nel mezzo un sistema maschile che stava costringendo due donne a dare misura del valore della maternità adottando esclusivamente il parametro economico: Angela avrebbe perso, solo giuridicamente, la possibilità di dirsi (mia) madre perché priva di sostanze, Raffaella che avrebbe acquisito la possibilità di dirsi (mia) madre perché in una condizione socio-economica solida2. I soldi in questo caso, come in una buona parte delle storie di adozione internazionale, si imposero quale parametro di merito capace di tramutare la maternità in puro dato economico; questa maternità monetizzata non dice nulla di come le mie due madri si sentissero in quelle settimane di scambio e provo sempre una grande tenerezza per entrambe quando mi capita di pensarci. La reductio ad pecuniam non si impose solamente sulla maternità ma anche su di me in qualità di figlia e mi qualificò come una questione economica che andava risolta secondo parametri sui quali nessuna donna aveva potuto (o voluto) avere voce in capitolo; il dominio maschile crea strettoie e poi le chiama “ordine naturale e logico delle cose”. In un certo senso Angela e Raffaella furono protagoniste di una riproposizione ancora più grottesca (rispetto all’originale) del giudizio salomonico: quale delle due è la “vera” madre? Quella con più soldi, rispondono le carte. Eppure nessuna delle due mi stava contendendo, anzi direi che le mie due madri proprio in quei giorni strinsero un patto silenzioso di mutuo riconoscimento: in nessun momento della vita mi è stato chiesto di stabilire quale delle due fosse la mia “vera” madre: Raffaella non ha mai avuto la mira di essere “l’unica”, pur avendo dalla sua la forza della legge; Angela non si è arroccata nel fortino di quella “vera”, “l’originale”, nemmeno quando ci siamo ritrovate dopo 26 anni e pur avendo dalla sua la forza dell’avermi generata e amata ancor prima che io nascessi. 

Le mie due madri mi hanno dunque insegnato cosa significa “amore incondizionato”, che è un amore non tanto senzacondizioni quanto un amore nonostante le condizioni e che non va inteso come amore autodistruttivo e nullificante. Evito come se fosse peste il soffermarmi a pensare a quali squarci interiori entrambe abbiano vissuto nella consapevolezza ineludibile che nessuna delle due avrebbe potuto detenere alcun primato, diritto di prelazione, posizione di vantaggio: erano parte, congiuntamente e disgiuntamente, di ciò che per me è il senso della parola madre; probabilmente hanno passato la vita col vago senso di essere l’una sotto lo scacco dell’altra. La specifica, relativa e situata materialità della mia condizione fa sì che, in qualità di figlia, la frase “di madre ce n’è una sola” sia ciò che Arendt chiamava “affermazione priva di senso”. Per molto tempo ho invidiato chi, per pura casualità e quindi senza colpa, poteva vivere tranquilla riconoscendosi in quella massima senza rendersi conto degli aspetti di comodità legati ad avere una e una sola madre, anche nel peggiore dei rapporti madre-figlia. Tornando all’aspetto economico, quando penso alla condizione adottiva, a ciò che ha costretto mia madre Angela ad accettare il percorso di adottabilità, a ciò che ha consentito a mia madre Raffaella di accedere al percorso adottivo, mi rendo conto che la condizione umana eccede tutti i parametri con cui cerchiamo di gestirla o dirla, e il denaro non fa eccezione. I soldi sono tracce di un vissuto e, come ho cercato di dire all’inizio, fungono da rimando, alludono, evocano ma sono muti davanti al peso specifico dell’umanità. 

Fra le parvenze più insidiose di questo tempo c’è quella secondo cui i soldi abbiano il potere di definire il nostro valore, molto più che in passato, e quell’eccedenza della condizione umana è sotto attacco simbolico: da strumenti – non necessari – che possono facilitare sono stati resi quasi un soggetto capace di tramutare la persona in strumento, convincendola che essere-in-funzione del denaro non solo sia cosa giusta e accettabile ma sia persino fonte di soddisfazione e autorealizzazione.

Provo sincero terrore davanti a un capitalismo feroce che sempre più chiede a ciascuna e ciascuno di noi di pensarci adottando proprio il denaro come parametro e di ridurci sempre di più a qualcosa che può essere venduta e comprata; l’edonismo individualista automercificante che ci vorrebbe ridotte a monodimensionalità diventa però una strategia priva di potere nel momento in cui riconosciamo autenticamente la condizione umana, per farlo però dobbiamo accettare il rischio di ribellarci e dobbiamo trovare il coraggio di stringere patti e alleanze che costeggiano, stanno altrove, rispetto a ciò che ci viene impacchettato e consegnato come l’unica strada percorribile. Il coraggio di Angela e Raffaella che dal 1986 sono le mie due madri. 

  1. Uso questo termine perché il portoghese brasiliano ha una sua autonomia e desidero sottolinearla. ↩︎
  2. Una condizione di vantaggio apparente, un privilegio di superficie che si dissolve quando si pensa al senso di manchevolezza che deve aver provato nella relazione con un corpo che fino a quel momento non aveva potuto generare. Come donna ha preso questo senso indotto di manchevolezza e lo ha messo a frutto accettando quel rischio di farsi madre senza il tramite del corpo e accettando di condividere quella maternità con un’altra donna, senza illusioni e pretese o ricorrendo a escamotage che cancellassero l’esistenza dell’altra madre dalla quale dipendeva la mia esistenza.  ↩︎

Tendo spesso a non parlare di soldi. È una tematica che mi mette a disagio. Infatti è stato molto difficile per me presenziare al dibattito che ha avuto luogo domenica 1° dicembre in vista della redazione aperta di Via Dogana 3. Impensabile è stata l’idea di fare un intervento a voce alta davanti a tutte le persone presenti. Eppure domenica ho avuto un’opportunità, quella di confrontarmi con il mio limite e di indagarlo. Per quale motivo non riesco ad aprirmi e discutere a cuore aperto su questo argomento?

Io mi sento privilegiata. Sono cresciuta a Milano e i miei genitori non mi hanno mai fatto mancare nulla. Da tempo avevo l’idea di fare l’università in una città diversa da quella in cui sono nata. Proprio per questo, intorno ai quindici anni ho iniziato a lavorare e a mettere da parte i soldi che mi venivano dati (quelli delle paghette mensili e dei regali di Natale). 

Vorrei poter dire che, grazie a quei soldi, oggi posso permettermi di pagare l’affitto della casa in cui vivo a Verona, ma non è così. Mia nonna mi ha aiutata, dandomi un gruzzolo del quale tutt’oggi mi servo per poter pagare l’affitto. Mi è sempre pesato chiedere soldi, sia ai miei genitori che alla mia famiglia. Il mio desiderio di studiare lontano da casa non poteva gravare sui miei genitori. Al punto che a giugno 2023 facemmo un accordo: loro avrebbero pagato l’università, io la casa. Ora come ora vivo nel terrore che quei soldi finiscano, come se quelli fossero la misura della mia libertà (non assoluta, ma quella di studiare ciò che più amo nel luogo che sento più affine, dal momento in cui studio filosofia all’Università di Verona). Mi chiedo: cosa sarebbe della mia vita e dei miei desideri se non avessi i soldi come strumento per realizzarli? 

Ricordo che al liceo la professoressa di italiano chiese a noi studenti di scrivere un tema sulla felicità. Molti tra i miei compagni di classe scrissero che la felicità era direttamente proporzionale alla quantità di soldi posseduta. Più denaro si possiede, più è facile vivere delle cose che si amano. Nell’ascoltare la lettura di quei testi ricordo che mi arrabbiai. La stessa cosa accadde in quinta liceo ed in particolare davanti alla scelta dell’università. Quale percorso di studi permette di trovare un lavoro ben retribuito? Anche su Instagram emerge spesso questa questione. A ragazze che divulgano filosofia sui social viene posta di continuo questa domanda: scegliendo una facoltà umanistica non si rischia poi di finire senza lavoro? Come comunicare ai genitori che si desidera intraprendere un corso di laurea in lettere antiche o in beni culturali quando è evidente che un professore di greco non è pagato quanto un avvocato? A causa dei soldi, molti giovani rinunciano all’amore che guida le loro scelte in nome di una stabilità economica. Come biasimarli, dal momento in cui il costo della vita si alza e gli stipendi rimangono gli stessi di anni fa. Il futuro è sempre più precario e di ciò gode il sistema turbocapitalista dentro il quale siamo immersi. La difficoltà di basare la vita sul proprio desiderio porta alla necessità di ottenere godimento nell’hic et nunc. Questo è un problema del nostro tempo.

Io mi sento molto disorientata, l’angoscia mi assale ogni qualvolta io faccia una transazione o un bonifico. Nell’ultimo periodo mi sono persino sentita in colpa per aver speso soldi in visite ed esami medici, pur sapendo razionalmente quanto sia importante curarsi della propria salute. 

Quando si tratta di denaro penso, di tanto in tanto, a una frase che ho sentito pronunciare a mio padre: “spendiamo più di quanto potremmo realmente permetterci”. 

Ma allora è davvero possibile fare in modo che siano l’amore e il desiderio a governare la nostra vita? Come ribellarsi alle logiche del capitalismo? Si può sottrarre ai soldi il potere che esercitano? 

Io credo di sì. Forse quello che afferma mio papà ha in sé il principio della ribellione oppure ciò che avviene alla Libreria delle donne di Milano e a cui io guardo con profonda ammirazione. Ovvero il sapersi aiutare reciprocamente, esserci per le altre e gli altri gratuitamente senza mai allontanarsi dal proprio desiderio che è comune nella misura in cui è politico e individuale perché riguarda ognuna nella sua intimità. 

