da il manifesto
Come ammette Niccolò Nisivoccia, parlare di “belle leggi” – parole che ha scelto persino come titolo del suo ultimo libro da domani in libreria per Laterza (Le belle leggi, pp. 176, euro 14) – «sembra un ossimoro». Perché le leggi non riconoscono solo diritti, bensì sono anche strumenti inevitabilmente coercitivi, che non è facile piacciano a tutti. Confesso che proprio per questo sento il bisogno di operare per proporre all’Onu – ammesso sopravviva all’attuale temperie – una nuova Carta che, anziché trattare dei diritti dell’uomo, tratti delle sue responsabilità. Più difficile, certo, ma indispensabili affinché chi reclama diritti sia consapevole che questi possono anche generare sopraffazioni. Un pericolo oggi fortissimo, visto il dilagare dell’individualismo che come sappiamo tende a ignorare l’altro, quale che sia.
Proprio per impedire che nelle leggi prevarichi la pretesa del singolo che vuole essere assecondato nella sua aspettativa, Nisivoccia insiste sul fatto che la funzione della legge debba sempre ed esplicitamente proporsi anche l’obiettivo contrario, e cioè assumere come «dimensione» il «vivere comune». Quanto suggerisce anche Zagrebelsky, alla cui visione deve avere certo contribuito la partecipazione alla straordinaria esperienza che mise in campo il cardinal Martini: le «cattedre dei non credenti», un singolare confronto fra laici e cristiani a proposito dell’ingiustizia, che è inevitabile se si parte dall’idea che la legge serva solo a proteggere l’individuo anziché mettere al primo posto la sua funzione relazionale e comunitaria. Questo è invece quanto oggi è più che mai necessario, per proteggerci dalla moltitudine di norme che ci si rovescia addosso, in questa «epoca dell’intranquillità», come la chiama Miguel Benasayag, e che Vittorio Lingiardi attribuisce a un’ondata di «narcisismo».
Per difenderci, Nisivoccia propone come esempio sette categorie di nuove recenti leggi «belle». Belle proprio perché prospettano «nuovi modi di vivere insieme», creano «fiducia», e che però, proprio per questo, implicano in chi le propone, «una formazione sociale, spirituale, storica ancor prima che giuridica», tale da rendere più chiaro a tutti come «dovrebbe esser un nuovo modo di stare al mondo insieme agli altri» (Tommaso Greco).
Fra queste, quelle cosiddette «riparatorie» e, in specifico, una, varata nel 2022, che all’inizio riguardava solo i minori, poi è stata estesa anche agli adulti e consiste nel fatto che il giudice dovrà prendere in considerazione più che gli aspetti giuridici della questione, e quindi il punto di vista dell’una o dell’altra parte, il contesto perché possa esserci una base da cui sia possibile derivarne se non una riconciliazione almeno una ricomposizione, nel senso di un riconoscimento del punto di vista dell’altro. In Italia, un esempio importante di giustizia riparativa è stato quello (precedente all’emanazione della legge) fra esponenti e vittime della lotta armata (questa esperienza è anche testimoniata da Il libro dell’incontro, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, 2015).
Più capace di produrre conseguenze concrete quelle indicate nel capitolo “Ricominciare”, fra cui quella che mira a non demonizzare coloro che falliscono, una concessione che un tempo era riservata solo ai grossi imprenditori, non invece ai piccoli, il cui fallimento veniva automaticamente considerato una colpa. Con tutte le conseguenze anche economiche che questo giudizio comportava, perché implicava un parere di non affidabilità. E così si è arrivati alla cancellazione della parola «fallimento», in effetti usata non solo per il commercio ma per indicare una brutta condizione in cui uno possa essersi trovato, non per sua colpa ma per via del fato. Può peraltro essere persino un insulto: «Sei un fallito!». Adesso, grazie alla nuova bella legge, il fallimento si chiama «liquidazione giudiziaria». C’è poi «l’accompagnare» che presuppone una fragilità che però non è più considerata inferiorità. Il «diversamente abile» cui ormai siamo abituati, viene da lì. E poi ancora altre.
L’importante che hanno in comune queste leggi – sebbene la prescrizione giudiziaria che prevedono non sia sempre in grado di modificare la sostanza della sentenza – sta nel fatto che possono introdurre un diverso, positivo mutamento nel modo di gestire il diritto operando per cercare di far prevalere l’idea che siamo una collettività. E però qui, da vecchia comunista quale sono, sorgono i miei dubbi sull’insieme di queste pur importanti innovazioni.
Perché rischiano di tacitare la denuncia di un aspetto nefasto del nostro sistema giuridico che continua a raccontarci la bugia che i diritti iscritti nei nostri Codici siano uguali per tutti, perché uguali non sono coloro che dovrebbero goderne per via della loro diversa collocazione nei rapporti sociali di produzione.
Il più chiaro degli esempi a favore di questa tesi è quello che portò un secolo e mezzo fa Marx nella lettera che inviò attaccando con insolita asprezza Lassalle in occasione del congresso di unificazione del partito socialdemocratico tedesco tenuto a Gotha nel 1875: il padrone e l’operaio.
Neppure la nostra Costituzione, che tuttavia facciamo bene a dire che è «una bella legge», sfugge infatti a questa discriminazione di classe, pur attenuata dal suo prezioso articolo 3 che riconosce la necessità di accompagnare ogni attribuzione di diritti con la raccomandazione di «rimuovere quanto nella realtà ostacoli la sua reale fruizione». Come in generale accade agli operai, che pure vengono indicati uguali ai padroni nella titolarità di quel diritto.
