da Il Corriere dello Spettacolo

Il teatro, sostanzialmente assente dalle attività della Libreria delle donnedi Milano, uno dei luoghi più iconici del femminismo italiano, di recente ha guadagnato un suo spazio di tutto rispetto entrando con una trilogia di mise en espace a far parte dei festeggiamenti per i cinquant’anni della libreria, fondata il 15 ottobre del 1975 in via Dogana. La storia della libreria inizia infatti negli anni ’70, gli anni ruggenti della rivolta femminista, quando un gruppo di donne fra cui Lia Cigarini e Luisa Muraro, decise di creare un’“impresa femminista”, intendendo con ciò un’attività commerciale, cioè una libreria, che fosse di fatto il fulcro, il polo ideale di:

Una realtà politica composita e in movimento, che pubblica in proprio, organizza riunioni, discussioni politiche, proiezione di film, crea un fondo di testi esauriti e introvabili, ed è centro di incontro di moltissime donne e anche uomini. Un luogo in cui le cose più importanti si inventano, si decidono e si cambiano mediante i rapporti diretti, non con il voto. Un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia […] (da www.libreriadelledonne.it.).

In effetti oggi il nome della libreria si associa automaticamente al cosiddetto femminismo della differenza.

Da questa premessa è chiaro che il teatro non rientrava nelle priorità dell’impresa predetta anche per motivi meramente di spazi e attrezzature. Ma volendo gli ostacoli si possono superare, pertanto, con piccoli accorgimenti, con l’approvazione e l’incitamento di tutte le socie, in particolare dell’attivissima Laura Colombo, sono riuscita a inserire durante l’anno, fra un convegno, un incontro, una conferenza, etc., il teatro nella forma di una mise en espace di una trilogia incentrata sulla vita e le opere di tre donne d’eccezione che, in tempi e in ambiti diversi, hanno lasciato una traccia indelebile nella storia delle donne e dell’umanità in generale: MARGHERITA PORETE nella spiritualità, SIMONE WEIL nella filosofia e LINA MERLIN nella politica.Le pièces, scritte e dirette dalla sottoscritta e interpretate con grande abilità attoriale da Domitilla Colombo, Daniela La Pira, Sergio Scorzillo e Paolo Tedesco, hanno rappresentato una novità assoluta per un pubblico, non solo femminile, che da decenni conosce e frequenta la libreria e, superata la prima perplessità, ha poi applaudito convintamente l’iniziativa. La nostra trilogia è stata poi replicata con successo, sempre sotto l’egida della Libreria delle donne, presso il Teatro-Studio Novecento, e, infine, presso gli attentissimi studenti del liceo classico Manzoni. Tutto ciò per dire che il teatro, in qualunque forma si presenti, è sempre in grado di attrarre l’interesse di un pubblico vario e di ogni età.

Ho letto più volte e attentamente il testo di Claudio Vedovati (qui), con un senso di disagio che non è svanito neppure alla fine. Non perché non condivida la sua tesi – anzi, è proprio perché la condivido che mi mette a disagio. Quando un uomo scrive della violenza, e ne scrive così, senza moralismi né alibi, non puoi tirarti fuori. Ti senti chiamato in causa.

Parte da un’intuizione che sembra semplice ma non lo è: la violenza non è un gesto da idioti, non è una devianza. È parte della nostra storia personale e politica, del nostro modo di essere uomini. E soprattutto, non è mai solo quella che si vede. Non sono solo i pugni, i vetri rotti, le auto danneggiate, i corpi colpiti. È quella che attraversa il linguaggio, il modo in cui pensiamo la forza, il potere, perfino l’amore.

Leggendolo ho pensato che la violenza maschile non sia una parentesi del mondo, ma la sua grammatica originaria. L’homo homini lupus di Hobbes non è una massima teorica: è il mito fondativo di una civiltà che ha costruito la politica sull’idea di competizione, dominio, conquista. E noi uomini siamo i suoi eredi, spesso inconsapevoli. Anche quando crediamo di ribellarci, finiamo per parlare con lo stesso linguaggio.

Il testo lo dice con una chiarezza disarmante: nelle piazze, nei cortei, nelle relazioni, la virilità si riproduce come gesto di forza, come bisogno di mostrarsi “contro”, di esistere solo nel conflitto.

Eppure, questa volta, è un uomo a dirlo. E questo cambia tutto. Non è un gesto di espiazione, ma un atto politico di verità.

La parte che più mi ha toccato – e che più mi ha messo in crisi – è quella dedicata al femminismo radicale. Lonzi, Muraro, Melandri: nomi che, da uomo, ho incrociato già da adulto. Donne che hanno saputo guardare la violenza da dentro, partendo dalle relazioni, dal corpo, dal desiderio. Il testo non cita il femminismo solo per dovere teorico: lo riconosce come l’unica vera rivoluzione del Novecento, quella che ha costretto anche gli uomini a guardarsi allo specchio.

Vedovati si rivolge a noi uomini, ci chiede e si chiede: «Perché usiamo i nostri corpi per fare violenza? Perché ci identifichiamo in collettivi che ci cancellano – lo Stato, il partito, la squadra? Perché abbiamo accettato che il nostro corpo fosse usato, rimosso, normalizzato?»

Non è un atto d’accusa, ma una domanda che scava. Leggerla, per me, è stato come riconoscere una parte di me che faccio fatica a vedere: quella che si abitua al silenzio, che confonde la durezza con la dignità, che reprime la vulnerabilità perché “non sta bene”.

Questo è un testo necessario, ma anche difficile: intenso, carico di riferimenti teorici che richiedono una certa familiarità. A volte ho avuto la sensazione che l’autore parlasse più ai compagni di viaggio che ai profani; che la forza del pensiero rischiasse di chiudersi in un cerchio di consapevoli.

Eppure, è proprio in questa densità che sta anche il suo valore. Non offre risposte facili, non si presta a semplificazioni da social. È un testo che costringe a sostare nel disagio, che rifiuta la retorica della “nonviolenza” come slogan e anche quella della “violenza giustificata” come rabbia sacrosanta. Ci chiede di guardare la violenza non come qualcosa da estirpare, ma come qualcosa da comprendere, da riconoscere nei nostri gesti, nel modo in cui amiamo, lavoriamo, protestiamo.

Se c’è un limite, forse, è proprio l’assenza di un passo ulteriore: il riconoscimento di una maschilità altra, come soggetto in costruzione e di cui l’autore (e altri uomini) è un esempio. E che anche noi uomini siamo immersi in un mondo di violenza strutturale, culturale e diretta da cui non sarà facile uscire.

Il testo si ferma prima, come se la diagnosi – pur così lucida – non riuscisse a farsi promessa. Ma forse non poteva essere diversamente. Forse questa è la parte che tocca a noi mettere in pratica.

Alla fine, quello che resta è una domanda che pesa: che cosa possiamo fare, noi uomini, della violenza che ci abita? Non solo quella eclatante, ma anche quella sottile, quella che si nasconde nel linguaggio, nelle battute, nella paura di sembrare deboli.

Il femminismo, da decenni, ci ha già dato le parole per pensarla. Questo testo ci ricorda che dobbiamo avere il coraggio di usarle. Non per chiedere perdono, ma per restare dentro la relazione, quella tra uomini e donne, ma anche quella con noi stessi.

E forse è proprio qui che comincia qualcosa di nuovo: non nel negare la violenza, ma nel riconoscerla, nominarla, attraversarla senza lasciarla vincere. Quindi uno scritto che non consola, ma che apre. E che, per una volta, ci chiede non di capire le donne, ma di capire finalmente noi stessi.

Catapum: no tengo dónde caer

«A volte riesce bene, a volte male. Questo è tutto: devi seguire il ritmo e caderci sopra. Il bullerengue è una melodia, es una música que uno lleve en la sangre».

Queste sono le parole delle protagoniste del documentario della regista colombiana Palu Abadía, presentato alla Casa delle Donne di Milano in occasione del Festival del Cine Colombia Migrante 2025 in collaborazione con il Dipartimento di Lingue, letterature, culture e mediazioni dell’Università Statale di Milano, l’associazione Migras APS e il Grupo Interagencial de Género: giunto alla sua terza edizione, il Festival è un’iniziativa creata da comunità colombiane in esilio con lo scopo di rendere visibili e stimolare spazi di memoria simbolica individuale e collettiva sulla migrazione e lo sfollamento forzato in Colombia attraverso film, produzioni audiovisive e opere d’arte.

Il documentario, uscito nel 2023, presenta la vita di tre donne molto diverse per età, generazione, passato e geografia che però si parlano, si educano e si riconoscono attraverso una melodia ancestrale, originaria e perpetua: il bullerengue. La regista Palu Abadía, nata in Colombia e newyorkese da dodici anni, presentando il film al Vancouver Latin American Film Festival ammette di non aver mai ascoltato e frequentato persone, nella sua terra d’origine, che cantavano, suonavano e ballavano il bullerengue; il suo primo incontro con questi ritmi è avvenuto a New York, al concerto dei Bulla en el Barrio, collettivo di musica che conta all’attivo dodici membri e che nella grande mela organizza ritrovi musicali nei parchi, nelle chiese e nelle sale da concerto per condividere e diffondere le tradizioni e le esperienze delle cantadoras colombiane delle regioni dell’Uraba, Cordoba e Bolivar. Sarà proprio Carolina Oliveros, la cantante del gruppo, insieme ad altre due donne, Ceferina Banquez e Pabla Flores, a guidarci alla scoperta del bullerengue. Ci parlano della Colombia, di quello che è stato il suo passato e dei tentativi di ricostruzione del futuro: Ceferina descrive la sua vita da sfollata a causa della violenza della guerriglia che per cinquant’anni ha massacrato il suo paese provocando otto milioni di dispersi interni ed esterni, ricorda il ritorno dopo anni nella sua terra per riabbracciare l’eredità della sua famiglia; incarna il movimento costante per la ricostruzione del presente, che la voce e le melodie riconciliano con il passato.

Pabla Flores, cantando, racconta alla nipote come sua madre e sua nonna le abbiano trasmesso la conoscenza ancestrale del bullerengue che unisce la comunità e crea rituali.

Carolina Oliveros da New York è la più giovane delle protagoniste: trasferitasi per amore dopo un’adolescenza ribelle e conflittuale, dichiara che «Non ho cercato il bullerengue, è stato il bullerengue a trovare me» e da allora si è data la responsabilità di far conoscere alle nuove generazioni questa tradizione, che per lei è stata una herramienta de sanación, uno strumento di guarigione per unirsi con se stessa e ritrovare la sua voce.

«El toque del tambor ha acompañado generaciones y luchas de resistencia de las comunidades negras. Lo que hace es que mueve el espíritu, toca unas fibras porque tiene esa historia, tiene ese

espíritu. Es como un espíritu que se esconde dentro del tambor.»1

Resistere, lottare, non retrocedere, rimanere, ricordare, trasmettere, educare, cantare. È questa l’origine spontanea dei bailes cantaos, i balli cantati: il bullerengue è una musica afrodiscendente della costa caraibica della Colombia che gli schiavi, approdati nel porto di Cartagena de las Indias dal Congo e dall’Angola agli inizi 1500, riproducevano attorno alle palenque, fortificazioni costruite da coloro che riuscivano a scappare dalla schiavitù e che le donne gravide, senza marito oppure concubine, escluse dal fandango o dai balli popolari durante le celebrazioni religiose in onore di San Giovanni o San Pietro (il 24 e il 29 di giugno), suonavano nel patio della casa. Si narra che il bullerengue sia uno dei canti esclusivamente femminili della Colombia e ne esistono di diversi tipi: di richiamo, di celebrazione per l’inizio delle mestruazioni, allegri o tristi.

Le mura di Cartagena

e il castello di San Felipe

lo hanno costruito i neri con frustate e sudore.

Voglio partorire un bambino bianco

anche se non mi darà mai la mano

per diffondere la notizia

che partorire è umano.