Da VanityFair.it

La parola scelta da Oxford a rappresentare il 2024 punta l’attenzione sull’impatto che Internet sta avendo sulla nostra materia grigia. Certo, dovremmo preoccuparci seriamente per certe evidenti conseguenze sulla salute mentale e cerebrale. Ma non prima di aver compreso alcuni concetti fondamentali. Perché la buona notizia c’è

La parola dell’anno suscita inquietudine. Brain rot, letteralmente «marciume cerebrale», termine eletto dall’Università di Oxford a rappresentare il 2024, fa quasi pensare a un popolo di zombie che si aggirano per le strade, lo sguardo fisso su di un punto preciso, orecchie tappate, reazione agli stimoli pressoché inesistente. Zombie come quelli creati dal Fentanyl, la droga più letale del momento, che sta strappando cervelli, speranze e vite a un numero sempre più elevato di giovani nel mondo. L’associazione sembra esagerata? Converrà allora ricordare che il meccanismo alla base dei due fenomeni è sostanzialmente il medesimo: la dipendenza.

In Italia, secondo il rapporto Digital 2024, passiamo in media 5 ore e 49 minuti connessi a Internet. Un tempo enorme, se consideriamo che durante lo stato di veglia dovremmo essere tendenzialmente impegnati tra scuola/studio/lavoro, pasti, sport e hobby, relazioni e varie altre attività. 5 ore e 49 minuti al cellulare come media significa rinunciare a una copiosa fetta di vita reale, esperienze, conoscenza, attività e contatto umano. Peggio ancora, significa che si usa lo smartphone mentre si sta facendo altro, distogliendo l’attenzione dalla realtà e facendosi catturare, ancora una volta, dallo schermo.
Ma che cosa guardano le persone? Contenuti virali e video divertenti, balletti, meme, battute, ma anche profili social di interesse pubblico e privato, talvolta video e articoli di carattere informativo (ma raramente con la capacità di distinguere le fake news) e molto probabilmente anche contenuti porno.

Secondo il dizionario inglese, per brain rot si intende «il presunto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona dovuto a un consumo eccessivo di materiale – nel caso specifico i contenuti online – definito banale o poco impegnativo».
Ma i primi “sintomi” di questo decadimento cerebrale potrebbero risalire addirittura a una ventina di anni fa, quando gli scienziati studiarono gli effetti di una nuova invenzione chiamata “e-mail” e l’impatto che un’incessante raffica di informazioni avrebbe avuto sul cervello. Ciò che emerse dal loro studio fu che il costante sovraccarico cognitivo portava a un effetto peggiore rispetto a quello generato dall’assunzione di cannabis: il quoziente intellettivo dei partecipanti scendeva in media di 10 punti. Che cosa è potuto accadere nell’arco di questi due decenni che hanno portato ad avere internet sempre a portata di mano sui cellulari?

Stiamo vivendo «una tempesta perfetta di degrado cognitivo» ha sentenziato in un’intervista rilasciata al The Guardian Earl Miller, neuroscienziato del MIT ed esperto mondiale di attenzione divisa. E non è stato l’unico a lanciare l’allarme. Gloria Mark, professoressa di informatica all’Università della California e autrice di Attention Span, ha trovato prove di quanto drasticamente stia diminuendo la nostra capacità di concentrazione. Nel 2004, il suo team di ricercatori ha scoperto che la capacità media di attenzione su qualsiasi schermo era di due minuti e mezzo. Nel 2012 erano 75 secondi. Sei anni fa l’attenzione era già scesa a 47 secondi. Tutto ciò rappresenta «qualcosa di cui penso che dovremmo preoccuparci molto come società», ha detto nel 2023 in un podcast dell’American Psychological Association.

Sono numerosissime le ricerche accademiche condotte negli ultimi anni a riprova di come un uso intenso e prolungato di internet stia riducendo la nostra materia grigia, accorciando la durata dell’attenzione, indebolendo la memoria e distorcendo i nostri processi cognitivi.
Sebbene agli occhi degli psicologi americani appaia ancora troppo presto per trarre delle conclusioni definitive, nel 2018, un report prodotto dalla Sandford University ha rilevato che secondo i dati degli ultimi dieci anni di ricerca, le persone che utilizzano frequentemente più tipi di media contemporaneamente ottengono risultati peggiori in semplici compiti legati alla memoria.

L’uso eccessivo di tecnologia durante gli anni di sviluppo cerebrale è stato persino definito da alcuni ricercatori canadesi come l’atteggiamento che può condurre allo sviluppo di una «demenza digitale». Il loro studio sulla Demenza digitale nella generazione di Internet spiega come un tempo eccessivo trascorso davanti allo schermo durante lo sviluppo del cervello aumenterà il rischio di malattia di Alzheimer e demenze correlate in età adulta.

Questo in aggiunta a tutta una serie di altri problemi psicologici legati allo sviluppo che di recente, nel nostro Paese, hanno indotto un gruppo di pedagogisti a lanciare un appello – sottoscritto anche da docenti ed esperti di educazione, medici, scrittori e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo – per chiedere al governo di vietare lo smartphone sotto i quattordici anni e il profilo social prima dei sedici.

Ma non è solo responsabilità nostra se la tecnologia ci rende meno intelligenti. La funzione dello “scrolling”, che induce a scorrere immagini e contenuti all’infinito – determinata da un feed on line che si ricarica incessantemente – manipola il sistema di ricompensa innescato dalla dopamina a livello cerebrale. E questo lasciarsi andare alla ricerca “infinita” di contenuti può creare dipendenza. È così che il brain rot diventa una minaccia reale.
Quante persone, in definitiva, sono davvero consapevoli di come la tecnologia stia letteralmente facendo marcire il nostro cervello e di come l’uso decisamente compulsivo di Internet stia distruggendo la nostra materia grigia?

È tutto vero, ma non tutto è perduto

La buona notizia è che il termine “marciume cerebrale” è stato reso popolare on line dai giovani che sono maggiormente a rischio dei suoi effetti. Il New York Times riporta che nell’arco di due anni c’è stato un incremento del 230% nell’uso del termine brain rot; un aumento sostenuto anche dalla crescente diffusione del concetto su piattaforme social come TikTok e X.

Il fatto che coloro che sono più a rischio siano anche quelli con la maggiore consapevolezza del problema è una notizia incoraggiante: per mettere in atto un qualsiasi cambiamento, il primo passo è la comprensione del problema. E c’è allora motivo di sperare, grazie anche ai movimenti anti-tecnologia sorti negli ultimi anni, alle leggi che puntano a vietare l’uso degli smartphone al di sotto di una determinata età (un caso fra tutti quello dell’Australia, che ha ufficialmente vietato l’uso dei social al di sotto dei sedici anni), alle campagne per un’infanzia senza smartphone, che sembrano trovare sempre più consenso persino fra gli stessi ragazzi: secondo un’indagine degli psicologi dell’Associazione Di.Te. – che si occupa di dipendenze tecnologiche e cyber bullismo – e del portale studentesco Skuola.net, quasi la metà dei giovani italiani tra i dieci e i venitquattro anni (47%) sarebbe d’accordo con questi divieti. Piccoli passi verso un futuro in cui saremo in grado di riappropriarci delle nostre menti.

Da Marie Claire

Quanti di noi sanno che una donna di nome Giuseppina Re si è battuta per la legge che vieta il licenziamento per nozze?

Proviamo a iniziare questa storia leggendo attentamente qualche riga in “legalese”: «Le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte. Del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa di matrimonio». Al primo impatto, quanto abbiamo letto sembra un estratto dalla sentenza di qualche assurda vertenza sindacale, intentata da una lavoratrice dopo che uno sconsiderato titolare l’ha licenziata per un motivo ingiustificato, ossia perché si è sposata. Chi mai licenzierebbe una donna solo perché si è sposata? Purtroppo (per allora) e per fortuna (per noi, oggi), un tempo invece era così. Quello riportato sopra è un estratto dalla Gazzetta Ufficiale che nel 1963 pubblicava il testo della legge n. 7 del 9 gennaio 1963 con cui veniva cancellato per sempre (si spera) il diritto del datore di lavoro, anche nella pubblica amministrazione, di licenziare una donna per il semplice motivo di essersi sposata. Si trattava di una facoltà discriminatoria del datore di lavoro di cui a distanza di oltre sessant’anni si è persa memoria, ma che al tempo non faceva indignare nessuno. Non è stata certo l’ultima ingiustizia subita dalle donne sul lavoro, tutte sempre in violazione dell’articolo 3 della Costituzione che dice «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [etc.]»: proprio nel 2022 il ministero della Difesa, nei bandi di concorso, ha chiesto ancora alle donne il test di gravidanza.

Oggi i sindacati di categoria insorgono, ma prima del 1963 la motivazione del licenziamento per una donna andata a nozze sembrava legittima perché parlava di un ipotetico fine di «proteggere la funzione familiare della donna». In pratica, la si mandava a casa in modo che non trascurasse marito e figli, era un favore non chiesto a lei e alla società. Nella realtà sappiamo che le future gravidanze delle dipendenti sono da sempre uno spauracchio di molti datori di lavoro, e che al tempo sbarazzarsi di una futura mamma era molto più semplice di oggi. Poi è arrivata la legge 7/63 che ha stabilito dei paletti, monitorando il licenziamento e le dimissioni della dipendente nel periodo che va dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione. Chi bisogna ringraziare per questa norma? Una deputata che sembra essere stata dimenticata dalla storia. Si chiamava Giuseppina Re, era di Pieve Porto Morone, in provincia di Pavia, e aveva il pallino dei diritti civili sin da quando da bambina il padre le raccontava la storia di Sacco e Vanzetti, i due italiani giustiziati innocenti in America. Durante la guerra Pina Re ha fatto la commessa nei grandi magazzini Duomo e nella drogheria di piazzale Lagosta a Milano, e nel capoluogo lombardo aveva conosciuto e iniziato a collaborare giovanissima con i partigiani, mentre cominciava coraggiosamente a fare attività ante litteram per le questioni femminili, un tema al quale al tempo stentavano a interessarsi persino le donne stesse, per non irritare padri e mariti. Nel 1948, Pina Re è stata una delle prime donne elette al Parlamento italiano, ma diede presto le dimissioni per problemi di salute. Fu rieletta nel 1958, si rimboccò le maniche e spinse alcune delle riforme più importanti della giustizia minorile e del diritto di famiglia di questo Paese. E ovviamente, è stata la prima firmataria della legge contro i licenziamenti delle donne per matrimonio. Anche dopo la fine del suo mandato, Giuseppina Re ha continuato a fare attività per una società migliore: è lei che ha fondato il Sunia, il sindacato degli inquilini, ed è lei ad aver lottato per l’istituzione del Parco Nord a Milano. Morta nel 2007 a 94 anni, è stata una grande politica e oggi è vittima della memoria corta dei nostri tempi, un personaggio di cui le nuove generazioni dovrebbero chiedere un monumento e studiare la biografia, per tenere sempre bene a mente che i diritti di cui godiamo non sono mai caduti dal cielo, e che la loro permanenza non va mai, mai data per scontata.