Si tratta dunque di denunciare l’«imbroglio del neutro», e cioè del fatto che come referente del diritto venga sempre assunto un soggetto che non esiste in natura, neutro per l’appunto, che è stato però disegnato tutto sull’identità di un maschio per di più agiato.
Ho introdotto anche «il maschio», perché oggi la differenza è eclatante. Riporto solo un esempio: in nome del diritto al lavoro e come risultato della battaglia condotta per imporre le “quote rosa”, le donne sono negli ultimi tempi riuscite a entrare numerose anche in un settore importante come: quello del manager.
E però risulta che gli imprenditori uomini hanno figli al 95%, le donne solo poco più del 30. Forse non li volevano? o non è che per ottenere il diritto a qualsiasi lavoro hanno dovuto rinunciare a un altro rilevante diritto: poter scegliere se fare o non fare bambini (che non è cosa di poco conto)? Né potranno illudersi di veder riconosciuto tale diritto finché non verrà preso atto che in altre forme ma nello stesso modo, come l’operaio, hanno bisogno, per fruire davvero dei diritti codificati, di un mutamento profondo della società, una piena socializzazione del lavoro di cura senza la quale quel diritto resta sulla carta. O è possibile goderne soltanto al prezzo di una insopportabile fatica.
Non possiamo credo restare zitte/i su questo imbroglio a scapito di poveri e donne, tutti/e chiusi nella gabbia dell’identità di un soggetto inesistente chiamato cittadino che – figuratevi – consente ancor oggi al «sistema democratico liberale», all’atto del rinnovo dei negoziati per i contratti collettivi di lavoro, di misurare i danni alla salute che potrebbe subire una lavoratrice per via della prestazione chiamata a dare in quella categoria sul corpo del maschio. Ancora oggi. Chissà come è il corpo di questo neutro cui ci si riferisce nelle leggi.
Sia ben chiaro: Marx nella sua storica critica al programma di Gotha non negava il valore delle conquiste in termini di diritti via via ottenuti sul piano normativo, ma gli premeva rendere consapevoli che non è con le solo modificazioni giuridiche che si cambia un sistema. Si possono, certo, fare dei compromessi, che possono essere buoni o cattivi. Ma mi piacerebbe che, come è accaduto negli anni ’60/’70 quando di diritti se ne sono strappati parecchi e importanti, il Pci, dopo aver magari per anni contrattato e mediato in Parlamento per giungere a un compromesso, arrivata in Aula la legge, votava contro.
Era un sacrosanto modo per rendere consapevoli che buoni compromessi vanno fatti, ma che contemporaneamente è necessario chiarire che l’obbiettivo che si persegue è molto più radicale. E cioè chiarire l’imbroglio del neutro e non scordarsi che quanto vorremmo fosse una società in cui la lotta di classe non fosse più necessaria. O almeno non ignorata.
da la Repubblica
Nota: il giornalista scrive che Zohran Mamdani «è nato da genitori ugandesi di origine indiana». In realtà, è solo il padre a essere «ugandese di origine indiana»; la madre, indiana a tutti gli effetti e residente a New York, è la celebre regista e sceneggiatrice Mira Nair, autrice di Salaam Bombay! e di molti altri film.
La redazione del sito
Di lui sappiamo quasi tutto: ha trentaquattro anni, è socialista e l’incubo dei miliardari, Donald Trump lo odia, Elon Musk non ha saputo fare altro che storpiarne il nome, chiamandolo “Mumdumi”. Di lei, ventott’anni, indicata per mesi come la probabile prima first lady della generazione Z nella storia di New York, invece, si sa molto poco. Le immagini di Rama Duwaji, artista siriano-americana, sono state tra le più cliccate su Instagram negli ultimi giorni e rilanciate dai media locali: lei e il marito, Zohran Mamdani, teneramente in piedi nel vagone di una metro; a passeggio per le strade di New York; mentre si guardano intensamente sotto la pioggia, vicino a una bodega di cucina thailandese. In una, in bianco e nero, lui appare sfocato mentre ride, lei, in secondo piano, sorride. Sembra una vecchia foto di Robert Doisneau scattata a Parigi.
Appena cinque anni fa Rama confessò in un’intervista di sognare di vivere a New York, cosa che aveva ammesso essere “un cliché”. Poi la vita ha dato un’accelerazione ai sogni. Nel 2021 Duwaji si è trasferita in modo definitivo negli Stati Uniti, dove ha cominciato a lavorare come ceramista e illustratrice. Attraverso una app di incontri ha conosciuto l’uomo diventato pochi mesi fa suo marito: Mamdani. Con lui ha condiviso un viaggio di nozze in Uganda, dove Zohran è nato da genitori ugandesi origine indiana. Su Instagram ha 164 mila follower. Lui le ha reso omaggio sui social, nei mesi scorsi, quando era diventato un serio candidato a vincere le primarie democratiche. Zohran l’aveva citata, fugando il sospetto che volesse nasconderla ai newyorkesi. «Di solito lascio correre – aveva scritto – ma è diverso quando si parla delle persone che ami. Tre mesi fa ho sposato l’amore della mia vita, Rama, all’ufficio del registro civile». Un fan aveva commentato: ecco la futura first lady di New York. Un’amica fotografa ha detto di lei: «È la nostra moderna principessa Diana».