È stata forse la “povertà” degli strumenti che occorrono per (ri)creare i suoni e le melodie del bullerengue a renderlo così naturale, istintivo e genetico? Sono sufficienti la voce, le mani, l’acqua. Si sono poi aggiunti il tamburo con pelle di animale e un vaso che raccoglie cocci rotti a dettare il ritmo e ordinare la voce. Si tratta di un dialogo continuo tra tutte le parti che interagiscono: la voce impera, il coro risponde, il corpo segue e comanda la melodia che, come una rete, raccoglie tutto insieme. Se prima gli schiavi neri suonavano il dolore e lo strazio davanti al fuoco, nel tempo il bullerengue è diventato un vero e proprio mezzo di educazione, di trasmissione di conoscenza ed eredità, di racconto e di memoria. Non solo sofferenza, resilienza e strategia, i bailes cantaos sono diventati apprendimento, istruzione, necessità, pratica di vita: si insegna come coltivare le piante, cucire, prendersi cura di sé e della comunità.

Catapum, il titolo del documentario, riprende il nome del movimento che fa l’acqua quando è prepotentemente percossa dalla mano: Ceferina spiega come il Catapum a volte riesca e a volte no: bisogna provare, seguire il tempo e caderci dentro. Non si premedita questo tipo di ritmo, non ci sono spartiti, non rimangono testi delle strofe già cantate: quello che non deve andare perso è la pratica del suono, la cultura della voce, l’uso delle mani per battere suoni che rinforzano e tracciano il percorso per la parola che verrà, per il pensiero che ancora non c’è. Il bullerengue è meditazione, raccoglimento, riflessione: c’è sempre qualcosa da pensare, da calcolare, da ricordare, da raccontare a chi è vicino e deve sapere quello che è stato, affinché la storia cambi e non si ripeta.

«Te levantas y cantas. Lavas los platos y cantas. Trabajas y cantas. No importa lo que enfrentes, siempre cantas…»2

(1) «Il suono del tamburo ha accompagnato generazioni e lotte di resistenza nelle comunità nere. Ciò che fa è muovere lo spirito, tocca certi nervi perché ha quella storia, ha quello spirito. È come uno spirito nascosto dentro il tamburo.»

(2) «Ti svegli e canti, lavi i piatti e canti, lavori e canti. Qualunque cosa ti capiti, canti sempre.»

da Rivista Plurale Online Ytali-Venezia

Lavoriamo insieme su diversi progetti almeno da una decina di anni, ma da più di un anno abbiamo costituito un gruppo di riflessione politica sulla città, che si è dato il nome di Labfem5.0: ci incontriamo una volta al mese da ottobre 2024 per ragionare come semplici abitanti, tenendo conto del nostro essere donne e della lunga esperienza politica e sociale di ognuna, sui problemi, le contraddizioni, le potenzialità, i punti di forza e di debolezza della città in cui abitiamo.

Ci siamo collocate tra quelle e quelli che amano la città, ne usano spazi e risorse, ma anche sentono l’obbligo di restituire, rimettere in ordine, prendersi cura, impegnarsi per il cambiamento.

Abbiamo adottato il punto di vista di chi percorre la città a piedi tutti i giorni, ne fa esperienza diretta, tocca con mano le contraddizioni, vede i problemi, intreccia trame di incontri, parla con le persone che incontra: l’edicolante, il commerciante, il postino, il farmacista, la parrucchiera, donne e uomini che stanno dietro i banchi di frutta e verdura al mercato, donne e uomini che si impegnano nella politica della città.

Molte le cose che abbiamo fatto: abbiamo individuato aspetti diversi del vivere quotidiano, problemi irrisolti che si ripresentano a ogni cambio di governo; abbiamo descritto i luoghi della città che più frequentiamo; abbiamo elaborato un elenco di ciò che della città ci piace e ciò che non ci piace, facendo differenza tra le cose che vanno bene e possono restare e quelle che, secondo noi, vanno messe in discussione e cambiate.

L’intenzione comune è stata quella di trarre dai nostri racconti, dalle nostre descrizioni dell’esistente riflessioni e indicazioni utili per orientare le future scelte politiche e prospettare possibili soluzioni dei diversi problemi o modalità più efficaci di affrontare le criticità presenti in città e nel nostro territorio.

Consapevoli che una città è tenuta insieme dalla sapienza di pratiche minuziose e pazienti, da gesti di cura che appartengono alla sfera domestica, affettiva, ma trasferibili e traducibili anche in altri ambiti, in contesti più ampi, abbiamo guardato alla città come un’interazione di soggettività che agiscono contemporaneamente, trasformando il quotidiano.

Con l’arrivo negli ultimi trent’anni dal Sud e dall’Est del mondo di donne e uomini in cerca di lavoro e di una vita migliore, Mestre si è radicalmente trasformata, è diventata un intreccio di lingue, religioni, stili di vita, tradizioni, abitudini, saperi, modi di vestire e di cucinare molto diversi tra loro. La città è spazio in cui si incontrano e si scontrano differenze etniche, religiose, economiche, sociali, culturali e in essa vivono numerose comunità di stranieri per lo più tra loro separate.

Nei quartieri e in alcune zone, dove già negli anni Settanta c’era stata una prima immigrazione dal Sud Italia, ma anche da Venezia – in particolare dopo l’alluvione del 1966, quando iniziò un vero e proprio “esodo” in terraferma – si sono formate nuove comunità e alla prima generazione ora si aggiungono le seconde e le terze.

Negli anni Novanta Mestre era una “città di frontiera”, nel senso che vi si sperimentavano pratiche innovative di integrazione e di accoglienza.

Oggi con la lenta scomparsa di reti amicali, parentali e di vicinato diminuisce anche a Mestre il senso di sicurezza. Ci siamo soffermate a lungo a ragionare sulla sicurezza che passa attraverso la rigenerazione della città, la presenza di negozi, di luoghi di aggregazione, di spazi pubblici dove avvengono incontri e discussioni politiche. La sicurezza, spesso associata a politiche di repressione e controllo, va vincolata secondo noi soprattutto alla partecipazione: prossimità e partecipazione creano, infatti, controllo sociale e di conseguenza senso di sicurezza. Siamo convinte che al diffuso senso di insicurezza che circola in città non si debba rispondere unicamente con la repressione e che questa sia in realtà un grande inganno che fa credere di risolvere i problemi, ma di fatto non lavora lì dove questi nascono. Contemporaneamente ci abitua ad un controllo che limita la nostra libertà individuale.

La città subisce un processo di invecchiamento della popolazione e le giovani generazioni fuggono da Mestre per mancanza di casa e di lavoro.

L’offerta commerciale è diminuita e anche a Mestre c’è il fenomeno della chiusura dei negozi. In compenso, in questa città c’è grande ricchezza di proposte culturali: librerie, cinema, dibattiti, convegni, mostre, gruppi lettura, gruppi di poesia, associazioni culturali.

L’attuale amministrazione non crede veramente nella partecipazione, nell’innovazione e nell’inclusione; è fortemente sicuritaria, ha abolito le Consulte, i Forum, le Municipalità, gli organismi di partecipazione, strumenti decentrati dell’ascolto e dell’agire nella città.

Ci siamo dette che è la vita quotidiana, con le sue infrastrutture fisiche e sociali, che permette di ricucire e integrare rigenerazione e welfare. È la vita quotidiana la chiave di volta che può sostenere una nuova pianificazione dei servizi. È questo il pensiero che ha innervato le pratiche di quante di noi lavorano politicamente all’interno di un partito e che l’attenzione delle donne ci suggerisce. Pensiamo che sia necessario mettere in discussione una visione ormai superata della progettazione urbana che continua a basarsi sull’idea di bisogni “universali” e standardizzati, come se la città fosse abitata da un cittadino medio, neutro, astratto. Questa logica ancora troppo presente nelle politiche pubbliche finisce per ignorare non solo la differenza tra i sessi, ma anche le profonde disuguaglianze sociali, economiche e culturali che attraversano i nostri territori. Progettare la città oggi significa riconoscere e dare spazio alla pluralità: ai corpi, ai bisogni, alle vite che troppo spesso rimangono ai margini. Significa andare oltre l’omologazione e costruire politiche urbane capaci di includere, invece di cancellare.

A un certo punto della nostra ricerca, ci siamo poste anche delle domande sulle quali tuttora siamo impegnate a lavorare. Per esempio: come possono crescere la partecipazione e la disponibilità a costruire con altre e altri?

Come pensare al futuro con uno sguardo che rimotivi alla partecipazione, restituendo ad ogni abitante emozione, desidero di impegno e voglia di lavorare per il cambiamento?

Quale azione politica è possibile per superare la logica individualistica diffusa che mette al primo posto il narcisismo individuale (spesso maschile) e gli interessi privati rispetto a quelli della comunità?

Che cosa rende un insieme di persone, donne e uomini, una comunità generativa e aperta all’agire per promuovere trasformazione politica?

La domanda da cui siamo partite è questa: le porte delle nostre case oggi sono e rimangono “aperte” o le abbiamo chiuse?

da Pressenza

In una delle province più produttive d’Italia, dove le fabbriche hanno fatto la storia del lavoro ma la disoccupazione femminile resta ancora una ferita aperta, un piccolo laboratorio sartoriale prova a cambiare il destino di molte donne. Si chiama Atelier Bebrél, e dietro a un semplice ago e filo si cela una rivoluzione silenziosa: un modello di inclusione sociale e sostenibilità che intreccia storie, competenze e nuove opportunità professionali.

Dalla fragilità alla rinascita: la forza di un progetto

Nato a Rodengo Saiano, nel cuore del bresciano, Atelier Bebrél è più di un laboratorio di sartoria creativa. È un luogo dove le donne in situazioni di fragilità – vittime di violenza, migranti, disoccupate di lunga durata – trovano una seconda possibilità attraverso la formazione e il lavoro.

Il progetto prende forma grazie alla sinergia tra Punto Missione Onlus e Associazione Casa Betel 2000 Onlus, due realtà impegnate nell’accoglienza di donne sole e madri con figli. Qui la sartoria diventa strumento di autonomia, ma anche terapia, riscatto e comunità.

«La consapevolezza che il lavoro è la chiave per costruire una nuova identità e un’integrazione sociale reale – spiega Silvia Daminelli, coordinatrice dell’Atelier – ci ha spinto a creare percorsi formativi aperti non solo alle nostre ospiti, ma anche alle donne del territorio, spesso escluse dal mercato del lavoro perché prive di competenze spendibili».

Un modello formativo a cascata

Oggi Atelier Bebrél ha compiuto un passo in più. Con il sostegno della Fondazione Marcegaglia e la consulenza di Mending for Good, ha avviato un innovativo percorso di formazione in moda sostenibile e upcycling.

Il progetto è partito da un workshop intensivo rivolto a cinque professioniste dell’Atelier – una stilista e quattro sarte – che hanno acquisito competenze avanzate in riuso creativo e design circolare. Sono poi loro, in un modello “a cascata”, a formare oggi 15 donne in situazioni di vulnerabilità, moltiplicando così conoscenze, opportunità e autonomia.

Non si tratta solo di corsi, ma di un percorso completo che include tirocini retribuiti e mentoring individuale, con l’obiettivo di un inserimento concreto nel settore della moda etica. «Vogliamo costruire un sistema di valore – spiega Alberto Fascetto, responsabile del progetto per la Fondazione Marcegaglia – dove la formazione diventa un trampolino per l’indipendenza economica e la dignità personale».

Cucire per ricucire: il valore dell’upcycling

Accanto al valore sociale, c’è una visione ambientale forte. Grazie alla collaborazione con Mending for Good, società specializzata in upcycling e design circolare, Atelier Bebrél impara a trasformare scarti tessili e materiali dimenticati in nuovi capi unici, di alta qualità e dal forte impatto etico.
«Parliamo di rammendo nel senso più ampio del termine – spiegano Alessandra Favalli e Barbara Guarducci, fondatrici di Mending for Good –. Riparare un sistema significa considerare la responsabilità ambientale e sociale, rispettare le persone e il pianeta, creando circoli virtuosi tra artigianato e moda».