Da Erbacce

Da il manifesto – Sono passati cinquantacinque anni dalla strage di piazza Fontana e questo anniversario sarà il primo che vivremo senza Licia. Lei, peraltro, le ricorrenze le ha sempre vissute male: pensava che fare della memoria una commemorazione non avesse senso, perché ricordare non è mettere una corona di fiori su una lapide ma uno sforzo costante. La sua storia, del resto, è lì a testimoniarlo. Quando alla fine della guerra Licia venne mandata nella Roma liberata dagli Alleati, decise di iscriversi al Pci.

Tornata a Milano, però, una volta il partito le chiese di andare in giro a vendere mimose. Lei disse di no perché riteneva la cosa poco dignitosa, le fu dato della reazionaria e così decise di stracciare la tessera. Era un fatto di coerenza, e il punto lo avrebbe tenuto per tutto il resto della sua vita, anche rifiutando le tante offerte di candidatura che sarebbero arrivate in seguito.

Noi figlie viviamo questo anniversario in maniera più dolorosa del solito, ma non possiamo che portare avanti le battaglie di Pino e Licia. Nostra madre ci ha dato la possibilità di scegliere cosa fare, e noi scegliamo di continuare a ricordare. Non è scontato né facile. Solo due anni fa siamo state costrette a denunciare un ex questore che era andato in televisione a raccontare vecchie menzogne su Pino e su quello che gli è accaduto.

Significa che non c’è niente di acquisito e che bisogna lottare ogni giorno: la memoria è una scelta che va fatta quotidianamente, perché non c’è niente di acquisito e la riscrittura della storia rientra all’interno di una strategia precisa. Non è un caso che molti diritti che davamo per certi adesso li stiamo via via perdendo. Nel 1969 si discuteva per esempio di disarmare le forze di polizia e il dibattito era arrivato a una fase molto avanzata, mentre oggi non si riesce nemmeno a introdurre un elemento di civiltà come quello dei numeri identificativi sulle divise di chi dovrebbe mantenere l’ordine nelle piazze. E tante battaglie che sono state vinte sul fronte della sanità pubblica, della scuola pubblica, delle tutele dei lavoratori e dei diritti di tutti adesso sono tornate in discussione.

Anche qui ritorna un po’ il senso di quella strage e di quella che chiamiamo “strategia della tensione”: fermare un forte movimento sociale e culturale che stava ottenendo consenso e vittorie. Viviamo in un paese in cui la verità è sempre a metà, però: sappiamo dalle sentenze che la manovalanza delle stragi fu di stampo fascista, ma, almeno a livello giudiziario, tante complicità non sono mai venute fuori.

Da qui il nostro impegno per la memoria: come facevano i partigiani, continueremo a incontrare i ragazzi e le ragazze per raccontare loro la nostra parte della storia. In queste circostanze conosciamo tanti giovani che, tra tante difficoltà, lottano per delle istanze sociali e collettive, senza personalismi, con coraggio e impegno. A volte ci chiedono cosa si può fare. La risposta è che bisogna sempre andare avanti a chiedere libertà e giustizia, continuando a coltivare una speranza che serve a tutti quanti.

Da Il Quotidiano del Sud – In un villaggio della Sierra Leone, in Africa, viveva una bambina di undici anni con il padre e tre fratelli più grandi di lei. La madre (forse) era morta. Un giorno il padre decise di lasciare la propria casa con tutta la sua famiglia. Sognavano di andare in Italia, in Europa, ma avrebbero dovuto attraversare il deserto, arrivare in Tunisia e da lì affrontare la traversata di quel mare che ormai faceva paura. Un mare, il Mediterraneo, divenuto un cimitero che accoglie nei suoi abissi migliaia di esseri umani come loro (1.600 nel 2024, 20.894 i riportati indietro con la forza nei lager libici). A ucciderli è la disumanità, crudeltà e ferocia di chi li vuole fermare, respingere, e ostacola in ogni modo chi, invece, vuole soccorrerli e salvarli. Costruisce prigioni, come quella in Albania, per rinchiuderli e respingerli più velocemente in quanto non degni di vivere in un paese europeo. L’Europa tutta, dopo la Shoah, si sta macchiando di crimini contro l’umanità. Nel cuore di quel padre e dei suoi figli il desiderio di partire era più forte della paura del viaggio. Volevano lasciarsi alle spalle miseria, fame, disperazione. Attraversarono a piedi il deserto, arrivarono in Tunisia ma quando venne il momento d’imbarcarsi, dopo aver pagato uno scafista, sul barchino di ferro non c’era posto per tutti. Il padre volle che a partire per primi fossero la figlia e il figlio maggiore, li avrebbero poi raggiunti.

Maria, Maryam, è questo il nome della bambina. Un nome che, in prossimità del Natale, non può non fare pensare a quella giovinetta di Nazareth che, duemila anni fa con il suo sì, rese possibile quell’evento straordinario, che si ripete ogni anno, dell’irrompere di Dio nella storia umana. Maryam parte col fratello che doveva proteggerla. Partono l’8 dicembre. Il mare è agitato, il barchino scivola tra le acque ma ben presto si scatena una tempesta. «Sulla barca di ferro eravamo in 45. Ma a un certo punto il mare – racconta Maryam – è diventato troppo più grande di noi. La barca si è riempita d’acqua ed è andata a fondo. Per un po’ siamo rimasti in tre», lei il fratello e il cugino, «tutti attaccati a quel salvagente», una camera d’aria che il fratello era riuscito ad afferrare prima del naufragio. «Eravamo vicini nel mare. Ci tenevamo. Pregavamo. Ma poi non li ho più visti. Sono rimasta sola». Unica sopravvissuta al naufragio. Non oso nemmeno immaginare cosa abbia provato in quelle ore, forse giorni, notti, albe rimasta da sola aggrappata disperatamente alla camera d’aria. Sola, in preda alla paura, immersa nell’acqua a soffrire il freddo, la fame, la sete e a pregare il suo Dio. Nessuna bambina o bambino, in ogni parte del mondo, dovrebbe mai provare quello che ha provato lei. Non c’è crimine più grande di questo. L’11 dicembre, in una notte senza stelle e senza luna, la bambina sente in lontananza il rumore del motore di una barca. È il veliero Trotamar III di una Ong tedesca. Raccoglie tutte le sue forze e si mette a urlare «Help!», Aiuto. Il suo grido arriva fino al veliero. «È stata una coincidenza incredibile, noi eravamo in mare a cercare altre persone che avevano lanciato Sos. Ma dopo una tempesta durata giorni non c’era speranza. Solo per caso, alle 3,20 del mattino, il nostro equipaggio – racconta il capitano – ha sentito le urla della bambina nell’oscurità e ha avviato immediatamente una manovra di salvataggio». «Incredibile, pazzesco, un miracolo aver sentito la sua voce», dice la vice-capitana, Ina Fien. Maryam è a Lampedusa, «le sue condizioni sono abbastanza buone, a parte il trauma di quello che ha vissuto e che è inimmaginabile». Il Natale di quest’anno avrà il volto della bambina di undici anni salvata dalla strage degli innocenti di Erode del nostro tempo.

Da Rivista Studio

Ho approfondito davvero l’affaire Leonardo Caffo soltanto qualche giorno fa, quando è stata emessa la sentenza di condanna di primo grado a quattro anni per lesioni alla sua ex compagna. Non per entrare nella faccenda da amante del torbido, ma perché volevo capire meglio la reazione che io stessa avevo avuto di fronte alla notizia.

Dopo aver letto qualche breve articolo che riportava i fatti, sono incappata in alcune frasi tratte dalle deposizioni della ex riguardo i maltrattamenti ricevuti, di carattere verbale e fisico. Tralasciando la seconda tipologia – non per sminuirla, al contrario: un maltrattamento fisico come un dito rotto o delle percosse sono autoevidenti e per questo condannate immediatamente da tutti – la mia riflessione si è concentrata soprattutto sulle violenze verbali. «Devi morire», «Sei un’idiota, un’incapace», insulti a lei, alla famiglia, agli amici. Leggendole, la reazione che ho avuto è stata qualcosa del tipo: vabbè, può succedere quando si litiga. Dopo un attimo, mi sono soffermata su questa mia reazione. Cosa significa “succede”? Significa che per me tutto questo è lecito in determinati contesti? Che non è violenza? Che augurare la morte, essere sviliti in quello che si è, si fa, le relazioni che si hanno, può essere considerato normale, ogni tanto? Mi sono resa conto che sì, la mia prima reazione intendeva dire questo. Che stavo, parzialmente, giustificando l’accaduto. Come me, molte altre persone avranno pensato la stessa cosa. Poi mi sono resa conto sminuivo la gravità della violenza perché, per un certo periodo della mia vita, la ho sminuita mentre la subivo.

È successo non molti anni fa. Accettavo che quando si litigava volassero parole pesanti, che il modo in cui conducevo la mia vita diventasse un’accusa, che mi venissero rimproverate le mie amicizie, cosa e come postavo sui social. Ho sminuito l’essere colpevolizzata se alcuni comportamenti non mi andavano bene e la mia reazione a tutto questo diventava poi un motivo di senso di colpa e di denigrazione da parte sua. Ho accettato che dopo un litigio il mio desiderio di allontanarmi venisse frustrato, che ci si avvicinasse di nuovo perché aveva capito, sarebbe stato tutto diverso e dopotutto lo era già: non lo vedevo come era mogio e accorato nel dirmelo?