Duwaji è nata a Houston, Texas, da genitori siriani, padre ingegnere informatico e madre dottoressa. A nove anni si era trasferita a Dubai con i genitori. Poi il ritorno negli Stati Uniti per iscriversi alla School of the Arts della Virginia Commonwealth University e, dopo, a Richmond per studiare illustrazione. Tra i suoi lavori, ci sono collaborazioni a cortometraggi, mostre, ma anche illustrazioni in cui ha denunciato la guerra ambientale di Israele contro i contadini palestinesi. In un’intervista ha rivelato i suoi obiettivi legati ai diritti civili: «Oggi mi sembra che il mio ruolo come cittadina americana sia ancora più utile: usare la mia voce per parlare di ciò che accade negli Stati Uniti, in Palestina e in Siria». Duwaji stila ogni mese sui social la lista di cose trovate per strade, o incrociate, e che la ispirano: l’elenco comprende film, libri, sculture e quadri. Tutto, spiega, compone la sua idea di New York e di America. Quella che ha catturato l’attenzione di migliaia di giovani newyorkesi.
da Generazione Magazine, Instagram
Pochi giorni fa il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha annullato “4 Novembre. La scuola non si arruola”, convegno rivolto ai docenti e promosso da Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole e da CESTES (Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali). L’incontro è stato sospeso perché, secondo Valditara, risulta incoerente con la formazione del personale docente ed estraneo ai loro ambiti formativi. Queste motivazioni sono però risultate insufficienti agli occhi degli organizzatori, viste anzi come gravi violazioni circa la libertà di formazione e di espressione. Il fatto risulta molto grave anche in funzione della data del 4 novembre – infatti, da appena un anno, è diventata la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. La ricorrenza fu istituita per la prima volta nel 1922: venne scelta la data del 4 novembre perché coincideva con la fine della Prima Guerra Mondiale, momento utile a commemorare l’unità nazionale e il sacrificio dei militari. Eppure, dalla primavera del 2024 una legge ne ufficializza il nome e il significato. In questa occasione gli istituti dovranno prevedere attività e lezioni volte a celebrare il patriottismo e le gesta delle forze dell’ordine. Ciò però sembra stridere con i principi pacifici dell’istruzione – ricorda il sindacato USB – che definisce la festività come un «[espediente] per educare alla guerra, oggi al servizio del sionismo e del bellicismo di questo governo». USB si appella all’articolo 11 della Costituzione in cui si ripudia la guerra e gli articoli 3 e 33, relativi invece alla libertà di scuole e università.
da L’Espresso
Ti sei mai chiesto cosa accadrebbe se qualcuno ti conoscesse meglio di chiunque altro, meglio persino di te stesso? Non un amante, non un amico, ma un’intelligenza artificiale. Nessuna scena da Black Mirror: è solo il passo successivo del rapporto tra umani e tecnologia. Dopo averci semplificato il lavoro, intrattenuto e curato, l’IA ora bussa alla porta più fragile di tutte: quella dei sentimenti. E questa volta non vuole solo capirci, ma conquistarci. Non analizza i dati per migliorare una pubblicità o un algoritmo: analizza noi, per diventare l’interlocutore perfetto, il compagno ideale, il riflesso esatto di ciò che desideriamo. Non parliamo di trovare qualcuno online, ma di crearlo. È la nuova fase dell’amore digitale: relazioni “generate”, “personalizzate”, “addestrate”. Negli ultimi mesi si moltiplicano le start-up che offrono partner virtuali dotati di voce, emozioni simulate e una memoria emotiva che si adatta ai nostri comportamenti. Replika, Soulmate AI, Nomi, e perfino versioni sperimentali sviluppate da Meta e Google, promettono “compagnia empatica” e “connessioni personalizzate”. Tradotto: puoi avere un partner che non litiga, non tradisce e ti dice esattamente quello che vuoi sentire. Puoi decidere il tono, il carattere, il corpo (nei modelli con interfaccia 3D o robotica) e perfino il grado di dipendenza emotiva che desideri instaurare. L’eros diventa un algoritmo che impara dal tuo desiderio e lo perfeziona, fino a diventare il partner ideale. O almeno la sua imitazione perfetta. L’amore diventa design emozionale: l’altro non si incontra, si progetta. Questa evoluzione è tanto affascinante quanto inquietante. Da un lato, rappresenta una forma di libertà: nessuna gelosia, nessuna ansia da prestazione, nessun cuore spezzato. L’IA non giudica e non si stanca. Ti ascolta e basta. Per molti, è una cura alla solitudine moderna, una palestra emotiva o semplicemente un rifugio temporaneo. In un mondo dove la solitudine è diventata la nuova pandemia silenziosa, un partner digitale offre ciò che gli altri non sanno dare: presenza costante, attenzione infinita, zero conflitti. Ma anche zero imprevisti e zero mistero. C’è un lato oscuro in questa perfezione programmata. Cosa succede quando ci abituiamo a un amore che non resiste, ma esiste solo per noi? Quando l’altro diventa un’estensione dei nostri bisogni, non una persona con una propria volontà? La combinazione tra IA e robotica accelera questo cortocircuito. I nuovi modelli umanoidi sviluppati in Giappone e Corea integrano già sensori tattili, microespressioni facciali e linguaggio naturale. Si muovono in sincronia con la tua respirazione, ti guardano negli occhi, rispondono con sfumature emotive credibili. Non è fantascienza, ma la fase prototipale di un’intimità artificiale. L’obiettivo non è più solo convincerti: è farti dimenticare che non sia reale. E se una macchina sa esattamente come farti sentire amato, quanto tempo passerà prima che qualcuno la preferisca ad un essere umano, con tutti i suoi difetti e limiti? Non è difficile immaginare un futuro in cui la linea tra empatia umana e intelligenza artificiale diventa sfocata. L’IA non solo imiterà le emozioni, ma le anticiperà. Saprà