Storie che diventano tessuti

Dietro ogni cucitura, ci sono storie di vita. Come quella di Olga, arrivata a Brescia da Kiev nel marzo 2022, in fuga dalla guerra insieme alla nonna novantaduenne. A casa sua gestiva una sartoria, qui, grazie ad Atelier Bebrél, ha potuto ricominciare. Oggi coordina la linea creativa del laboratorio e guida altre donne nella produzione. «A Brescia ho trovato una nuova stabilità – racconta –. Lavorare di nuovo con ago e filo mi ha permesso di ricostruire la mia vita».

O quella di Isabella, che dopo un lutto devastante ha ritrovato nel cucito una forma di rinascita: «Mi ha salvata. Lavorare in gruppo, creare qualcosa di bello insieme ad altre donne, mi ha ridato fiducia e voglia di vivere».

da l’Avvenire

L’Irlanda ha una nuova presidente: Catherine Connolly, 68 anni, deputata indipendente di sinistra originaria di Galway, da sempre voce critica verso l’establishment politico ed economico del Paese. La sua è stata una vittoria schiacciante e annunciata – con il 63,7 percento dei voti – oscurata in parte però dal dato sull’affluenza: alle urne è andato meno del 40 per cento degli aventi diritto, un record negativo nella storia della Repubblica irlandese e il chiaro segnale di un tessuto civico sempre più diffidente verso la politica.

Sostenuta da Sinn Féin, Social Democrats e da una costellazione di movimenti progressisti, Connolly ha superato nettamente Heather Humphreys, candidata dai centristi di Fine Gael, che ha riconosciuto la vittoria dell’avversaria, ereditando da Michael D. Higgins – che per quattordici anni ha incarnato la coscienza civile del Paese – un ruolo simbolico in un momento in cui la credibilità delle istituzioni è in crisi. I numeri raccontano una stanchezza che va oltre le percentuali. Migliaia di elettori hanno infatti scelto di annullare la scheda, aderendo alla campagna di dissenso “Spoil the Vote” (Annulla il voto), nata per denunciare le regole troppo restrittive per la presentazione delle candidature.

Connolly dovrà adesso misurarsi con un mandato popolare forte nei numeri relativi ma fragile nel consenso reale. Ex psicologa e avvocatessa, deputata dal 2016, è nota per la sua retorica anti-neoliberista, per l’attenzione ai temi sociali e per la difesa della neutralità irlandese, messa in discussione dal governo con l’aumento delle spese militari. «Il Paese non ha bisogno di più armi ma di più fiducia», ha dichiarato nel suo ultimo comizio.

Durante la campagna è stata vittima di un episodio emblematico dei nuovi rischi democratici: un deepfake diffuso sui social la mostrava, in un falso telegiornale della tv pubblica RTÉ, annunciare il proprio ritiro e la vittoria dell’avversaria Humphreys. Il video, visto da oltre trentamila utenti prima di essere rimosso, è rimasto online per dodici ore. L’effetto, paradossalmente, è stato quello di rafforzarne l’immagine di outsider, simbolo di un Paese che non vuole essere ridotto a spettatore del proprio destino.

Anche l’ombra di Gaza ha pesato sulla campagna elettorale. Più dell’ottanta per cento degli irlandesi considera le azioni israeliane un genocidio, e molti accusano l’Ue di aver tradito la propria missione morale. Connolly ha dato voce a quel sentimento popolare parlando di “complicità europea” e chiedendo la sospensione dei rapporti militari e commerciali con Israele. È stata l’unica candidata a pronunciare la parola “Palestina” con convinzione, raccogliendo così l’eredità del suo predecessore, Michael D. Higgins. La nuova presidente è anche favorevole alla riunificazione dell’isola, che considera “inevitabile”, e ha paragonato l’aumento delle spese militari della Germania del cancelliere Friedrich Merz a quelle degli anni ‘30. Dichiarazioni che hanno suscitato critiche ma che le hanno guadagnato un consenso trasversale tra giovani, attivisti e chi sente l’Irlanda lontana dai poteri forti di Bruxelles, Londra e Washington. La scommessa di Catherine Connolly comincia ora. In un Paese dove meno di un elettore su due ha scelto di recarsi alle urne, il primo compito della nuova presidente sarà ridare senso alla partecipazione politica di fronte agli eloquenti segnali di protesta verso un sistema percepito come chiuso e distante.

da Internazionale

In Afghanistan 21 milioni di donne e bambine vivono soffocate dal regime. Quattro anni fa gli Stati Uniti e i loro alleati hanno abbandonato le afgane, ritirando le truppe dal paese dopo gli accordi di Doha. Il patto “di pace” che doveva debellare Al Qaeda, ha riconsegnato ai taliban le stesse donne che gli occidentali avevano promesso di salvare quando avevano invaso il paese, vent’anni prima. Da allora la repressione è sempre più violenta. Uno dei momenti più vergognosi è arrivato nell’agosto 2024, quando le autorità di Kabul hanno promulgato la legge per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, un’interpretazione radicale della sharia. Tra le regole da seguire, c’è il divieto per le donne di parlare in pubblico o uscire in strada a volto scoperto. E all’interno delle mura domestiche non possono leggere né cantare. Ad agosto molte donne sono morte abbandonate sotto le macerie dopo il forte terremoto che ha scosso parte dell’Afghanistan. La loro assenza nelle immagini dei soccorsi è sconvolgente: erano lì, sotto i palazzi crollati, ma non sono state tratte in salvo perché gli uomini non potevano toccarle a meno che non fossero parenti. Quelle che sono riuscite a raggiungere un ospedale non hanno avuto una sorte migliore, perché non c’erano dottoresse. Il 30 settembre le autorità afgane hanno bloccato internet. La restrizione è durata solo 48 ore, ma non per tutti. I leader religiosi hanno ordinato agli uomini di sequestrare definitivamente i telefoni alle donne, che non potranno più seguire corsi online, informarsi, comunicare e chiedere aiuto. I taliban hanno chiuso l’ultima finestra delle afgane sul mondo. La comunità internazionale ha l’obbligo morale e umanitario d’intervenire.

Un grigio pomeriggio invernale, ragazzi e ragazze, giacche a vento e zaini sulle spalle, si radunano sul lato destro della Stazione Centrale di Milano. Qualche sorriso, qualche battuta, non di più: sono molto compresi del viaggio che stanno per intraprendere. Non partono per la settimana bianca, sanno che li aspetta il Treno della memoria. Quando il gruppo è completato ci si incammina nei sotterranei del binario 21. Un po’ di trambusto, possono vedere uno dei vagoni merci, poi il silenzio: chi ha organizzato il viaggio lascia la parola a chi su quel treno è salita bambina, decenni prima.

Il viaggio è lungo, più di ventidue ore durante le quali si legge, si discute, una classe mette in scena una piccola rappresentazione a partire dalle parole di diari e memorie di chi è stato deportato. Il sonno arriva quasi all’alba.

Il lavoro fatto nei mesi precedenti li ha preparati a vivere un’esperienza da cui torneranno trasformati: hanno studiato e ricercato, approfondito incontrando ex-deportati ed ex-deportate.

Il 27 gennaio è tutto dedicato alla visita dei Campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau: le poche baracche ricostruite, il ‘museo’ con l’agghiacciante raccolta di quello che rimane di migliaia di vite.

Chiedono alle guide e alle docenti spiegazioni o scambiano emozioni, con voci sommesse, per non profanare il silenzio e lasciare parlare il vento gelido.

Fotografie? Sì, certo hanno scattato fotografie per documentare il viaggio: immagini che mostrano il vuoto degli spazi e il silenzio, o le scritte e gli oggetti tante volte visti riprodotti nei libri che ora, proprio perché quasi toccate con mano, assumono una pregnanza diversa. Hanno fotografato anche le compagne e i compagni in gruppo, di schiena: però i protagonisti, lì, non erano loro.

Selfie? Sì, certo la sera a Cracovia, quando la tensione in parte si è allentata.

Durante il viaggio di ritorno sul treno si formano gruppi spontanei per rielaborare ciò che avevano vissuto, cresce la consapevolezza che quell’esperienza deve essere conosciuta da chi non ha potuto partecipare: si comincia a pensare cosa fare.

Il viaggio per le ragazze e i ragazzi non è finito: sentono che ora tocca loro diventare testimoni in un passaggio tra generazioni. Riordinano le foto e le commentano, approfondiscono le diverse tipologie di deportazione, producono un video in cui si intrecciano le loro parole con quelle lette nei libri. Gli incontri con le testimoni hanno generato in loro il desiderio di condividere con altri e altre lo spessore e la preziosità dell’esperienza, consci che la ricchezza conoscitiva e l’ampiezza emozionale legate a quegli incontri siano un’occasione da spartire con altri e altri, in un’assemblea aperta non solo alla scuola.

Negli anni successivi gli e le studenti hanno assunto il ruolo attivo di “testimoni”: in occasione della Giornata della Memoria, hanno collaborato e realizzato una lezione spettacolo sulla Shoah; hanno organizzato una serie di incontri, sapendo diversificare impostazione e linguaggio, sull’esperienza del viaggio ad Auschwitz e sulle deportazioni, rivolti sia a compagni e compagne di altre classi della scuola e di altri istituti, sia anche in qualche occasione pubblica.

Questa esperienza l’ho ripetuta con le classi più volte negli anni.

Una lettera aperta, firmata da almeno 460 intellettuali, celebrità e personaggi politici ebrei e israeliani, invita le Nazioni Unite e i capi di Stato ad affrontare «le condizioni di fondo dell’occupazione, dell’apartheid e della negazione dei diritti dei palestinesi» che sono assenti dall’accordo di cessate il fuoco di Gaza del presidente degli Stati Uniti Trump

Un gruppo di importanti leader e celebrità ebraiche chiede ai leader mondiali di chiamare Israele a rispondere delle sue azioni a Gaza e di usare il cessate il fuoco con Hamas come punto di svolta verso una pace giusta e duratura.

In una lettera aperta intitolata “Gli ebrei chiedono azione” pubblicata mercoledì, l’ex presidente della Knesset e presidente israeliano ad interim Avraham Burg, l’ex negoziatore israeliano Daniel Levy, la scrittrice canadese Naomi Klein e l’autore Peter Beinart sono affiancati da almeno 460 personalità pubbliche ebraiche che sollecitano sanzioni contro Israele e l’applicazione del diritto internazionale.

La lettera, indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite e ai capi di Stato di tutto il mondo, rappresenta il primo appello coordinato di questo tipo da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore il 10 ottobre.

«È con grande sollievo che accogliamo con favore il cessate il fuoco», si legge nella lettera. «Eppure non ci dovrebbero essere dubbi sulla fragilità di questo cessate il fuoco: le forze israeliane rimangono a Gaza, l’accordo non fa alcun riferimento alla Cisgiordania, le condizioni di base dell’occupazione, dell’apartheid e della negazione dei diritti dei palestinesi rimangono irrisolte».

Tra i firmatari figurano artisti, autori e attivisti come gli attori Ilana Glazer, Hannah Einbinder e Wallace Shawn, i registi premi Oscar Jonathan Glazer e Yuval Avraham, i comici Eric André e Leo Reich e lo scrittore premio Pulitzer Benjamin Moser.

Versione originale inglese:

New York – A group of prominent Jewish leaders and celebrities are calling on world leaders to hold Israel accountable for its actions in Gaza and to use the cease-fire with Hamas as a turning point toward a just and lasting peace.

In an open letter titled “Jews Demand Action” released Wednesday, former Knesset Speaker and interim Israeli President Avraham Burg, former Israeli negotiator Daniel Levy Canadian writer Naomi Klein and author Peter Beinart, are joined by at least 460 Jewish public figures urging sanctions on Israel and enforcement of international law.

The letter, addressed to the UN Secretary-General and global heads of state, marks the first coordinated appeal of its kind since the cease-firetook effect on October 10.