Quando ho letto la lista delle accuse a Leonardo Caffo mi sono ricordata di quanto è facile entrare in un vortice di debolezza e di risposta anticipata, nel tentativo di evitare tutte quelle situazioni che potrebbero portare a parole di quel tipo, a situazioni di quel tipo. E di quanto, una volta entrati nel vortice, sia difficile uscirne. Anche se ti rendi conto che lo stai vivendo, che stai mettendo in atto un meccanismo di difesa che però non equivale ad andarsene, ma di base ad accettare che le nuove regole del gioco siano quelle, anche se la prima volta che ti vengono presentate sembrano da subito assurde e fuori fuoco rispetto a come sei, a come ti definiresti, a come hai sempre pensato di essere. Credo di essere una persona piuttosto solida, femminista, razionale, con dei valori e una discreta dose di autostima. Tutte caratteristiche che avevo sempre pensato mi avrebbero messo al riparo da situazioni come quelle di cui si legge sui giornali, che qualche conoscente ti racconta. Quelle emerse nella vicenda di Leonardo Caffo.

Non è così. Non sono sempre sufficienti, e l’amore e le relazioni amorose non sono sempre un terreno di parità e comprensione, di raziocinio dove se le regole comuni non sono condivise allora salta il banco. Le regole invece si inventano, si modulano, si adattano di volta in volta. E ogni giorno si piegano e piegano le persone che le accettano.

Al di là dell’opinione generalizzata su questi temi, sulle prese di posizione aprioristiche, al di là di un certo malsano silenzio attorno alla questione di Leonardo Caffo e anche alla sua difesa in occasione della sua presenza a Più Libri Più Liberi (quest’anno dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin), dove l’amica e direttrice del festival Chiara Valerio ha comunque deciso di stare dalla sua parte, quello che mi ha fatto riflettere è che su questi temi troppo spesso la reazione è quella di una scrollata di spalle, di un ridimensionamento del danno, di un ridimensionamento della colpa e della responsabilità del colpevole. Deriva dal patriarcato o, se vogliamo dirla meglio, dal modo in cui per secoli si sono accettate consuetudini e modi di ragionare, ma anche dalla fatica di separare i fatti da chi quei fatti li compie.

Un nostro amico non lo potrebbe mai fare. Una persona acculturata, un filosofo, non lo potrebbe mai fare. Una persona con un’aria rispettabile, bonaria, non lo potrebbe mai fare. E invece possono farlo in tanti, possono farlo tutti. Tanti, tutti, possono ritrovarsi nella situazione di accettarlo. E quando lo si fa non si torna più indietro. Ieri sera, mentre parlavo della vicenda Caffo, ho realizzato che non sono più quella di prima. Mi metto in guardia, certo, so bene cosa significano le vicende che ho vissuto e quanto fossero tossiche, come si dice. Lo sapevo anche mentre le vivevo. Ma sono entrate dentro di me, hanno provocato dei cambiamenti impercettibili: oggi, anche se sto con una persona completamente diversa e so di non voler più accettare certi comportamenti, capita che la prima reazione che sento sia quella di una colpa. Voglio prevenire, percepisco già il timore delle conseguenze. Come un virus che, anche se si debella, in qualche modo ha modificato l’organismo in maniera irreparabile. Come una violenza.

A queste cose, quando accade quello che è successo tra Caffo e la sua ex compagna, non si pensa granché, si è troppo occupati ad approfondire il gossip, a schierarsi da una parte o dall’altra, a interpretare tutto secondo l’etica corrente. Per alcuni può essere quella aprioristica del «sorella io ti credo», per altri quella altrettanto aprioristica dell’“Ormai non si può più dire niente”. Per qualcuno, “quando capisci che uno è così te ne devi andare”; “sei troppo debole”; “se ci rimani significa che ti sta bene”. Nel frattempo però si perde il filo del discorso.

Approfondendo la vicenda di Leonardo Caffo ho sentito un ulteriore strato di tristezza, che non nasce soltanto dal realizzare l’incoerenza di chi, avendo sempre difeso le vittime – le donne in questo caso – non l’ha fatto soltanto per questa volta (come ha anche scritto Simonetta Sciandivasci su La Stampa). Viene piuttosto dall’arroganza serpeggiante nel comportamento di Caffo, dall’irrisione delle accuse e di chi lo accusa. Una specie di martirio portato avanti come esempio, lo stoico capro espiatorio che con il suo corpo risponde della sete di sangue di un supposto clima da caccia alle streghe («Ne hanno colpito uno per educarne mille», ha dichiarato quando è stata emessa la sentenza). Solo chi custodisce la verità, il filosofo, può sopportare tutto questo perché può andare oltre le mere questioni umane, anzi da queste può trarre linfa per il suo lavoro, per poter elaborare più alte e universali teorie perché perfetto conoscitore delle bassezze umane. Può «leggere Spinoza» mentre fuori si scatena la shitstorm, come dice nel passaggio di un podcast dove è stato ospite sette mesi fa. La sua esperienza vissuta al limite per poterla rendere testimonianza. La vita come un romanzo russo.

Leonardo Caffo è stato condannato in primo grado e ha due altri gradi di giudizio per cercare di dimostrare la sua innocenza. Nel frattempo e a prescindere dall’esito, potremmo utilizzare questo tempo per imparare a ragionare meno per assiomi, soprattutto se basta un conoscente per spazzarli via, soprattutto se chiunque, anche quelli che credono di esserne immuni, possono fare esperienza di violenza e rimanerne toccati per sempre.

Dal Corriere della Sera – Negli Stati Uniti il solo fatto di rimanere incinta o di avere da poco dato alla luce un bambino aumenta del 20% la probabilità di una donna di essere uccisa. Nel caso delle ragazze con meno di 25 anni addirittura lo raddoppia. È un dato impressionante a cui il New York Times dedica un lungo articolo. La causa di questo aumento drastico del rischio di morte legato alla maternità sono i femminicidi, cioè la violenza maschile sulle donne. Nella maggior parte di questi omicidi, infatti, l’assassino è il partner o l’ex partner.

«I decessi per omicidio – scrive il New York Times – vengono solitamente omessi dalle statistiche sulla mortalità materna perché non sono considerati sufficientemente correlati alla gravidanza stessa. Ma l’omicidio non è un’anomalia rara per le donne incinte e post-parto: è una delle principali cause di morte. Questo rende gli omicidi associati alla gravidanza, come vengono chiamati dagli epidemiologi e dai ricercatori sanitari, un vero e proprio problema di salute pubblica». La violenza maschile è la seconda causa di morte per le donne incinte o neo-madri (il primo sono le overdosi da droga) e il rischio aumenta per tutte le donne, ma è particolarmente alto per le madri nere.

«Lo stress e le turbolenze emotive di una gravidanza, soprattutto se inaspettata, possono esacerbare una relazione già violenta. Secondo gli esperti di violenza domestica, l’abuso precede quasi sempre la gravidanza. La violenza domestica è radicata nel potere e nel controllo e la gravidanza è un vincolo che può cambiare la dinamica di una relazione. Una volta che i partner sono legati da un bambino all’orizzonte, i maltrattanti possono sentirsi più impuniti ed esacerbare il loro comportamento. Improvvisamente, non ci sono solo legami emotivi, ma anche legali e finanziari. E altrettanto improvvisamente, per una donna incinta, diventa molto più difficile andarsene» spiega ancora il New York Times, che racconta la storia di una vittima ventenne, Markitha Sinegal, neomamma di due gemelle di nove mesi, uccisa dal padre delle bambine che lei voleva lasciare perché era violento e controllante.

In questo aumento del rischio di femminicidio ci sono alcuni fattori prettamente americani, come la diffusione delle armi da fuoco: circa tre quarti degli omicidi rilevati da questa statistica sono compiuti a colpi di pistola o fucile. È noto che se gli uomini maltrattanti hanno una maggiore disponibilità di armi letali è più probabile che le usino. E questo, a parità di violenza nella relazione di coppia, aumenta il numero di femminicidi. Una delle forme di prevenzione raccomandate dal quotidiano americano è quindi diffondere e applicare meglio le leggi, già presenti in alcuni Stati americani, che permettono di togliere le armi a chi ha precedenti di qualsiasi tipo per violenza domestica o lesioni personali. Un altro strumento di prevenzione consigliato è migliorare le informazioni sulla contraccezione e l’accesso all’aborto per far sì che le donne che non vogliono portare avanti una gravidanza possano scegliere di non farlo (negli ultimi due anni però l’accesso all’aborto è stato fortemente limitato se non eliminato del tutto in molti Stati americani).

Sarebbe importante anche includere nelle visite pre- e post-parto degli screening per la violenza di genere, a cominciare dai cosiddetti test Isa per la valutazione del rischio di femminicidio (si può fare anche online qui) e formare le forze dell’ordine e i medici in modo che sappiano rilevare e segnalare meglio i rischi connessi alla violenza domestica. In Italia in parte si è fatto con alcune sperimentazioni (come il codice rosa negli ospedali), ma dovrebbe diventare un approccio sistematico: la carenza di risorse nei pronto soccorso e nella medicina territoriale non aiuta nemmeno per questo aspetto.

Tra gli strumenti di prevenzione segnalati dal New York Times ce n’è infine uno molto complesso e importante: «Insegnare ai giovani come si presentano le relazioni pericolose. Le bandiere rosse di una relazione che tende all’abuso possono essere difficili da vedere se non si sa cosa cercare. L’apprendimento di ciò che è sano può iniziare in classe con i bambini piccoli». È quello che in Italia sta cercando di fare anche Gino Cecchettin con la Fondazione intitolata a sua figlia Giulia.

