da Haaretz
Questa settimana, sul Guardian è apparsa una lettera firmata da migliaia di miei colleghi internazionali dell’industria cinematografica, che chiedeva il boicottaggio di registi, festival cinematografici e film israeliani a causa della guerra a Gaza. Sono una documentarista che lavora in Israele da oltre trent’anni. Questo boicottaggio avrebbe colpito me e i miei colleghi. Ma dopo la mia reazione difensiva, ho capito la verità. Ciò di cui noi israeliani abbiamo più bisogno dal mondo è che ci boicottino.
La reazione immediata della maggior parte dell’industria cinematografica israeliana è stata quella prevista. Siamo rimasti scioccati, feriti e abbiamo provato un profondo senso di ingiustizia. Come hanno potuto prenderci di mira? Noi, gli artisti, noi che ci opponiamo alla guerra, che creiamo arte che critica gli atti orribili commessi contro i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. Firmiamo petizioni, partecipiamo alle proteste. L’Associazione dei Produttori Israeliani ha immediatamente dichiarato nella sua risposta che «i firmatari di questa petizione stanno prendendo di mira le persone sbagliate».
La dichiarazione dell’associazione sostiene che per decenni l’industria cinematografica israeliana è stata la «voce principale» che ha messo in luce le complessità del conflitto e ha smascherato le narrazioni palestinesi. Ha aggiunto che il boicottaggio è «profondamente fuorviante» perché cerca di mettere a tacere proprio le persone che promuovono il dialogo.
In una certa misura, hanno ragione. Prendere di mira noi, produttori di TV e film, sembra profondamente ingiusto. Quando ho visto il video dell’amato regista Pedro Almodóvar, di cui ammiro il lavoro, che invitava a boicottare Israele, mi sono sentita profondamente colpita. Ci consideriamo gli israeliani buoni, la coscienza della nazione, coloro che si oppongono alla guerra. Allora perché veniamo puniti?
Ma mentre riflettevo sulla mia reazione iniziale, è emersa una verità più dura e onesta, una verità che le nostre associazioni e corporazioni professionali non hanno ancora articolato. Benché la loro risposta sia vera, è anche insufficiente. Atrocità vengono commesse in nostro nome, con i soldi delle nostre tasse, dal governo che ci rappresenta sulla scena mondiale. Questa è la prova che non stiamo facendo abbastanza. La semplice e dolorosa verità è che ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania è anche nostra responsabilità.
Mi chiedo se la pressione internazionale derivante da questo boicottaggio e da altri simili possa ottenere ciò che anni di film critici, petizioni accorate e proteste del fine settimana non sono riusciti a fare.
Forse dovremmo chiedere al mondo di fare tutto il possibile per costringere il mio governo a fermare questa guerra? Forse, se smettessero di venderci armi, richiamassero i loro ambasciatori, riconoscessero uno Stato palestinese e inviassero flottiglie a rompere l’assedio e portare aiuti a Gaza, qualcosa potrebbe cambiare? Forse un boicottaggio della cultura israeliana, delle istituzioni accademiche e delle squadre sportive sveglierebbe il nostro popolo e il nostro governo a fermare questa guerra?
Se questo significa che i nostri film e i nostri mezzi di sussistenza sono danneggiati, allora così sia.
Forse il dolore dell’isolamento culturale è un prezzo necessario da pagare per porre fine a questa guerra orribile e iniziare a guarire questa regione ferita e sanguinante. La pressione internazionale mette in discussione la nostra comoda identità di “israeliani buoni”, che ci permette di continuare a operare all’interno dei sistemi finanziati dallo Stato pur mantenendo un senso di opposizione morale. I boicottaggi riconsiderano la nostra partecipazione ai festival sponsorizzati dallo Stato non come creatori indipendenti, ma come rappresentanti complici dello Stato di Israele. Ci mettono davanti uno specchio e ci chiedono: il vostro dissenso sancito dallo Stato è un atto di resistenza significativo o è semplicemente un modo autorizzato e innocuo per lo Stato di mantenere una facciata di accettabilità nel mondo delle nazioni democratiche?
Questa lettera di boicottaggio mi sfida a porre queste domande scomode. E dovrebbe fare lo stesso per tutti gli israeliani, sia all’interno che all’esterno delle industrie che affrontano il boicottaggio.
Cosa si aspettano Almodóvar e coloro che hanno firmato la lettera da noi, registi israeliani e da tutti coloro che si oppongono alle azioni dell’attuale governo? Si aspettano che la maggioranza del popolo israeliano, che afferma di voler davvero porre fine a questa guerra, lo dimostri.
Dobbiamo rovesciare il nostro governo. Dobbiamo rifiutarci di prestare servizio nell’esercito. Dobbiamo dichiarare uno sciopero generale, smettere di fare film, smettere di mandare i nostri figli a scuola, smettere di comprare cose, smettere di fare qualsiasi cosa.
Chiudere tutto finché l’orrore che viene perpetrato in nostro nome non cesserà.
Il momento attuale richiede un inasprimento radicale. L’attuale movimento pacifista israeliano, guidato dalle eroiche famiglie degli ostaggi e da una crescente ondata di riservisti militari che si rifiutano di prestare servizio, non è sufficiente. Viene accolto con idranti, arresti e un governo che liquida i nostri desideri come una minaccia alla sicurezza nazionale. Non riusciremo a fermare tutto questo da soli.
Ecco perché, se l’Associazione Israeliana dei Produttori Cinematografici e Televisivi mi avesse chiesto un parere, avrei suggerito una dichiarazione pubblica molto diversa. Sarebbe stata più o meno così: «Grazie colleghi di tutto il mondo. Grazie agli autori che si preoccupano e che si rifiutano di rimanere in silenzio di fronte a queste atrocità. Grazie per averci fornito il necessario supporto esterno di cui abbiamo così disperatamente bisogno. Speriamo che con il vostro aiuto riusciremo finalmente a fermare questo orrore».
Questo non è un grido di vittimismo. È un’ammissione di fallimento e una richiesta di aiuto. Riformula il boicottaggio non come un attacco, bensì come un doloroso ma necessario atto di solidarietà. È uno specchio indesiderato, sì, ma ci mostra la verità. L’immagine è orribile, ma non possiamo più permetterci di distogliere lo sguardo.
(*) Avigail Sperber è una direttrice della fotografia, regista cinematografica e televisiva israeliana. È fondatrice e proprietaria della Pardes Film Productions. Sperber è anche un’attivista sociale e fondatrice di Bat Kol, un’organizzazione religiosa per ebree ortodosse lesbiche.
(Haaretz, 10 settembre 2025. Traduzione: pagina fb La Zona Grigia)
Per la prima volta, oltre cento donne sudcoreane che per decenni hanno lavorato nei locali attorno alle basi USA hanno depositato una causa collettiva per chiedere scuse formali e risarcimenti, accusando l’esercito statunitense di aver promosso e regolato il commercio sessuale nelle “città-campo” (kijichon) e di aver imposto controlli sanitari e internamenti forzati.
Le ricorrenti indicano una richiesta di 10 milioni di won a testa (circa 7.200 dollari) e puntano a chiamare in causa direttamente il comando americano, non solo lo Stato coreano già condannato in precedenza.
Gli avvocati sostengono che la responsabilità sia congiunta: la Corea del Sud avrebbe organizzato e incoraggiato quel sistema in nome dell’alleanza, mentre il comando USA ne avrebbe dettato regole e prassi, a partire dal controllo delle malattie veneree e dall’accesso dei militari ai distretti “speciali”.
Il comando delle Forze USA in Corea (USFK) replica con la linea ufficiale: tolleranza zero verso prostituzione e tratta, locali “off-limits” se collegati a sfruttamento e policy interne contro i “juicy bar”, in vigore dal 2014. Ma proprio quelle policy – nate tardi e applicate a macchia di leopardo – sono oggi sul banco degli imputati morali.
Sul terreno, intanto, riemerge la memoria fisica del sistema: a Dongducheon la disputa sul destino della “Monkey House”, l’ex struttura di quarantena dove le donne risultate positive ai test venivano confinate e imbottite di penicillina, contrappone municipio (che vorrebbe demolire) e associazioni che chiedono un museo della memoria. È la prova che non si litiga solo sul diritto, ma anche sul modo in cui un Paese ricorda.
Non è il primo processo. Nel 2022 la Corte Suprema sudcoreana ha stabilito che il governo ha incoraggiato e regolato la prostituzione nelle città-campo per ottenere dollari e consolidare il legame con gli USA, condannandolo a risarcire decine di donne.
Quelle sentenze hanno riconosciuto anche la “cura” coatta come pratica sistematica e violenta: prelievi due volte a settimana, rastrellamenti nei club, badge numerati, “hot sheet” [lista dei ricercati, Ndr] con foto e dati per tracciare i contatti dei soldati infettati. La nuova causa cerca ora di estendere quella responsabilità alla catena di comando americana.
Un nodo giuridico pesa da sempre: il SOFA (Status of Forces Agreement) disciplina giurisdizione e tort claims [‘reclami’, ‘denunce di illeciti’, Ndr]. Molti contenziosi devono passare dai comitati coreani e sono limitati agli atti “in servizio”, circostanza che ha spesso immunizzato il lato americano della filiera. Anche per questo le ricorrenti hanno scelto di notificare nuovamente lo Stato coreano “per fatto altrui”, mirando però esplicitamente alla responsabilità USFK.
Dopo la guerra di Corea, i kijichon diventano una macroeconomia di frontiera: distretti a ridosso delle basi dove, pur essendo illegale, la prostituzione è tollerata e regolata. In un Paese poverissimo, quel circuito alimenta stipendi, affitti, cambisti, dogane. Funzionari coreani chiamano le donne [prostituite] «patriote che guadagnano dollari»; manuali e circolari definiscono igiene, dress code, lingue da imparare per servire i GI.
La prassi sanitaria è ferrea: test bisettimanali, controlli a campione nei club, cartellini numerati e foto in clinica, detenzione per chi risulta positiva o priva del tesserino. Testimonianze riportano morti per shock da penicillina nelle strutture di isolamento.
Dai numeri alla vita quotidiana: decine di migliaia di donne – molte minorenni all’accesso – reclutate dalla povertà, ricattate dal debito con i protettori, o arrivate dall’estero (Filippine, Russia, Sud-est asiatico) negli anni Novanta-Duemila con visti “spettacolo” poi sequestrati. Nelle città-campo si stratifica perfino la segregazione razziale dei club (bianchi/neri) ereditata dall’esercito USA del tempo. In parallelo, ONG come Durebang / My Sister’s Place (dal 1986) costruiscono resistenza: sportelli legali, riparo, alfabetizzazione, lavoro alternativo.
Negli anni 2000 l’USFK dichiara la tolleranza zero e mette off-limits i “juicy bar” che lucrano su drink e compagnia a pagamento; l’Aeronautica a Osan stringe le maglie nel 2013; nel 2014 il comandante Scaparrotti firma la policy 12. Ma mentre le regole cambiano, molte donne rimangono invisibili: fuori età, senza reddito, marchiate dallo stigma. Oggi bussano alla porta della giustizia perché lo Stato ha riconosciuto di averle usate; ora tocca all’alleato assumersi la propria parte.
Le ricorrenti chiedono scuse ufficiali, danni individuali e un impegno concreto su memoria e archivi: conservare i siti come la “Monkey House”, aprire i documenti sanitari e di polizia, interrompere l’ultima forma di violenza, il silenzio.
Perché quella storia non fu un “mercato grigio” cresciuto al margine, ma un dispositivo istituzionale in cui interesse strategico, valuta estera e disciplina militare fecero sistema. E perché nessuna politica di “off-limits” nel presente cancella la catena di comando del passato.
da il manifesto
Altro sangue sulla terra di Palestina, che si chiami Israele o Cisgiordania o Gaza. L’ennesimo massacro di civili, questa volta cittadini israeliani che viaggiavano su un autobus a Gerusalemme, aggiunge altro dolore alla colata di morte e di sofferenza che scorre da quasi un secolo «dal fiume al mare», dal Giordano al Mediterraneo. Aggiunge poco o nulla invece a un’analisi minimamente lucida e onesta dell’abisso definitivo in cui lo Stato di Israele è precipitato da quando ha deciso – lo Stato, non solo il governo – di “ripulire” Gaza e annettere buona parte della Cisgiordania.
Un parallelo con la storia italiana può aiutare in questo sforzo di comprensione. In un articolo del novembre 1922, Piero Gobetti battezzava il fascismo appena giunto al potere con una formula che diventerà celebre: «autobiografia di una nazione». Giudizio opposto darà Benedetto Croce dopo la Liberazione, qualificando il ventennio come «eccezione», infelice e tragica ma un’eccezione, nella storia d’Italia.
La metafora gobettiana si adatta bene a definire l’estrema destra di Netanyahu, dei suoi ministri fascisti e razzisti: non un’eccezione, molto di più un’autobiografia del Paese-Israele.
Da quando comincia l’autobiografia? Lasciando pure da parte la storia complessa e per molti aspetti contraddittoria del primo sionismo, la cui ambizione di creare in Palestina un «focolare nazionale ebraico» recava certo un’impronta colonialista ma rispondeva anche all’urgenza di liberare gli ebrei europei da secoli di persecuzioni destinate poi a esplodere nella Shoah, si può farla cominciare con la guerra dei sei giorni del 1967.
Da allora Israele non è più una democrazia: è antidemocrazia governare, ormai succede da sessant’anni, su milioni di abitanti palestinesi nei territori occupati cui è negato il diritto di votare per i loro rappresentanti nel parlamento di Gerusalemme, ed è antidemocrazia praticare forme evidenti di apartheid, di discriminazione civile e sociale anche verso altri milioni di cittadini arabo-israeliani.
L’Israele di Netanyahu e del genocidio a Gaza è una catastrofe, lo è prima di tutto per il popolo palestinese, ma come l’Italia di Mussolini non è un’eccezione, un epifenomeno. Semmai Netanyahu è l’incarnazione massima di un Paese perduto, il cui «suicidio» – citando il titolo perfetto dell’ultimo libro di Anna Foa – ha radici antiche.
I segni di questo lungo cammino di imbarbarimento della “nazione” israeliana sono oggi evidentissimi. La guerra di annientamento del popolo gazawi è opera diretta di Netanyahu, ma sarebbe impossibile se i vertici militari, buona parte dei media (qui è da sottolineare una preziosa eccezione: il quotidiano Haaretz), lo stesso presidente della repubblica non vi collaborassero più o meno attivamente. Forse ancora più desolante è il tasso minimo di indignazione per i crimini sistematici commessi a Gaza nella società israeliana. Parole indignate e disperate sono venute da voci autorevoli della cultura israeliana e da piccoli gruppi militanti che da sempre si battono per i diritti dei palestinesi, ma risuonate assai poco nel corpo sociale di Israele, anche nella sua parte «progressista» e nelle stesse manifestazioni antigovernative di queste settimane: invocano le dimissioni di Netanyahu non per fermare il genocidio in atto, ma solo – non è poco, non può essere tutto – per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
Più d’uno in questi mesi ha letto nella degenerazione ultranazionalista di Israele la traccia inequivocabile di una sorta di fallimento morale del progetto dello «Stato ebraico» legato a un suo peccato d’origine. Così Stefano Levi della Torre, che ha dedicato studi importanti alla storia dell’ebraismo. Per Levi della Torre, una frattura concettuale divide l’ebraismo della diaspora dall’identità di Israele.
L’ebraismo, ha scritto in un saggio pubblicato sulla rivista Studi bresciani (n. 1/205), «per più di duemila anni ha elaborato una visione del mondo dalla sponda dei vinti e della minoranza», mentre il sionismo e poi Israele hanno voluto trasformare l’ebreo-vittima in ebreo-vincitore: «Ma la vittima che vince, e tuttavia conserva il carisma della vittima, non è più solo vittima ma anche vittimista. E il passaggio dalla figura della vittima a quella del vittimista denota una transizione verso destra, perché la vittima aspira alla liberazione, elabora le prospettive di un’emancipazione propria e magari universale, il vittimista elabora invece la giustificazione di un proprio potere acquisito: a giustificare non la responsabilità del potere, ma l’arbitrio del proprio potere, come se il proprio arbitrio fosse la doverosa ricompensa di chi rappresenta le vittime. Tutte le demagogie autoritarie di massa sono vittimiste. Lo è stato il fascismo, il nazismo, lo stalinismo. Da ultimo lo è Trump che si presenta vendicatore dell’America offesa».