It is with great relief that we welcome the cease-fire”, the letter reads. “And yet there should be no doubt that this cease-fire is fragile: Israeli forces remain in Gaza, the agreement makes no reference to the West Bank, the underlying conditions of occupation, apartheid and the denial of Palestinian rights remain unaddressed”.

Signers include artists, authors and activists such as actors Ilana Glazer, Hannah Einbinder and Wallace Shawn, Oscar-winning directors Jonathan Glazer and Yuval Avraham, comedians Eric André and Leo Reich and Pulitzer Prize-winning writer Benjamin Moser.

da Centro Sereno Regis e Pressenza

Il giorno temuto della prima trivellazione funzionale al Tav (Treni ad Alta Velocità) a Bussoleno è arrivato.

Di buon mattino compare il messaggio: “zona ex scalo ferroviario, camion carico di materiale compatibile con il montaggio trivella”.

Mi sono precipitata sul luogo a rischio, lo stesso della mia passeggiata quotidiana lungo la Dora.

Questa volta sono sola, il mio cane Gigio l’ho lasciato a casa, a scanso pericoli… Sul fiume, sui boschi di sempre pesa la foschia della giornata piovosa: oggi l’autunno ha perso l’aura dorata dell’anno che serenamente declina, per coprirsi dell’uggiosa tristezza che sa già d’inverno.

Invece di imboccare il solito sentiero nel bosco, salgo lungo il terrapieno della ferrovia, che offre una visuale dall’alto, complessiva. Non sembra esserci nulla lungo il greto del fiume, nulla nella fascia dei prati che le mappe segnalano come a rischio sondaggi. Respiro di sollievo: forse non è ancora il momento, c’è ancora spazio per la quotidianità ‘buona’ che anche la precarietà della vecchiaia può donare…

Poi la vedo, la trivella, alta, ai margini dell’area che, fino a trent’anni fa, prima della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, era il fiorente scalo merci della stazione di Bussoleno. La zona è inaccessibile, bloccata da un muro di blindati e figure in assetto antisommossa.

Ci torno nel pomeriggio insieme ad un gruppetto di compagni. Il rapporto numerico non ci è favorevole: uno di noi contro almeno tre di loro. Tentiamo invano di avvicinarci. Alla fine ce ne andiamo sotto la pioggia, tra il freddo e la tristezza della sera, mentre le torri-faro si accendono ad illuminare l’ennesima ferita, l’ennesima prepotenza ai danni di questa terra e di chi l’abita.

Oggi, in quello che è diventato per me il “posto delle fragole”, là dove era stata posta a monito e a difesa la bandiera NO TAV, è piantata la trivella e intorno si allargano acqua e fango.

Sono arrivata con Gigio e mi ha colpita di lontano un rumore insolito di ferraglia, di pietra frantumata. Poi l’ho scorta, tra gli alberi, al fondo del sentiero, contro gli spalti boscosi del ponte ferroviario, nel punto in cui esiste un breve accesso al fiume, una piccola spiaggia dalla quale una mattina vidi alzarsi in volo, elegante e solitario, un airone cinerino.

Intorno alla trivella l’affaccendarsi degli operai e la presenza inquietante, più che mai fuori luogo, delle “forze dell’ordine”, in divisa e in borghese.

Non so se in me sia maggiore la rabbia o il senso d’impotenza; sento la mia voce che protesta e mi sembra una voce nel deserto. Di fronte ho un muro di gomma: solo il rumore delle carrucole contro il silenzio delle foglie che continuano a cadere.

Esco dal bosco verso i prati aperti: di fronte, sull’alto dei terrapieni, ancora mezzi blindati, divise, camion in attesa, figure che si muovono sui pendii. In mezzo, un mare di erba e di tarassaco fiorito e, sopra di tutti, il cielo e stracci di nuvole in fuga.

Di lontano arriva il suono delle campane di mezzogiorno.

Impotenza, insensatezza….

Gigio trotterella tranquillo sulla via del ritorno.

da tvxs.gr,

Venerdì 17 ottobre 2025 il segretario dell’ufficio provinciale di Teheran per l’“Imposizione del bene e la proibizione del male” ha annunciato la creazione di un nuovo “Centro operativo per la modestia e l’hijab”, insieme all’organizzazione e all’attivazione di «oltre 80.000 volontari addestrati» e 4.575 istruttori e assistenti giudiziari (noti come zabet-e qazaei).

I funzionari lo hanno presentato come una campagna socio-culturale, che sarà condotta in collaborazione con istituzioni culturali e per la sicurezza. Non si tratta di una voce: molti media iraniani hanno pubblicato dichiarazioni sull’argomento.

Si tratta di una nuova forma di polizia morale? Non esattamente, ma è stata progettata per svolgere un lavoro simile attraverso una struttura diversa. Il cosiddetto “Setad” (nuova unità di polizia) è un organismo di elaborazione e coordinamento delle politiche che opera a livello nazionale sulla base della legge del 2015 “Misure a sostegno di coloro che impongono il bene e proibiscono il male”.

La legge è chiara: la “segnalazione” verbale o scritta è consentita a qualsiasi cittadino, ma l’applicazione pratica della misura è di esclusiva responsabilità dello Stato. In altre parole, i volontari non possono arrestare, trattenere o usare la forza.

Tuttavia, la legge consente ad alcuni assistenti di giustizia certificati, solitamente formati attraverso il Basij e certificati come “funzionari giudiziari”, di raccogliere documentazione e inviare segnalazioni dirette alla polizia e agli uffici della procura.

Il Setad non ha veri e propri poteri di polizia, ma costituisce una rete. Si tratta essenzialmente di un sistema coordinato di segnalazione, documentazione e trasmissione più rapida dei casi alle autorità, non di furgoni che prelevano le donne dal marciapiede.

Perché adesso?

Perché il regime è intrappolato tra la lettera della legge così e una realtà sociale che non può far tornare indietro. Dopo la rivolta di “Donna, Vita, Libertà” le leggi sull’obbligo dell’hijab non sono mai state abrogate, ma la loro applicazione non può essere garantita ed è contestata.

Alla fine del 2024, il governo ha annunciato il congelamento il nuovo disegno di legge sulla “Modestia e l’hijab” a seguito di consultazioni interministeriali; il vicepresidente Shahram Dabiri ha dichiarato che il Parlamento non dovrebbe «per il momento» mandarlo avanti, mentre a maggio 2025 il presidente del Parlamento Mohammad-Bagher Ghalibaf ha rivelato che un ordine scritto del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale intimava al Parlamento di non promulgare la nuova legge. In altre parole: il testo esiste, ma è stato “congelato” dalla massima autorità per la sicurezza.

Questa sospensione ha messo in luce fratture interne sistema. L’importante esponente conservatore Mohammad-Reza Bahonar ha dichiarato apertamente che il disegno di legge sull’obbligo dell’hijab «non è più legalmente applicabile», un’ammissione sorprendente da parte di un fedele del regime.

Allo stesso tempo, i rappresentanti della Magistratura insistono sul fatto che le vigenti normative sull’hijab «restano in vigore». La contraddizione non è superficiale: rivela un vicolo cieco, in cui lo Stato emana leggi che non riesce a imporre alla società civile, e ciascuno dei vari centri di potere improvvisa.

Il funzionamento del nuovo “Centro Operativo”

Il regime sta spostandosi dalla repressione per le strade (il classico modello della polizia morale) a un ibrido di “vigilanza” organizzata, sanzioni amministrative e sorveglianza digitale.

Dal 2023-24, le autorità hanno ripristinato le pattuglie, ma hanno introdotto anche misure di controllo “intelligenti”: uso massiccio di telecamere a circuito chiuso, monitoraggio delle targhe, riconoscimento facciale nelle università e l’app NAZER che consente a funzionari e cittadini di denunciare “infrazioni” all’interno di auto e sui mezzi di trasporto.

I proprietari ricevono SMS automatici che li avvisano che verranno sottoposti a multe o al sequestro del veicolo. I rapporti delle Nazioni Unite nel 2025 confermano questa svolta verso il controllo digitale: ora droni, app e flussi di dati supportano l’imposizione dell’hijab, mentre il pubblico la rispetta sempre meno. Il piano Noor del 2024 dimostra come si possano applicare rapidamente questi meccanismi.

Il controllo è ripristinato?

Non proprio. Le strade di Teheran assomigliano a un referendum perpetuo, con comportamenti diffusi di disobbedienza nonostante le periodiche repressioni. Per questo i funzionari adottano un modello di governance che cerca di disciplinare il rispetto della legge: volontari che avvertono e registrano, assistenti che segnalano e intensificano i controlli, telecamere e app che consentono di punire senza arresti spettacolari. Si applica la legge attraverso procedure burocratiche e pixel, non attraverso la persuasione.

Una situazione che ricalca l’esempio delle patenti per motocicli alle donne. Anni fa, il Tribunale Amministrativo dell’Iran ha stabilito che non esisteva alcuna base giuridica per vietare alle donne di ottenere la patente. Tuttavia, la polizia stradale continua a sostenere che “la legge” lo vieta. Solo il mese scorso, un ex-vicecapo della polizia stradale ha ammesso ancora una volta che non esiste uno specifico divieto legale, ma solo uno per ragioni pratiche.

Questo è lo stesso schema: la legge tace, l’applicazione rimane rigida, i diritti sono «teoricamente possibili», ma se ne nega la fruibilità. Il nuovo Centro Operativo si inserisce perfettamente in questa impasse amministrativa.

La violenza strutturale contro le donne

Questa politica si inserisce in un contesto più ampio di violenza strutturale contro le donne. Un rapporto del Centro per i Diritti Umani in Iran (gennaio 2025) ha registrato un aumento dei femminicidi e la mancanza di una legge protettiva completa, pene irrisorie per i “delitti d’onore”, una legislazione che rafforza la tutela maschile e una rete inadeguata di case-rifugio e di assistenza per le donne.

Parallelamente, organizzazioni internazionali hanno segnalato un aumento generalizzato delle esecuzioni capitali nel 2024, comprese quelle femminili, nel contesto di un clima generale punitivo e repressivo. L’imposizione dell’hijab rientra in questo contesto.

L’economia e la politica del corpo

La politica del controllo sul corpo delle donne è sostenuta dall’economia. Nel 2024 in Iran le donne erano solo il 13,4% della forza lavoro, contro il 66,3% degli uomini (secondo la Banca Mondiale e l’ILO), uno dei tassi più bassi a livello mondiale. Non si tratta di una “preferenza culturale”, ma di una scelta politica: diritto di famiglia, modalità di assunzione e precarietà del lavoro inficiano l’indipendenza economica delle donne. Uno Stato che proclama la “modestia” e ostacola l’accesso al lavoro e alla sicurezza delle donne produce economicamente la disuguaglianza che poi disciplina attraverso il codice di abbigliamento.

Quindi cosa sta succedendo?

Le autorità stanno cercando di risolvere un problema di legittimità attraverso la burocrazia. La polizia morale si fa ancora vedere di tanto in tanto, ma ad un costo politico alto, e provoca reazioni. Il Centro Operativo sotto il Setad promette qualcos’altro: una rete burocratico-digitale che sposta la responsabilità all’esterno (sui “cittadini”), standardizza la documentazione (tramite assistenti) e automatizza le sanzioni (tramite telecamere e app).

Legalmente, i volontari non possono arrestarti; praticamente, possono assediarti con una rete di segnalazioni che porta a multe, avvisi o rinvii a giudizio, ed è esattamente questo lo scopo.

Due dure verità

La prima è che lo Stato ha perso l’egemonia sulla vita quotidiana e sull’immagine delle donne; il “congelamento” della nuova legge è una tacita ammissione di questa sconfitta.

La seconda è che il regime non ha concesso diritti, ma sta riducendo la visibilità della coercizione aumentandone l’efficacia con vari nuovi mezzi, oltre ai manganelli. Se vi chiedete se questo sia il “ritorno della polizia morale”, non cogliete il punto: il modello è stato riprogettato. I vecchi furgoni non sono scomparsi del tutto; il nuovo modello trasforma ogni telefono e ogni telecamera in un’auto di pattuglia. E un “Centro Operativo” a Teheran cerca di mantenere in funzione questa macchina, mentre il Parlamento e il Consiglio di Sicurezza Nazionale discutono se esista una base giuridica.