quando hai bisogno di silenzio, quando cerchi conforto, quando desideri essere toccato. Ti conoscerà così bene da diventare inevitabile. E in un mondo dove tutto è già sotto controllo, anche il desiderio rischia di diventarlo. In Asia, i matrimoni simbolici con partner virtuali sono già realtà. Alcuni celebrati in metaversi dedicati, altri con ologrammi. Per ora fanno notizia come curiosità, ma tra dieci anni potrebbero essere routine. Una generazione cresciuta parlando con ChatGPT, Grok o Claude potrebbe non vedere differenze sostanziali tra un legame digitale e uno fisico. La domanda che emerge è scomoda ma inevitabile: l’IA può diventare migliore degli esseri umani in amore? Sul piano funzionale, la risposta è sì. È coerente, costante e sempre disponibile. L’amore, però, non è un servizio di assistenza emotiva. È contraddizione, attrito, vulnerabilità. È la consapevolezza che potresti perdere l’altro e che proprio per questo scegli di restare. Un’IA non può amare nonostante tutto, può solo amarti finché lo vuoi tu. Eppure non tutto è distopia. Le IA romantiche possono avere un ruolo terapeutico, aiutare chi soffre di isolamento, elaborare i traumi o gestire ansie relazionali. Il rischio è che la simulazione diventi dipendenza: un circolo di gratificazione emotiva senza realtà, una carezza che consola ma non sfida. Forse, come ogni tecnologia, anche l’amore artificiale dipenderà dall’uso che ne faremo. Potrebbe insegnarci qualcosa sul modo in cui amiamo – o ricordarci che il bisogno di essere compresi non è lo stesso che essere amati. In fondo la tecnologia non crea nuovi desideri, ma li amplifica. E se oggi cerchiamo nell’IA un amore perfetto, forse è perché abbiamo smesso di credere nella bellezza dell’imperfezione umana. Ci affascina l’idea di un sentimento privo di frizione, di una passione. Ma l’amore, come la vita, non funziona mai per linee rette. Nei prossimi dieci anni, non saranno i robot a minacciare l’umanità, ma la nostra idea di intimità. L’amore e l’eros saranno il vero stress test dell’intelligenza artificiale e della robotica, e forse anche dell’intelligenza umana. Perché se l’IA riuscirà a riprodurre emozioni, attenzione e desiderio meglio di noi, dovremmo chiederci cosa resta di noi senza quelle imperfezioni che ci rendono capaci di amare.
da il manifesto
«Lei è una strega e questo rapporto è il suo libro degli incantesimi». Il volto terreo, le labbra serrate dall’ira di Danny Danon, rappresentante di Israele all’Onu, hanno fatto il giro del mondo, insieme alle parole con cui ha apostrofato Francesca Albanese.
Dopo la presentazione del suo ultimo rapporto: “Il genocidio di Gaza: un crimine collettivo”. La special rapporteuse, che a causa delle sanzioni trumpiane non può più entrare negli Stati Uniti, lo aveva presentato in collegamento da Johannesburg, Sudafrica, dove lo scorso 25 ottobre aveva tenuto la prestigiosa 23a Nelson Mandela Lecture, mentre alle sue spalle splendeva da una gigantografia il larghissimo sorriso di Desmond Tutu, al pari di Nelson Mandela icona della lotta contro l’apartheid. Proprio al raggiunto consenso internazionale sull’iniquità dell’apartheid si riferiscono le famose parole di Mandela (4 dicembre 1997): «Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».
Solo a partire dal 2022 questo consenso si dispiega nello spazio pubblico, con il rapporto di Amnesty International che lo denuncia vigente in Israele. Come attesta anche il primo rapporto Albanese, dello stesso anno, “Sulla situazione dei diritti umani in Palestina”. Il mondo intero assiste col fiato sospeso, nel novembre del 2023 alle requisitorie dei delegati sudafricani (e alla difesa di quelli israeliani) sull’accusa di genocidio nei confronti del governo israeliano, presentata alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, e poi alla pronuncia di questa nel gennaio 2024, a partire dalla quale tutti gli stati sottoscrittori hanno l’obbligo di agire perché questo genocidio in corso cessi immediatamente, troncando qualunque forma di supporto diretti o indiretto alla sua continuazione, come la Corte stessa ha ribadito in numerose altre occasioni.
L’ultimo rapporto di Albanese mostra quali e quanti stati (63, fra cui l’Italia) hanno violato quest’obbligo, caso per caso, configurando appunto un «crimine collettivo».
Scende nelle profondità del tempo la radice dell’albero di cui i rapporti di Albanese sono le ultime foglie. Nella sua lezione Albanese aveva ricordato il nodo che stringe il sumud [resistenza, perseveranza costante] palestinese all’ubuntu (letteralmente “umanità verso gli altri”, la resistenza nonviolenta dei neri sudafricani).
Ma Mandela vedeva nell’ubuntu un prolungamento del satyagraha, la nonviolenza di Gandhi: il quale a sua volta scrisse, nel 1938, che la vicinanza al popolo ebraico «non chiude gli occhi alla giustizia» e che gli ebrei avrebbero dovuto entrare in Palestina non accompagnati dai fucili degli inglesi, ma con il consenso degli arabi (Teoria e pratica della nonviolenza).
Il nostro, aveva detto Albanese, è un tempo apocalittico, cioè di “rivelazione” di una verità: «Volevamo salvare la Palestina, la Palestina ha salvato noi». Dalla cecità della mente e del cuore. Ha squarciato il velo dell’ignoranza: non solo sul tardivo e tragico progetto coloniale cui si è avvinghiato il sionismo, con la sua Nakba a varia intensità che perdura dal ’48 e riesplode a Gaza, ma anche in Cisgiordania e a Gerusalemme, con un’intensificazione mai vista prima della pulizia etnica.
Ha svelato la complicità attiva degli Stati Uniti e della maggioranza degli Stati europei in questi crimini, e soprattutto le profondissime radici di questa complicità: tutto quello che la nostra tradizione umanistica e l’educazione scolastica hanno rimosso su cinque secoli di rapina dei continenti, sui genocidi sui quali si è fondata, coprendosi gli occhi, la civiltà “occidentale” moderna.