Illuminanti queste righe di Levi della Torre. Anche poco inclini alla speranza: sembrano dire (è una mia impressione, non posso né voglio attribuirla a chi le ha scritte), che Israele come «Stato ebraico» è definitivamente perduto, che il suo suicidio non è un pericolo incombente ma un fatto compiuto.
dal Corriere della Sera
Quando, nel 2017, Jacinda Ardern si è candidata alla massima carica politica del suo Paese, la Nuova Zelanda, non ha avuto dubbi: «La gentilezza sarà il mio principio guida», annunciò decisa. Non sapeva ancora che nei cinque anni vissuti da Prima Ministra avrebbe dovuto affrontare uno degli attacchi terroristici più gravi che abbiano mai colpito lo stato dell’Oceania, la pandemia da Covid-19 e un pesante terremoto. Ma oggi, nella sua nuova vita – di ricercatrice e docente universitaria di politiche internazionali, attivista per l’ambiente e speaker in numerosi eventi – conferma che quel principio guida iniziale, la gentilezza, è stato il perno intorno al quale costruire e far muovere non solo una carriera politica, ma un’intera vita. E, soprattutto, per Ardern è nata lì la decisione più difficile, quella rinuncia alla premiership che nel 2023 l’ha portata ad annunciare le dimissioni davanti a cinque milioni di persone (tanti sono gli abitanti della Nuova Zelanda), ammettendo, in estrema sintesi: «Sono stanca».
Nella seconda settimana di settembre, per Baldini + Castoldi, esce [il 5 settembre 2025, Ndr] anche in Italia “Un altro genere di potere”, la sua autobiografia, un libro che Ardern porterà anche al Tempo delle Donne, la Festa-Festival del Corriere della Sera, in un incontro esclusivo con il pubblico alla Triennale di Milano, il 12 settembre alle 15, nel Giardino.
“Professor”, “Dame”, “signora”: come preferisce essere chiamata oggi?
«Va benissimo Ardern, o Jacinda se preferisce. L’empatia è stato uno dei cardini della mia missione politica, anzi parte tutto da lì, compreso questo memoir».
Nei suoi libri e nelle lectio magistralis che tiene negli atenei del mondo, lei ribadisce spesso che a suo modo di vedere la gentilezza non è una semplice attitudine, ma un vero e proprio atto politico.
«È così. Quando sono stata eletta prima ministra del mio Paese mi sono accostata a questa carica con molti timori, sia perché ero molto giovane, trentasei anni, sia anche perché ricordavo bene quando, tempo addietro, avevo detto no a un’altra occasione politica in quanto convinta che la mia innata sensibilità, la mia tendenza alla gentilezza non sarebbe stata utile, anzi, ero sicura che non sarei sopravvissuta in quell’ambiente così competitivo».
E poi?
«Poi ho capito che non è così, al contrario: in politica la gentilezza è la chiave per arrivare alle persone, è lo strumento attraverso il quale comprendere che cosa vogliono davvero quelli che ti affidano il voto. In questo caso, per gentilezza intendo empatia, ascolto, comprensione, sensibilità. Ho imparato che una vera leadership non può prescindere da questo, che alla lunga questa attitudine ripaga. Almeno, nel mio caso è stato così».
Già, perché lei si è dimessa con nove mesi di anticipo in un momento di robusto consenso, dopo due mandati e una vittoria schiacciante della sua compagine, il Partito Laburista, nel 2020. Non di certo perché costretta dalle proteste o da debolezza.
«Quell’ormai famoso addio alla politica ha fatto nascere numerose interpretazioni, io stessa mi sono meravigliata di quante spiegazioni sono state trovate. La complessità di quel gesto è, tutto sommato, semplice: proprio perché ho sempre cercato di restare in ascolto, non solo degli altri ma anche di me stessa, ho capito che a un ruolo così privilegiato è connessa una grande responsabilità, prima di tutto quella di sapere se sei o no la persona giusta alla guida».
E che risposta si è data?
«Che cominciavo a non esserlo più, o, almeno, che quelle energie che mi avevano sostenuta all’inizio stavano venendo a mancare. Io mi sono ritrovata a essere ricercatrice in Parlamento, consulente nell’ufficio del primo ministro, deputata e poi leader del mio partito. Tutto questo a sole sei settimane dalle elezioni, quando sono diventata prima ministra che nemmeno ci credevo».
Non solo: a poche settimane dall’elezione lei ha scoperto di essere incinta. Nel libro racconta delle nausee che l’hanno colta persino durante il discorso di insediamento.
«Ed è stata la regina Elisabetta a darmi il suggerimento più apprezzato. Quando la incontrai, in uno dei viaggi ufficiali che feci mentre aspettavo Neve, le chiesi come fosse riuscita a gestire una vita pubblica così straordinaria e incessante, pur rimanendo madre e nonna, lei mi rispose: “Vai avanti e basta”. Aveva ragione, perché fino a quando sei consapevole del perché sei lì, a ricoprire quell’incarico, hai la lucidità per trovare una soluzione a tutto».
Ecco, forse, il punto: essere sempre consapevoli del «perché sei lì», per quale motivo ricopri quella carica? Il potere spesso annebbia questa consapevolezza.
«Sì, la gentilezza di cui parlo serve anche a non perdere mai di vista il tuo compito e, dunque, serve a capire quando è il momento di staccare perché tu non sei più quello che avevi in mente, non rispondi più a una vocazione. Ma c’è un problema: in politica la gentilezza non è ammessa, perché la si scambia per debolezza».
Come hanno insinuato in molti, all’indomani delle sue dimissioni.
«Questo è il nodo: io non me ne sono andata perché quell’incarico era difficile, se fosse stato così avrei dovuto fare i bagagli molto tempo prima, perché era difficile eccome. Me ne sono andata perché sapevo benissimo quale impegno richiedesse quella carica e le forze mi stavano venendo meno».
E se calano le energie è più probabile che si ceda al facile consenso e che si smetta di prendere decisioni impopolari, sì, ma giuste per il Paese.
«Viene a mancare il coraggio politico, chiave essenziale per una buona leadership. Ricordo benissimo quando arrivarono le prime notizie della pandemia da Covid-19 e decidemmo subito di chiudere le frontiere. Quello, come ricordo nel libro, per noi voleva dire danneggiare il turismo, elemento essenziale per la nostra economia. Ma la gestione della pandemia da parte nostra è stata poi elogiata».
Dopo il duplice attentato a una moschea e a un centro islamico nel 2019, lei era fermamente decisa a cambiare la regolamentazione sull’uso delle armi.
«Ma la legge che vietava le armi semiautomatiche di tipo militare venne approvata con l’ampio sostegno di tutti i membri del Parlamento, tranne uno. Dunque, ecco un’altra dimostrazione del concetto di gentilezza applicata alla politica: se resti all’ascolto dei reali bisogni delle persone non farai fatica. Ho come la sensazione che ci impegniamo molto a insegnare la gentilezza ai bambini ma poi, nelle professioni da adulti, come la politica appunto, la accantoniamo come un elemento di fragilità. Non sono d’accordo ed è quello che cerco di diffondere».
Be’, se ci guardiamo intorno e osserviamo Donald Trump, Vladimir Putin o Benjamin Netanyahu non possiamo negare che la nascondono molto bene.
«Mi piace credere che una buona leadership possa prescindere dal genere. In fondo, tanti leader eletti da poco come Mark Carney in Canada o Anthony Albanese in Australia hanno messo al centro questi valori».
Però certamente le avranno chiesto qualche volta se la gentilezza in politica non sia una prerogativa femminile. Proprio perché in questo caso non parliamo di “fragilità”, ma anzi, di “un altro genere di potere”.
«Me lo hanno chiesto molte volte, sì. Il punto è che tante persone la pensano in questo modo, elemento che a mio avviso andrebbe scardinato: personalmente mi piace pensare che siano semplicemente buone qualità di leadership. E quindi credo che dovremmo sostenerle come qualità di leadership indipendentemente dal genere. E ho sicuramente lavorato con leader di entrambi i sessi che sono considerati leader empatici».
Lei crede che non ci sia una differenza sostanziale tra il modo di affrontare una crisi da parte di un uomo e quello di una donna?
«Guardi, dopo la pandemia da Covid sono state fatte diverse analisi su questo tema e in tanti ritenevano che le decisioni prese dai paesi guidati da donne durante quel periodo fossero state diverse da quelle prese dai paesi guidati da uomini. Uno dei punti è come giudichiamo una leadership: siamo portati a guardare subito dove nasce il sostegno, chi forma la fan-base, da dove viene ideologicamente un leader, ma poco spesso ci fermiamo a considerarne valori, peso delle scelte e altro».
Però è innegabile, limitandoci a parlare della gestione del Covid, che i Paesi guidati da donne abbiano fatto meglio. Penso, oltre che a lei, alla taiwanese Tsai Ing Wen e alla norvegese Erna Solberg.
«Non ho mai esaminato la questione abbastanza da vicino da poter formulare ipotesi sul fatto che gli uomini o le donne siano più bravi nelle situazioni di crisi. Preferisco focalizzarmi su quello che ci si aspetta – al di là del genere – da un leader nel corso di una situazione difficile. Certo, va detto che ancora oggi la maggior parte dei Paesi è a guida maschile, quindi dovremo aspettare per poter fare un confronto. Ecco perché, piuttosto, sarebbe meglio impegnarsi perché tanti ostacoli che ancora oggi rallentano le donne in politica vengano rimossi».
Lei ha fortemente voluto sua figlia Neve e, come racconta nel memoir, assieme al suo allora compagno Clarke Gayford, avete deciso di intraprendere una terapia della fertilità. Oggi pensa che la maternità per molte donne sia ancora un dissuasore dell’ambizione?
«Le donne non dovrebbero essere costrette a scegliere – come purtroppo spesso accadeva alle nostre madri – tra l’essere brave nel proprio mestiere e l’essere buone madri, o figlie. Dovrebbero avere reti di supporto che le aiutino a essere tutte queste cose senza perdere del tutto sé stesse. Però durante il mio mandato io volevo scardinare l’idea che essere prima ministra e madre fosse un presupposto da Wonder Woman. Un Paese deve poter permettere di essere entrambe le cose, anche perché non si ha bisogno soltanto di madri, ma anche di figli, caregiver, persone single».
Di certo il suo attuale marito ha aiutato molto: nel libro lei racconta che nel periodo del suo mandato è stato lui a curare la casa e vostra figlia.
«Clarke ha rotto certi parametri mentali, sì, ed è quello che ci si aspetta da un Paese capace di cogliere tutte le sfumature sociali al suo interno».
Un’ultima domanda: non ha la sensazione che oggi la leadership politica abbia essenzialmente due strade? Una, fatta di complessità, che invita alla pazienza e all’ascolto e l’altra – purtroppo sempre più battuta – fatta di semplificazione, che incita invece all’insulto e all’aggressività?
«Sì, ma sostituirei la parola “semplificazione” con “pensiero binario”, un elemento che ho avuto modo di indagare all’indomani degli attentati terroristici alle moschee nel mio Paese. L’ho fatto assieme a Louise Richardson, grande esperta di terrorismo. Il pensiero binario è l’idea che “quello che sto cercando di fare è giusto”. Tutto il resto è malvagio e cattivo. Quando la penso così sono in grado di disumanizzare qualcuno: io sono buono, loro sono cattivi. Si perde il senso della propria umanità condivisa. E quindi penso che, per tutta una serie di ragioni, il pensiero binario sia incoraggiato dall’ambiente in cui viviamo, dal modo in cui consumiamo le notizie, dal modo in cui interagiamo e ci relazioniamo gli uni con gli altri. E la risposta è cercare di ricostruire il legame umano, di ricostruire quella comprensione comune e di vedere la complessità del mondo».
da Il Fatto Quotidiano
L’architetto israeliano Eyal Weizman è il fondatore di Forensic Architecture, un laboratorio multidisciplinare che si è fatto conoscere negli ultimi anni indagando sui crimini di guerra in Siria e in Ucraina. Nel settembre 2022, il team aveva dimostrato che l’esercito israeliano ha volontariamente ucciso la giornalista Shireen Abu Akleh di Al Jazeera, mentre realizzava un reportage a Jenin, in Cisgiordania. Dopo il 7 ottobre, il laboratorio ha iniziato a lavorare sulla guerra a Gaza e a costituire una “cartografia del genocidio” in corso. A luglio, uno dei loro rapporti ha dimostrato come Israele abbia pianificato la carestia nella Striscia. A Mediapart Eyal Weizman ha spiegato perché la sua organizzazione, che ha sede presso la Goldsmiths University di Londra e ha una dozzina di uffici in tutto il mondo, ha deciso di sostenere la denuncia per genocidio intentata contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia.
Come state procedendo a Gaza?
Raccogliamo prima informazioni su decine di migliaia di casi isolati e poi cerchiamo se tra loro si possono stabilire delle correlazioni. Nel caso di crimini di guerra, cerchiamo di stabilire se gli attacchi israeliani sono proporzionati alla minaccia e se sono rimasti uccisi anche civili oltre che miliziani. Nel caso del genocidio, cerchiamo di capire se c’è un disegno. L’intenzionalità è al centro del concetto di genocidio, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio.
Concretamente come operate?
Qualunque sia il caso su cui indaghiamo – per esempio il bombardamento di un centro per la distribuzione del cibo o la distruzione di un terreno agricolo – salviamo i video e le immagini che riceviamo, li autentichiamo e analizziamo l’“incidente” nel suo complesso. Abbiamo diversi modelli matematici che ci permettono di individuare gli elementi che creano connessioni tra i diversi fatti, in modo da stabilire se esiste un piano per distruggere il popolo palestinese, tutto o in parte. Se constatiamo che Israele sistematicamente distrugge i terreni agricoli, impedisce agli aiuti alimentari di entrare a Gaza e prende di mira i centri di distribuzione del cibo, allora un piano c’è, che è quello di ridurre la popolazione alla fame. L’articolo II, comma c), della Convenzione delle Nazioni Unite lega la «sottomissione intenzionale» di una popolazione a «condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale». Le persone cioè non si uccidono direttamente, ma indirettamente, distruggendo le infrastrutture, gli ospedali, le scuole, le case, impedendo loro l’accesso al cibo. La chiamo “violenza architettonica”: un po’ alla volta le condizioni di vita vengono distrutte e la morte arriva lentamente.
Nell’ultimo rapporto, che copre il periodo dal 18 marzo al 1° agosto, mostrate come la carestia corrisponda a un obiettivo di annientamento metodicamente perseguito.
Gaza è una striscia di terra lunga e sottile che presenta due tipi di terreno: uno sabbioso a ovest e uno argilloso a est. Quasi tutta l’agricoltura di Gaza si trova a est della strada Salah al-Din, l’arteria principale della Striscia di Gaza. Ed è proprio quest’area che è stata presa di mira per spingere la popolazione verso le terre più difficili da coltivare. Dall’inizio del genocidio abbiamo assistito a una campagna sistematica per distruggere la sovranità alimentare dei palestinesi. Sono stati distrutti i campi, i frutteti e gli strumenti per la pesca, in particolare tutte le barche. I palestinesi non possono più permettersi di nutrirsi. Dipendono interamente dagli aiuti umanitari che passano attraverso i checkpoint controllati da Israele. È tutta la società palestinese che si vuole cancellare. Bisogna pensare a Gaza come a una zona di demolizione e di costruzione: i bulldozer israeliani distruggono gli edifici palestinesi, ma con le macerie costruiscono altro. Per esempio, centri di distribuzione di cibo in aeree ristrette che si trasformano in “trappole mortali”, secondo quella che io chiamo “un’architettura di morte”. Le macerie delle case vengono utilizzate anche per costruire moli in mare e piccole colline che permettono all’esercito di sorvegliare Gaza.
E questo lavoro è alla base del vostro contributo alla denuncia sporta dal Sudafrica contro Israele davanti alla Corte internazionale…
Esatto. Questo lavoro ci ha permesso di produrre un rapporto di 825 pagine. Ai legali del Sudafrica abbiamo fornito prove sulla distruzione degli ospedali, dell’istruzione, dell’agricoltura, prove della pianificazione della carestia. La causa del Sudafrica, un Paese che ha subito l’apartheid e sa cosa è il colonialismo dei coloni, un Paese del Sud, contro Israele, difeso da tutti i Paesi occidentali, è un’opportunità per i diritti umani e il diritto internazionale.
Il clima in cui lavorate a Gaza è particolarmente difficile…
Venendo da una famiglia ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, è molto doloroso per me sentirmi dire di essere antisemita. In Germania il nostro ufficio ha dovuto chiudere perché lo Stato ha ritirato i finanziamenti. La mia università a Londra è sotto inchiesta per antisemitismo e so che questo è in parte dovuto al lavoro di Forensic Architecture. Voglio essere molto chiaro: l’antisemitismo esiste, anche in Francia, ed è mortale. La sicurezza degli ebrei nel luogo in cui vivono deve essere garantita. Ma Israele, spacciando per antisemitismo la difesa dei diritti umani e del diritto internazionale, alimenta altro antisemitismo.
Nel suo libro che esce a breve, parla di quello che lei chiama “genocidio coloniale”. Che cosa intende?