In breve, il Setad non è formalmente una forza di polizia, ma costituisce il sistema operativo che diffonde l’attività poliziesca in tutta la società. E al momento, questo è il modo principale con cui il regime cerca di recuperare un controllo che non può più imporre per le strade.

(*) giornalista e attivista iraniano che vive in Grecia

«Non esiste un punto di vista femminista». «…Sono disposta a perdere ogni coerenza teorica per restare coinvolta nella realtà che cambia».

Due citazioni, tra le tante, nella giornata, venerdì scorso, ospite il Comune di Milano, dedicata al pensiero e alla pratica politica di Lia Cigarini, nell’ambito dei 50 anni della Libreria delle donne.

La prima è in un documento che all’apertura della Libreria, nel 1975, dice come vanno raccolti i «testi di teoria e pratica politica». È molto importante raccogliere libri e ogni scritto che documenti «il sapere conquistato dalle donne», ma sarebbe «catastrofico se questo sapere venisse assunto come ideologia». «Invece di produrre idee attraverso la modificazione collettiva della realtà ci si accontenta di assorbire una visione del mondo…». E la passione per il cambiamento della realtà torna in un testo del 2018 per il lavoro della rivista Via Dogana (c’erano state le elezioni nazionali, il successo del centrodestra e dei 5Stelle: e poi il governo “giallo-verde”).

La vita politica di Cigarini era iniziata presto, nella Federazione giovanile del Pci milanese, ma subito rivolta al femminismo, nel gruppo Demau (Demistificazione Autoritarismo Patriarcale), dove scriverà con altre il fondamentale testo Il maschile come valore dominante (1968).

Il titolo del convegno, “Aprire la porta alla parola e alla libertà”, sintetizza una pratica politica basata sulla relazione tra donne, sulla presa di coscienza della propria “differenza” che “apre” al mondo e al desiderio cambiamento. La leva è il linguaggio.

Una «sovversione», come ha detto Stefania Tarantino, filosofa e musicista, un «arieggiare» che porta vento nuovo «nelle stanze del logos e della politica». Un capovolgimento «dal basso», incarnato nei corpi. Relazioni dove giocano disparità e autorità, quali «figure dello scambio»: l’arte di confliggere in modo non distruttivo. Concetto tornato molte volte in questi tempi di guerra.

Lia è avvocata, e un pensiero originale – ne ha parlato Angela Condello (Università di Messina) – l’ha dedicato alla centralità della “pratica processuale” – ancora relazioni e linguaggio – nella creazione del diritto.

Opponendo alla furia legislativa (oggi tutta orientata al penale) l’idea di un “vuoto” capace di «tenere aperte le porte della possibilità».

Altra grande passione: la libertà nel lavoro. Giordana Masotto, tra le fondatrici della libreria, ha ricordato le moltissime iniziative, in parte sintetizzate nel Sottosopra Immagina che il lavoro (2008): al centro l’idea di «tutto il lavoro necessario per vivere».

Le donne ne sono portatrici vivendo sia la riproduzione che la produzione. E Francesca Re David (segreteria Cgil ed ex segretaria Fiom) ha portato una testimonianza appassionata sulla realtà della competizione “bellica” anche tra aziende e sugli ostacoli alla contrattazione.

Cigarini è stata sempre convinta che la politica “delle donne” e della differenza, in quanto “politica delle relazioni” e “del simbolico”, fosse un’occasione anche per gli uomini, ai quali ha rivolto con insistenza l’idea di una “relazione di differenza”, un agire comune.

La risposta non è stata finora evidente. Forse ci siamo a tal punto identificati col mondo da dominare – ipotesi di Claudio Vedovati – da ridurci a un sesso che non sa vedere se stesso. (Consiglio ai maschi che amano la politica il libro di Lia: La politica del desiderio (Orthotes, 2022), magari partendo dall’intervista che le fa Riccardo Fanciullacci).

Nicolò Nisivoccia ha letto una affettuosa lettera dell’amica Luciana Castellina («Da Lia ho capito che non c’è rivoluzione anticapitalista senza svelare l’imbroglio del neutro…»).

da Sibilla

A pochi passi dal Duomo di Milano, dietro il palazzo che ospita l’enorme store di Mondadori, c’è una via ricurva dove i tram passano a malapena. Oggi ci sono negozi alla moda e trappole per turisti; negli anni Settanta c’era una piccola libreria sulla cui porta era affisso un cartello che diceva:

Non esiste punto di vista femminista. I libri cosiddetti femministi che sono in questa libreria valgono, se valgono, per il legame che hanno con la lotta delle donne e con la modificazione della realtà. In ogni caso non contengono il punto di vista femminista.

La libreria di via Dogana 2 aveva aperto le porte il 15 ottobre 1975 e si chiamava Libreria delle donne. Resterà lì fino al 2001, quando traferirà la sua sede in Via Calvi 29, dove è ancora in attività. Nacque «per iniziativa di un gruppo di donne legate tra loro da una lunga pratica politica, […] dal desiderio di rendere più ricche e articolate le relazioni tra donne […] misurandosi in un progetto concreto che impegnasse energie, tempo e denaro». Questo gruppo di donne, che si diede la forma della “cooperativa Sibilla Aleramo”, ebbe l’idea di aprire una libreria dopo aver visitato la Librairie des Femmes di Parigi, inaugurata soltanto un anno prima dal Mouvement de Libération des Femmes – Psychanalyse et Politique.

A metà degli anni Settanta, il femminismo era ormai ovunque: si era appena conclusa la campagna per il referendum sul divorzio e si stava avviando quella per l’aborto; le piazze erano piene di donne che protestavano; c’erano gruppi e collettivi femministi in ogni città italiana, da Nord a Sud; la neonata casa editrice La Tartaruga recuperava o traduceva i classici del pensiero femminista. Il femminismo, da avanguardia politica e culturale, nel giro di cinque anni si era trasformato in un movimento di massa. In questo lasso di tempo aveva strutturato la propria pratica attraverso lo strumento dell’autocoscienza, chiamata anche “piccolo gruppo”, che prevedeva il confronto e la condivisione delle esperienze personali, attraverso il riconoscimento dell’esperienza condivisa in quanto donne. Ma dopo qualche anno, questo strumento era entrato in crisi: alcuni gruppi, più vicini alla politica di movimento, ritenevano conclusa la fase dell’analisi e dello scavo interiore e volevano passare all’azione. Altri, credevano ancora nella potenzialità dell’autocoscienza ma sentivano l’esigenza di rinnovarla.

Il femminismo milanese, sin dagli albori, si era caratterizzato per una certa diffidenza nei confronti dell’azione politica. Carla Lonzi, con Sputiamo su Hegel, aveva “vanificato la presa di potere”, rifiutando come irrimediabilmente patriarcale ogni forma di politica istituzionale o rivoluzionaria. Nel 1972 alcune donne fondarono sempre a Milano il Collettivo di via Cherubini, che fece propria quella tendenza, mettendo in secondo piano le questioni di uguaglianza giuridica ed economica per concentrarsi su un progetto più ampio, esistenziale, di ridefinizione di donna. Mentre passano gli anni, racconta la femminista Lea Melandri, «sorge l’esigenza di concretizzare materialmente, e non solo enunciare teoricamente, una pratica di vita comune. Dopo tanti gruppi di parola, si fa avanti il desiderio di un “fare insieme”, una progettualità che implicasse anche il denaro e il lavoro». L’incontro con la Librairie des Femmes, ma soprattutto con Antoinette Fouque del gruppo francese Psychanalyse et Politique segnerà una svolta cruciale, non solo per la Libreria delle donne, ma per tutto il femminismo italiano.

Il femminismo del fare

Che la Libreria non è soltanto un negozio, lo si capisce dal testo che oggi viene considerato una sorta di statuto di questa esperienza, intitolato Il tempo, i mezzi e i luoghi:

Il tempo, i mezzi e i luoghi adeguati vogliono dire creare delle situazioni in cui le donne possono stare insieme per vedersi, parlarsi, ascoltarsi, mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre; vuol dire coinvolgere in queste situazioni collettive il corpo e la sessualità, in un luogo collettivo non regolato dagli interessi maschili. In questo luogo noi affermiamo i nostri interessi ed apriamo una dialettica con la realtà che vogliamo trasformare.

La Libreria è luogo “del fare”, ma non nel senso che è un luogo dell’azione e della rivendicazione, ma del «fare per la vita, semplicemente vivendo». La Libreria, cioè, non vuole essere dipendente da tutto ciò che le parole portano inevitabilmente con sé, (come il giudizio, la rabbia, la frustrazione) come aveva dimostrato l’esaurirsi dell’autocoscienza. La pratica del fare, si legge nel libro del 1987 Non credere di avere dei diritti, «metteva insieme donne non legate necessariamente da affetti o familiarità né mobilitate dietro una sommaria parola d’ordine, bensì da un progetto comune cui ciascuna aderiva con le sue ragioni, i suoi desideri, le sue capacità, mettendoli alla prova di una realizzazione collettiva». Fare cassa, maneggiare soldi, pagare le bollette della luce è «una politica che non aveva nome politica».

Le madri di tutte noi

E poi c’è la letteratura. L’incontro con le francesi, e in particolare con il pensiero di Luce Irigaray (il cui Speculum verrà tradotto in italiano dalla filosofa Luisa Muraro nel 1975), conduce la Libreria delle donne a ragionare profondamente sulla dimensione del simbolico. La comunità di pensiero che si riunisce intorno alla Libreria delle donne, e nello specifico intorno a Muraro, riconosce il fallimento del femminismo di movimento nella sua incapacità «di tradurre in realtà sociale l’esperienza, il sapere e il valore di essere donne», come si legge in un altro importante documento del 1983, Più che donne che uomini. Questa incapacità sarebbe dovuta al mancato riconoscimento delle differenze tra le donne, che si esprimono anche in differenze di potere, capacità e autorità e che il “femminismo ideologico” cercava di nascondere riunendo le donne in un’unica grande categoria. Per uscire da questa trappola si rendeva quindi necessario trovare «figure simboliche che traducono il fatto di appartenere al sesso femminile nella ragione sociale di tutta la libertà che una donna può desiderare per sé».

Le riviste femministe, le nuove case editrici come La Tartaruga o Scritti di Rivolta femminile, la nascita di biblioteche e centri delle donne favoriscono la ricerca di queste «madri simboliche». Nel 1982 la Libreria pubblica il “Catalogo giallo”, intitolato Le madri di tutte noi, che più che un elenco di “libri femministi”, «serviva a significare quello che la cultura umana non sa della differenza di essere donne»: Jane Austen, Emily Brontë, Charlotte Brontë, Elsa Morante, Gertrude Stein, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann, Anna Kavan, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett. Il Catalogo si configura come il catalogo della disparità dell’esperienza delle donne, ma è proprio la sua stesura che evidenzia la difficoltà di nominarla. Pur vendendo libri, il lavoro della Libreria si poggia sulla consapevolezza che la vita sta fuori dalle parole stampate, nelle relazioni dirette che si creano fra le donne, e fra le donne col mondo.

La Libreria non è mai stato un luogo “facile”. Le sue pratiche sono diverse da tutto ciò che siamo abituate ad associare al femminismo e non sono mancate polemiche e conflitti per le sue prese di posizione. Negli ultimi anni molte donne si sono allontanate, altre si sono avvicinate. Ma ciò che rende la Libreria, anche dopo cinquant’anni, un luogo così importante, è proprio l’essere riuscita a fare il femminismo, a renderlo un’esperienza concreta, autonoma e originale per tutte le donne che hanno attraversato la sua soglia, tanto per restare quanto per prenderne le distanze.