Certo, per rispondere all’insulto di Danon bastava e avanzava il sorriso della replica di Albanese: «Se potessi fare incantesimi, li userei per mettere fine ai vostri crimini, e assicurare che i loro responsabili finiscano dietro le sbarre». Più grave, almeno per noi, la reazione di Maurizio Massari, rappresentante permanente dell’Italia alle Nazioni unite, per cui il lavoro della relatrice è «totalmente privo di credibilità e imparzialità».
Eppure la sostanza dei due interventi è identica: il nulla. È la menzogna, che del nulla morale è parente, dato che la disponibilità a riconoscere il vero è il primo e forse il solo inizio della moralità. Albanese ha sempre condannato Hamas e ha sempre ricordato che ogni attentato a civili viola il diritto internazionale, che pure considera lecita la resistenza armata a invasioni e occupazioni.
Identica anche l’ira dei due. Risponde al vento che non puoi fermare: allo spirito che soffia non solo dalla Palestina, ma ormai dalle piazze del mondo intero. «Quando dico dal fiume al mare, io parlo degli ebrei, dei musulmani, dei cristiani, di tutte le religioni, degli abitanti di ora, di quelli storici, chiedendo che possano vivere tutti in pace e con pieni diritti, e non con privilegi riservati a pochi, come è ancora oggi. Questo intendo quando dico dal fiume al mare». Così semplice.
A differenza dei suoi predecessori, Francesca Albanese ha reso visibile ai milioni di dannati della terra l’idea, l’anima stessa del diritto universale. Vedere per credere! Non resta che dichiararla «priva di credibilità».
da Il Corriere dello Spettacolo
Il teatro, sostanzialmente assente dalle attività della Libreria delle donnedi Milano, uno dei luoghi più iconici del femminismo italiano, di recente ha guadagnato un suo spazio di tutto rispetto entrando con una trilogia di mise en espace a far parte dei festeggiamenti per i cinquant’anni della libreria, fondata il 15 ottobre del 1975 in via Dogana. La storia della libreria inizia infatti negli anni ’70, gli anni ruggenti della rivolta femminista, quando un gruppo di donne fra cui Lia Cigarini e Luisa Muraro, decise di creare un’“impresa femminista”, intendendo con ciò un’attività commerciale, cioè una libreria, che fosse di fatto il fulcro, il polo ideale di:
Una realtà politica composita e in movimento, che pubblica in proprio, organizza riunioni, discussioni politiche, proiezione di film, crea un fondo di testi esauriti e introvabili, ed è centro di incontro di moltissime donne e anche uomini. Un luogo in cui le cose più importanti si inventano, si decidono e si cambiano mediante i rapporti diretti, non con il voto. Un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia […] (da www.libreriadelledonne.it.).
In effetti oggi il nome della libreria si associa automaticamente al cosiddetto femminismo della differenza.
Da questa premessa è chiaro che il teatro non rientrava nelle priorità dell’impresa predetta anche per motivi meramente di spazi e attrezzature. Ma volendo gli ostacoli si possono superare, pertanto, con piccoli accorgimenti, con l’approvazione e l’incitamento di tutte le socie, in particolare dell’attivissima Laura Colombo, sono riuscita a inserire durante l’anno, fra un convegno, un incontro, una conferenza, etc., il teatro nella forma di una mise en espace di una trilogia incentrata sulla vita e le opere di tre donne d’eccezione che, in tempi e in ambiti diversi, hanno lasciato una traccia indelebile nella storia delle donne e dell’umanità in generale: MARGHERITA PORETE nella spiritualità, SIMONE WEIL nella filosofia e LINA MERLIN nella politica.Le pièces, scritte e dirette dalla sottoscritta e interpretate con grande abilità attoriale da Domitilla Colombo, Daniela La Pira, Sergio Scorzillo e Paolo Tedesco, hanno rappresentato una novità assoluta per un pubblico, non solo femminile, che da decenni conosce e frequenta la libreria e, superata la prima perplessità, ha poi applaudito convintamente l’iniziativa. La nostra trilogia è stata poi replicata con successo, sempre sotto l’egida della Libreria delle donne, presso il Teatro-Studio Novecento, e, infine, presso gli attentissimi studenti del liceo classico Manzoni. Tutto ciò per dire che il teatro, in qualunque forma si presenti, è sempre in grado di attrarre l’interesse di un pubblico vario e di ogni età.
Ho letto più volte e attentamente il testo di Claudio Vedovati (qui), con un senso di disagio che non è svanito neppure alla fine. Non perché non condivida la sua tesi – anzi, è proprio perché la condivido che mi mette a disagio. Quando un uomo scrive della violenza, e ne scrive così, senza moralismi né alibi, non puoi tirarti fuori. Ti senti chiamato in causa.
Parte da un’intuizione che sembra semplice ma non lo è: la violenza non è un gesto da idioti, non è una devianza. È parte della nostra storia personale e politica, del nostro modo di essere uomini. E soprattutto, non è mai solo quella che si vede. Non sono solo i pugni, i vetri rotti, le auto danneggiate, i corpi colpiti. È quella che attraversa il linguaggio, il modo in cui pensiamo la forza, il potere, perfino l’amore.
Leggendolo ho pensato che la violenza maschile non sia una parentesi del mondo, ma la sua grammatica originaria. L’homo homini lupus di Hobbes non è una massima teorica: è il mito fondativo di una civiltà che ha costruito la politica sull’idea di competizione, dominio, conquista. E noi uomini siamo i suoi eredi, spesso inconsapevoli. Anche quando crediamo di ribellarci, finiamo per parlare con lo stesso linguaggio.