In Italia non ci sono dati statistici sul legame tra maternità e rischio femminicidio, ma è noto che le donne vengono uccise soprattutto nell’ambito delle relazioni di coppia. Nel 2023 il tasso delle donne uccise da un partner o un ex partner – sia esso un coniuge, un convivente o un fidanzato o un amante – è stato dello 0,21 per 100mila donne (del tutto simile a quello del 2022, che era stato dello 0,20). È un tasso più basso di quello medio europeo (in Germania per esempio è dello 0,32 per 100 mila) e questo fatto viene spesso usato per dire che in Italia i femminicidi non sono un vero problema. Ma è un uso strumentale dei dati, perché prescinde da un fatto fondamentale: l’Italia ha il tasso di omicidi più basso d’Europa. Per valutare l’incidenza dei femminicidi basta confrontare il tasso delle donne uccise da partner o ex (0,21 ogni 100mila) con quello degli uomini uccisi da un/a partner o ex, che è dello 0,02 ogni 100mila uomini. Dieci volte di meno.

Da Pagine Esteri – Era rimasta solo questa possibilità alle donne afghane per studiare e avere un lavoro: diventare ostetriche o infermiere. Il nuovo decreto del governo de facto dei talebani nei giorni scorsi ha strappato alle ragazze anche quest’ultima speranza. Il divieto ha sospeso tutti i corsi di studio in ostetricia e infermieristica per le donne.

È stato il Ministero della Salute Pubblica afghano tre giorni fa a rilasciare il comunicato che tutti i corsi di formazione in ambito sanitario per le donne sarebbero stati «sospesi in tutto l’Afghanistan fino a nuovo avviso».

Circa 17.000 ragazze studiavano per diplomarsi come ostetriche o infermiere. Erano ormai le uniche studentesse nel Paese. L’emirato talebano ha, infatti, progressivamente escluso le donne dalla vita pubblica e dall’istruzione: una progressiva stretta che nel marzo 2023 aveva chiuso persino le scuole alle bambine oltre l’ottavo grado scolastico.

Era rimasta soltanto un’eccezione che permetteva alle ragazze di continuare a sognare un futuro diverso che non fosse soltanto quello di diventare mogli e madri recluse in casa. Potevano, infatti, ancora frequentare i corsi sanitari di ostetricia e infermieristica. Molte ex studentesse di medicina o aspiranti tali così come molte ragazze iscritte ad altri corsi universitari non più accessibili alle donne si erano spostate tra i banchi delle professioni sanitarie. Solo a loro, oltre che alle bambine non più grandi dei dodici anni, era permesso di studiare. E di andare in ospedale e imparare sul campo il mestiere.

Un mestiere, tra l’altro, necessariamente femminile: in Afghanistan un uomo non può visitare una donna in assenza di un tutore e le sale parto sono bandite al personale maschile. Il lavoro delle ostetriche è un’esclusiva delle donne. Era, pare, perché se non potranno formarsi nuove ostetriche questa figura rischierà di scomparire dalle corsie dei già pochi e carenti ospedali afghani.

Il decreto non colpisce “soltanto” le studentesse. L’Afghanistan detiene uno dei più alti tassi di mortalità da parto al mondo: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 620 donne afghane su 100.000 muoiono nel tentativo di dare alla luce un bambino. Un numero altissimo che dimostra quanto fosse necessario migliorare proprio l’assistenza alla gravidanza e al parto, piuttosto che infliggervi un ulteriore danno tanto miope e violento. Proprio pochi mesi fa l’Agenzia Onu per la salute riproduttiva (Unfpa) dichiarava «l’urgente bisogno di altre 18.000 ostetriche qualificate per soddisfare la domanda di assistenza al parto» in Afghanistan. Migliaia di studentesse sono, invece, adesso rispedite in casa, e la vita di migliaia di donne e neonati viene messa ulteriormente a repentaglio.

La Missione Onu di Assistenza all’Afghanistan (UNAMA) ha osservato come tale restrizione «alla fine avrà un impatto dannoso sul sistema sanitario in Afghanistan e sullo sviluppo del Paese». Anche Richard Bennett, osservatore speciale Onu sui diritti umani nel Paese, ha commentato che un decreto del genere «avrà un impatto devastante sull’intera popolazione».

Da il manifesto – Lo scorso mese, su un grattacielo alla periferia di Kharkiv, in Ucraina orientale, è improvvisamente comparso uno strano slogan: «I fucili – diceva – puntateli contro coloro che ve li hanno messi in mano». La frase, dal gradevole retrogusto eversivo, sarebbe certamente piaciuta agli ex soldati russi Vyacheslav Trutnev e Dmitry Ostrovsky, che dopo aver disertato dall’esercito di Putin, a inizio ottobre, hanno scritto e diffuso via social la seguente canzone rap: «Me ne frego se mi chiamano traditore/ non ho perso la mia dignità/ Aiutiamo le nostre madri/ mettiamolo in culo ai nostri comandanti».

E poi, c’è chi è già passato dalle parole ai fatti, come il disertore pietroburghese Alexander Igumenov, che la sera del 30 ottobre scorso ha accolto il capo della pattuglia venuta ad arrestarlo puntandogli direttamente una pistola in mezzo agli occhi: «O ti levi di torno – gli avrebbe detto -, oppure al ministero della Difesa avranno bisogno di un ufficiale in più». Una scena non molto dissimile si è verificata la settimana successiva sull’altro versante del confine, nel villaggio ucraino di Lykhivka, dove un anonimo camionista si è smarcato da un gruppo di reclutatori dell’esercito minacciandoli con un fucile e una bottiglia Molotov. Non sappiamo se l’uomo avesse ascoltato le rime di Trutnev e Ostrovsky, ma è certo è che il clima di mobilitazione patriottica, tra la Moscova e il Dnipro, ultimamente sembra essersi parecchio guastato.

Per sincerarsene, basta consultare i recenti report pubblicati dal collettivo anarchico “Assembly” di Kharkiv (assembly.org.ua), che dal febbraio del 2022 si sforza di censire ogni singolo episodio di ribellione antimilitarista su entrambi i lati del fronte. «La fuga del personale delle Forze Armate – scrivono gli attivisti nel loro ultimo rapporto, datato novembre 2024 – ha ormai assunto il carattere di una valanga». E in effetti i numeri parlano piuttosto chiaro. Dall’inizio dell’invasione a oggi, secondo i dati della Procura generale, circa 95mila soldati ucraini sarebbero stati incriminati per aver abbandonato i propri reparti senza autorizzazione. Di questi, circa 60mila uomini avrebbero gettato la divisa nel corso del 2024, e ben 9.500 nel solo mese di ottobre.

Ma è probabile che il fenomeno sia ancora più vasto: «Di sicuro il numero dei nostri disertori ha già superato i 150mila e si avvicina a 200mila – ha scritto il giornalista di Kiev Volodymyr Boiko, che attualmente presta servizio nella 101ª Brigata delle Forze armate ucraine – Se le cose vanno avanti così, arriveremo a 200mila entro fine dicembre».

Anche sul fronte russo la gente sembra ormai stanca di combattere: è degli scorsi giorni la notizia che circa mille uomini avrebbero disertato in massa dalla 20a Divisione fucilieri motorizzata, trascinando con sé persino 26 ufficiali, un maggiore e un colonnello. «I militari che si danno alla macchia sono sempre più numerosi – si legge in un messaggio che gli attivisti di “Assembly” hanno recentemente ricevuto da Horlivka, nella repubblica filorussa di Donetsk – Qualcuno va ripetendo in giro che i nostri soldati dovrebbero smetterla di sparare agli ucraini, e che piuttosto bisognerebbe aprire il fuoco contro chi ci governa. Ma la gente ha ancora paura di questi discorsi, e in molti si fanno prendere dal panico: “Volete tornare al 1917?”, chiedono, “Volete la guerra civile?”».

Un altro messaggio proviene da un giovane coscritto dell’esercito di Putin dislocato sul fronte di Kursk: «Molti dei nostri ufficiali sono dei veri nazisti – dice. Ho parlato con il capo delle comunicazioni della Divisione mortai, il quale senza troppi giri di parole mi ha esortato a leggere “i pensatori tedeschi degli anni Trenta”. D’altro canto, gli uomini della truppa appartengono quasi tutti alla classe operaia, e in generale non hanno nessuna voglia di combattere. Perciò quando spiego ai miei compagni che questa è una guerra ingiusta, di padroni contro altri padroni, in tanti si dicono d’accordo con me».

È uno scenario che stride non poco con quello insistentemente magnificato dagli uffici di propaganda, che a Mosca come a Kiev continuano a battere sulla grancassa dell’“armatevi e partite”. La musica al fronte è un po’ diversa.

Il 3 ottobre a Voznesensk, nella regione di Mykolaiv, circa cento soldati della 123ª Brigata di difesa territoriale ucraina hanno dato vita a una improvvisa manifestazione di dissenso e si sono rifiutati di andare in trincea, protestando per la mancanza di armi ed equipaggiamento adeguato. La stessa cosa era accaduta appena il giorno prima a Vuhledar, sul fronte di Donetsk, dove un altro battaglione della 123ª Brigata, il numero 86, aveva voltato le spalle al nemico e si era dato alla fuga, permettendo peraltro alle truppe russe di conquistare la città. L’unica vittima dell’ammutinamento era stato il comandante in capo del reparto, il trentatreenne Igor Hryb, che secondo alcune fonti sarebbe stato giustiziato dai suoi stessi uomini dopo che, invano, aveva cercato di fermarli.

Gli ufficiali, del resto, hanno vita difficile anche sull’altro versante del fronte, dove le possibilità che vengano abbattuti dal fuoco amico sono forse ancora più numerose. Solo negli ultimi mesi, infatti – sempre secondo “Assembly” – i casi di comandanti moscoviti fatti fuori dai propri soldati sarebbero stati almeno tre. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando i militari dell’unità 52892 dell’esercito di Putin, «portati alla follia» dagli sfiancanti turni di guardia, hanno deciso di aprire il fuoco contro il proprio capo-brigata, ammazzandolo sul colpo. Perché i fucili – come sostengono i writer di Kharkiv – bisogna saperli puntare nella direzione giusta.