Quando pensiamo al genocidio, pensiamo all’Olocausto. Un crimine perpetrato in un breve lasso di tempo. Ma il genocidio può assumere forme diverse e quello dei palestinesi non è iniziato il 7 ottobre. Ha una lunga storia. Lavorando con le mappe, è possibile ripercorrere la storia della creazione della Striscia di Gaza, l’espulsione dei palestinesi dal sud della Palestina e il modo in cui i villaggi palestinesi sono stati letteralmente cancellati dalle carte geografiche. Dobbiamo capire come sono localizzati gli insediamenti israeliani sul territorio, in particolare i kibbutz, costruiti sulle rovine dei villaggi palestinesi. Gran parte degli abitanti di Gaza erano beduini, non nomadi, ma agricoltori che vivevano lungo il fiume Waadi Gaza. Lì hanno sviluppato tecniche agricole molto sofisticate. Sto lavorando in particolare sul villaggio di Al-Ma’in, da cui provengono lo storico Salman Abu Sitta e il famoso medico palestinese Ghassan Abu Sitta. Stiamo cercando di ricostruire esattamente come la colonizzazione ha trasformato il paesaggio e l’ambiente. Questo ci permette di collocare il genocidio successivo al 7 ottobre all’interno di un processo molto più lungo di colonizzazione degli insediamenti, che è una forma di genocidio. Dopo il 7 ottobre, Israele ha trasformato Gaza in un deserto. L’affermazione di Israele di aver “fatto fiorire il deserto” è ben nota. Ma Gaza non è mai stata un deserto. I beduini palestinesi coltivavano orzo per gli inglesi, che lo usavano per fare la birra. Fino al 1948, era un territorio rigoglioso.
Lavorate anche sulla cancellazione delle tracce…
Quando Israele distruggeva i villaggi palestinesi, non si limitava a demolire gli edifici, ma anche i cimiteri e le strade, e dissodava la terra. Se c’era un campo che era stato arato in una direzione, loro lo aravano nell’altra. E questo per cancellare ogni traccia di vita che era esistita fino a quel momento. Io lo chiamo “sradicamento” di Gaza.
È per questo che avete voluto concentrarvi sul suolo?
Sì, perché la pianificazione della desertificazione a Gaza è politica. Costruire dighe per deviare l’acqua verso Israele significa utilizzare l’ambiente per cacciare i palestinesi dalla loro terra. La creazione del deserto è una caratteristica continua del genocidio. Anche nel caso del genocidio armeno e del genocidio in Namibia da parte dei tedeschi, il deserto è stato uno “strumento” di distruzione. Le bombe israeliane, che esplodono a trenta metri di profondità, ufficialmente per distruggere i tunnel di Hamas, contengono enormi quantità di sostanze chimiche che contaminano il suolo per decenni. Penso che il “colonialismo di insediamento”, come ha detto l’antropologo Patrick Wolfe, abbia una logica di eliminazione. Certo, ci sono i massacri, ma la maggior parte delle persone non muoiono in modo violento, ma per cause secondarie. Il genocidio coloniale è come un genocidio che si consuma nel tempo.
da Pressenza
Testo letto in classe da 200 insegnanti in Israele per l’inizio dell’anno scolastico.
Per i bambini – Fermate la guerra!
Noi, insegnanti provenienti da tutto Israele, vogliamo aprire l’anno scolastico con un grande grido: non si può continuare così!
In questo giorno, il giorno di apertura dell’anno scolastico, un giorno emozionante e speciale dedicato a nuovi inizi e alla speranza, dobbiamo gridare: un bambino è un bambino. E troppi bambini e bambine sono già stati uccisi, rapiti, feriti, orfani, affamati, sradicati dalle loro case e colpiti in questa guerra.
L’educazione è il centro della nostra vita e del nostro mondo. Operiamo con fiducia verso i bambini e i ragazzi: crediamo nelle loro forze, nelle loro capacità, nei loro sogni e nei loro diritti. Il nostro impegno come educatori e educatrici è educare e agire affinché i bambini, ovunque si trovino, possano crescere e vivere in un mondo che permetta a tutto ciò di esistere e fiorire, un mondo di vita e prosperità – e non di morte e sofferenza.
E quindi, in quanto persone che hanno dedicato la loro vita al futuro dei bambini, chiediamo: non togliete loro questo futuro! Fermate le uccisioni, la distruzione e la fame a Gaza! Fermate il terribile ciclo di dolore e lutto in Israele e a Gaza! Ritirate i soldati da Gaza! Restituite i genitori ai loro figli! Liberate gli ostaggi – sono in immediato pericolo di vita! Salvate la vita dei bambini di entrambi i popoli!
Per i bambini e le bambine, per il futuro di tutti noi, fermate la guerra adesso!
Qui il link al video delle/gli insegnanti (in ebraico)
Ringrazio Gian Giacomo Migone, che mi ha girato il testo di questa giornalista,Valerie Zink, che si è dimessa da Reuters per i motivi che farete bene a leggere…:
Lezione di dignità
«Non posso più indossare questo tesserino senza provare vergogna e dolore».
Valerie Zink è una fotoreporter.
Per otto anni ha collaborato con Reuters e le sue immagini sono state pubblicate dal New York Times, da Al Jazeera, dai principali media internazionali.
Ma oggi, dopo l’ennesimo massacro israeliano contro cinque giornalisti, ha scelto di dire basta: ha lasciato l’agenzia. E lo ha fatto con parole che sono un’enorme lezione di dignità:
«Negli ultimi otto anni ho lavorato come collaboratrice per l’agenzia Reuters. Le mie foto sono state pubblicate dal New York Times, da Al Jazeera e da altri media in Nord America, Asia, Europa e altrove.
A questo punto è diventato impossibile per me mantenere un rapporto con Reuters, dato il suo ruolo nel giustificare e consentire l’assassinio sistematico di 245 giornalisti a Gaza.
Devo almeno questo – e molto di più – ai miei colleghi in Palestina.
Quando Israele ha assassinato Anas Al-Sharif, insieme all’intera troupe di Al Jazeera a Gaza City il 10 agosto, Reuters ha scelto di pubblicare l’infondata accusa israeliana secondo cui Al-Sharif sarebbe stato un operatore di Hamas – una delle tante bugie che i media come Reuters hanno ripetuto e legittimato con diligenza.
La disponibilità di Reuters a perpetuare la propaganda israeliana non ha risparmiato nemmeno i suoi stessi giornalisti dal genocidio in corso. Altri cinque giornalisti, tra cui il cameraman di Reuters Hossam Al-Masri, sono stati uccisi questa mattina in un attacco all’ospedale Nasser.
Si è trattato di un cosiddetto attacco “double tap”: Israele bombarda un obiettivo civile, come una scuola o un ospedale, aspetta che arrivino soccorritori, medici e giornalisti, e poi colpisce di nuovo.
I media occidentali sono direttamente responsabili per aver creato le condizioni in cui tutto questo può accadere.
Come ha scritto Jeremy Scahill di Drop Site News, “ogni grande testata – dal New York Times al Washington Post, da AP a Reuters – ha funzionato come un nastro trasportatore per la propaganda israeliana, ripulendo i crimini di guerra, disumanizzando le vittime, abbandonando i propri colleghi e ogni presunto impegno verso un giornalismo vero ed etico”.
Ripetendo le invenzioni di Israele senza nemmeno verificarne la credibilità – abbandonando volutamente la responsabilità più elementare del giornalismo – i media occidentali hanno reso possibile l’uccisione, in due anni e su una sola striscia di terra, di più giornalisti che nella Prima e Seconda guerra mondiale, in Corea, Vietnam, Afghanistan, Jugoslavia e Ucraina messi insieme. E questo senza nemmeno parlare della popolazione affamata, dei bambini dilaniati, delle persone bruciate vive.
Il fatto che il lavoro di Anas Al-Sharif avesse vinto un Premio Pulitzer per Reuters non è bastato per spingerli a difenderlo quando le forze d’occupazione israeliane lo hanno inserito in una “lista nera” di giornalisti accusati di essere militanti di Hamas o della Jihad Islamica.
Non è bastato nemmeno quando Al-Sharif ha implorato protezione alla stampa internazionale, dopo che un portavoce dell’esercito israeliano aveva diffuso un video in cui dichiarava apertamente di volerlo uccidere, dopo un suo reportage sulla carestia.
Non è bastato neppure quando è stato davvero assassinato, poche settimane dopo. Reuters non ha avuto nemmeno il coraggio di raccontare con onestà la sua morte.
Ho apprezzato il lavoro che ho svolto per Reuters in questi otto anni, ma ora non riesco a immaginare di indossare quel tesserino stampa senza provare una profonda vergogna e dolore.
Non so nemmeno da dove cominciare per onorare il coraggio e il sacrificio dei giornalisti a Gaza – i più coraggiosi e i migliori che siano mai esistiti – ma da oggi in poi, ogni mio contributo sarà guidato da questa consapevolezza».
(Facebook, 3 settembre 2025)
da The Guardian
Era la star numero uno al botteghino alla fine degli anni ’50, ma per decenni Kim Novak, la protagonista del capolavoro di Alfred Hitchcock “La donna che visse due volte”, ha vissuto una vita di tranquilla reclusione. Ora, all’età di novantadue anni, una delle ultime grandi e glamour star del cinema dell’epoca d’oro di Hollywood è tornata sotto i riflettori. Le è stato conferito un premio alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia , dove è stato presentato in anteprima un documentario sulla sua vita e carriera, “La donna che visse due volte” di Kim Novak.
Per Novak, si tratta di un omaggio non solo alla sua recitazione, ma anche al suo rifiuto, durato tutta la vita, di essere controllata e manipolata da Hollywood o da chiunque altro.
«È incredibile sentirmi apprezzata e ricevere questo dono prima della fine della mia vita», dice con la sua inconfondibile voce roca quando ci incontriamo su Zoom. «Penso di essere onorata tanto per la mia autenticità quanto per la mia recitazione. È come se il cerchio si chiudesse».
L’inquietante interpretazione di Novak in Vertigo – sia nei panni di Madeleine, un’enigmatica moglie dell’alta società, sia di Judy, la normale commessa assunta per impersonarla – è al centro di ciò che rende il film il più grande di tutti i tempi. La fragile presenza che ha conferito ai ruoli è stata possibile solo perché la storia è stata percepita come personale.
«Mi sono identificata molto con Judy e Madeleine perché a entrambe è stato detto di cambiare la loro vera identità», ricorda. «Dovevano trasformarsi in qualcosa che non le rappresentava».
La dedizione dell’attrice nel preservare la propria identità può essere fatta risalire alla sua infanzia timida e introspettiva e ai suoi primi anni a Hollywood.
Nata a Chicago con il nome di Marilyn Novak, figlia di un controllore ferroviario e di un’operaia (entrambi immigrati cechi), crebbe in un quartiere difficile dove subì bullismo per la sua diversità. Trovò rifugio nell’arte, studiando al Chicago Art Institute e sostenendosi con lavori come modella. Fu durante un viaggio a Los Angeles che fu notata dalla Columbia Pictures, che la ingaggiò nel 1954.
Fu allora che iniziò la trasformazione. Harry Cohn, che governava la casa di produzione cinematografica con il pugno di ferro, le chiese di cambiare nome perché a Hollywood poteva esserci una sola Marilyn e «nessuno andrebbe a vedere una ragazza con un nome polacco» (vinse una battaglia per mantenere il suo cognome). La costrinse anche a perdere peso, le fece mettere una capsula ai denti e le fece decolorare i capelli.
«Ti assumevano perché pensavano che avessi qualcosa di speciale, e poi la prima cosa che facevano era cercare di darti un nuovo volto», ricorda Novak. «Volevano la bocca di Joan Crawford, i capelli di Jean Harlow. Quindi, quando lasciavi la postazione del trucco, non eri nemmeno più tu. Dovevo lottare per mantenere la mia identità».
Novak è vivace ed energica, con una memoria straordinaria e un pronto senso dell’umorismo. È facile capire perché il pubblico ne sia rimasto subito affascinato. La sua svolta arrivò con Picnic nel 1955, che le valse un Golden Globe, seguito da ruoli acclamati al fianco di Frank Sinatra in L’uomo dal braccio d’oro e Pal Joey, in cui interpretò My Funny Valentine.
Quando La donna che visse due volte uscì nel 1958, Novak aveva venticinque anni ed era all’apice della fama. Sul set, trovò una rara libertà creativa. «La cosa che adoravo di Hitchcock era che ti permetteva di diventare il personaggio nel modo che ritenevi più opportuno. I registi più insicuri vogliono pensare per te, recitare per te, e quindi non hai nulla da offrire».
Ha anche aiutato il fatto che il suo co-protagonista, James Stewart, rispecchiasse la sua vulnerabilità emotiva, in un’epoca in cui le performance teatrali e vistose erano all’ordine del giorno. «Lavorare con Jimmy è stata la cosa più bella che mi potesse capitare. Era un reattore, non un attore, proprio come me. Ci siamo confrontati a vicenda».
Al contrario, trovava difficili altri attori. Kirk Douglas, ad esempio, «usava costantemente movimenti e look… diceva: “Ti mostro il ritmo della scena”. Mi spiazzava. Era innaturale», ricorda.
La lotta di Novak per mantenere la propria identità si estese anche alla sua vita privata. Con Sinatra, il lavoro si trasformò in una storia d’amore ampiamente raccontata sulle pagine di gossip. Così come la sua storia d’amore clandestina con Sammy Davis Jr., che finì dopo che Cohn minacciò Davis di violenza mafiosa, insistendo che sarebbe stato “dannoso per gli affari” se Novak avesse avuto una relazione con un uomo di colore. Quasi settant’anni dopo, un nuovo film, Scandalous!, diretto da Colman Domingo, drammatizzerà quella relazione, con Sydney Sweeney nei panni di Novak.
Novak non è d’accordo con il titolo. «Non credo che la relazione fosse scandalosa», dice. «È una persona a cui tenevo davvero. Avevamo così tanto in comune, incluso il bisogno di essere accettati per quello che siamo e per quello che facciamo, piuttosto che per il nostro aspetto. Ma temo che finiranno per fare tutto per motivi sessuali».
Nonostante la coercizione di Cohn, o proprio per questo, Novak ritiene che il capo della Columbia abbia svolto un ruolo cruciale nel dinamismo di Hollywood dell’epoca. Dopo la sua morte, nel 1958, iniziò a ricevere copioni scadenti, che lei stessa descrive come «dolorosi e umilianti».
Realizzò altri film di qualità, tra cui Bell Book and Candle e Strangers When We Meet, ma a metà degli anni ’60 si stancò delle incessanti pressioni dell’industria. «Temevo di diventare “Kim Novak”. Ogni volta che interpretavo un ruolo, ne assumevo una parte. Stavo iniziando a perdere me stessa e ciò che rappresentavo».
Quando la sua casa a Big Sur fu devastata da un incendio e poi distrutta da una frana di fango, lo considerò un segnale che era giunto il momento di allontanarsi completamente. Si trasferì in Oregon, dove incontrò e sposò Robert Malloy, un veterinario equino, nel 1976. «Era molto autentico», racconta. «Mia madre mi diceva: “Dovresti sposare quest’uomo, potrebbe portarti con i piedi per terra”. Ed era vero».
Lontano dai riflettori e dai pettegolezzi, Novak è finalmente tornata al suo primo amore: la pittura. È diventata un’ancora di salvezza durante gli attacchi di depressione (a Novak è stato diagnosticato un disturbo bipolare all’inizio degli anni 2000) e dopo la morte di Malloy nel 2020.
«L’arte è la cosa che mi ha salvato, dipingo almeno otto ore al giorno», dice. «Robert mi manca molto. Ma vivere da sola mi dà soddisfazione. Ho imparato da mia madre che dovevo essere il capitano della mia nave».
Ha trovato conforto anche nei suoi animali. «Potevano dirmi più cose di me di quante ne potessi dire io. Come la mia capra: se osassi indossare un profumo, tirerebbe fuori le corna e cercherebbe di mordermi, perché sente che non sono io».
È rimasta perlopiù lontana dai riflettori, fatta eccezione per una rara apparizione agli Oscar del 2014, quando presentò due premi. Ma quell’esperienza le ha ricordato dolorosamente il motivo per cui aveva lasciato Hollywood. Per l’evento, Novak si è sottoposta a iniezioni di grasso alle guance e la reazione online alla sua apparizione è stata rapida e crudele. Donald Trump si è unito all’assalto, twittando che Novak avrebbe dovuto fare causa al suo chirurgo estetico (per coincidenza, il presidente degli Stati Uniti ha recentemente elogiato Sweeney dopo che è emerso che era una repubblicana iscritta).
Novak è rimasta sconvolta dalle critiche, ma invece di ritrarsi ha parlato apertamente di bullismo e salute mentale. Come si sente ora a riguardo?
«Ho sempre avuto una forte antipatia per i bulli», dice. «Quello che provo per il presidente non ha nulla a che fare con quello che ha detto di me agli Academy Awards. Non mi è piaciuto quello che ha detto, ed è stato allora che ho parlato dei bulli. Ma da allora è diventato molto più di un semplice bullo. Anche se ho tollerato quello che ha detto e non gli ho risposto, non tollererò quello che dice a me e a tutti gli altri di fare».