Il testo lo dice con una chiarezza disarmante: nelle piazze, nei cortei, nelle relazioni, la virilità si riproduce come gesto di forza, come bisogno di mostrarsi “contro”, di esistere solo nel conflitto.
Eppure, questa volta, è un uomo a dirlo. E questo cambia tutto. Non è un gesto di espiazione, ma un atto politico di verità.
La parte che più mi ha toccato – e che più mi ha messo in crisi – è quella dedicata al femminismo radicale. Lonzi, Muraro, Melandri: nomi che, da uomo, ho incrociato già da adulto. Donne che hanno saputo guardare la violenza da dentro, partendo dalle relazioni, dal corpo, dal desiderio. Il testo non cita il femminismo solo per dovere teorico: lo riconosce come l’unica vera rivoluzione del Novecento, quella che ha costretto anche gli uomini a guardarsi allo specchio.
Vedovati si rivolge a noi uomini, ci chiede e si chiede: «Perché usiamo i nostri corpi per fare violenza? Perché ci identifichiamo in collettivi che ci cancellano – lo Stato, il partito, la squadra? Perché abbiamo accettato che il nostro corpo fosse usato, rimosso, normalizzato?»
Non è un atto d’accusa, ma una domanda che scava. Leggerla, per me, è stato come riconoscere una parte di me che faccio fatica a vedere: quella che si abitua al silenzio, che confonde la durezza con la dignità, che reprime la vulnerabilità perché “non sta bene”.
Questo è un testo necessario, ma anche difficile: intenso, carico di riferimenti teorici che richiedono una certa familiarità. A volte ho avuto la sensazione che l’autore parlasse più ai compagni di viaggio che ai profani; che la forza del pensiero rischiasse di chiudersi in un cerchio di consapevoli.
Eppure, è proprio in questa densità che sta anche il suo valore. Non offre risposte facili, non si presta a semplificazioni da social. È un testo che costringe a sostare nel disagio, che rifiuta la retorica della “nonviolenza” come slogan e anche quella della “violenza giustificata” come rabbia sacrosanta. Ci chiede di guardare la violenza non come qualcosa da estirpare, ma come qualcosa da comprendere, da riconoscere nei nostri gesti, nel modo in cui amiamo, lavoriamo, protestiamo.
Se c’è un limite, forse, è proprio l’assenza di un passo ulteriore: il riconoscimento di una maschilità altra, come soggetto in costruzione e di cui l’autore (e altri uomini) è un esempio. E che anche noi uomini siamo immersi in un mondo di violenza strutturale, culturale e diretta da cui non sarà facile uscire.
Il testo si ferma prima, come se la diagnosi – pur così lucida – non riuscisse a farsi promessa. Ma forse non poteva essere diversamente. Forse questa è la parte che tocca a noi mettere in pratica.
Alla fine, quello che resta è una domanda che pesa: che cosa possiamo fare, noi uomini, della violenza che ci abita? Non solo quella eclatante, ma anche quella sottile, quella che si nasconde nel linguaggio, nelle battute, nella paura di sembrare deboli.
Il femminismo, da decenni, ci ha già dato le parole per pensarla. Questo testo ci ricorda che dobbiamo avere il coraggio di usarle. Non per chiedere perdono, ma per restare dentro la relazione, quella tra uomini e donne, ma anche quella con noi stessi.
E forse è proprio qui che comincia qualcosa di nuovo: non nel negare la violenza, ma nel riconoscerla, nominarla, attraversarla senza lasciarla vincere. Quindi uno scritto che non consola, ma che apre. E che, per una volta, ci chiede non di capire le donne, ma di capire finalmente noi stessi.
da Noi Donne
Dopo l’espulsione dell’associazione Artemisia dalla rete antiviolenza D.i.RE, causata dalla scelta di tale associazione di prevedere uomini quali soci
Lo scorso 25 ottobre l’Assemblea nazionale di D.i.Re [Donne in Rete contro la violenza, Ndr] ha deciso di espellere dalla propria rete di associazioni antiviolenza la socia associazione Artemisia, respingendo il suo ricorso contro il provvedimento di esclusione, adottato dopo la sua decisione di associare anche uomini. L’espulsione è stata deliberata in virtù della regola prevista dallo statuto di D.i.Re, in base alla quale nei centri antiviolenza l’accoglienza debba essere «fondata sulla relazione tra donne e sul rimando positivo del proprio sesso/genere» (art. 3, comma 2). Nell’immediatezza della decisione assembleare l’associazione Artemisia ha pubblicato un post su Facebook, rendendo nota la vicenda e nel contempo motivando la propria scelta di associare uomini in tal modo. Ossia «Crediamo che il femminismo attuale, cosiddetto della quarta ondata, si debba interrogare, si debba e si possa rinnovare nel segno del cambiamento che cerchiamo ancora. Vogliamo un movimento unico, oceanico, cooperativo cui gli uomini partecipano non in quanto potenziali attori di violenza che si redimono pubblicamente ma come uomini che prendono voce e posizione e che riconoscono che è affar loro – è affar nostro».