Il consiglio

Sul sito di MemoMI (La memoria di Milano) è possibile vedere gratuitamente il documentario Libreria delle donne, realizzato da Sabina Fedeli, che ripercorre la storia della Libreria. Sempre sullo stesso sito si può trovare la serie Il documentario – Il femminismo a Milano.

dal Corriere della Sera

Mio figlio ha undici anni e ha appena iniziato la prima media. Mi ha raccontato che è l’unico in classe a non avere un cellulare e a non giocare ai videogiochi. Ha detto che i compagni preferiscono giocare ai videogiochi o stare sui social anziché uscire, li vede assuefatti da quello strumento. Per lui una cosa così dovrebbe fare notizia, se ne dovrebbe parlare e non pensare che sia normale.

Questo bambino alieno non fa altro che giocare all’aria aperta, e a differenza di quello che pensano molti è completamente autonomo e ben inserito fra gli amici.

Molti genitori si giustificano dicendo che il cellulare li fa stare più tranquilli, questo è molto pericoloso, i ragazzi hanno bisogno di fiducia e devono essere in grado di uscire in autonomia, senza essere controllati in continuazione. Alcuni dicono: «Gli ho dato il telefono, ma controllo tutto quello che fa». Qui muore la fiducia nei figli, la loro autonomia, la voglia di scoprire cose nuove del mondo reale, anche di nascosto, muore la loro sicurezza. Aspettate che abbiano gli strumenti per gestire certe cose e quando date a vostro figlio la possibilità di accedere a pericoli virtuali, fatelo, perché sapete che è in grado di gestirli e avete fiducia in lui.

Mio figlio mi ha ringraziato per non averlo fatto ammalare di videogiochi, questo mi fa sperare che possiamo crescere figli sicuri di sé, responsabili, autonomi, facendoli uscire nel mondo reale, senza localizzarli e senza pensare che il posto più sicuro sia la loro camera davanti a uno schermo.

da Hareetz

Le persone non nascono crudeli, lo diventano. La crudeltà dei palestinesi nei confronti degli israeliani è ampiamente documentata, mentre la nostra crudeltà, quella della società israeliana, sta diventando sempre più sofisticata per proteggere il nostro bottino.

Gli ottimisti dicono che, alla fine, gli israeliani coglieranno la portata dell’atrocità che hanno commesso nella Striscia di Gaza. La verità si insinuerà nella loro coscienza.

I vecchi video di neonati fatti a pezzi dalle nostre bombe raggiungeranno a un certo punto i cuori degli israeliani e li trafiggeranno. Improvvisamente vedranno bambini ricoperti dalla polvere del cemento frantumato sotto il quale sono stati salvati, che tremano in modo incontrollabile e fissano nel vuoto con un’espressione che è tutta un grande punto interrogativo.

A un certo punto, dicono gli ottimisti, gli israeliani smetteranno di dire: «Se lo meritavano, a causa del 7 ottobre. Hanno attaccato». I numeri smetteranno di essere astrazioni e «Chi crede a Hamas». I lettori capiranno che più di 20.000 bambini sono stati uccisi – un terzo di tutti i morti – per mano nostra. Più di 44.000 bambini sono stati feriti – un quarto di tutti i feriti. Si renderanno conto di aver favorito e sostenuto una guerra di annientamento contro un popolo e di non aver sconfitto una feroce organizzazione armata.

A un certo punto, si renderanno conto che la crudeltà individuale della vendetta dimostrata da così tanti soldati – spesso accompagnata da scoppi di risate e sorrisi che hanno invaso TikTok – e la ferocia letale, fredda, chirurgica e anonima di coloro che giocano ai videogiochi dalle cabine di pilotaggio e dalle sale di controllo – non sono un segno di eroismo, ma una grave malattia. Sociale e personale.

I genitori, credono gli ottimisti, non riusciranno a dormire la notte, preoccupati che le X sui fucili dei loro figli indichino donne, anziani e giovani che raccolgono solo erbe per nutrirsi. Verrà il giorno in cui gli adolescenti chiederanno ai loro padri, che allora erano soldati, se anche loro hanno obbedito all’ordine di sparare a un anziano che aveva oltrepassato una linea rossa sconosciuta.

Le figlie dei piloti decorati chiederanno se hanno sganciato una bomba proporzionata che ha ucciso un centinaio di civili per un comandante di medio livello di Hamas. Perché non ti sei rifiutato? singhiozzerà la figlia.

I nipoti di una guardia carceraria in pensione chiederanno: hai picchiato personalmente un detenuto ammanettato fino a farlo svenire? Hai obbedito all’ordine di un ministro e negato ai prigionieri cibo e docce? Hai stipato trenta detenuti in una cella pensata per sei? Dove hanno contratto le malattie della pelle? Conoscevi qualcuno delle decine di detenuti morti in una prigione israeliana per fame o per percosse e torture? Come hai potuto, nonno? I nipoti dei giudici della Corte Suprema leggeranno le loro sentenze che hanno permesso tutto questo e smetteranno di andare a trovarli durante lo Shabbat.

A un certo punto, credono gli ottimisti, l’oscuramento della realtà da parte dei media israeliani smetterà di fare il lavaggio del cervello e di intorpidire i cuori. La frase “il contesto” non sarà più considerata una parolaccia e il pubblico collegherà i puntini: oppressione. Espulsione. Umiliazione. Deportazione. Occupazione. E tutta la sofferenza che sta in mezzo. Non sono parti di slogan coniati da ebrei che odiano se stessi, ma descrivono la vita di un intero popolo, per anni, sotto i nostri ordini e le nostre armi. Le persone non nascono crudeli, lo diventano. La crudeltà dei palestinesi nei confronti degli israeliani è ampiamente trattata dai nostri media, articoli e primi piani. Si è sviluppata in risposta e resistenza al nostro dominio straniero e ostile. La nostra crudeltà, quella della società israeliana, sta diventando sempre più sofisticata con l’obiettivo di proteggere il nostro bottino: la terra, l’acqua e le libertà da cui abbiamo espulso i palestinesi.

Gli ottimisti credono che ci sia una via di ritorno. Quanto sono fortunati, gli ottimisti.

Lettera Aperta di Mai Indifferenti Voci ebraiche per la pace e Ləa Laboratorio ebraico antirazzista

Alle soglie di una fragile “pace” e davanti a uno scenario di completa distruzione, dove sta andando l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI)? Le reti Mai Indifferenti – Voci ebraiche per la pace e Ləa Laboratorio ebraico antirazzista, da anni attive in Italia, hanno segnalato all’Unione delle Comunità ebraiche, alle scuole ebraiche e alle Comunità medesime, già dal 3 ottobre, l’inopportunità del tour di un soldato IDF nelle scuole, quasi a voler fare proseliti tra la gioventù dei licei. A questa lettera, di cui qui si riporta il testo integrale, nessuno ha risposto.

Lettera aperta – Propaganda militare nelle scuole ebraiche

Alla c.a. Presidenti e consiglieri dell’UCEI e delle Comunità ebraiche di Roma e Milano, Presidi delle scuole ebraiche di Roma e Milano

Gentili presidenti, presidi, e consiglieri,

Siamo rimasti sconcertati nell’apprendere che le scuole delle Comunità ebraiche di Roma e Milano hanno invitato un militare dell’IDF, Adi Karni, a incontrare gli studenti dei licei. Immaginiamo che l’evento sia avvenuto con il coordinamento dell’UCEI, la cui presidente era presente in almeno una occasione.

Seppure nella continuità di una linea politica di appoggio alle sciagurate azioni militari israeliane, che abbiamo già più volte deplorato, questo episodio ci sembra di una nuova e particolare gravità.

Del sig. Karni sono disponibili video in cui, con lo stesso sorriso smagliante che ha sfoggiato nelle scuole ebraiche, fa esplodere una moschea – un probabile crimine di guerra, come ben sa l’UCEI che ha avuto modo di ricordare (quando nel luglio scorso Israele ha attaccato una chiesa di Gaza uccidendo tre persone) che «il rispetto e la protezione dei luoghi religiosi, di qualunque fede essi siano, sono fondamentali per la convivenza, la dignità umana e la speranza di pace». Karni stesso ha dichiarato di aver evitato di pubblicizzare la propria venuta in Italia per timore di finire oggetto di un esposto per crimini di guerra come già gli è successo in altri paesi.

Si obietterà probabilmente che gli studenti hanno potuto vedere che un tipico soldato israeliano non è altro che un ragazzone di ventidue anni, un giovane affabile che ama la sua famiglia e il suo paese, che è coraggioso ma anche simpatico, che potrebbe essere nostro cugino. Non dubitiamo che anche tutte queste cose siano vere. Ma agli educatori è ben noto che le persone che partecipano a massicci crimini contro l’umanità (e l’assalto israeliano a Gaza rientra, al minimo, in questa categoria) non sono psicopatici, ma per lo più persone normalissime che sono state educate male. O meglio: che hanno ricevuto un’istruzione normalissima sotto la maggior parte dei punti di vista, ma al contempo sono stati educati a svalutare o negare l’umanità delle vittime designate. Così Karni può a sua volta predicare, riferendosi al massacro di cui è parte, che nella Gaza che ha contribuito a radere al suolo ha visto «solo odio», che «stiamo facendo il lavoro sporco per voi», spiegando che «l’Islam avanza in Europa». Insomma, il più puro prodotto della peggiore educazione israeliana (musulmani = male da eliminare fisicamente, con sorriso e armi pesanti) viene importato e proposto come progetto educativo alle ragazze e ai ragazzi riuniti apposta in Aula Magna.

Il fatto è ancora più preoccupante se è vero, come la radio di Tsahal ha riportato il mese scorso, che l’esercito israeliano, a corto di personale, sta cercando modi di arruolare centinaia di giovani ebrei della Diaspora. L’affabile propaganda di Karni andrebbe contrastata coi numeri della catastrofe in corso da due anni: più di 65mila palestinesi uccisi, di cui oltre l’80% civili secondo dati dello stesso esercito, centinaia di palestinesi morti per fame. A fronte di 8 ostaggi recuperati vivi in azioni militari, 3 ostaggi sono stati uccisi a bruciapelo dalla stessa fanteria israeliana e un numero indeterminato da attacchi dell’aviazione; oltre 900 soldati uccisi in combattimento, 46 morti per suicidio post traumatico.

E la baldanza di Karni andrebbe contrastata con la testimonianza di un altro soldato, Yoni: «“Terroristi, terroristi”», ha gridato un commilitone [a maggio 2025, a Beit Lahia]. «Ci siamo lasciati prendere dal panico, io ho preso subito il Negev [una mitragliatrice] e ho cominciato a sparare all’impazzata, lanciando centinaia di proiettili. Poi avanzando mi sono reso conto che era stato un errore». Di terroristi non ce n’erano. «Ho visto i corpi di due bambini, forse di otto o dieci anni, non ne ho idea», ricorda Yoni. «C’era sangue ovunque, molti segni di spari, sapevo che era tutta colpa mia, che ero stato io a farlo. Volevo vomitare. Dopo pochi minuti è arrivato il comandante della compagnia e ha detto freddamente, come se non fosse un essere umano: “Sono entrati in una zona di sterminio, è colpa loro, la guerra è così.”» […] «Soffro di flashback di quell’evento», racconta. «I loro volti mi tornano in mente e non so se riuscirò mai a dimenticarli» (da https://www.haaretz.com/israel-news/2025-09-16/ty-article-magazine/.premium/i-saw-the-bodies-of-children-moral-injury-and-mental-strain-breaking-idf-soldiers).

Riteniamo che l’organizzazione di questo evento rappresenti una perversione totale della missione educativa delle scuole delle nostre comunità.

Chiediamo le dimissioni immediate degli assessori alle Scuole e delle altre persone responsabili.

E proponiamo come necessaria l’organizzazione per gli studenti di un incontro con associazioni di refusnik israeliani e altre organizzazioni che si oppongono all’approccio militarista e di continua disumanizzazione dei palestinesi. Accanto a loro, potrebbero essere invitati esponenti di molte organizzazioni israeliane e palestinesi che non esitano ad affrontare insieme anche gli aspetti più dolorosi di quello che sta succedendo, per capire cosa possono fare per un futuro di giustizia.