«Le dittature stanno prendendo il sopravvento in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti», aggiunge. «Troppe persone non si battono per i propri diritti e per ciò che conta nella vita, come la verità, l’onore e la decenza. Per la nostra democrazia e le nostre libertà. Non posso esprimere quanto mi stia a cuore questa situazione. La gente ha paura di parlare, e lo capisco. Ma dobbiamo restare uniti e farci sentire».
Quell’istinto che spinge Novak a parlare apertamente oggi era presente nei modi in cui sfidò il sistema all’apice della sua carriera, tra cui la creazione di una propria società di produzione e lo sciopero perché il suo stipendio era inferiore a quello dei suoi co-protagonisti maschi. Annunciando il premio, il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, l’ha definita «una ribelle nel cuore di Hollywood».
Crede che siano stati fatti progressi per le donne nel settore oggi? «Facciamo progressi, ma purtroppo poi torniamo sempre indietro», dice. «Si torna inevitabilmente sempre al sex-appeal. Il nostro aspetto è ancora troppo importante. I social media e l’intelligenza artificiale sono in grado di mostrare ogni genere di cose che non sono reali. Sono i cattivi registi di oggi, che cercano di rimodellare le donne».
Nel nuovo documentario di Alexandre O’ Philippe, Novak ripercorre le ombre del suo passato. Se la sua vita è stata un lungo viaggio alla scoperta di sé, mi chiedo se sia giusto dire che abbia finalmente trovato sé stessa. «Sì», dice con fermezza. «Sono orgogliosa di essermi aggrappata a ciò che è importante. Certo, ci sono molte cose che avrei voluto fare diversamente, ma sono piccole cose per cui Dio e tutti gli altri possono perdonarmi».
E come vorrebbe essere ricordata? Fa una pausa. «Vorrei che pensassero che sono stata fedele a me stessa. Che ho mantenuto alti i miei standard e li ho rispettati».
Nell’anonimato dei forum e dei social si consuma un fenomeno che non ha nulla di nuovo, ma che trova oggi una cassa di risonanza senza precedenti: lo sfogo di frustrazione sessuale collettiva. Non si tratta di desiderio, ma di un rituale tossico. L’utente isolato, protetto da un nickname, cerca appartenenza mimando il linguaggio del branco: battute sessiste, commenti degradanti, iper-sessualizzazione di chiunque capiti a tiro, dalle attrici alle sportive.
Il punto non è l’oggetto del desiderio, ma la dinamica: ridurre l’altro a corpo, riaffermare una maschilità di facciata, ottenere riconoscimento dagli “amici invisibili” del thread. È pornografia sociale senza erotismo, un collante tra individui che condividono soprattutto rabbia e risentimento.
Chi ne rimane coinvolto non percepisce la gravità: «è solo una battuta, è solo internet». In realtà è un addestramento quotidiano alla violenza simbolica, che costruisce consenso e normalizza il disprezzo. La rete non crea questi impulsi, li amplifica.
La vera sfida non è solo “moderare” o censurare, ma riconoscere il meccanismo psicologico: una generazione di maschi frustrati che usa lo spazio digitale per sfogare ciò che nella vita reale non riesce a gestire. L’anonimato non li libera: li rende gregari.
(www.libreriadelledonne.it, 30 agosto 2025)
Inti Maria Enrico Seveso ha un passato da giornalista multimediale e una lunga esperienza diretta nei forum online a tema sessuale. Oggi riflette criticamente sul rapporto tra maschilità frustrata e cultura digitale.
da Internazionale
Una scrittrice palestinese racconta la sua partenza dal territorio martoriato dall’offensiva israeliana. Il dolore per il distacco dai familiari, il senso di colpa e la determinazione a non dimenticare mai le radici
Scrivo queste parole da Parigi, con la pioggia di luglio che mi bagna dolcemente le guance. Come se si scusasse per me del dolore che provo. Come se potesse sentire quanto sono fragile, dopo aver lasciato tutto il mio mondo per inseguire il mio sogno.
I giorni precedenti alla partenza sono stati i più sanguinosi che abbiamo mai visto. Il cielo bruciava ancora più forte. La terra si è crepata ancora più in profondità. Il numero dei bombardamenti, degli ordini di evacuazione e dei massacri è diventato incalcolabile. Il consolato francese ha dichiarato che era il momento di andare, non perché fosse sicuro, ma perché Israele aveva finalmente dato la sua autorizzazione, e ci siamo spostati a Deir al Balah per attendere la partenza. Io non ho dormito. Ho guardato i miei familiari respirare, memorizzando le loro voci come se stessero per scomparire. Perché stavano per scomparire. Ho lasciato Gaza senza nient’altro che i vestiti che indossavo, la carta d’identità e il dolore insopportabile di sapere che mia madre e la mia sorella minore, tutto il mio mondo, sarebbero rimaste indietro, in una guerra pensata per cancellarci.
Le discussioni su un cessate il fuoco imminente e le speranze di mettere fine alla guerra mi avevano tranquillizzata un po’, ma erano le solite menzogne. È uno spettacolo ricorrente, e ogni volta ci caschiamo. Non perché siamo idioti, ma perché siamo disperati.
Il consolato di Francia qualche giorno prima ci aveva detto: «Preparatevi, se volete ancora partire». Per seguire i miei studi sono stata ammessa alla facoltà di scienze politiche dell’École des hautes études en sciences sociales a Parigi. Ma come preparare le valigie per l’esilio? Come chiudere i ricordi in un bagaglio che non abbiamo il diritto di portare?
Come una ladra
La notte prima della partenza ho provato a memorizzare le ciglia di mia sorella. Ho dormito tra lei e mia madre, tutte abbracciate come se fosse l’ultima volta. Una grande parte di me e di loro voleva tanto negarlo. Mia sorella era silenziosa. Troppo silenziosa. Quel genere di silenzio terrificante tipico dei bambini quando sanno più di quanto vorremmo che sapessero. Non mi ha detto: “Non andartene”. Mi ha guardata e mi ha stretta ancora più forte tra le sue braccia. E il suo sguardo mi seguirà più a lungo di questa guerra.
Quanto a mia madre, non ho la forza di scriverlo: non posso dimenticare come mi guardava e il modo in cui ha pianto con tutto il cuore spingendomi fuori della stanza per farmi andare. Sono partita come una ladra, non rubando, ma lasciandomi alle spalle tutto quello che amavo.
Al punto d’incontro concordato dal consolato ci siamo uniti ad altre persone scelte per questa evacuazione umanitaria. Trenta, forse di più. Ciascuno di noi porta con sé storie che non finirà mai di scrivere. Siamo saliti sugli autobus come dei fantasmi che trasportavano corpi, ognuno con gli occhi pieni di lacrime, gonfi per la mancanza di sonno, ognuno più triste e più confuso dell’altro. Mi sono seduta vicino al finestrino e mi sono costretta a guardare, ad assistere alla morte di quella che era casa mia. Khan Yunis, Rafah. O meglio, quelle che un tempo erano Khan Yunis e Rafah. Era tutto svanito. Appiattito in un’architettura di silenzio. Scheletri di cemento. Panni bruciati. Perfino gli uccelli volavano più basso, come in lutto.
Non ho parole per descrivere la portata della distruzione – e la scarsa consapevolezza che ne avevo – sulla strada diretta al valico di frontiera di Kerem Shalom-Abu Salem. Non credevo ai miei occhi, sembrava un film sulla fine del mondo, ma non lo era. Poi siamo passati davanti ai camion degli aiuti umanitari. Allineati come oggetti sulla scena del crimine. Ce n’erano a decine. Carichi di prodotti alimentari, di farina, di acqua. Parcheggiati a pochi metri dal cadavere di Gaza, non sono mai stati autorizzati a entrare. Il pane marcisce mentre i bambini nelle tende fanno bollire erbe per mangiarle. Come lo chiamate voi questo, se non un crimine di guerra? Questo non è un assedio. È una carestia usata come strumento di politica estera. È un omicidio burocratizzato, firmato a Washington, eseguito a Tel Aviv, con l’Europa a fare da testimone.
Niente lacrime
Abbiamo raggiunto il posto di controllo. Dopo aver verificato la nostra identità, i soldati israeliani ci aspettavano, i fucili imbracciati, come se fossimo la minaccia e non le vittime. Ci hanno detto: «Non portate nulla con voi». Niente computer, libri né auricolari. Non sono stata autorizzata neanche a tenere il taccuino di poesie riempito durante la guerra, che mia sorella mi aveva regalato per il compleanno. Le parole, a quanto pare, sono troppo pericolose per l’occupante.
Ci hanno perquisito come se portassimo delle bombe, invece che dolore. Ci hanno toccato la schiena, hanno controllato i nostri calzini, scandagliato i nostri occhi. Un soldato, se così può definirsi un criminale, ha guardato uno studente che viaggiava con noi e ha cominciato a interrogarlo sulla sua provenienza e i suoi contatti. Il personale del consolato ha verificato di nuovo i nostri nomi ed è stato gentile e affettuoso. Ci ha dato qualcosa da mangiare e ci ha informati che i colleghi dell’ambasciata francese ci avrebbero aspettato al nostro arrivo in Giordania.
Nell’autobus per Amman nessuno parlava. Ma la sofferenza ha un linguaggio tutto suo. Il nostro silenzio era un inno. Un canto funebre per le famiglie che abbiamo lasciato. Per i bambini che forse non rivedremo. Per la verità che ci è vietato portare con noi. Due posti dietro il mio, una ragazza ha sussurrato qualcosa. Non mi ha chiesto il mio nome, io non le ho chiesto il suo, ma mi ha detto: «Mio padre è rimasto. Ha detto che preferiva morire a casa sua piuttosto che in una tenda. Ho detto al mio fratellino di cinque anni che gli porterò del cioccolato dalla Francia, lui ha sorriso. Non sa che questo potrebbe essere un addio per sempre». Ha infilato le mani dentro le maniche, e guardando a terra ha mormorato: «Ho l’impressione di aver lasciato l’anima sotto le macerie. E ora ho paura che qualcuno ci cammini sopra». Ma c’è una sua frase che ancora oggi mi perseguita: «Sono convinta che tornerò da mia madre e le racconterò il mio viaggio, e lei mi dirà: “Buongiorno figlia mia, sei in ritardo!”».
L’offensiva sulla città
Niente lacrime. Niente singhiozzi. Solo il silenzio, un silenzio tanto pesante da toglierci l’aria. Come me, questa ragazza ora è da qualche parte in Francia, dove mangia il pane, studia francese, diritto o qualcos’altro. Ma una parte di lei, una parte di tutti noi, è sempre a Gaza, a piangere dietro un muro crollato senza che nessuno riesca a oltrepassarlo.
Abbiamo attraversato i territori palestinesi occupati. Quattro ore in un territorio che non avevo mai visto. Perché noi siamo di Gaza. Non abbiamo mai visto la nostra stessa terra. Il resto della Palestina ci è sempre stato proibito. Eppure, era là: montagne, vigneti, colline coperte di ulivi. Il Mar Morto e, infine, gli stabilimenti balneari. Gli alberghi a cinque stelle, le europee che si abbronzano in bikini mentre a trenta chilometri da lì molti bambini sono sepolti sotto una tenda. È il teatro crudele dell’occupazione: genocidio nel Mediterraneo, cocktail sul Mar Morto.
Ci hanno sistemato in un hotel ad Amman, l’InterContinental Jordan, un albergo magnifico, tutto a spese della Francia. Non ci mancava niente, tranne quello che volevamo davvero. Ci abbiamo passato due notti, da mercoledì 9 all’alba di venerdì 11 luglio. Sono stati due giorni interi di silenzio e di solitudine in una camera d’albergo molto lussuosa. Poi ci hanno portati all’aeroporto, con altre attese e verifiche, prima di metterci finalmente su un volo per Parigi.
Il viaggio è stato davvero sconvolgente. Era la prima volta che prendevo l’aereo. Mi sentivo male e intanto mi stupivo dell’immensità del mondo e di come un minuscolo pezzo di terra gli ha permesso di svegliarsi e di comprendere quanto si stava sbagliando. Siamo atterrati all’aeroporto Charles de Gaulle. Siamo stati di nuovo controllati e abbiamo ottenuto un visto per studenti. I miei amici mi aspettavano con i fiori più belli e un abbraccio molto caloroso.
E ora eccomi qui a Parigi. Al sicuro. Dormo in un letto caldo molto comodo. E ogni notte fisso il soffitto e mi chiedo: li ho traditi? Ho abbandonato mia madre, mia sorella, il mio popolo? Il senso di colpa mi brucia lo stomaco e m’impedisce di trattenere quello che c’è dentro, che sia cibo o lacrime. Partire è stato un atto di coraggio o di diserzione? Una cosa però la so: non ho lasciato Gaza per dimenticarla. L’ho lasciata per vendicarla con la lingua, con la politica, con una memoria più viva delle pallottole. Sono partita per imparare la lingua dei tribunali che non ci hanno mai salvati. Per usare i loro stessi strumenti così da scolpire il nostro nome nella storia.
Voi, nelle vostre ambasciate, nelle vostre redazioni e nei vostri studi televisivi, sentirete parlare di me. Non sarò la vostra storia di successo, sarò il vostro specchio. E quello che ci vedrete non vi piacerà.
Ho lasciato Gaza senza niente. Senza una borsa. Senza libri. Senza un regalo d’addio. Solo rabbia.
(*) Nour Elassy è una giornalista, scrittrice e poeta della Striscia di Gaza. Ha 22 anni e ha studiato letteratura inglese e francese. Grazie a una mobilitazione guidata dallo scrittore palestinese Karim Kattan, è stata selezionata per seguire un master in scienze politiche all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi ed è tra le 37 persone fatte uscire dalla Striscia dalle autorità francesi il 9 luglio 2025.
da Il Tascabile
In seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin e di altre giovani donne, siamo stati inondati da una marea mediatica di approfondimenti, interviste a esperti, statistiche. Poi, quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance, ci siamo accorti che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito. Sempre in tv non sono mancati momenti di tensione, come quello in cui un filosofo italiano, impersonando la parte dell’intellettuale stizzito, ha affermato che l’ideologia patriarcale è in crisi da più di duecento anni, senza aggiungere nulla di significativo che potesse inquadrare il fenomeno della violenza sulle donne.
Dall’altra parte arrivava la voce pacata di Elena e Gino Cecchettin, che mai hanno perso la disponibilità a condividere il loro dolore, esprimendo la volontà di trasformare una perdita così dolorosa in un impegno sociale incrollabile (si veda la Fondazione Giulia Cecchettin). Proprio sulla scia delle parole di Elena Cecchettin, è stato usato il concetto di patriarcato come categoria interpretativa utile a rintracciare le cause della violenza di genere.
Premesso che le dinamiche patriarcali esistono ancora (eccome!), in effetti la parola “patriarcato” non basta a cogliere la natura dei gesti violenti o mortali commessi da uomini che difficilmente potrebbero essere definiti patriarchi. Sarebbe forse più corretto dire che sono figli di patriarchi? O essere più specifici affermando che sono figli di un sistema basato su un’idea della donna che proviene da retaggi culturali di tipo patriarcale?
In antropologia, il patriarcato corrisponde a un tipo di sistema sociale in cui vige il diritto paterno, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo. Per estensione ‒ ed è il significato che ci interessa ‒ fa riferimento a un complesso di radicati, e sempre infondati, pregiudizi sociali e culturali che determinano manifestazioni e atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta, messi in atto dagli uomini, specialmente verso le donne.
Torna utile, a mio avviso, l’obiezione mossa dall’antropologia femminista degli anni Settanta-Ottanta (Paola Sacchi), cioè che la nozione di patriarcato pone la questione della subordinazione delle donne in modo semplificato, «nei termini cioè di un’universalità che maschera le specificità di formazioni sociali, di culture e di fasi del ciclo di vita diverse, nel cui contesto invece dominio e subordinazione sempre si collocano» (MicroMega, 2024, 2, Vecchi e nuovi patriarcati una prospettiva antropologica). Oltre a Debating patriarchy (Julia Adams, Benita Roth, Pavla Miller), citato da Micromega, si può rimandare ad alcune studiose che hanno ritenuto il concetto di patriarcato troppo universalistico: Sherry Ortner, Gayle Rubin, Rayna Rapp con Toward an Anthropology of Women (1975) o Sylvia Yanagisako, secondo la quale parlare di “patriarcato” in senso assoluto oscura le specificità storiche e le modalità con cui le gerarchie di genere si articolano in diversi contesti culturali.
Nell’articolo Ai lettori, dello stesso numero di MicroMega, si dichiara che il femminicidio di Giulia Cecchettin «ci riguarda tutti perché non è il frutto di una mente malata ma il depositato stratificato di secoli di oppressione, misoginia, violenza. In una parola patriarcato». Sebbene la premessa ci trovi tutti d’accordo, la conclusione “in una parola patriarcato”, non è esaustiva. Sostenere che le orride motivazioni dei fautori di femminicidio scaturiscano soltanto dal depositato di qualcosa che abbiamo ereditato comporta il rischio di deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.) del presente in cui viviamo e di non vedere i nuovi elementi che interferiscono con le strutture tramandate dal passato.