Da Fanpage – La giustizia, scriveva la teorica femminista statunitense bell hooks, non è né violenza né retribuzione, ma integrità: è «avere un universo morale, non è sapere soltanto cos’è giusto o sbagliato, ma mettere le cose in prospettiva, soppesarle». Questo universo morale, nel luogo in cui la giustizia si manifesta nella sua forma più istituzionale, viene ridotto a due possibilità: una assoluzione o una condanna. Ma spesso nessuna di queste due possibilità riesce a farci sentire che “giustizia è stata fatta”.

Filippo Turetta è stato condannato in primo grado all’ergastolo per omicidio volontario per aver ucciso la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin l’11 novembre del 2023. Anche se gli è stato dato il massimo della pena, i giudici hanno riconosciuto l’aggravante della premeditazione ma non quelle della crudeltà e degli atti persecutori. Questo nonostante la perizia abbia stabilito che Cecchettin è stata uccisa con 75 coltellate e nonostante in aula siano stati letti i messaggi che Turetta le inviava in continuazione, in cui pretendeva di essere aggiornato su ogni momento della sua vita.

Ma non è tanto il mancato riconoscimento delle aggravanti, che è stato definito dall’avvocato di parte civile per Elena Cecchettin “un passo indietro”, a non riuscire a dare alla conclusione del processo un vero senso di giustizia, bensì il concetto che ha espresso Gino Cecchettin dopo la lettura della sentenza: «Abbiamo perso tutti come società. Nessuno mi ridarà indietro Giulia, non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri. È chiaro che è stata fatta giustizia, ma dovremmo fare di più come esseri umani, la violenza di genere va combattuta con la prevenzione, non con le pene. Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato niente rispetto a ieri o a un anno fa». Parole che ricordano quelle pronunciate solo pochi giorni fa da Chiara, la sorella di Giulia Tramontano, uccisa dal compagno Alessandro Impagnatiello, anche lui condannato all’ergastolo il 25 novembre scorso: «Nessuna donna ha vinto in quest’aula: oggi è arrivato l’ergastolo, ma dopo la morte».

Come ha ricordato in tante occasioni lo stesso Gino, la violenza di genere non riguarda solo due individui, chi ha ucciso e chi è stata uccisa. Tante altre cose sarebbero potute succedere senza che un tribunale dovesse arrivare a pronunciare una sentenza per omicidio: una richiesta di aiuto, un percorso terapeutico, una denuncia, magari un corso di educazione affettiva. Queste mancanze sono responsabilità di tutta la società, dalla famiglia alla scuola, passando per la cultura in cui tutti e tutte siamo immersi e il fallimento non può che essere collettivo. Il padre di Giulia lo ha riconosciuto subito, tanto da dedicarvi l’orazione al funerale della figlia: anziché chiedere una pena esemplare, anziché attribuire colpe, ha chiesto cosa possiamo fare come società per essere migliori.

E proprio perché la violenza di genere e il femminicidio in particolare sono così radicati in un tessuto culturale che normalizza, se non addirittura celebra, la cultura del dominio e della violenza, è logico che non può essere la cultura del dominio e della violenza a porvi rimedio. La punizione severa, allontanando “il mostro” dalla collettività, ci può dare l’illusione che il problema sia risolto, anche se evidentemente non è così: dal 2009 a oggi le pene previste per i reati di genere, dai maltrattamenti in famiglia all’introduzione dell’aggravante del femminicidio (inteso come omicidio di una persona con cui si ha o si è avuta una relazione affettiva, indipendentemente dal genere), sono state aumentate più volte. Da quando è stato introdotto il reato di stalking si è passati dalle 169 condanne del 2009 alle 2.402 del 2018, sebbene ci siano stati ben quattro interventi del legislatore per incrementare le pene previste per questo reato. Secondo l’Istat sono 2 milioni 229mila le donne ad aver subito atti persecutori almeno una volta nella vita da un uomo, di cui 2 milioni 151mila da parte di un ex partner.

Il processo ha dimostrato che Turetta aveva ben chiaro cosa stava facendo, così come aveva ben chiaro che sarebbe stato punito severamente se scoperto, tanto da aver architettato in modo dettagliato un piano di fuga. La prospettiva di passare il resto della sua vita in carcere non lo ha fatto desistere dall’uccidere Giulia Cecchettin; lo ha soltanto spronato a scappare in Germania.

Non sarà questa sentenza, di cui non conosciamo ancora le motivazioni e che non sappiamo ancora se verrà impugnata, a fare giustizia. Sarà fatta giustizia solo quando sarà ricucito quell’universo morale di cui parlava bell hooks: quando sapremo non solo che il femminicidio è sbagliato (lo sappiamo già), ma quando non dovremo più arrivare a pronunciare una sentenza simile. E per farlo, come ha detto Gino, abbiamo bisogno di prevenzione, non di pene.

Da GenovaToday – «Non dico di essere sollevata, ma non mi importa neanche tanto, il punto non è punire il singolo, se avessi voluto punire il singolo mi sarei mossa in altre direzioni». Così Francesca Ghio commenta l’eventuale e probabile archiviazione dell’inchiesta da parte della procura di Genova. La consigliera comunale che ha denunciato in aula consiliare di avere subito uno stupro a dodici anni, ieri è stata ospite del programma condotto da Massimo Gramellini “In altre parole”, su La7, dove ha raccontato la sua storia, ma soprattutto l’importanza del gesto politico che l’ha portata a parlarne in pubblico.

«Quel testo – ha detto riferendosi al testo letto in aula – l’ho scritto la mattina sapendo che in consiglio comunale ci sarebbe stato un documento che avrebbe parlato di violenza di genere. Mi sono accorta che tutti i discorsi che vengono fatti nelle aule, e nel mio caso nell’aula consiliare del Comune di Genova, sono discorsi vuoti e pieni di apatia. Portare un pezzo di me, metterlo al centro della sala, è stato per me un atto politico. Riportare quel dolore come responsabilità delle istituzioni. L’ho fatto per le figlie e i figli di tutti, è stato difficile. Avevo bisogno di togliermi dalla mia esperienza per non emozionarmi, non è stato semplicissimo frantumarmi davanti a tutti. Un mio amico che ha esperienza nel teatro mi ha detto: “Vai decisa fino in fondo, leggi bene e fatti capire”».

Com’è noto, dopo l’intervento di Ghio non c’è stata una reazione immediata da parte del consiglio comunale, ma lei racconta di non esserne stupita: «Forse lo eravate voi, ma per me era la normalità. È il silenzio che fa sì che le istituzioni non abbiano nessun peso risolutivo sulla realtà». Poi: «Mi rendo conto della forza comunicativa, da giorni ricevo centinaia di messaggi, ma la mia è una delle tante storie».

Tra i messaggi e le telefonate c’è anche quella di Giorgia Meloni: «Prendevo una tisana con mia mamma, ho ricevuto una chiamata da un numero sconosciuto, poi un messaggio, ho richiamato e mi è stato passato il telefono: “Pronto, sono Giorgia Meloni”. Ero molto stanca, alienata, ma ho scelto di non sottomettermi alla strumentalizzazione, ringrazio per la vicinanza che però non posso accettare da chi ha la responsabilità istituzionale di risolvere i problemi. Non ho mollato il punto sul ribadire l’importanza di non scaricare la responsabilità sul singolo, ma capire che se abbiamo problemi il primo passo è guardarli negli occhi, deresponsabilizzare non risolve i problemi».

«Lei – continua – rispondeva in romanaccio, come poteva. Diceva che sta facendo tanto per quello che ha la possibilità di fare, ma se siamo a questo punto la responsabilità è di tutti, non accetto la strumentalizzazione del dolore della mia storia».

Ghio ha dribblato la domanda di Gramellini su cosa provi per il suo stupratore: «I miei sentimenti personali non sono il punto della questione, la mia scelta è stata portare la mia storia nelle istituzioni perché la soluzione deve arrivare da lì, non possiamo chiedere soluzione ai centri antiviolenza o alle famiglie».

Centri antiviolenza che, come ha ricordato Fiorella Mannoia, presidente onoraria del centro Una Nessuna Centomila e anche lei ospite di Gramellini, soffrono per il precariato: «Le operatrici sono precarie. Non sanno se riusciranno a prendere lo stipendio il mese dopo. Sono eccellenze nei loro campi, avvocate, psicologhe, in parte volontarie e in parte abbandonano perché non hanno uno stipendio. Lo vogliamo mettere in finanziaria questo come problema?».

«Avrei accettato una consapevolezza del problema. – ha aggiunto Ghio – L’educazione sessuo-affettiva e sul consenso nelle scuole non solo è la prima cosa da cui dobbiamo partire, è un investimento per tutti, ci dobbiamo trovare tutti d’accordo, mettere strumenti in mano ai bambini vuol dire evitare carnefice e vittima. Siamo immersi nella violenza e non se ne esce. Il primo passo politico è applicare in Italia modelli che già esistono, per portare ai nostri bambini la speranza che nel futuro questo modello di violenza non si debba replicare. Alla presidente del consiglio ho chiesto di ricordarsi che siamo tutti fratelli e sorelle in questo pianeta. Continuare a dividerci è tragico al punto della storia in cui siamo, noi che ci candidiamo ad amministrare abbiamo il dovere morale nei confronti della collettività di fare meglio. Sapere che siamo rappresentati da persone che non riescono ad assumersi la responsabilità e si dichiarano intimamente contenti se qualcuno soffre ci dimostra che siamo a un punto agghiacciante».

«Ho un’enorme speranza per la mia generazione, voglio lavorare, continuare a impegnarmi non per mia figlia, ma per tutti i figli di tutti», ha concluso la consigliera.

Ci sono vari momenti della mia vita che hanno modellato profondamente il mio approccio con i soldi e attraverso i quali ho potuto osservare da vicino l’impatto che potevano avere non solo negli aspetti pratici dell’esistenza ma anche sulle relazioni, sulle scelte e sulla percezione di sé.