E questo non per realizzare una “par condicio” amorale, ma perché riteniamo che, se le scuole ebraiche intendono inculcare valori civili ed ebraici e al contempo una conoscenza ragionata della società israeliana, non c’è di meglio che conoscere i ragazzi che incarnano questi valori nel modo più puro oggi possibile: rifiutandosi, a rischio di un forte costo personale, di partecipare al massacro. Crediamo che non promuovere e supportare il loro lavoro sia un grande errore e porti le comunità a un isolamento autoindotto. Ci rendiamo fin d’ora disponibili a collaborare alla realizzazione di queste proposte.

Shanà tovà e un cordiale Shalom.

Le reti speravano in una risposta “equilibrata”, pur nella consapevolezza della diversità delle posizioni culturali e politiche del mondo ebraico ufficiale rispetto alle nostre.

Invece l’UCEI non si è espressa, e il silenzio è calato anche su altri episodi recenti:

– una squadraccia capitanata dal noto Riccardo Pacifici, esponente della Comunità ebraica romana, ha aggredito gli studenti di un liceo che confina con la sinagoga di Roma; alcuni sono finiti all’ospedale, e gli insegnanti della scuola testimoniano la brutalità dell’aggressione.

– La ministra Roccella, in un convegno cui partecipavano anche la presidente UCEI e l’assessore alla Comunicazione, ha dichiarato che le «gite» ad Auschwitz sono state «incoraggiate e valorizzate» perché avevano come bersaglio «una precisa area storico-politica», quella fascista, affermando quindi che le «gite» servono solo a ribadire «che l’antisemitismo è solo una questione degli antifascisti».

– Un inquietante pdl a firma Gasparri, che segue la presentazione di altri due progetti a firma Lega e Italia Viva, potrebbe condurre a definire “antisemita” qualsivoglia manifestazione di dissenso nei confronti del governo israeliano da parte di chiunque – movimento, associazione, partito – e in qualsivoglia azione/iniziativa pubblica, colpendo preventivamente i soggetti.

A breve si terranno in Italia le elezioni del nuovo Consiglio dell’UCEI, nonché dei Consigli delle Comunità ebraiche italiane. E allora ci si chiede: dove sta andando l’UCEI?

da la Repubblica

Edith Bruck è nel suo salotto circondata da due mazzi di roselline bianche. Rinuncia al caffè, ma non a una sigaretta leggera. Ha ascoltato le dichiarazioni di Eugenia Roccella. Fa un sorriso mesto. Dice piano: «Non sono gite». Non sono gite i viaggi della memoria ad Auschwitz, se hanno un limite è quello di non riuscire a mostrare tutto: «Sono tornata a Dachau, ma non c’è più niente: è rimasto solo il forno crematorio e giù in fondo, le docce. Non ci sono le baracche, tutte distrutte». E invece bisogna vedere come dentro al memoriale di Auschwitz, «le montagne di scarpe, le migliaia di occhiali. Ricordo i corpi accatastati che mi sono trovata davanti l’ultimo giorno a Bergen Belsen, una Tour Eiffel di cadaveri».

Esce oggi per La Nave di Teseo l’ultimo libro della scrittrice di origine ungherese che ha scelto la nostra lingua per poter dire l’orrore. Perché come ama ripetere «la carta sopporta tutto». Si intitola L’amica tedesca, è una storia in cui il suo dolore di sopravvissuta incontra il dolore di chi della guerra non sapeva nulla.

Ha sentito le parole della ministra Roccella. Possiamo considerare la memoria dell’Olocausto come qualcosa di parte, coltivata solo per accusare il fascismo?

Primo Levi diceva: noi possiamo raccontare mille volte, ma non sarà mai comprensibile quel che è accaduto. Nonostante questo, ho passato gli ultimi sessant’anni della mia vita ad andare a parlare nelle scuole, con i ragazzi, ed è così importante farlo. Non per noi, ma per loro.

Sono in grado di capire?

Ho sempre parlato davanti a platee mute e in ascolto. A volte, accanto a qualche ragazzo che piangeva con me. Non so dire quanto sia grata di quegli incontri. E delle valanghe di lettere che mi scrivono ancora. Un giorno in un liceo un professore mi ha detto: signora Bruck, si ricorda di me? Era venuta a parlare nella mia scuola. Ora che sono caduta e non riesco ad andare, faccio con Zoom, ma finché avrò vita e voce non smetterò a parlare della Shoah.

Il governo vuole sminuire le colpe del fascismo?

Lo fanno da sempre. Nelle scuole, a parte questi incontri, cosa si insegna? Se ne parla poco e male. Da subito dopo la guerra nessun paese ha voluto confrontarsi con i propri delitti. Né l’Italia, né l’Ungheria. Forse, paradossalmente, a farlo più di tutti è stata la Germania. Noi sopravvissuti volevamo parlare, dovevamo liberarci di questa colpa – essere vivi – ma nessuno voleva ascoltarci. Dicevano: anche noi abbiamo sofferto la fame, anche noi abbiamo avuto i bombardamenti.

Ha visto l’accordo di pace, il rilascio degli ostaggi?

È qualcosa, certo, ma non riesco a fidarmi. Netanyahu ha fatto un grande danno con le sue dichiarazioni e la sua politica. In Europa l’antisemitismo si è acceso di nuovo, diventando uno tsunami. Mi è molto dispiaciuto vedere che a Bologna il palazzo municipale abbia esposto la bandiera palestinese, e non quella israeliana. Se vuoi la pace, devi volerla per tutti.

Perché non si fida?

Più si uccide, più si muore. Non puoi non morire un po’ dentro quando spari in faccia a qualcuno, un altro come te. E quindi con questa guerra senza fine ci stiamo tutti suicidando. La nostra umanità sta morendo. Ed è un dramma perché non c’è alcun rispetto per la vita in sé, non si rendono conto di quanto sia preziosa, di quanto – quando è in pericolo come lo era per noi ogni giorno nei campi – si sia disposti a fare qualsiasi cosa per difenderla.

Perché non se ne rendono conto?

Perché dal 1948 ci sono state solo guerre e odio. C’è stato un tentativo, poi hanno ucciso Rabin e siamo tornati indietro. Quante generazioni da allora sono cresciute nell’odio? Dico da sessant’anni, non da oggi, che non ci sarà pace finché non ci saranno due stati e due popoli.

L’amica tedesca è un romanzo che parla di un incontro difficile per lei. Lo aveva scritto molti anni fa, ma glielo avevano rifiutato.

Un editore di Firenze mi aveva detto che era un romanzo per lesbiche e io ci ero rimasta malissimo. Nessuno mi aveva mai rifiutato un romanzo, mi ero offesa come una bambina. Poi mio marito Nelo Risi mi fece l’elenco di tutte le opere di grandi scrittori rifiutate, a cominciare dal Gattopardo!

Perché era così difficile per lei avere una amica tedesca?

Non so descriverlo, ma perfino la voce, il suono della lingua, al principio mi feriva. Quando sentivo halt, o schnell, “rapido”, mi impietrivo perché mi sembrava di essere tornata al campo. Questa ragazza, che nella realtà si chiamava Brigitte, non sapeva nulla della guerra. Lo sceneggiatore con cui viveva le aveva fatto leggere il mio primo romanzo e lei aveva scoperto all’improvviso cos’era successo nel suo Paese, cosa aveva fatto quell’Hitler la cui foto sua madre teneva sul comodino, e prese a tempestarmi. Avrà bussato trenta volte alla mia porta prima che le aprissi.

Anche la vita di lei, nata nel 1945, era piena di dolore.

La madre aveva fatto tre figli con tre soldati diversi per darli a Hitler, che venerava. Poi li aveva lasciati a varie famiglie affidatarie. Brigitte era finita con padri che la abusavano, ma le mogli prendevano le loro parti e la accusavano di mentire. Come accade anche oggi, quando non si crede alle donne vittime di violenza, e si rovesciano le colpe.

Brigitte era omosessuale, il suo affetto per lei era fortissimo, non era questo però a turbarla.

No, per me era difficile stabilire un rapporto vero con una tedesca e mi stupivo di me stessa perché io non sono così. Ma la diversità – chi sei, chi ami – non mi ha mai turbata. Da quando sono venuta al mondo ho sentito che ogni vita è preziosa, e non ci sono persone di serie A, B, C.

da Casa delle donne di Milano

Luisa Cetti
Luisa Cetti

Ciao Luisa… Ti ho salutato così fino all’altro ieri, come tante altre compagne e amiche della Casa e non solo. Dovevamo vederci ieri pomeriggio, domenica 12 ottobre, a un concerto all’Auditorium, con altre amiche e amici. Ero po’ in ritardo, ti ho chiamato senza avere risposta, ho pensato: chissà, forse è già in sala e ha spento il telefono. O non ha sentito.

Poi, mentre ascoltavamo la Quarta sinfonia di Brahms, abbiamo cominciato a preoccuparci. Non era da lei, non avvertire. Era molto attenta e puntuale, ci aveva detto che dopo il concerto avremmo potuto fare un aperitivo da lei, che abitava a poca distanza. Quante volte eravamo state invitate a casa sua, in via Pietro Custodi, nel grande soggiorno affacciato sul retro, da cui andava e veniva il suo amato Micio Macho. Quanti compleanni e feste con gli amici fatti lì, in quello spazio luminoso.

Invece.

Ora scrivo di lei incredula e sconvolta. La conoscevo da più di cinquant’anni, siamo state compagne nei movimenti degli anni Settanta, nei Cub, in Avanguardia Operaia, nel movimento femminista. Abbiamo lavorato insieme dal 1974 al 1978 al “Quotidiano dei Lavoratori”. Lei poi aveva insegnato, vissuto negli Stati Uniti, studiato la storia di quel paese, delle donne pioniere dei diritti, dei movimenti. Ha pubblicato diversi libri per Sellerio, l’ultimo Storie di anime ribelli. Diritti e utopie nell’Ottocento americano uscito nel maggio scorso.

Il ricordo non può non partire da cinquant’anni fa. Eravamo impegnate, entusiaste, fiduciose nella possibilità di rivoluzionare il mondo, di far nascere un mondo migliore. Ragazze che si raccontavano anche gli amori e i progetti, le cose della vita. Non è stata facile la sua, anzi. Eppure sempre, in questi decenni, è stata sempre pronta ad aiutare tutte le amiche e compagne che avevano problemi. Le accompagnava negli ospedali, nelle visite, le invitava a rilassarsi nella sua bella casa sopra Tremezzo, sul lago di Como. Era buona e generosa.

Di lei vorrei ora ricordare soprattutto gli ultimi anni alla Casa delle Donne. Penso che siano stati tra i più felici e appaganti della sua vita.

Era socia della Casa dalla fondazione, nel 2014. Ma per vari motivi – i libri che scriveva, i soggiorni sul lago, dove la casa era diventata negli ultimi anni un bed & breakfast – non si era impegnata più di tanto. Poi, due anni e mezzo fa, aveva deciso di candidarsi al Consiglio Direttivo. Aveva maturato la decisione nei mesi precedenti. E l’aveva motivata, davanti a molte socie della Casa, con parole il cui senso era più o meno: «Dopo anni in cui ho seguito la Casa della Donne e ricevuto tanto, ho deciso che è il momento di restituire, di impegnarmi di più. Per questo mi candido al Direttivo».

Eletta senza avere il curriculum classico delle fondatrici o delle più attive, è stata in questi due anni e mezzo una presenza indispensabile nel Consiglio Direttivo di “noi sette”, come ci chiamiamo nelle password. Eravamo quasi tutte “nuove” a un’esperienza di gestione della Casa. Lei ci ha messo un grandissimo entusiasmo, con l’idea che la Casa dovesse essere aperta a tutte le donne, alla città, al mondo terribile con cui dobbiamo confrontarci. Aveva una caparbia volontà di cercare il positivo anche nelle peggiori tragedie cui quotidianamente assistiamo, come sanno le donne che hanno partecipato in questi mesi alla lettura dei giornali del mercoledì.