Bisognerebbe indagare, credo, quelli che Pierre Bourdieu definisce fattori di permanenza e fattori di cambiamento. Come scrive nel volume Il dominio maschile (1998), «non si tratta tanto di negare le permanenze e le invarianti, che fanno incontestabilmente parte della realtà storica» ma di affermare la necessità di storicizzare le strutture del dominio maschile. In altre parole, bisogna riscrivere «la storia degli agenti e delle istituzioni che concorrono ad assicurare tali permanenze, chiesa, stato, scuola ecc., e che possono variare, nelle diverse epoche, quanto a peso relativo e a funzioni».
È recente la notizia della morte di Martina Carbonaro, ragazza di quattordici anni uccisa dal suo ex fidanzato Alessio Tucci ‒ di quattro anni più grande ‒ perché «aveva deciso di troncare la relazione con lui»: sono le parole dell’assassino, riportate poi da tutti i media. E qui, forse, tocca fermarsi. Secondo la prospettiva della giudice Paola Di Nicola Travaglini, se ci fosse una «corretta tipizzazione del reato di femminicidio», non leggeremmo «che una donna è stata uccisa da un uomo che non ha accettato la separazione», ma «che un uomo ha ucciso una donna perché questa voleva essere libera e lui non glielo consentiva». Alessio Tucci non voleva che Martina Carbonaro guardasse gli altri uomini e lei, come riportato dalle amiche, aveva cominciato a camminare con lo sguardo rivolto verso il basso.
Varie voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una piaga che germina a partire dalle dinamiche psicologiche legate al nucleo famigliare. Risulta evidente, però, che in Italia ci sia un’indisponibilità, una sfiducia di carattere quasi scaramantico, nei riguardi delle analisi di carattere psicoanalitico, come se queste mancassero di storicità o autorevolezza. Eppure la storia delle dinamiche patriarcali non può essere scissa ‒ tantomeno oggi ‒ dallo studio delle dinamiche psichiche, le quali vengono erroneamente immaginate come entità fossili avulse dalle relazioni tra gli esseri umani.
Cosa ci dice il fatto che il femminicida Filippo Turetta dormisse con un orsacchiotto, secondo quanto rivelato dalla sua famiglia? Che fosse un bravo ragazzo improvvisamente diventato un assassino per un raptus di rabbia? No. Questo dettaglio ci dice, come scrive Laura Pigozzi nel suo libro Mio figlio mi adora (2019), che «rimanere infantili ci rende feroci». Secondo la posizione di Pigozzi, oggi l’etichetta di patriarcato viene adottata come alibi per non parlare adeguatamente di quella istituzione chiamata “famiglia”, ambiente in cui i genitori crescono «figli dipendenti dalla disponibilità di un oggetto», fattore che dovrebbe essere collocato nell’insieme delle specificità del contemporaneo più che in quello ereditato dal passato. Soprattutto tra i giovani, ci dice Massimo Recalcati, si nota una vita dominata dagli oggetti e dall’esigenza di ottenere un godimento immediato, perdendo la capacità generativa del desiderio (vedi Il complesso di Telemaco, 2015; Le nuove malinconie, 2019). Sullo stesso fenomeno ha scritto Éric Laurent, il quale ha parlato di una «mutazione antropologica del godimento», dove la dimensione simbolica viene bypassata da pratiche immediate, tecnologiche, medicalizzate.
Se torniamo alla tesi di Pigozzi, scopriamo che il femminicidio è responsabilità di un «soggetto che non riesce a percepire l’altro come separato da sé». La donna «viene uccisa non in quanto donna, cioè come rappresentante del genere femminile, ma come colei che occupa in lui un posto psichico a cui non riesce a rinunciare». Secondo la psicoanalista e saggista, la «questione implicata nel femminicidio non è il genere ma la dipendenza» (Mio figlio mi adora).
Forse bisognerebbe correggere in “non è solo il genere”, perché senza dubbio questo ha un peso primario. L’idea della coppia come simbiosi porta a relazionarsi all’altra/o come «oggetto d’uso da consumare per sentirsi esistere». Una prospettiva simile trapela da alcune analisi elaborate a seguito del femminicidio di Martina Carbonaro. In un articolo di Maria Novella De Luca su La Repubblica del 29 maggio ‒ giorno successivo al femminicidio ‒ si legge che per l’assassino «avere Martina vuol dire avere status, esistere in un mondo fatto di video e selfie». Anche se questa analisi è convincente, bisogna tenere conto di un punto di vista che invece rimarca la prospettiva di genere. Cito ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini, la quale nel dossier Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, pubblicato dalla rivista Sistema penale (2025, 5), fa riflettere sul fatto che,
innanzitutto, il femminicidio è «un crimine di potere come tutti i delitti di violenza maschile contro le donne».
Anche la realtà giuridica, sebbene ancora restia alla prospettiva di genere, «è andata molto avanti ammettendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere» (vedi anche Preambolo della Convenzione di Istanbul). «L’appartenenza al genere femminile di chi viene uccisa e del genere maschile di chi uccide, in una relazione proprietaria e gerarchica, costituisce l’elemento cruciale del reato di femminicidio». In sintesi, le donne vengono uccise dagli uomini in ambito familiare o di coppia in seguito ad aggressioni che sono espressioni di «potere, controllo e sopruso nei loro confronti in quanto donne».
Di potere ha parlato Massimo Recalcati nell’approfondimento Origini psicopatologiche e culturali della violenza femminicida (2023), trasmesso da Radio1 per commentare il femminicidio di Giulia Tramontano e l’infanticidio del figlio che portava in grembo. Lo psicoanalista ha invitato a riflettere su un’altra nozione centrale: il limite. Secondo la sua analisi, si è verificato un esempio di «esercizio brutale del potere che non accetta nessuna esperienza del limite», che in questo caso sarebbe connesso alla responsabilità della paternità. Allargando il discorso, dichiara che in quasi tutti i casi di femminicidio la violenza deriva dalla frustrazione generata dalla libertà della donna quando questa dichiara di non amare più il proprio compagno. Nella logica maschilista, «che è un derivato della logica patriarcale», la donna viene percepita come un “oggetto” o “proprietà del corpo dell’uomo” (Eva che nasce da una costola di Adamo ne rappresenta il mito fondativo).
Inoltre, l’esercizio della violenza subentra laddove viene a mancare «la portata simbolica della parola». La situazione conflittuale o dolorosa non viene risolta con la parola, ma attraverso il gesto violento o criminogeno. A questo punto la conduttrice del programma pone una questione centrale chiedendo quale sia il peso del vissuto familiare nell’esperienza psichica e relazionale dei giovani. Con ottimismo, e con la premessa che «stiamo assistendo agli ultimi rantoli del patriarcato», Recalcati afferma che «il ruolo della famiglia dovrebbe essere quello di disinnescare la tentazione alla violenza» dando esempio ai figli non attraverso «attività persuasive» ma attraverso i comportamenti: se un padre umilia la madre, questo diventa un messaggio ‒ sbagliato ‒ che ribadisce la superiorità del maschio sulla femmina. Tuttavia, aggiunge, «non c’è un nesso deterministico tra il disfunzionamento della famiglia e il passaggio all’atto criminogeno». Se nella famiglia, conclude, «il messaggio passa attraverso gli atti, nell’istituzione scolastica in primo piano vige la legge della parola», nel senso che il conflitto viene simbolizzato attraverso dispositivi verbali. Secondo Recalcati ‒ ed è forse questo l’aspetto più complesso da sviscerare ‒ non esiste una «dimensione sistemica del patriarcato», ma «espressioni erratiche di una visione maschilista e sessuofoba».
Ma è davvero possibile definirle “erratiche”? Probabilmente, queste manifestazioni maschiliste e sessuofobe, sebbene introiettate, appaiono nel contesto famigliare meno evidenti o ingombranti, per rivelarsi di fatto più subdole, dunque difficili da decriptare. Servirebbe un’educazione allo svelamento della violenza simbolica – suggerisce ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini – invitando a «disvelare le forme simboliche del dominio maschile» perché senza questa operazione, si rischia di minimizzare la violenza aperta ed esplicita. Come non ricordare, qui, Carla Lonzi che in Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) aveva definito il patriarcato come «sistema simbolico e culturale totalizzante»?
Durante una lectio magistralis tenuta in memoria di Silvia Gobbato, praticante avvocata assassinata nel 2013 a Udine mentre correva nel Parco del Cormor, Di Nicola Travaglini afferma che «solo chi legge e riconosce l’apparato simbolico di questo potere discriminatorio sarà in grado di riconoscere la violenza». Il discorso vale soprattutto ‒ afferma ‒ per i giudici che, in primis, devono affinare gli strumenti culturali per decriptare queste strutture di potere, per non correre il rischio di delegittimare le testimonianze o derubricare, per esempio, la violenza sessuale a raptus o impulso sessuale incontenibile.
Per non parlare del fatto che nelle aule di tribunale le donne rischiano di scomparire per diventare mogli, madri, figlie. Oltre che per una necessità derivante dagli «obblighi sovranazionali assunti dal nostro Paese», l’introduzione nel nostro codice penale del delitto di femminicidio deriva anche «dall’urgenza che la comunità dei giuristi, grazie a nuove strutture interpretative, acquisisca la consapevolezza che i delitti di violenza maschile contro le donne sono fondati su una relazione di potere strutturalmente discriminatoria e diseguale ad oggi mai nominata e, anche per questo, mai rimossa», si legge nel dossier citato prima. Per ricapitolare, il femminicidio «si fonda su radicati stereotipi socioculturali che non consentono al genere femminile l’esercizio delle libertà fondamentali in condizioni di parità rispetto agli uomini in ogni contesto, soprattutto familiare (le donne hanno obblighi di cura e le loro ambizioni devono retrocedere rispetto a questi) e lavorativo».
Nel magnifico La volontà di cambiare. Mascolinità e amore (2004) bell hooks si presenta come strenua sostenitrice della necessità di continuare a usare il termine “patriarcato” dedicando alla questione il capitolo “Capire il patriarcato”: «sono più di trent’anni che tengo conferenze sul patriarcato. È un termine che uso quotidianamente e gli uomini che mi sentono usarlo spesso mi chiedono che cosa intendo dire». Messo l’accento sul bisogno di associare al termine degli attributi più specifici, hooks racconta di preferire ‒ siamo nel contesto americano ‒ l’espressione «patriarcato capitalista suprematista bianco imperialista» per descrivere meglio «l’interconnessione tra i sistemi che sono alla base della politica in America». Ci sono persone capaci di criticare il patriarcato, scrive, ma incapaci di agire in modo antipatriarcale.
In linea con l’intuizione di molti esperti qui citati, bell hooks sostiene che le forme più comuni di violenza patriarcale sono «quelle che avvengono in casa tra genitori e figli» dove è più facile mantenere (omertosamente, aggiungo io) «i segreti del patriarcato, proteggendo così il dominio del padre». Questa regola del silenzio, continua l’autrice, «favorisce la negazione delle dinamiche patriarcali». Il grande contributo di hooks consiste nel sottolineare che anche gli uomini sono delle vittime del sistema patriarcale quando gli si nega il diritto a parlare di emozioni o a dare sfogo al dolore. Infine, ci suggerisce hooks, le donne hanno creduto erroneamente di poter «salvare gli uomini della loro vita dando loro amore, che questo amore sarebbe servito come cura per tutte le ferite inflitte dagli attacchi tossici al loro sistema emotivo». «Il nostro amore li aiuta, ma da solo non li salva». È infine necessario, suggerisce hooks, evidenziare il ruolo che le donne svolgono «nel perpetuare la cultura patriarcale» per poter infine «riconoscere il patriarcato come un sistema che donne e uomini sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più gratificante».
La prima operazione da fare, dunque, consiste nel riconoscere l’interdipendenza tra tutti i saperi della conoscenza, rigettando qualsiasi approccio fondato sulla purezza interpretativa e accogliendo le interferenze delle discipline sociologiche, linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche. L’altro passo da muovere consiste nel riconsiderare tutto ciò che di significativo abbiamo teorizzato su patriarcato e differenza di genere in relazione alle nuove, sempre più inquietanti, espressioni di dominio e possesso, praticate o subite online, da uomini giovani o adolescenti. Dico “subite” perché il riferimento è al mondo virtuale della manosfera o uomosfera (da manosphere), termine utilizzato per descrivere un gruppo eterogeneo di forum e comunità online dedicate a problemi e temi riguardanti il mondo maschile. Alcuni esempi sono i Men’s right activists, gli Incel (i celibi involontari), i Men Going Their Own Way (MGTOW), i Pick-Up Artist (PUA) e i gruppi per i diritti dei padri. Sebbene ogni gruppo presenti la propria ideologia, i «movimenti sono generalmente accomunati dalla convinzione che la società sia discriminatoria nei confronti degli uomini».
Come chiarisce il professor Marco Scarcelli su Il Post, «il fatto che questo genere di discorso attecchisca tra i giovani non è dovuto soltanto al fatto che vengano esposti spesso e volentieri a contenuti attinenti alla manosfera online, ma anche al fatto che il terreno è già fertile». Contrariamente a quanto si pensi, i giovani non devono essere considerati «menti innocenti che vengono traviate»; abbiamo a che fare con «convinzioni già ben radicate nella nostra cultura, che circolano da decenni». Convinzioni sessiste e teorie misogine, provenienti da queste comunità online, arrivano anche a Jamie, protagonista della serie TV Adolescence.
Nonostante sia per ora complicato disegnare filologia e sviluppo della manosfera, sappiamo che all’inizio questi forum sono nati come spazi in cui gli utenti si scambiavano consigli, incoraggiamenti, convinzioni. Negli anni Settanta il nascente movimento per i diritti degli uomini cominciò ad attribuire i problemi degli uomini al femminismo e all’emancipazione delle donne. Il pilastro ideologico di tutti i gruppi si fonda sulla convinzione che i movimenti femministi abbiano delegittimato la mascolinità e contribuito a creare un clima d’odio contro gli uomini. Prendere la pillola rossa, metafora tratta dal film Matrix, vuol dire riconoscere questa verità, accettare questo stato di cose.
«Quella rossa vuol dire vedo la verità» ed «è un invito da parte della manosfera», rivela Adam al padre poliziotto nel secondo episodio di Adolescence. Il padre, disorientato, chiede al figlio di spiegargli. Così, quest’ultimo riassume il principio 80-20, secondo cui l’80% delle donne sarebbe attratto da un ristretto numero di maschi (il 20%). Allora, «sei obbligato a ingannarle, altrimenti non riuscirai a conquistarle» aggiunge Adam. L’altra idea alla base di questi blog misogini ‒ più subdola ma più pericolosa ‒ è che avere una donna sia un diritto inalienabile per un uomo. Pertanto, la violenza è giustificata se finalizzata a ristabilire questo diritto. Questo è il centro focale da cui bisognerà ripartire.
La normalizzazione della misoginia entro l’universo tecnologico (e psichico?) ci impedisce di pensare che le nuove forme di sessismo siano erratiche. Esse sono virali, associate a gravi forme di analfabetismo emotivo, a una mancanza di istruzione, alla tentazione di ritenere plausibili complotti e macchinazioni orchestrati da donne accusate di delegittimare quel sacramento chiamato mascolinità.
da Effimera
Della Milano che amiamo, non per rimpianto o nostalgia ma perché nutre la nostra immaginazione presente, fa senza dubbio parte l’esperienza del circolo femminista separatista Cicip&Ciciap, fondato nel 1981 da Nadia Riva e Daniela Pellegrini, nella casa occupata di via Morigi 8.
Questo riconoscimento si innesta da vicino sui ragionamenti che stanno circolando in questi giorni dopo lo sgombero del Leoncavallo. Si tratta di riflettere sugli spazi sociali e sulle forme di vita, di cultura e di politica, di creazione di legami e comunità, insomma su modalità della riproduzione sociale create in autonomia dai tessuti sociali per i tessuti sociali, senza intermediazioni di alcun tipo. Oggi questo tipo di processi è grandemente a rischio. In parte sono stati espropriati e convogliati altrove da “operazioni di capitale” (cambi di paradigma produttivo, allargamento delle forme di accumulazione e sfruttamento, finanziarizzazione, gentrificazione), oppure sono diventati porzioni sussidiarie dello stato sociale che si immiserisce, un passo dopo l’altro. Ma per quasi cinquant’anni hanno arricchito esclusivamente le relazioni e l’incontro, il sapere collettivo, la creatività e il piacere, la produzione di pensiero critico. Daniela Pellegrini mi invita a insistere non sulla teoria e sul pensiero ma sulla vita e niente più, sulla materialità, sulle pratiche. Un fare per la vita, semplicemente vivendo: bastano poche, trasparenti, parole.
L’esperienza del Cicip è, al di là dei termini infilati in un articolo, parte integrante, fondamentale, di questo fare e dei riferimenti delle donne della metropoli lombarda e non solo. Eppure viene spesso dimenticata, rimossa.