Nella mia famiglia i soldi non sono mai stati un argomento tabù. Al contrario, erano una presenza – o, a volte, un’assenza – costante nelle nostre vite. Fin da piccola ho capito che il denaro non era solo un mezzo, ma un simbolo, qualcosa che parlava del nostro passato e, allo stesso tempo, tracciava il percorso verso il futuro. Per i miei genitori, i soldi rappresentavano il segno di un’emancipazione tanto desiderata. Venivano da famiglie con un passato di povertà, dove ogni moneta aveva un peso specifico, dove i desideri si accantonavano per far spazio alle necessità. Quando mio padre avviò la sua azienda, il denaro non era più soltanto sopravvivenza: era la dimostrazione di “avercela fatta”. Era il mezzo per costruire una vita migliore, per darci opportunità che loro non avevano avuto, come quella di permettere ai figli di fare una vacanza-studio a Londra – anche solo per qualche settimana – per mostrarci un mondo più grande e ricco di possibilità.

Poi l’azienda fallì. Ricominciare da capo non fu solo una questione economica, ma anche emotiva. Era la frustrazione di vedere sfumare anni di sacrifici, la fatica di rimboccarsi di nuovo le maniche. Fu in quel periodo che iniziai a capire quanto fragile fosse il confine tra sicurezza e precarietà. Come scrive bene Annalisa Monfreda nel suo libro Quali soldi fanno la felicità?, l’emancipazione di un singolo promette sempre un’emancipazione collettiva: il successo personale si intreccia con il sogno di riscatto della famiglia, della comunità di provenienza. E proprio per questo quando tutto crolla il peso del fallimento diventa ancora più schiacciante. Non era solo un’azienda che chiudeva i battenti; era la promessa di un futuro migliore che sembrava improvvisamente sfuggire dalle mani. Quel momento instillò in me un profondo senso di responsabilità, spingendomi a muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Così, durante i weekend del liceo, iniziai a guadagnare i miei primi soldi. Il mio rapporto con il denaro nacque sotto il segno della necessità: non era un lusso, ma un mezzo indispensabile per contribuire e, in qualche modo, alleggerire il peso che sentivo gravare sulla mia famiglia.

Crescendo, ho imparato che i soldi non sono né buoni né cattivi: sono un elemento fluido, mutevole, che assume significato solo attraverso il valore che scegliamo di attribuirgli. E, soprattutto, ho capito che il loro peso non è inevitabile, che dal loro attaccamento si può fuggire, liberandosi dal potere che rischiano di esercitare su di noi.

Il mio secondo approccio con il denaro nacque dalla ricerca di indipendenza. Fu questo desiderio a spingermi a trasferirmi lontano da casa e a cercare un lavoro che mi permettesse di vivere in una città diversa. Quando iniziai a lavorare nel settore della cultura, però, mi scontrai con una realtà che non avevo previsto: essere sottopagata. Nonostante gli sforzi e le competenze che avevo acquisito, mi ritrovai spesso in situazioni in cui il valore del mio lavoro non veniva riconosciuto. Per passione e per necessità, mi ritrovai a fare fino a quattro o cinque lavori contemporaneamente. Era una realtà frustrante e svalutante, che mi portò a mettere in discussione non solo il mio percorso professionale, ma anche il mio valore personale. Essere sottopagata non era soltanto un problema economico; era una questione di dignità. Ogni stipendio che non rifletteva il mio impegno e le mie capacità mi faceva sentire intrappolata in una spirale di insoddisfazione e disillusione. Tuttavia, proprio da quella frustrazione nacque una consapevolezza importante: il valore che attribuisco a me stessa doveva diventare la base su cui costruire le mie scelte, e non quello che gli altri erano disposti a riconoscermi.

Dopo anni di lavori mal pagati, con compensi che a volte si aggiravano tra i cinque e i sei euro l’ora, decisi che non mi sarei voltata dall’altra parte e, seppur proseguire su quella strada costasse grande sacrificio e caparbietà, non avrei abbandonato il settore, anzi, avrei dato il mio contributo per migliorarlo. Lavorare nel mondo della cultura, mi resi conto presto, era ed è un privilegio per pochi. Non perché richieda meno competenze o dedizione, ma perché non tutti possono permettersi il lusso di lavorare gratuitamente. Eppure, nel settore aleggia sovente la narrazione tossica secondo la quale è normale prassi quella di “farsi le ossa”, accumulare anni di esperienza non retribuita, in nome della formazione, della passione per il bello, del sacrificio per una causa più alta. È una trappola sottile. Il fascino della cultura ti attira con promesse di crescita personale ma presto ti trovi intrappolato in un sistema che ti chiede di dare senza mai restituire. Le porte dell’arte, del teatro, dei musei sembrano aperte a tutti, ma in realtà, ancora troppo spesso, si spalancavano solo per chi ha spalle abbastanza larghe da resistere all’assenza di stipendi, contratti e tutele. È un mondo che ti respinge se non puoi permetterti di essere sfruttato. E, nel farlo, ti fa sentire come se la tua passione non bastasse, come se non fossi abbastanza. Ma la verità è un’altra: è il sistema a essere ingiusto, costruito su sacrifici che non tutti possono permettersi di fare. E così, il settore culturale diventa una torre d’avorio, costruita sulle disuguaglianze, sempre più lontana da chi vuole entrarci con il solo biglietto del talento e delle competenze. La cultura, che dovrebbe includere, ispirare, accogliere, diventa una macchina che esclude, sfrutta e scoraggia.

E anche qui risulta importante il tema dei soldi, un argomento spesso evitato durante i colloqui di lavoro, quasi fosse sconveniente parlarne. Ma ignorare il problema significa perpetuare il ricatto per cui se non si accettano le condizioni offerte, ci sarà sempre qualcun altro disposto a farlo per meno. Parlare di denaro, invece, significa rompere quel silenzio che rende i lavoratori ricattabili. Significa rivendicare il diritto a una retribuzione giusta, a una dignità professionale che non deve essere un privilegio, ma un fondamento.

Spinta da queste convinzioni nel 2022 contattai l’associazione Mi Riconosci?, e da quel momento iniziai il mio impegno politico contro i salari inadeguati, il sottoinquadramento e le ingiustizie subite da tanti lavoratori e lavoratrici del mio settore. È stata una svolta importante per la mia vita, che mi ha permesso di trasformare la mia rabbia e la mia esperienza in una lotta collettiva, per dare voce a chi, come me, voleva rivendicare il giusto valore del proprio lavoro. L’iniziativa di “Mi Riconosci?” nasce alla fine del 2015 dalla volontà di un gruppo di professionisti (o aspiranti tali) del mondo dei beni culturali (studenti e laureati, lavoratori e in cerca di occupazione) di cambiare la realtà lavorativa del settore. Situazione che si presenta complessa e articolata: professioni del tutto ignorate o riconosciute solo in teoria e in attesa di decreti attuativi o della fine di processi lunghi anni. Tutti, dagli storici dell’arte agli archivisti, fino ai diagnosti, abbiamo in comune gli stessi problemi: sviliti, sottovalutati, sottopagati, socialmente denigrati. Da qui l’idea di creare una campagna unitaria sull’accesso alle professioni dei Beni Culturali, sulla valorizzazione e riqualificazione dei titoli di studio del settore e l’impegno per raggiungere giuste retribuzioni.

Negli ultimi anni, complice un accumulo di una serie di esperienze insoddisfacenti, ho deciso di cambiare rotta e intraprendere la strada dell’attività da freelance. Non è stata una scelta facile: i rischi erano molti, le paure altrettanto. Ma quella decisione rappresentava per me un atto rivoluzionario di autonomia, un modo per affermare il controllo sul mio percorso professionale. Essere una lavoratrice autonoma mi ha permesso di stabilire un rapporto diverso con il denaro: non più un valore imposto da altri, ma un riflesso diretto del mio impegno, delle mie competenze e della mia capacità di negoziare il giusto compenso per il mio lavoro. La precarietà è ancora un’ombra costante, ma pur senza la sicurezza di uno stipendio fisso, mi ha permesso di capire che il denaro non doveva essere un fine, ma uno strumento: un mezzo per costruire la vita che desidero, piuttosto che una misura del mio valore personale.

Il mio rapporto con i soldi non è mai stato solo una questione di bilancio o numeri, ma anche di equilibrio tra ciò in cui credo e ciò che mi serve per vivere. Conciliare i miei valori etici con la necessità di guadagnare non è facile e spesso mi fa sentire scissa in due. Sensazione provocata dal sistema economico attuale che ci mette di fronte a scelte difficili, dove il bisogno di sicurezza economica sembra entrare in conflitto con ciò che riteniamo giusto o importante per noi stessi e per la società. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se accettare un lavoro che non rispettava i miei principi fosse un compromesso necessario o una rinuncia a ciò che mi definisce. Altre volte, ho scelto di rifiutare proposte apparentemente vantaggiose perché sentivo che avrebbero tradito le mie convinzioni. Questo mi ha insegnato quanto sia sottile il confine tra pragmatismo e idealismo e quanto sia importante, anche nelle difficoltà, cercare di trovare soluzioni che non sacrifichino la nostra integrità.

Credo che la vera sfida sia proprio questa: non fuggire dalle regole del sistema, ma comprenderle e sfruttarle a nostro favore per costruire un futuro più etico e sostenibile. E quando riusciamo a farlo, scopriamo che è possibile trasformare il bisogno di guadagno in un mezzo per creare altri tipi di valore.

Nonostante le difficoltà, ho capito che è possibile utilizzare gli stessi strumenti del capitalismo per creare qualcosa di diverso, qualcosa che rispecchi i nostri ideali. Un esempio che mi ispira profondamente è il progetto dell’Associazione Poveglia per Tutti. Attraverso il crowdfunding, un mezzo di finanziamento collettivo, l’associazione è riuscita a mobilitare centinaia di persone con una visione comune per acquistare e proteggere l’isola di Poveglia, ovvero un bene comune. Così facendo, hanno impedito che fosse sfruttata a scopo commerciale, promuovendone invece un utilizzo pubblico e sostenibile. Questo dimostra che, anche in un sistema spesso percepito come ostile, esistono spazi per realizzare iniziative etiche, che mettano al centro il bene collettivo.