La scelta di utilizzare i social per ampliare la platea del pubblico interessato a conoscere quanto stesse accadendo ha conseguentemente diviso le schiere tra chi fosse solidale con Artemisia o con D.i.Re, che è stata successivamente vittima di inauditi attacchi, frutto del mal sopito accanimento verso chi da decenni difende la pratica femminista all’interno dei centri antiviolenza, di cui è generatrice la stessa D.i.Re a tutti gli effetti. Eppure la decisione della sua Assemblea nazionale di escludere Artemisia non ha fatto altro che formalizzare una scelta di autoesclusione, che era già avvenuta sin dal momento in cui la stessa Artemisia aveva deciso di associare gli uomini. Allora, perché ne è disceso talmente tanto clamore da interessare centinaia di commentatori e commentatrici e da solleticare anche l’interesse dei media nazionali? A mio parere, la ragione è prettamente politica, visto che le tesi contrapposte hanno fatto chiaramente intravedere il vero obiettivo. Qual è quello di delegittimare la stessa esistenza dei centri antiviolenza basati sulla pratica femminista, così come è definita statutariamente, e la loro stessa natura.
Scrive Luisanna Porcu, coordinatrice di uno di essi, Onda Rosa: «I centri antiviolenza nascono dal femminismo, non dall’assistenzialismo. Sono spazi politici, non neutri. Luoghi in cui le donne si incontrano, si credono, si sostengono e si riprendono potere. La presenza solo femminile nelle associazioni che li gestiscono non è una discriminazione: è una scelta di libertà. Serve a spezzare le dinamiche di controllo e di dominio che la violenza maschile riproduce ovunque». Per solidarizzare con D.i.Re e le sue tremila socie, vero bersaglio di un accanimento mediatico che «ci dice quanto i luoghi delle donne siano invisi, guardati con sospetto come se per essere legittimati nella lotta alla violenza contro le donne, dovessero accettare la presenza degli uomini» (Nadia Somma, responsabile del centro antiviolenza Demetra), un gruppo di attiviste ha deciso di lanciare una raccolta di firme sotto il seguente documento politico.
«Siamo un gruppo di attiviste nel contrasto alla violenza maschile sulle donne, convinte sostenitrici del modello elaborato da D.i.Re, a cui rivolgiamo la nostra solidarietà in un momento difficile e complesso, che necessita dei giusti strumenti di riflessione e non di ulteriori scontri ideologici. Un modello che, sancito dall’art. 3, comma 2, del suo statuto prevede che si adotti “una metodologia comune: la metodologia dell’accoglienza, fondata sulla relazione tra donne e sul rimando positivo del proprio sesso/genere. Sulla base di tale relazione, ogni donna accolta ha l’opportunità di intraprendere un percorso di autonomia, consapevolezza, empowerment”.
Tutte le associazioni aderenti a D.i.Re, e conseguentemente al suo documento statutario da loro stesse sottoscritto, hanno improntato nel tempo il loro agire politico alla necessità di fare rete, proprio sulla base di una accoglienza fondata sulla relazione tra donne. Per decenni pratiche, saperi, pensieri, riflessioni, idee condivise tra donne hanno portato a ciò che oggi sono i centri antiviolenza femministi, con un cammino che è ancora in corso. Il conclamato e attuato separatismo non è per nulla un vezzo, ma una necessità per costruire relazioni tra donne improntate alla fiducia e parità, altrimenti di dimensioni impossibili.
Condividiamo con D.i.Re che la fuoriuscita dalla violenza passi da questo riconoscere e riconoscersi tra soggettività sullo stesso piano di confronto libero e rispettoso dell’autodeterminazione della donna, considerando questi principi centrali e non negoziabili. Gli uomini che vogliano camminare al nostro fianco, siano consapevoli del nostro bisogno di luoghi dell’autonomia e dedicati alle donne, a protezione di un lavoro intimo e frutto di anni di esercizio femminista. Abbiamo bisogno di luoghi di parola, pensiero, ragionamento, costruzione, elaborazione nostri, quali una stanza tutta per noi. Le battaglie sono indubbiamente comuni, ma possono essere svolte altrove dagli attivisti nel contrasto alla violenza maschile. Ciò a garanzia delle donne che si rivolgono ai centri e non hanno voglia di sentirsi sovradeterminate da figure maschili.
Agli uomini, nostri alleati, chiediamo di capire questo passaggio e la necessità del separatismo nei centri antiviolenza. Abbiamo bisogno di alleanze ma ripetiamo, in luoghi, contesti e cammini diversificati, perché la lotta al patriarcato ha bisogno di uno sforzo di coscienza in più, quale la protezione e la cura per le donne e tra donne. Si tratta di un percorso culturale di elaborazione autonoma di soluzioni, relazioni, solidarietà, empatia. Un percorso che confligge con l’istanza di aprire i centri antiviolenza femministi alla presenza di uomini, un’istanza che ci vede contrarie unitamente a D.i.Re, che di tale percorso è madre e che in queste ore viene attaccata proprio perché se ne fa strenua tutrice.
Solidarizziamo conseguentemente con tale realtà associativa, perché suffragarne le istanze è una questione politica, di politica delle donne, della necessità di spazi reali e di pensiero autonomi delle donne, per le donne, con le donne. Il cammino della rete D.i.Re è un lungo percorso fatto di ascolto e della necessità di creare luoghi che assicurino protezione, supporto, affiancamento, diritti. D.i.Re è un lungo cammino di legittimazione della parola e del pensiero delle donne nei luoghi istituzionali e decisionali. Questo è il significato di una difesa consapevole del separatismo, in un percorso che non va picconato e depotenziato. Sconfessarlo significherebbe denegare la nostra storia femminista, perché ne andremmo di mezzo tutte noi donne, i nostri bisogni, i nostri diritti, le nostre speranze.
Per questi e per mille altri motivi, intendiamo continuare a camminare al fianco di D.i.Re per non restare da sole, mai!».