Insieme alla storia del Cicip si scopre quella del palazzo di via Morigi 8, situato non nella periferia, locazione tipica degli spazi occupati, ma nel cuore del centro cittadino e occupata nel 1976. Per chi non conosce la città, siamo nella Milano romana e nelle cosiddette, dai milanesi, Cinque vie, vicino a piazza Borromeo, a pochissima distanza da Piazza degli Affari, tra il Carrobbio, piazza Cordusio e piazza Duomo. Negli anni Settanta e Ottanta una zona storica, con antichi palazzi dal fascino délabré, oggi contesto trasformato, con ristrutturazioni di lusso, locali eleganti, gallerie d’arte.
Nadia Riva e Daniela Pellegrini determinate a creare «spazi liberi per nuove scoperte», dopo vari mesi di ricerche scelsero, infatti, l’ultima porzione rimasta libera al piano terra della torre e casa dei Morigi, che si affaccia su via Gorani, proprietà del Comune di Milano. «Spazio allora davvero fatiscente e nel più completo abbandono e che è stato ristrutturato (sarebbe meglio dire ricreato, dal pavimento al soffitto mancanti) in prima persona e con il pervicace olio di gomito e autofinanziamento» da chi lo fondò, come si può leggere ancora sul sito del Cicip, dove si raccontano gli esordi ma non la fine di questa avventura.
Con tutta l’energia e la passione che ci riversano, in cinque o sei mesi Nadia e Daniela riescono a dare una forma a ciò che diverrà il Cicip&Ciciap, Circolo culturale e politico delle donne, bar e ristorante. Rifanno con le loro mani il pavimento, tirano su i muri, imbiancano, inchiodano, abbelliscono.
Il Cicip fiorì in quella sede per trent’anni, festeggiati in loco il 22 giugno 2011. Qual era l’obiettivo di fondo lo spiegano le fondatrici, alle quali, in un primo periodo, si aggiunse Giorgia Reiser che scelse poi altri percorsi. Si desidera «uno spazio apparentemente informale dove l’incontrarsi delle donne possa creare consapevolezza di sé e aprire loro strade insospettabili». Strade, scrivono, che possano stupire anche loro stesse.
In quel luogo, invero piccolo ma molto accogliente, tutti i giorni si organizzano incontri, presentazioni di libri, gruppi di discussione per riflettere su temi dirimenti, come la guerra, gruppi di autocoscienza. Il Cicip è mosso «dalla fiducia e la speranza di un movimento delle donne che modifichi le regole del “gioco di potere e di guerra maschile” […] E per cominciare a costruire questo nostro sguardo, è molto importante saper vedere, capire e valorizzare l’agire di quelle donne che sembrano “invisibili” alle trombe dei media e che non se ne preoccupano, occupate a costruire materialità e senso nuovo ovunque si trovino, pur nella fatica di affrontare tutte le contraddizioni che ciò comporta».
Un programma che vorremmo varare anche adesso, poiché sentiamo, assai più di allora, come lo “spaesamento confusionale” e divisivo di fronte alla realtà si stia, con maggior forza, facendo strumento di azzeramento di ogni alternativa e opposizione, strumento di controllo. Mentre le trombe dei media starnazzano o nascondono notizie, a seconda delle necessità, e tutti siamo sommersi e indirizzati dallo spettacolo del potere.
Nel 1986 al Cicip nasce anche una rivista, Fluttuaria. Ne verranno pubblicati 17 numeri. Ci sono un bar e un ottimo ristorante, serate di musica, danze, feste. «A proposito di politica… ci sarebbe qualcosa da mangiare?» ed è Sabina Moroni a prendere, per diversi anni, la guida della cucina. Nel tempo si sono allestite mostre e mercatini, avviati corsi di tango e di drammaturgia, si son fatti concerti di musica classica, ingaggiate gare di cucina con Stefania Giannotti, è stato sede di una squadra di calcio femminile o delle “cercatrici d’oro” che andavano a setacciare fiumi e torrenti, anche a scopo di finanziamento. Da qui sono passate, tra le altre, anche Anna Del Bo Boffino e Angela Finocchiaro, Rosi Bindi e Gianna Nannini, Barbara Alberti e Lella Artesi. Di casa, al Cicip, erano Ida Farè, Laura Lepetit, Tiziana Villani, Giuliana Peyronel, Rosella Simone, Francesca Pasini, Renata Molinari, Sandra Bonfiglioli, Antonella Nappi, Chiara Martucci e tante altre. Insomma, in questo luogo «si sono incontrate intellettuali e sottoproletarie, artiste e calciatrici, musiciste e poete, tutte quelle che cercavano un luogo per esercitare la propria libertà»[1].
Nonostante fosse diventato, grazie a tutta questa vita e a tutti questi corpi, un punto di riferimento (insieme ad altri) per il femminismo milanese, nel 2011 viene sfrattato. Le donne non provarono a resistere, impacchettano idee, pentole e ricordi e se ne vanno (da un’altra parte, ma non si ritroverà la medesima alchimia).
L’esperienza dell’intero stabile, risalente al 1400, occupato nel 1976 dopo dodici anni di assoluto abbandono da parte del demanio pubblico, termina nel 2011, come da accordi con il Comune, con una s-vendita da parte di BNL Paribas Real Estate Investment Management Italy a privati per 10 milioni di euro (una cifra ridicola vista la dimensione e la posizione del palazzo). La delega per l’operazione era stata data a BNL Paribas nel 2010, dalla giunta Moratti. L’elezione a sindaco di Giuliano Pisapia, nel 2011, aveva riacceso qualche speranza negli abitanti e nelle associazioni occupanti, speranza che si rivelerà mal riposta[2].
È chiara ormai, da questa data o giù di lì, la svolta verso la Milano affarista con la quale ci confrontiamo pienamente adesso. Il problema non riguarda solo il capoluogo lombardo ma appare chiaro che nel presente il territorio è esplicito luogo di accaparramento e destrutturazione del vivente e della forza simbolica delle sue forme di invenzione, protezione, collegamento, autorganizzazione. Deve prevalere non solo un modello di metropoli, ma deve anche sparire una soggettività pensante, non egoista ed ego-riferita, capace di spendersi per la collettività e la civiltà senza che ciò venga subito iscritto nelle strutture politiche tradizionali, traducendo il proprio fare in eredità culturale per tutti. Cosicché, la politica assolve la funzione governamentale di favorire la speculazione e il guadagno del privato a spese di ciò che è pubblico, con estromissione, anche violenta, di tutto ciò che può essere d’inciampo a tale logica: eccedenze, devianze ma anche cooperazione, collaborazione, sostegno reciproco. Si direbbe, biopolitica.
Il sacrificio di questo processo è, infatti, la vita del Cicip&Ciciap e di tante altre associazioni che, dopo aver contribuito alla salvaguardia del palazzo con ininterrotti interventi di manutenzione a proprie spese, verranno sacrificati. Ricordiamo che in via Morigi avevano sede anche Punto Rosso, Attac, Greenpeace, Survival, Servizio Civile Internazionale, Donne Internazionali. Oltre alle associazioni la casa era abitata da 23 nuclei famigliari. Primi occupanti, nel ’76, erano stati un gruppo di ragazzi del COM, Collettivo di liberazione omosessuale, vicini a Mario Mieli. Nel ’78 arrivarono le “Bororo” che danno vita a una comune femminista.
Il Cicip dopo via Morigi approderà in viale Col di Lana, grazie anche alla sovvenzione personale di Genevieve Vaughan, ma non riuscirà a ritrovare quel tipo di clima e ambiente favorevoli che ne avevano agevolato lo sviluppo. Nessun Comune si è mai fatto vivo e questa storia, come scrivevo all’inizio, è, perlopiù, trascurata.
Viceversa, altre associazioni hanno trovato nuovi spazi. Alcune sono diventate estremamente note e solide.
La morale di questa vicenda, proprio ricostruendo quanta vita, quanto movimento, quanti affetti, quanto divenire siano coinvolti, con-mossi in tutta la miriade di imprese sociali su cui poggia l’ossatura di Milano, è che questa città, in forza della sua storia e della composizione sociale che l’ha sempre contraddistinta, non è Citylife, non è il laboratorio della rigenerazione urbana che si vuole trapiantare contro la sua natura. È stata, ed è, una città colma di senso, di cultura e di politica, sempre avanguardia di tutte le sperimentazioni sociali (nel bene e nel male).
Identica rimane ancora oggi la ricerca, poiché tale è l’ineludibile propensione dello stare al mondo, la meraviglia che ancora si fa largo tra le macerie, anche nei periodi bui della storia come questo. La traccia marcata, citando Daniela Pellegrini, dalla “materia sapiente”.
La manifestazione nazionale del 6 settembre a difesa del Leoncavallo e di tutti gli spazi sociali, tenendo conto degli insegnamenti del passato ma puntando soprattutto al futuro, deve servire a difendere un’idea di condivisione tra corpi e perciò non può dimenticare la densità storica dell’esperienza femminile. Questo significa scavare al fondo dell’oppressione più marcata dalla società per rivendicare la costruzione di comunità autonome dove ritrovare una parola politica che non sia solo una tecnica come le altre. Politica come pensare e sentire collettivo, ma nella libertà di ciascuna, che concepisce, dà vita e cura ciò che è disconosciuto, sottoutilizzato o assente o non garantito o depauperato e sfruttato dal mondo presente. Fuori da identitarismi e autoreferenzialità. Un’altra, o meglio una nuova politica, non astratta ma incarnata, che valorizzi la differenza e l’unicità di ogni essere umano. Una riconquista faticosa, al fondo delle cose, che il punto di vista femminile conosce bene e che gli uomini, forse, debbono ancora imparare a riconoscere.
Nadia Riva è stata una figura di primo piano del movimento femminista milanese e internazionale. È morta nel 2021 nella sua casa di Milano, in via Col di Lana. Nel 1981 fondò insieme a Daniela Pellegrini il Circolo culturale e politico delle donne Cicip&Ciciap e la rivista “Fluttuaria”. È stata una viaggiatrice, una donna di grande spirito con un linguaggio sempre ironico e rock, una amabile provocatrice, capace di sovvertire ogni regola e di uscire sempre da ogni conformismo.
Daniela Pellegrini, tra le principali figure del femminismo milanese e non solo, nel 1964 ha l’intuizione di riunire un gruppo di donne, con le quali sente di avere un “terreno comune”, per iniziare a ragionare insieme. Da questa iniziativa nasce il primo gruppo del neofemminismo italiano, il DACAPO (Donne contro l’autoritarismo patriarcale), che presto cambierà nome in DEMAU (Demistificazione autoritarismo patriarcale). Negli anni Settanta fa parte della comune di San Martino, del collettivo di via Cherubini, della Casa delle Donne di viale Col di Lana e partecipa ai grandi convegni nazionali di Pinarella di Cervia e Paestum. Nel 1981, insieme a Nadia Riva e Giorgia Reiser, fonda il Cicip&Ciciap: il primo circolo culturale e politico femminista di Milano, e l’unico a rimanere separatista nel tempo. Nel 1986 fonda la rivista Fluttuaria. Ha scritto Una donna di troppo. Storia di una vita politica singolare, Franco Angeli Editore, Milano 2012; Liberiamoci dalla bestia. Ovvero di una cultura del cazzo, Vanda Edizioni, Milano 2016; La materia sapiente del relativo plurale. Ovvero il luogo terzo della parzialità, Vanda Edizione, Milano 2017.
NOTE
[1] Necrologio di Nadia Riva, Casa delle donne di Milano, febbraio 2021. https://www.casadonnemilano.it/ci-ha-lasciato-nadia-riva/
[2] Per chi volesse approfondire la storia del palazzo e dell’occupazione dello stabile si rimanda a Fabio Antoniotti, Casa Morigi. Trentasei anni di abitare sociale a Milano, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, 2011/2012.
A Salerno, un uomo ha strangolato una donna. Ha scritto ai genitori di aver fatto una “cavolata”. In un gruppo pubblico di Facebook, trentaduemila uomini hanno scambiato tra loro le foto intime di mogli e fidanzate. Al Policlinico Umberto I di Roma, di fronte ai colleghi, un operatore sanitario ha detto alla paziente in attesa di fare la tac: “Se vuoi togliere il reggiseno ci fai felici tutti”.
Per un certo senso comune maschile, il primo caso è un delitto inaccettabile, e la lotta contro la violenza dovrebbe concentrarsi contro questi atti assassini. Il caso dei mariti guardoni è uno scandalo, quando viene scoperto, che merita un severo rimprovero, ma forse non la denuncia o la separazione, perché “in fondo è solo un gioco, una finzione”. Il caso della frase sul reggiseno pare una battuta innocua: protestare e farlo in pubblico è una reazione esagerata e pesante.
La gerarchia della gravità è corretta. Ma separare nettamente un caso dall’altro, senza riconoscere il minimo denominatore comune, finisce per disperdere le energie invece di concentrarle su qualcosa di preciso. Quel denominatore è la violenza sessista, dall’annientamento, all’oggettivazione, allo svilimento, con i suoi ingredienti: il senso proprietario, la cultura dello stupro, l’abuso di potere. Nell’insieme, la concezione della donna come cosa: che si può distruggere, scambiare, strapazzare. Non ci sarebbero il femminicidio, nella dimensione in cui esiste, con il vasto contorno di maltrattamento, se non poggiasse su una base culturale che svaluta la vita delle donne, tanto da ridurre l’atto di ucciderla a una “cavolata”. Espressione che ricorre non di rado nelle parole degli autori.
Questa base culturale si esprime ogni giorno in violenze e molestie di grado diverso. Reagire a una battuta può sembrare sproporzionato se si guarda al singolo episodio. Ma ogni episodio è la goccia che cade in un vaso già colmo e traboccante. La “pesantezza” di quel vaso non è l’esagerazione delle donne: è la pervasiva e persistente esagerazione dei maschi, la realtà accumulata di una violenza quotidiana.
Molti uomini ribattono: «Ma io amo le donne». Persino chi è violento, molesto o guardone spesso dichiara di amare. E c’è discussione e contestazione sulla verità di questo amore. Comunque sia, l’amore non garantisce il rispetto. L’amore, da solo, non obbliga a trattare con cura, la cura la si vive come un dono, una concessione, che si può revocare e persino invertire quando l’oggetto amato non soddisfa più o addirittura si ribella. Io amo la mia bicicletta e la tratto bene, ma chissà come la tratterei se si rifiutasse di trasportarmi.
Il punto decisivo non è l’amore, ma il rispetto interiorizzato. Quella barriera che ti impedisce di violare l’altra persona perché non potresti sfuggire alla tua stessa sanzione interiore. Per arrivarci servono l’educazione dei maschi al rispetto, alla parità, alla valorizzazione delle differenze. Ma soprattutto serve che cresca il potere e il prestigio sociale delle donne: proprio ciò a cui molti uomini resistono, anche con il femminicidio, la violenza e le molestie.
La società appare fortemente cambiata rispetto a pochi decenni fa, eppure molte di queste trasformazioni non ne hanno intaccato i meccanismi profondi. Ancora oggi, come è stato fatto notare all’interno della redazione aperta di VD3 – Fare impresa femminista – le donne si affidano agli uomini e ammirano gli uomini, un fatto certamente non vero in senso assoluto ma sicuramente presente nella realtà di tutti i giorni. Credo sia troppo facile, rimanendo nella «bolla femminista», giudicare queste donne. Molte di loro probabilmente non si rendono conto della questione, tanto è radicata la convinzione che siano gli uomini il modello da imitare, mentre altre, che comprendono perfettamente il sistema in cui vivono, scelgono di replicarlo – o di adattarsi ad esso – per quieto vivere, per timore, per conformismo o per trarne vantaggio personale al fine di raggiungere i propri obiettivi. C’è ancora spazio dunque per il femminismo? In redazione il femminismo è stato definito vantaggioso, ma vantaggioso per chi? Certamente per me che grazie al femminismo posso essere coerente con me stessa e quindi libera di essere me quando mi muovo nel mondo. Nella mia vita c’è un prima e un dopo l’incontro con il femminismo, conosco il prezzo di una vita modellata su pensieri e desideri non miei ma offertimi da altri e conosco il prezzo di una vita scelta da me e vissuta secondo il mio desiderio e solo ora so che preferisco la seconda opzione. Ma questa scelta non è a costo zero. Praticare il femminismo ed essere femminista per me significa esporsi, mettersi in contraddizione e talvolta in contrasto con me stessa e con le persone che mi circondano. Significa prendersi il rischio di perdere relazioni sentimentali anche se resta il desiderio d’amore, di perdere opportunità lavorative anche se si desidera un miglioramento della propria situazione economica, di perdere i rapporti con la famiglia e con la propria rete sociale anche se si considerano queste persone importanti e gli si vuole bene, tutto per cercare delle forme relazionali nuove che rispondano al mondo che vorrei e a quello che sento coerente con me stessa. In questa pratica continua ogni incontro con l’altro mi chiede di decidere da che parte stare. In un’epoca in cui siamo libere come mai storicamente prima continuiamo ad esserlo a nostro rischio, questa libertà continua ad avere un costo, ad essere sotto attacco e ad essere relegata all’individualità della singola donna che decide per sé. Ma è anche per questo che il femminismo è vantaggioso, perché parla al plurale e porta in sé la speranza che prima o poi la libertà delle donne avrà come limite solo il proprio desiderio e il rispetto del desiderio altrui. Ma non siamo ancora a questo punto. Spesso ciò che è vantaggioso per sé stesse è controproducente per tutte le altre, camminiamo nella contraddizione. Penso al “sex work”, alle donne che dicono di trarne vantaggio e a tutte quelle come me che ci vedono la violenza. Penso allo strumento della denuncia quando si parla di violenza maschile contro le donne e quanto ancora si attui la scelta del silenzio per paura, per sfiducia nelle forze dell’ordine, per l’illusione che quel comportamento violento non sia davvero pericoloso, ecc. quando invece l’esposizione pubblica sarebbe d’aiuto a tutte nel lungo periodo. Penso alle direzioni delle grandi aziende, con sempre più donne coinvolte ma in un sistema che resta saldo su vecchi schemi già visti. Forse la grande contraddizione che viviamo è che il femminismo ha trasformato le donne che lo hanno incontrato ma non ancora il mondo intorno a loro e si è creato il paradosso per cui una pratica nata dal personale per diventare collettiva si è ora incastrata nelle trame insidiose dell’individualismo. Siamo ancora in cammino, dobbiamo ancora chiederci per chi stiamo agendo e se quello che stiamo facendo sia davvero vantaggioso per noi donne come unicità e come pluralità. Le radici del movimento delle donne sono forti, ma i rami e le foglie hanno costantemente bisogno della nostra cura.