Partecipava attivamente ma sapeva anche “gestire gli eventi”: dal caffè alle cene, dai microfoni al mixer, sapeva fare ogni cosa. Tutte la ricordiamo arrivare ed esserci, sempre pronta e sorridente. Faceva i verbali, rispondeva alle richieste che arrivano ogni giorno alla Casa. Era disponibile in qualsiasi giorno e orario. Diceva sempre che l’esperienza del Consiglio Direttivo l’aveva arricchita molto, le aveva fatto conoscere realtà di donne e di mondo che non avrebbe mai avuto modo di incontrare altrimenti. Negli ultimi giorni insisteva sul fatto che candidarsi non era poi così difficile e impegnativo, che “si poteva fare” anche da socie senza particolari esperienze. Come era successo a lei.

Non potevamo immaginare che non ci fosse stasera, all’incontro (disdetto) del Direttivo con le socie per discutere di candidature. Né domani. Né nel prossimo Direttivo.

Ci mancherai, mi mancherai molto e molto mancherai alla Casa.

Addio Luisa, cara, generosa amica e compagna di sempre.

da L’Altravoce il Quotidiano

Francesca Albanese e Greta Thunberg sono due donne coraggiose e autorevoli, l’una “relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967”, l’altra, giovane svedese promotrice del movimento mondiale Fridays for Future contro il surriscaldamento globale. Oggi, entrambe sono oggetto di pesanti attacchi volti a delegittimarle, infangarle, screditarle e con false accuse renderle non credibili. Attacchi volti a farle zittire, con minacce, insulti, intimidazioni. Ma loro non si fanno zittire, parlano, vengono ascoltate e credute. Contro di loro si è scatenata una campagna di odio violentissima. L’una per aver denunciato e accusato, davanti alle Nazioni Unite con il suo report “Anatomia di un genocidio”, Israele e i suoi complici di apartheid, occupazione illegale dei territori palestinesi e di genocidio. L’altra per essersi imbarcata sulla Global Sumud Flotilla, condividendo la sorte dell’equipaggio. Entrambe sono state accusate di antisemitismo, di essere amiche dei terroristi, di essere al soldo di Hamas. Albanese è odiata per aver fatto i nomi delle “entità aziendali”, americane, israeliane e occidentali (produttori di armi, aziende tecnologiche, società di costruzione e edilizia, industrie estrattive e di servizi, banche, fondi pensioni, assicurazioni, università e organizzazioni di beneficenza) «che sono state a lungo coinvolte nel sostegno all’occupazione coloniale» e continuano a «sostenere, beneficiare e normalizzare un sistema economico legato al genocidio». Il segretario di Stato americano in una lettera alle Nazioni Unite ha chiesto la sua «immediata rimozione» dall’incarico per il suo «virulento antisemitismo e sostegno al terrorismo». L’ha accusata di essere bugiarda, di diffondere false notizie e che il suo rapporto «non è una difesa dei diritti umani ma una campagna diffamatoria». È stata sanzionata come «nemica di Israele, degli Stati Uniti e dell’Occidente». È stata citata in giudizio per diffamazione da un centro legale ebraico americano per aver elencato nel suo rapporto «organizzazioni caritatevoli cristiane» che «con le loro donazioni, hanno contribuito a progetti di sostegno agli insediamenti israeliani, tra cui la formazione di coloni estremisti». È stata attaccata per aver chiesto che la Corte di giustizia internazionale indaghi su queste «entità aziendali» che «traggono profitti dalla distruzione delle vite di persone innocenti» e per aver ricordato come «i processi agli industriali dopo l’Olocausto hanno gettato le basi per il riconoscimento della responsabilità penale internazionale dei dirigenti aziendali per la partecipazione a crimini internazionali».

Greta, da parte sua, è stata umiliata dai militari israeliani che dopo l’arrembaggio alla Flotilla in acque internazionali l’hanno costretta a gattonare e baciare la bandiera israeliana, nella quale poi l’hanno avvolta. Ha subito, come gli altri, maltrattamenti e abusi durante la prigionia di cui al momento non ha voluto parlare quando è atterrata ad Atene, dopo essere stata rilasciata. Ha accusato, anche lei, gli stati, le istituzioni, i media e le aziende di rendere possibile e alimentare il genocidio di Israele a Gaza. La marea umana che si è riversata nelle piazze di tutto il mondo sta con Albanese e Greta e mentre i militari israeliani abbordano l’altra Flotilla, carica di medicinali, medici, infermieri e giornalisti, tutti arrestati, le piazze tornano a riempirsi. Non si tratta, come ha detto Greta, di salvare i palestinesi, ma l’umanità dentro ognuna/o di noi. Umanità tradita, sbeffeggiata, insultata, criminalizzata, da chi, come il governo italiano, in questi anni è stato complice di genocidio e della distruzione di Gaza e oggi di fronte alla possibilità di porvi fine, ha la sfacciataggine di dire di aver sempre lavorato per la pace, ma la verità è più forte delle loro menzogne.

da il manifesto

Quando le bombe smettono di cadere, il mondo presume che la guerra sia finita e la chiama pace. Ma a Gaza il silenzio che segue il bombardamento non è pace; è l’inizio di un confronto con il vero dolore. Un cessate il fuoco non significa la fine, significa semplicemente che il rumore si è placato, permettendo alla voce del dolore di farsi sentire.

Nel momento in cui viene dichiarata la calma, la memoria inizia a parlare. Il padre che ha perso suo figlio si sveglia ogni mattina con la sua immagine. La donna che ha detto addio al marito martire impara a parlare all’assenza stessa. Il bambino sopravvissuto porta negli occhi il ricordo di una casa ridotta in cenere.

La fine della guerra a Gaza non è una vittoria, è un risveglio doloroso. Apriamo gli occhi sulla portata della perdita e reimpariamo a vivere senza ciò per cui un tempo vivevamo. Le case distrutte non si ricostruiscono facilmente nel cuore e i volti scomparsi non possono essere sostituiti dal silenzio o dalle promesse di ricostruzione.

Questa fragile calma che aleggia sulle rovine è lo spazio in cui gli abitanti di Gaza si confrontano con se stessi, scoprendo che la sopravvivenza non è conforto, ma una nuova responsabilità. Vivere dopo tutto questo significa portare il dolore di coloro che non ce l’hanno fatta.

Così, quando il fuoco si spegne, non inizia la pace, ma le parole. Parole di cuori afflitti, ricordi pesanti e persone che cercano la loro strada in una città sfinita dalla perdita. A Gaza, la fine della guerra non è la fine; è l’inizio di un altro capitolo di sofferenza silenziosa, non meno dolorosa dei bombardamenti.

La ricostruzione non inizia con le pietre, ma con i cuori. Le case possono essere ricostruite, ma chi ricostruisce gli esseri umani che vi abitavano? Come può una madre, che trema ancora al rumore del vento perché le ricorda le esplosioni, sentirsi di nuovo al sicuro? A Gaza, le persone riparano non solo i muri, ma anche le anime frantumate dalla paura incessante.

I bambini, tuttavia, sono una storia che non finisce mai. Quelli che hanno imparato a contare al suono dei razzi invece che con i numeri sui loro quaderni, e che hanno capito l’assenza prima di poter capire il futuro. Ogni notte, un genitore si siede accanto a loro, promettendo che la vita tornerà a sorridere, ma i loro occhi rivelano ciò che non può essere detto: la paura che i loro figli crescano credendo che la guerra sia normale.

Al mattino, dopo la guerra, il caffè non ha più il suo solito aroma; l’aria si mescola con la polvere e la cenere. La gente cammina lentamente, con il pane in mano e il peso dei ricordi nel cuore. Si fermano davanti alle rovine delle loro case, toccando le pietre come se fossero i volti dei loro cari, raccogliendo foto dalle macerie come se raccogliessero i frammenti dei propri cuori.

E la sera il silenzio non è tranquillo, ma carico del clamore nascosto delle domande e del dolore. Ogni finestra chiusa sussurra una storia, ogni strada in rovina racchiude l’eco di passi che non torneranno mai più. In questo silenzio, le anime parlano più di quanto le persone potrebbero mai fare.

«La guerra è finita», dicevano. Ma nei cuori non è mai finita. Dopo che il mondo era piombato nel silenzio, la voce del dolore si levò dapprima sommessa, poi chiara, come se provenisse dalle profondità. Una madre siede sulla soglia di una casa ridotta in macerie, fissando la strada da cui suo figlio tornava ogni sera. Un tempo riconosceva il suono dei suoi passi prima ancora di vederlo, ma ora ogni passo che sente risveglia in lei la falsa speranza che sia tornato. Stringe a sé i suoi piccoli vestiti trovati tra le macerie, premendoli sul petto come se cercasse di recuperare il calore della vita dalle ceneri. Il mondo è silenzioso, ma dentro di lei infuria una guerra che non cesserà mai, una guerra tra la memoria e l’oblio, tra l’amore e la perdita.

In un’altra casa, una ragazza è seduta accanto a una porta che non è stata aperta dalla sua partenza. La sua ultima promessa era stata quella di aspettarlo dopo la guerra, ma la guerra è finita e tutto è tornato come prima, tranne lui. Ogni sera parla alla sua fotografia, chiedendogli com’è andata la sua giornata, raccontandogli della città che sembra strana senza la sua voce. Impara che l’assenza non guarisce, e che la solitudine non sta nel vuoto, ma nella presenza di una persona cara solo nei ricordi. Non lo ha perso una volta quando è stato martirizzato, ma lo perde ogni giorno quando si sveglia e non lo trova.

Il bambino che è sopravvissuto da solo ora porta nei suoi occhi un’età superiore alla sua. La gente gli chiede il suo nome, ma lui rimane in silenzio, come se i nomi non avessero più alcun significato dopo che tutte le voci che lo chiamavano sono svanite. Cammina per le strade in rovina, alla ricerca di un volto familiare, di una mano che stringa la sua, di un abbraccio che gli restituisca un senso di sicurezza. A volte gioca tra le macerie, ma ogni risata porta con sé una scheggia di dolore. Piange raramente, forse perché le lacrime non bastano più per ciò che prova dentro.

Sì, la guerra è finita. Ma non ha lasciato i loro cuori. Vive ancora lì, nei dettagli di ogni giorno, negli sguardi, nel lungo silenzio prima di addormentarsi. A Gaza, la guerra non finisce con un cessate il fuoco; rimane dietro ogni sorriso spezzato, ogni cuore che cerca di reimparare a vivere dopo aver perso la vita stessa.

Ricordo la prima tregua annunciata nel gennaio 2025. La gente scese in strada per festeggiare, applaudendo e alzando la voce con gioia. Io, invece, piansi. Piansi con un dolore diverso dalle lacrime di sollievo, ma lacrime di oppressione.

Non sentivo che la guerra fosse finita; sentivo che ricominciava dentro di me. Vedevo negli occhi delle persone una speranza che non potevo raggiungere, ricordando la mia vecchia casa e la famiglia cancellata dall’esistenza, ricordando tutto ciò che si era fermato nella mia vita come se il tempo stesso si fosse congelato in quel primo momento di perdita. Mentre le voci si alzavano in segno di gioia, io sentivo solo il pesante silenzio che aleggiava tra le rovine del mio mondo interiore. Quel silenzio non può essere descritto, e non si può dire «La guerra è finita», perché sappiamo che non è ancora finita.

Eppure, continuo a credere che il cuore che ha pianto in profonda angoscia sia lo stesso cuore capace di risorgere dalle macerie. A Gaza, il dolore non finisce mai del tutto, ma impara a convivere con la vita. Portiamo con noi il nostro dolore non come un fardello, ma come prova che siamo ancora vivi.

Guardiamo il cielo ancora avvolto dal fumo, sussurrando dentro di noi: ricostruiremo. Non solo ciò che è stato distrutto intorno a noi, ma anche ciò che è stato spezzato dentro di noi. La vera pace, per noi, non è quando smettono di cadere le bombe, ma il giorno in cui potremo sorridere senza temere i ricordi.