Un altro esempio significativo è l’esperienza del Collettivo di Fabbrica GKN e il loro progetto di azionariato popolare. In questo caso, lavoratori e comunità hanno scelto di unirsi per rilevare e gestire l’azienda in modo collettivo, dimostrando che esistono alternative concrete alla logica del profitto a tutti i costi. Iniziative come queste mostrano che, sebbene il sistema sembri immutabile, ci sono modi per piegarlo a favore di un cambiamento reale e condiviso.

Queste esperienze sono importanti da citare e ricordare perché si oppongono al monopolio di quelle narrazioni che celebrano storie straordinarie di sacrificio, fatte di sudore e rinunce, dove “volere è potere” diventa l’unico mantra accettabile. Quelle storie che esaltano l’eroismo quotidiano delle bidelle che fanno le pendolari da Napoli a Milano, come se l’ingiustizia intrinseca di un sistema che costringe a tali estremi fosse qualcosa da applaudire, anziché da mettere in discussione.

Per concludere, il mio rapporto con il denaro è ancora pieno di contraddizioni, come un nodo che non si scioglie del tutto ma che, in qualche modo, tiene insieme i fili della mia storia. Eppure, come afferma Derrida, «la coerenza nella contraddizione esprime la forza di un desiderio». Forse è proprio questo: il desiderio profondo di conciliare ciò che faccio con ciò in cui credo, di trovare un equilibrio tra la mia professione e la mia etica, di non sentirmi più costretta a scegliere tra guadagnarmi da vivere e restare fedele a me stessa.

Ma c’è un’altra consapevolezza che nel tempo ha preso forma: i soldi, spesso visti come simbolo di oppressione o compromesso, possono diventare anche uno strumento rivoluzionario. Non sono un fine in sé, ma un mezzo potente, capace di trasformarsi in leva per cambiare le regole del gioco. È possibile usare il denaro per costruire, per finanziare iniziative che rispecchiano un ideale collettivo. E quando penso a progetti come il crowdfunding per l’isola di Poveglia o l’azionariato popolare del Collettivo GKN, vedo un esempio concreto di come il denaro, se usato consapevolmente, possa diventare un’arma contro il sistema che lo vorrebbe dominio esclusivo.

Così, auspico di poter conciliare il mio lavoro con la mia etica, trasformando il denaro non in un vincolo, ma in un mezzo per costruire qualcosa di più grande. E, un giorno, sentirmi finalmente intera.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024

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Ho fatto molta fatica in questi giorni a raccogliere le idee e sedermi a scrivere questa relazione introduttiva, forse perché ne sottovalutavo in qualche modo la portata emotiva. Proprio qualche minuto fa, prima che mi sedessi al computer a cercare di tendere questa matassa di pensieri con Luca – il mio compagno – abbiamo passato un quarto d’ora a discutere sulle spese, quelle fatte, quelle da fare e soprattutto quelle da non fare. Stiamo cercando di comprare una casa, da circa tre mesi. Così in quest’ultimo periodo sembra che ogni nostra conversazione vortichi lì, sul dente che duole.

E a un certo punto sono di nuovo bambina e non c’è più mio padre ma ci sono io, più o meno adulta, che faccio i suoi stessi discorsi, che condivido le sue stesse ansie e mi accorgo che quello che mi ero promessa di fare nella mia vita – ovvero cercare di non dare più peso di quello che è giusto (e su questo ritornerò) ai soldi – purtroppo è stata una battaglia persa in partenza.

A casa noi soldi non ne abbiamo mai avuti troppi, a volte troppo pochi, a volte il giusto per campare, a volte poco più del giusto da mettere da parte per qualche imprevisto che si sarebbe presentato a breve. E nella loro assenza erano allo stesso tempo la cosa più presente tra le nostre quattro mura. Per mio padre era necessario ricordare, a fronte di ogni spesa, che noi, no, quella spesa non avremmo potuto/dovuto farla. Io trovavo in qualche modo surreale vivere la mia vita in funzione del denaro, o ancora peggio in funzione della sua assenza, nonostante ciò ho sempre cercato di tirar su qualcosa, quanto meno per non sentir mio padre ciarmuniare (come si dice da noi). Inevitabilmente, seppur mi fossi sempre ripromessa il contrario, attualmente vivo il denaro con la stessa ansia di mio padre. Ma se è vero che in ognuno di noi ci sono due lupi, allora è vero che dentro di me vive anche mia madre. E per mia madre i soldi potevano mancare, ma sicuramente non mancava un piatto in più a tavola, un posto in più a dormire, una pizza offerta a un’amica, un pensierino preso per strada all’improvviso. Per mia madre i soldi, anche quei pochi, sono sempre stati un mezzo, per comunicare qualcosa, per raggiungere qualcuno, per aiutare qualcun altro.

Da brava figlia ho preso il peggio di entrambi: e quando offro il pranzo a un’amica poi passo le giornate seguenti in ansia a capire se riuscirò mai a riprendermi dalla spesa.

Per quanto io abbia sempre sperato di evitarlo, sono diventata adulta e i soldi sono diventati parte integrante anche della mia vita, non solo passivamente attraverso i miei genitori, e mi sono trovata ad avere nuovi nemici – come l’Irpef, che ancora non ho capito chi è e perché si tiene tutto il mio stipendio – e nuovi amici – i prodotti in offerta al supermercato perché sono in scadenza.

Mentirei dicendo che io e il mio compagno ci troviamo effettivamente in una situazione di difficoltà economica, anzi paradossalmente rientro tra quelle poche persone che, nonostante la cristallizzazione sociale, sembra essere riuscita a fare uno scarto rispetto alla sua condizione economica di partenza. Lavoriamo entrambi e non ci manca assolutamente nulla, d’altronde siamo anche riusciti a mettere da parte qualcosa per smettere di svenarci con un affitto. Forse però questo ci è costato un po’ più del previsto, o quanto meno mi è costato. Ho sempre sentito che più soldi sembrano essere uguali a più libertà, io piuttosto li vivo sempre di più come una schiavitù. Lavoro più di quaranta ore a settimana e guadagno lo stesso stipendio (se non di più) con cui mio padre campava una famiglia di cinque persone, eppure allo stesso tempo mi sembra di dover continuare a fare la spesa con la calcolatrice. Ogni sforzo che faccio mi sembra inutile, e questi mesi in cui stiamo cercando di comprare casa hanno cristallizzato in me questo pensiero. Non solo, per me il lavoro stesso è diventata una forma in qualche modo di isolamento: sono troppo stanca per uscire, per gli aperitivi, per le feste di compleanno, per i regali, per i matrimoni. È come se anche quelli rientrassero nel ciclo di sfruttamento in cui mi sento intrappolata. Così, preferisco togliermi qualche sfizio personale, più costoso, piuttosto che spendere trenta euro per passare una serata con un’amica. E a volte mi chiedo se sia solo una questione economica, la scelta di quanto ho io da investire e in cosa voglio investirlo, quando il lavoro è tanto e il tempo è poco. Quando neppure la gratificazione del bonifico in favore di sembra risollevarmi dal pensiero che la banca mi potrebbe rifiutare la richiesta di mutuo, l’unica cosa che sembra utile fare è fare qualcosa per se stessi. Fino a oggi non mi sono mai chiesta perché? da quando tutto quello che faccio deve essere una transazione in mio favore?, probabilmente perché non sono l’unica a farlo. È questa la nostra nuova normalità, la nostra nuova schiavitù – e anche chi come me ha sempre cercato e cerca ogni giorno attraverso la pratica politica di allontanarsi dall’individualismo ne viene risucchiata al prezzo di un nuovo telefono a discapito di un passaggio a casa a un amico in difficoltà. Ma sono solo i soldi?

La mia libertà, la mia ricerca di collaborazione, la mia voglia di investire tempo – e perché no, anche denaro – nelle relazioni è come se fosse inversamente proporzionale ai soldi che entrano a fine mese nel mio conto in banca. Quando facevamo fatica a fare la spesa, perché io non lavoravo o al massimo facevo qualche collaborazione in università e Luca guadagnava nemmeno duecento euro a settimana facendo il rider, sembrava tutto più semplice. Era più semplice spendersi per gli altri, era più semplice investire tutto se stesso in una cosa a prescindere dal tornaconto. Adesso invece mi trovo a fare dei pensieri che entrano in contraddizione con tutto quello che sono, o almeno che credo di essere: cosa farebbero gli altri per me? Cosa spenderebbero gli altri per me? E mi chiedo se tutto questo sia realmente io o se tutto questo sia il famoso giusto prezzo del denaro che mio padre mi ha sempre detto che avrei dovuto imparare.

La verità è che le relazioni hanno un prezzo, e non solo materiale. E ogni giorno facciamo i conti con quanto siamo disposti a spendere, quanto siamo disposti a spenderci soprattutto. E da un lato per me, a questo punto, il denaro è una forma di assoluzione, perché a volte è più semplice metterlo in mezzo come veicolo della nostra reticenza. È una risposta concreta a problemi metafisici, su cui non vogliamo soffermarci troppo; è uno scudo invalicabile, a proteggere il capitale umano che altrimenti ci troveremmo a investire. Questo perché le relazioni a volte ci mettono di fronte a delle scelte che non vogliamo prendere e delle domande che non vogliamo farci: quanto vale il mio tempo, quanto valgo io, quanto valgono le mie energie? Così le relazioni si trasformano in transazioni, l’ennesimo estratto conto della nostra giornata. Siamo stanchi, stufi e svalutati, da noi stessi, dal nostro lavoro, dalla società, dai nostri amici – che sono stanchi, stufi e svalutati come noi. Siamo individualisti perché siamo soli, ogni giorno, a capire qual è il peso giusto da dare a noi stessi in una società che ci rende sempre più simili al peso che ha il nostro stipendio ora che le Goleador non costano più dieci centesimi a pacchetto. Forse, però, dovrei imparare da mia madre, che non si è mai chiesta «a me cosa rientra?» nell’aggiungere cento grammi di pasta in più solo per vedere sorridere un’amica, certo è che alla fine dei conti, mentre scrivevo questa frase, una domanda mi assale: me lo posso realmente permettere?

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024