Due donne, la Puglia, l’idea di un camper e un inizio più che incerto ci insegnano quanto sia importante non smettere di sognare, anche quando la vita sembra imporlo.
Le cose belle non accadono dal nulla: ci vuole volontà, forza, capacità di stare insieme, prendersi la responsabilità di scegliere. Daniela Romano e Antonella Ingrosso hanno scelto di stare accanto a donne e bambini vittime di violenza mettendosi in cammino con loro.
Camper Evviva nasce da un incontro, non casuale, come precisano Daniela Romano (31 anni) e Antonella Ingrosso (41), entrambe pugliesi: il caso non esiste, non c’entra niente. Loro hanno scelto, hanno fatto in modo che dal loro incontro e dalle loro affinità nascesse qualcosa di importante, di duraturo e necessario: l’idea del camper è arrivata tramite un amico e un messaggio whats app che avvertiva della vendita del mezzo.
Che l’amico in questione disse loro di affidarsi a un meccanico di fiducia, che dopo mesi di attese e denaro investito il veicolo fosse ancora immobile, e che l’amico si rivelò alla fine un truffatore è soltanto un gigantesco dettaglio, che le ideatrici del progetto raccontano solo perché funzionale alla dichiarazione di forza e tenacia che fin da subito ha necessariamente caratterizzato l’impresa.
«Pensammo subito alle donne e ai bambini accolti presso la nostra comunità Balbis, in particolare a due bambini, C. e S., di rispettivamente 4 e 5 anni, che provenivano da una storia di estrema povertà educativa, economica e in assenza di legami affettivi sani. Entrambi erano residenti in una piccola cittadina del Salento, in una fattoria senza acqua ed elettricità, a pochi passi dal mare, eppure non lo avevano mai visto, non ne conoscevano l’esistenza: la consistenza, l’odore della brezza marina e il senso di libertà che questo può donare. Non erano mai stati al cinema, non avevano mai assaporato un cornetto caldo a colazione, non avevano mai provato la gioia di mangiare un fresco gelato nell’afoso caldo salentino. Tutte azioni ed esperienze che spesso si danno per scontate, soprattutto se riguardano i bambini». Rendere possibile le esperienze “scontate” mai vissute, poter viaggiare nella propria regione, sentirsi accolti nella realtà che spesso esclude e isola, riconquistare insieme la libertà che una relazione violenta ha completamente annientato, fatto a pezzi, lasciando spesso piccoli testimoni privati anche loro della spensieratezza e della serenità che dovrebbe caratterizzare la loro età, l’infanzia.
Sono questi i principi guida del percorso che Camper Evviva ha avviato e che continua a portare avanti, superando difficoltà ed ostacoli sempre nuovi, con la certezza che solo insieme si possono realizzare i sogni di tutti, nessuno escluso.
Come vi siete conosciute?
«Io, Daniela Romano, ho 31 anni e sono un’assistente sociale all’interno di una comunità d’accoglienza per donne e gestanti con bambini di Brindisi. Antonella Ingrosso, 41 anni, oltre a essere mia amica, è anche una mia collega e facciamo parte della stessa equipe professionale; essendo una maestra d’arte ha il valore aggiunto di mescolare i colori dell’arte all’educazione.
La nostra amicizia è nata nel 2018 durante un progetto Erasmus di formazione professionale organizzato dalla cooperativa sociale “Il Faro”, l’organizzazione presso la quale lavoriamo attualmente. Penso che sia stato solo un ritrovarsi, un incontro di anime che viaggiano lungo la stessa strada e che, come diciamo sempre, nulla accade per caso. Abbiamo subito cominciato a realizzare l’idea che ha dato vita al progetto: unire la passione per quello che facciamo alla volontà di esserci per l’altro, di aiutare coloro che sono in una posizione di svantaggio».
Perché l’idea del camper per aiutare e unire le persone?
«Noi crediamo fortemente che il viaggio possa essere uno strumento educativo alternativo per i bambini e non solo: il camper insegna la condivisione del tempo e dello spazio a 360 gradi. È una piccola casa viaggiante all’interno della quale si dorme, ci si lava, si mangia e tutte queste azioni vengono svolte da più persone in un perimetro molto piccolo; questo comporta necessariamente l’osservanza e il rispetto dei bisogni di tutti, altrimenti regnerebbe il caos. Tra le esperienze più belle che si possono condividere in un viaggio in camper ci sono sicuramente le emozioni: ogni trasferta ci ha regalato e ci restituisce tutt’ora sensazioni e sentimenti unici e indimenticabili, ogni chilometro percorso è fatto di momenti colmi di tristezza, gioia, malinconia, allegria, spensieratezza, ansia, paura, stanchezza e tanto altro. Conserveremo per sempre nei nostri ricordi il viaggio con V., una giovanissima donna vittima di violenza con i suoi due figli, M. e M., in età adolescenziale, anche loro vittime di violenza assistita. Una notte V, io ed Antonella, quando i ragazzi erano già a letto, eravamo sedute attorno a un tavolo, sotto un tendalino di Evviva per rilassarci e godere della frescura di una notte estiva dentro un agricampeggio. La donna a un certo punto inizia a raccontare la sua storia, il suo racconto, parole che le nostre orecchie non avevano mai sentito, sino a quel momento. Decise di aprirsi con noi su dettagli e situazioni circa la violenza subita, che mai si era sentita libera di raccontare in comunità.
Il valore aggiunto di Camper Evviva è anche questo: l’opportunità di essere al di fuori di uno spazio istituzionalizzato e di sentirsi in un’atmosfera di piena libertà e intimità».
In che modo sostenete e supportate la cura delle donne e dei bambini vittime di violenza?
«Oltre alla condivisione agevolata, il viaggio permette, specialmente alle donne vittime di violenza, di poter toccare con mano la libertà e l’indipendenza, che una relazione violenta ruba totalmente, senza alcun consenso. Incontriamo donne che spesso sono abituate a vedere solo le mura della loro casa, che non sanno più cos’è la gioia di passeggiare da sole all’aria aperta, o di esplorare e conoscere un posto del tutto nuovo. I loro occhi non sanno più sorprendersi davanti alle cose belle, sono stati costretti a non vedere più oltre, privati di ogni forma di speranza per un futuro diverso.
Per una donna vittima di violenza il viaggio può essere l’opportunità di indossare un nuovo abito, uno sguardo originale sul mondo fatto di tutto ciò di cui era stata privata prima di allora, permettendole di godere della straordinaria e bellissima sensazione di tornare a sognare.
Per un bambino privato della sua infanzia e di tutto ciò che a questa è legato, il viaggio in camper, oltre a essere opportunità per riaccendersi alla vita e vivere situazioni del tutto muove, può essere anche un ottimo strumento educativo. Viaggiare in questo modo insegna a non sprecare risorse importanti come l’energia e l’acqua, in quanto la disponibilità è sempre limitata, educa al rispetto reciproco e all’ottimizzazione dei propri spazi e di quelli altrui.
Infine il viaggio dà anche a loro la possibilità di vedere la propria mamma finalmente serena e condividere con lei i momenti di sana e libera tranquillità e gioia».
Quali sono i fattori che determinano la meta del vostro viaggio?
«A livello organizzativo sicuramente la stagione fa la differenza. Spesso i viaggi che organizziamo sono in estate, perché è molto più semplice, sia per i posti da visitare e per la possibilità di andare al mare, sia perché in inverno i ragazzi o bambini frequentano la scuola. Crediamo fortemente che non sia la meta l’aspetto essenziale del progetto, quanto il viaggio, il tragitto e il percorso che bisogna tutti attraversare per arrivarci. La nostra bellissima e amata Puglia naturalmente aiuta, perché soprattutto in estate ci dà la possibilità di raggiungere spiagge paradisiache e di godere di acque cristalline, che spesso le donne e i bambini accolti nella nostra comunità non hanno mai potuto vedere. E poi ci sono città stupende da visitare tra cui Ostuni, Locorotondo, Alberobello, Gallipoli, presso le quali siamo già state. Possiamo dire con certezza che, sebbene i viaggi siano stati realizzati con bambini e donne per la maggior parte pugliesi, per molti di loro questi luoghi erano del tutto nuovi: diamo per scontato che tutti possano fare o vedere cose e posti a noi così vicini, come ad esempio il mare, che ogni bambino in estate possa godere di un tuffo nel mare o di giocare con paletta e secchiello sulla riva, ma purtroppo questa non è la realtà. È proprio per questo motivo che preferiamo scegliere tutte insieme destinazioni vicine, ma spesso sconosciute».
Riscontrate difficoltà a svolgere un progetto di questo tipo in Italia?
«Possiamo sicuramente affermare che mancano sostegni a progetti piccoli come il nostro, soprattutto istituzionali. Non è semplice tenere in piedi Evviva Camper economicamente senza alcun tipo di attenzione o supporto. Ma questo non ci ha scoraggiato, anzi ci ha spinto ad andare avanti con le nostre forze, attraverso la realizzazione di gadget fatti a mano, che ci permettono di raccogliere le risorse necessarie a garantire la continuità del progetto come la manutenzione e assicurazione del camper e dei soci, i costi legati all’associazione, al carburante, al commercialista che ci aiuta con le pratiche, comprese tutte le spese relative ai viaggi con donne e bambini ecc.
Il sistema burocratico italiano non ha di certo agevolato il nostro cammino e tutt’ora non lo rende semplice, ma nonostante tutto andiamo avanti, grazie anche a tutti gli italiani che scelgono di donarci un contributo personale. Sono loro il nostro più potente motore, la nostra “gasolina”, è grazie a loro che Camper Evviva oggi è ancora presente e pronto a percorrere altri infiniti chilometri di emozioni».
(www.libreriadelledonne.it, 21 agosto 2025)
da Il Fatto Quotidiano
Una vasta coalizione di madri e donne – composta da quindici organizzazioni femminili tra cui Madri in prima linea, Donne contro la violenza, Donne fanno la pace e Costruttrici di alternativa, ha presidiato da domenica 10 agosto un campo di protesta vicino al confine con la Striscia di Gaza per chiedere la fine della guerra, il ritiro dei soldati e il ritorno degli ostaggi.
Sullo sfondo il rumore delle bombe a pochi km
Sotto il sole cocente e con un caldo torrido, sullo sfondo il rumore delle esplosioni nella vicina Gaza, le donne si sono alternate tra marce, incontri con ex alti ufficiali e momenti di testimonianza diretta. Rifiutano discorsi preparati e parlano con la forza dell’esperienza personale, ribadendo che “una madre è la sostanza più forte in natura” e che il solo mandato del governo è salvare vite, non di prolungare il conflitto. Insieme hanno organizzato turni, gestito logistica e comunicazione, e trasformato la protesta in alcuni giorni di presenza costante, visibile e determinata. Per loro non è solo attivismo politico, ma una missione materna: proteggere i figli, fermare una guerra considerata inutile e pericolosa, e reclamare un futuro sicuro per tutti. Per molte anche vedere tornare a casa sani e salvi i propri figli.
Fermeremo il conflitto
Una di loro è Ayelet Hashahar che lunedì ha trascinato le sue madri del gruppo “Madri in prima linea” per un chilometro, nella notte, fino ad entrare in una postazione militare dell’Idf, dove naturalmente è assolutamente proibito l’ingresso di civili. Ai giovani soldati all’interno hanno detto, prima di essere portate via dalla polizia, “siamo venute a dirvi che non permetteremo che la guerra continui”. “E loro – racconta – ci hanno salutato con un applauso e il giorno dopo ci sono anche venuti a trovare per discuterne con noi, non in tutto erano d’accordo, ma hanno molto ammirato la nostra determinazione”. E poi ci sono anche le “madri contro la violenza”. E il cuore e la mente del gruppo è Ketty Bar, 68 anni, madre single di un’unica figlia che vive a New York , non certo il classico tipo della “Madre sempre sveglia”, che è il nome di un altro gruppo delle madri dei soldati.
Ketty torna indietro coi pensieri: “Ricordo, subito dopo la Guerra dei sei giorni, ero una bambina, quando vidi per la prima volta la città di Hebron e il suk con i vetri e le ceramiche colorate… Io lo sapevo che quella non era Israele. Era l’inizio dell’occupazione. Negli ultimi cinque anni abbiamo e ho toccato con mano la profondità lacerante della tragedia nata allora. Non siamo più di fronte a guerre tra Stati, come fino al 1973. Oggi i nostri soldati combattono contro un nemico senza confini: il terrorismo. E ciò che accade in queste ore ne è la prova più amara”.
Vogliamo perdono reciproco e la Palestina accanto
“Madri contro la violenza”, di cui faccio parte, è nata nel 2020. Da allora non abbiamo mai smesso di schierarci: contro ogni violenza, ovunque e da chiunque provenga. Aiutiamo chi soffre, con incontri online, gruppi di studio, progetti comuni. Studiamo soluzioni. Ascoltiamo i nostri soldati quando faticano a raccontare i loro traumi, ma siamo state anche tra le prime a sostenere le giovani attiviste che, in silenzio, tenevano in mano la foto di un bambino palestinese ucciso. Non c’è contraddizione: la compassione non ha bandiere. Crediamo nella nascita di uno Stato palestinese accanto al nostro e in ogni passo possibile verso la riconciliazione. Vogliamo il perdono reciproco. Vogliamo giustizia, e dalla giustizia vogliamo veder nascere la pace. Ambiziosa come idea, ma non impossibile, in questi tempi in cui sembra non ci sia speranza per nessuno.
(Il Fatto Quotidiano, 16 agosto 2025)
Ho voglia di intervenire in questa discussione per dire, parafrasando il titolo dell’incontro di Via Dogana 3, che non solo fare impresa femminista è un’invenzione continua ma anche che l’impresa Libreria, così come narrata nelle belle introduzioni di Traudel Sattler e di Renata Dionigi, restituisce il senso politico di un’impresa femminista ed è un’impresa possibile,è una buona impresa. Non è poco!
Sono arrivata al femminismo della differenza in uno dei contesti e delle relazioni creati dall’impresa Libreria: la presentazione del Sottosopra blu 1 organizzata a Brescia dal Gruppo del Martedì della Camera del Lavoro e dall’Università delle donne Simone de Beauvoir. In quell’incontro – con Lia Cigarini, Luisa Muraro, Clara Jourdan – è nata la mia relazione con la Libreria, a cui sono seguite poi, nel corso degli anni, altre relazioni politiche e di amicizia con altre donne, relazioni per me vitali ma, soprattutto, con un pensiero politico e una pratica da cui ho ricavato – in un movimento continuo tutt’ora in corso – una forza generativa che prima non avevo mai sperimentato.
Il mio lavoro sindacale – tra difficoltà, contraddizioni, sconfitte, guadagni – si è nutrito di questo pensiero e questa pratica ed è cresciuto in queste relazioni. Nel contesto del sindacato l’incontro con il pensiero della differenza e la pratica del partire da sé ha alimentato i miei progetti e il desiderio di stare intera nel mondo, ha messo a disposizione i mezzi per cambiare e ha cambiato il mio modo di esserci. Una strada in continuo divenire, per imparare la “capacità di stare al mondo senza sottostare alla sua legge”2 e agire un punto di vista situato nel desiderio e nella parola soggettiva come parte del conflitto e della contrattazione.
Sono stata parte, fin dall’inizio e anche quando non ne avevo piena consapevolezza, di quel “circolo virtuoso tra il fare materiale e la riflessione politica”3 che ha attraversato questi cinquanta anni di vita della Libreria.
Questo è il guadagno, che la Libreria continui a essere una realtà aperta sulla strada, ed è molto forte il senso di gratitudine così come forte è il mio desiderio di fare quello che posso e sono in grado di fare perché la Libreria possa continuare la sua attività editoriale e politica.
L’incontro di VD3 ci ha fatto conoscere lo spirito degli inizi: fare impresa “con un misto di accuratezza femminile, di prudenza contadina, di efficacia”4 . Le difficoltà oggi sono altre da quelle di 50 anni fa (per tutti è più difficile vendere libri) ma noi abbiamo un “di più”.
La programmazione degli eventi per festeggiare i 50 anni è la materia viva, il patrimonio che abbiamo tra le mani, per allargare e trasmettere che c’è una ricchezza di pensiero e pratica politica che circola in un mercato della felicità. L’interesse riscontrato negli incontri già svolti ha reso evidente che si possono continuare a creare contesti e relazioni ben oltre i confini delle presentazioni del calendario mensile.
Dobbiamo adeguare la nostra pratica ed essere in grado di far fronte alle difficoltà dell’oggi, ragionare sul nostro desiderio e su come continuare a mantenere uno spazio di incontro e di confronto con “al centro il libro come oggetto di relazione e di scambio, non solo commerciale ma culturale”5.
Laura Colombo “con un misto di accuratezza femminile, di prudenza contadina, di efficacia imprenditoriale” ha sperimentato altre strade per poter far conto su ulteriori risorse che si aggiungano al sostegno della comunità di donne e uomini che acquistano per sostenere questo luogo e il pensiero politico che produce.
Le mette in parola e su questo apre domande, per sé e per tutte noi.
Io non credo ci siano alternative e non credo che quelle delineate siano strade in perdita se le percorriamo con una pratica politica adeguata.
Mi sono interrogata sul come e credo che una via percorribile sia stata quella di rendere sostenibile economicamente la programmazione degli eventi e delle pubblicazioni per i 50 anni dell’impresa Libreria.
Penso che la fatica richiesta per far fronte alla burocrazia e agli adempimenti richiesti si possa affrontare facendo affidamento su tutte le energie che, alla luce di questa discussione, si renderanno disponibili.
E, in una pratica del fare, propongo di ragionare su quali progetti – ad esempio la conservazione e la digitalizzazione dei testi storici – possono oggi allargare le possibilità di incontro e confronto ed entrare relazione con possibili finanziamenti esterni.
In un mercato del lavoro così difficile anche per le donne (giovani e no) e alla luce del loro desiderio di fare lavoro volontario in Libreria, potremmo ripensare come sostenere questo desiderio, ad esempio con gli strumenti del servizio civile volontario, instaurando le necessarie relazioni e collaborazioni con altre realtà cooperative o imprese no profit.
È la pratica delle relazioni anche con le realtà istituzionali che ha reso possibile avere un luogo adeguato per il progetto della Libreria, prima in Via Dogana e poi in Via Pietro Calvi, ed è necessaria oggi per continuare.
Ragioniamo su tempi e strumenti così da poter mantenere la pratica editoriale delle origini, oggi alimentata dalla pubblicazione dei quaderni di Via Dogana e dall’esperienza dei tre numeri speciali.
Ragioniamo sulla continuità nella apertura al pubblico, rilanciando sui turni volontari di vendita per continuare la gestione collettiva della Libreria e sperimentiamo, tra le forme di sostegno comuni a tutte le imprese, quelle che ci permettono continuità e sostenibilità.
La discussione che stiamo facendo ha fatto emergere che “c’è un aspetto vitale, che fa vivere, nel dare il proprio tempo e le proprie capacità per un progetto comune trasformativo”6 e che “un luogo di libertà simbolica non è solo uno spazio fisico: è una trama di relazioni, parole e gesti che mutano la misura di ciò che è possibile”7 .
Per questo aspetto vitale e per questo luogo di libertà per me è importante proseguire l’avventura iniziata 50 anni fa ed è necessario continuare a inventare.
- Sottosopra blu, “Sulla rappresentanza politica femminile, sull’arte di polemizzare tra donne e sulla rivoluzione scientifica in corso”, 8 giugno 1987. ↩︎
- Luisa Muraro, Al mercato della felicità, Mondadori. ↩︎
- Traudel Sattler, Fare impresa femminista. Un’invenzione continua, Via Dogana 3, 15 giugno 2025. ↩︎
- “La Libreria delle donne – sue caratteristiche, sua storia, in breve”, in Marta Equi, A Legacy Without a Will. Feminist Organising as a Transformative Practice. PhD Program in Analysis and Management of Cultural Heritage XXXI Cycle. IMT School for Advanced Studies, Lucca 2019. ↩︎
- Laura Colombo, Pensare il futuro di un’impresa femminista, Via Dogana 3, 12 agosto 2025. ↩︎
- Traudel Sattler, op. cit. ↩︎
- Laura Colombo, op. cit. ↩︎
Traudel Sattler, nella sua introduzione al numero di Via Dogana 3 Fare impresa femminista, ci ha ricordato come la Libreria delle donne abbia storicamente scelto di affidare gran parte della propria sostenibilità economica alla vendita di libri e all’autofinanziamento, oltre alle pubblicazioni in proprio, essendo la Libreria una casa editrice indipendente. È stata una scelta precisa, politica e simbolica: mettere al centro il libro come oggetto di relazione e di scambio, non solo commerciale ma culturale, e affidarsi alla comunità di donne e uomini che, acquistandolo, sostenevano anche un luogo e un pensiero.
Oggi però questa base si incrina. Non è soltanto una nostra difficoltà: i dati dell’Associazione Italiana Editori (AIE) confermano un calo generalizzato delle vendite di libri nei primi mesi del 2025, che colpisce anche le piattaforme online. Amazon stessa, nata come libreria virtuale, da anni è ormai uno store generalista. In questo scenario, il solo autofinanziamento non basta più: non possiamo più raccontare che viviamo soltanto di questo.
Ho sperimentato in prima persona cosa significa cercare altre strade: un paio d’anni fa ho presentato domanda a un bando del PNRR dedicato agli enti culturali. Lì ho toccato con mano la burocrazia, la mole di adempimenti e la richiesta di energie che possono scoraggiare chiunque. Eppure, nonostante le fatiche che comporta, non vedo alternative: pensare oggi alla sostenibilità della Libreria significa pensare a forme di fundraising, a una progettualità che sappia aprirsi a finanziamenti esterni senza snaturare il suo peculiare modo di fare impresa femminista.
Questa è la questione che metto sul tavolo: cosa si perde quando si accetta questo passaggio? E cosa invece può nascere di nuovo, se lo attraversiamo con la nostra misura, le nostre relazioni e la politica della differenza?
Accanto alla sostenibilità economica, c’è anche la questione del “guadagno non in denaro”, che possiamo misurare nel desiderio, nel tempo, nella passione politica e nel riconoscimento reciproco tra donne. Traudel si chiedeva quale possa essere la gratificazione senza misura esterna, in un momento in cui molte faticano ad arrivare a fine mese e il bisogno di denaro è reale. Nel regime dei social, c’è un compenso simbolico che arriva sotto forma di like, in un contesto di ipertrofia dell’io. Proprio questa dinamica, pur nella sua superficialità, ci fa cogliere quanto sia essenziale l’esistenza simbolica: non quella effimera dei like, ma quella radicata nelle relazioni reali, nell’essere riconosciute per ciò che si è, il che significa guadagno di esistenza e di libertà. Il bisogno di esistenza simbolica è tanto fondamentale quanto quello materiale, se non di più: è ciò che dà senso alla vita. Qui voglio tornare all’affidamento ma non nel suo senso proprio, cioè quando una donna si rivolge a un’altra cui riconosce autorità ed esperienza, chiedendole di appoggiare il proprio desiderio. Quello che riassumo qui è piuttosto il rovescio della medaglia: dare credito a un’altra donna aspettandosi qualcosa da lei, non per interesse strumentale ma perché in lei si vede un valore che lei stessa ancora non riconosce. Quel riconoscimento la aiuta a vederlo e ad assumerlo, divenendo una fonte di libertà. Saper vedere il potenziale e il valore dell’altra donna permette che il desiderio politico si trasformi in guadagno di esistenza, radicandosi nella relazione.
Il punto è come tenere insieme questo guadagno immateriale che anche le giovani donne che frequentano la Libreria riconoscono, con la sostenibilità economica prosaicamente composta da domande di finanziamento a una fondazione o a un ente pubblico. La sfida è inventare un modo perché queste due dimensioni non si escludano. Come nota ancora Traudel, la tenuta della Libreria si è basata per anni sul lavoro volontario delle turniste, ma molte di loro stanno invecchiando e il ricambio generazionale fatica ad arrivare, poiché rispetto a quando la Libreria è nata il contesto è profondamente cambiato. Detto in altri termini, qui sta il nodo: come fare sì che l’invenzione continua dell’impresa femminista della Libreria regga dentro un contesto economico e sociale trasformato senza perdere il suo valore di nutrimento simbolico, di spazio che accoglie i desideri e restando un luogo di elaborazione delle pratiche femministe. Insomma, è necessario tenere insieme questo spazio simbolico e relazionale con le pratiche concrete di sostenibilità: i bandi, il fundraising, le fondazioni. Serve inventare un modo di fare impresa femminista che tenga accesa la relazione tra donne e apra alla progettualità realistica, mantenendo l’orizzonte del senso e della libertà.
La mediazione che ho trovato sta nel desiderio forte che questo spazio resti aperto, nella consapevolezza dei vincoli e nella determinazione a trovare vie percorribili, anche attraverso burocrazie e ostacoli, mettendo in primo piano le relazioni tra donne. È il desiderio di esistenza simbolica, il desiderio di essere libere e di contare a rendere essenziale che questo luogo continui a esserci. Quando si intravede il rischio che possa chiudere, le energie si moltiplicano anche in ambiti lontani e ostili. Perché un luogo di libertà simbolica non è solo uno spazio fisico: è una trama di relazioni, parole e gesti che mutano la misura di ciò che è possibile. Lasciarlo chiudere significherebbe perdere una parte di mondo. Tenerlo aperto è un atto politico che rinnova, ogni volta, la promessa di esserci con la nostra misura.
“In ultima analisi”, di Amanda Cross alias Carolyn Heilbrun, prima edizione La Tartaruga 1987 (nella collana La Tartaruga nera), è oggi dato alle stampe da Sellerio. Per informazione, era stato editato sempre dalla Tartaruga, nel 1985, il più divertente rompicapo intellettuale “Un delitto per James Joyce”.
Ricorre in questo 2025 il cinquantenario della Tartaruga edizioni fondata nel 1975 da Laura Lepetit, anno importante perché sempre nel ’75 si aprirono a Milano la Libreria delle donne e altre case editrici femministe che poi non ressero il mercato. Proprio in quegli anni pionieristici fui compagna d’impresa di Laura: mi aveva conosciuto in Libreria e nei primi ’80 mi prese a lavorare con sé. Erano anni in cui una donna (lei) riusciva a «fiutare i libri come un cane da tartufi», (“Memorie di una femminista distratta”, Nottetempo 2016). A partire da un piccolo capitale ma con uno smisurato desiderio, aveva aperto una casa editrice piccola di dimensioni ma grande di intenti. Fu capace di pubblicare autrici come Virginia Woolf (“Le tre ghinee”, 1975), Gertrude Stein, Alice Munro, Anita Desai; italiane come Fabrizia Ramondino, Grazia Livi, Anna Maria Ortese, Francesca Duranti, Lalla Romano, Bibi Tomasi, insieme a esordienti di successo – Silvana La Spina, Silvana Grasso – Patrizia Zappa Mulas, Francesca Avanzini e tante altre ancora, senza dimenticare filosofe come Luisa Muraro e altre studiose del Gruppo filosofico di Diotima formatosi a Verona. Insomma, scrittrici di prima grandezza nel panorama letterario internazionale e italiano. Consapevole di stare a lato della grande storia, come Laura scrive, in realtà è proprio lei ad aver fatto la Storia dell’editoria e della letteratura prima che le grandi case editrici le portassero via, a suon di anticipi, le sue scrittrici, peraltro ristampandole senza citare la loro prima edizione. Ora questa del pur serio editore Sellerio è l’ultima omissione di una lunga serie. Formalmente consentita, moralmente eccepibile.
Io, noi, amiche, lettrici autrici e consulenti della prima e originale Tartaruga edizioni, chiediamo che questa ricorrente messa in ombra della geniale scopritrice di talenti che fu Laura Lepetit, delle sue scoperte e pubblicazioni, abbia termine.
Allego a queste mie righe di presentazione, la bella e inconsapevole (della questione) recensione a “In ultima analisi” di Francesca Lazzarato, in prima di copertina di Alias – il manifesto del 3 agosto corrente anno, col titolo “L’enigma di Amanda Cross”.
(www.libreriadelledonne.it, 7 agosto 2025)
da La Notizia
Lo chiamarono attivismo giudiziario. Le affibbiarono un’etichetta politica. Diffusero video privati, la accusarono di faziosità, di sabotaggio, di militanza mascherata. Ma oggi la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dice una cosa sola: Iolanda Apostolico aveva ragione. Aveva ragione nel ritenere che la Tunisia non potesse essere considerata “Paese sicuro” senza un esame serio. Aveva ragione nel difendere il diritto di ogni giudice a valutare, in autonomia, la fondatezza delle designazioni governative. Aveva ragione nel non piegarsi al decreto Cutro.
[…] La Corte ha stabilito che gli Stati possono redigere liste di Paesi sicuri, sì, ma solo se quelle liste sono sottoponibili a “controllo giurisdizionale effettivo”. Non un dettaglio: un principio cardine del diritto europeo. Principio che il governo Meloni ha tentato di aggirare, bollando come “incredibile” il lavoro della giudice, e minando la sua credibilità professionale con una pressione politica che ha raggiunto il livello del dossieraggio.
L’infamia di una campagna politica
Il 2023 è stato l’anno della caccia ad Apostolico. Salvini rilanciava un video del 2018 in cui la giudice manifestava contro le politiche migratorie del governo. Meloni attaccava pubblicamente la sua decisione di non convalidare un trattenimento a Pozzallo. Nordio avviava accertamenti ispettivi definiti dall’ANM come un tentativo di intimidazione. I media di area montavano il caso, insinuando incompatibilità, mancanza d’imparzialità, abuso di ruolo.
Nessuna di queste accuse ha trovato conferma in sede disciplinare. Ma Apostolico, esposta alla gogna pubblica e istituzionale, ha anticipato la sua uscita dalla magistratura. Una sconfitta dello Stato di diritto, consumata nel silenzio colpevole delle istituzioni. Ora, la Corte europea riconosce la legittimità di quel gesto che le costò l’isolamento: disapplicare la presunzione di sicurezza per uno Stato che non garantisce diritti fondamentali a tutta la popolazione.
La sentenza che restituisce verità
Nel pronunciarsi sul protocollo Italia-Albania, la Corte ha stabilito che un Paese terzo può essere considerato sicuro solo se rispetta i diritti fondamentali per tutte le categorie di persone. E soprattutto: che tale classificazione non può essere sottratta al vaglio dei tribunali. Tradotto: nessuna lista blindata, nessuna immunità ministeriale, nessun automatismo amministrativo può prevalere sull’indipendenza della giurisdizione. È esattamente quello che Apostolico rivendicava nella sua ordinanza: la possibilità per il giudice di valutare, caso per caso, la fondatezza della “sicurezza” dichiarata. Oggi la massima autorità giuridica europea le dà ragione. E dà torto al governo, che aveva fatto della Tunisia l’emblema della sua politica dei respingimenti accelerati.
Il verdetto colpisce al cuore l’ideologia del decreto Cutro, la logica dei trattenimenti arbitrari, il modello Albania e il mito del “controllo totale” sui migranti. Meloni sperava in una sentenza favorevole per legittimare retroattivamente le sue scelte. Ha ricevuto invece una bocciatura che smonta giuridicamente l’intera impalcatura politica del suo operato.
[…] Il governo viene smentito nel merito, dai fatti e dal diritto. Ma soprattutto, viene inchiodato alla responsabilità di aver perseguitato una giudice per aver applicato la legge. Di aver trasformato l’autonomia della magistratura in un capro espiatorio. Di aver cercato vendetta, e non giustizia.
Chi ripagherà il danno?
Oggi Apostolico non siede più su uno scranno. La sua carriera è stata piegata da una pressione politica indegna di una democrazia costituzionale. Ma la sua posizione giuridica, quella sì, è stata pienamente confermata. Chi le ha dato della faziosa, chi ha montato il caso per delegittimare un potere indipendente, chi ha chiesto la sua testa per accontentare un’agenda politica, oggi tace.
Tace davanti a una sentenza che certifica l’abuso. Tace perché ha perso. Ma resta una domanda, amara e urgente: chi restituirà ad Apostolico la dignità istituzionale che le è stata strappata?