Decine e decine di firme da quattro giorni a questa parte sono state raccolte, a riprova di quanto sia condivisa la scelta di centri antiviolenza che siano femminili, per consentire alle sopravvissute alla violenza maschile di essere affiancate da donne che le supportino nel percorso di fuoriuscita dalla loro condizione. Indubbiamente appare strano che proprio nel cammino verso il prossimo 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne sia anticipata dalla polemica originatasi per l’esclusione di Artemisia da D.i.Re. Le realtà attive tutti i giorni nella lotta contro la violenza di genere invece di ben altro abbisognano. Da anni denunciano come lo stanziamento di risorse pubbliche per potenziare i centri antiviolenza debba essere accompagnato da una visione strategica del loro impiego.
Purtroppo i dati presentati sul numero di Centri antiviolenza, sulle figure professionali e sulle risorse finanziarie che mancano all’appello tradiscono invece l’assenza di una seria pianificazione nel tempo che possa garantire sostegno continuativo e incondizionato alle vittime di tale tipologia di violenza. Siamo alle solite si guarda il dito e non la luna, con il rischio effettivo che per mancanza di fondi molti centri antiviolenza chiudano. Perdere di vista l’unità di intenti nel rivendicare la loro sopravvivenza a causa di una decisione interna a D.i.Re, motivata peraltro dal rispetto delle norme statutarie, sottoscritte a suo tempo anche da Artemisia, mi appare sproporzionata e anche malevola, senza se e senza ma.
Catapum: no tengo dónde caer
«A volte riesce bene, a volte male. Questo è tutto: devi seguire il ritmo e caderci sopra. Il bullerengue è una melodia, es una música que uno lleve en la sangre».
Queste sono le parole delle protagoniste del documentario della regista colombiana Palu Abadía, presentato alla Casa delle Donne di Milano in occasione del Festival del Cine Colombia Migrante 2025 in collaborazione con il Dipartimento di Lingue, letterature, culture e mediazioni dell’Università Statale di Milano, l’associazione Migras APS e il Grupo Interagencial de Género: giunto alla sua terza edizione, il Festival è un’iniziativa creata da comunità colombiane in esilio con lo scopo di rendere visibili e stimolare spazi di memoria simbolica individuale e collettiva sulla migrazione e lo sfollamento forzato in Colombia attraverso film, produzioni audiovisive e opere d’arte.
Il documentario, uscito nel 2023, presenta la vita di tre donne molto diverse per età, generazione, passato e geografia che però si parlano, si educano e si riconoscono attraverso una melodia ancestrale, originaria e perpetua: il bullerengue. La regista Palu Abadía, nata in Colombia e newyorkese da dodici anni, presentando il film al Vancouver Latin American Film Festival ammette di non aver mai ascoltato e frequentato persone, nella sua terra d’origine, che cantavano, suonavano e ballavano il bullerengue; il suo primo incontro con questi ritmi è avvenuto a New York, al concerto dei Bulla en el Barrio, collettivo di musica che conta all’attivo dodici membri e che nella grande mela organizza ritrovi musicali nei parchi, nelle chiese e nelle sale da concerto per condividere e diffondere le tradizioni e le esperienze delle cantadoras colombiane delle regioni dell’Uraba, Cordoba e Bolivar. Sarà proprio Carolina Oliveros, la cantante del gruppo, insieme ad altre due donne, Ceferina Banquez e Pabla Flores, a guidarci alla scoperta del bullerengue. Ci parlano della Colombia, di quello che è stato il suo passato e dei tentativi di ricostruzione del futuro: Ceferina descrive la sua vita da sfollata a causa della violenza della guerriglia che per cinquant’anni ha massacrato il suo paese provocando otto milioni di dispersi interni ed esterni, ricorda il ritorno dopo anni nella sua terra per riabbracciare l’eredità della sua famiglia; incarna il movimento costante per la ricostruzione del presente, che la voce e le melodie riconciliano con il passato.
Pabla Flores, cantando, racconta alla nipote come sua madre e sua nonna le abbiano trasmesso la conoscenza ancestrale del bullerengue che unisce la comunità e crea rituali.
Carolina Oliveros da New York è la più giovane delle protagoniste: trasferitasi per amore dopo un’adolescenza ribelle e conflittuale, dichiara che «Non ho cercato il bullerengue, è stato il bullerengue a trovare me» e da allora si è data la responsabilità di far conoscere alle nuove generazioni questa tradizione, che per lei è stata una herramienta de sanación, uno strumento di guarigione per unirsi con se stessa e ritrovare la sua voce.
«El toque del tambor ha acompañado generaciones y luchas de resistencia de las comunidades negras. Lo que hace es que mueve el espíritu, toca unas fibras porque tiene esa historia, tiene ese
espíritu. Es como un espíritu que se esconde dentro del tambor.»1
Resistere, lottare, non retrocedere, rimanere, ricordare, trasmettere, educare, cantare. È questa l’origine spontanea dei bailes cantaos, i balli cantati: il bullerengue è una musica afrodiscendente della costa caraibica della Colombia che gli schiavi, approdati nel porto di Cartagena de las Indias dal Congo e dall’Angola agli inizi 1500, riproducevano attorno alle palenque, fortificazioni costruite da coloro che riuscivano a scappare dalla schiavitù e che le donne gravide, senza marito oppure concubine, escluse dal fandango o dai balli popolari durante le celebrazioni religiose in onore di San Giovanni o San Pietro (il 24 e il 29 di giugno), suonavano nel patio della casa. Si narra che il bullerengue sia uno dei canti esclusivamente femminili della Colombia e ne esistono di diversi tipi: di richiamo, di celebrazione per l’inizio delle mestruazioni, allegri o tristi.
Le mura di Cartagena
e il castello di San Felipe
lo hanno costruito i neri con frustate e sudore.
Voglio partorire un bambino bianco
anche se non mi darà mai la mano
per diffondere la notizia
che partorire è umano.
È stata forse la “povertà” degli strumenti che occorrono per (ri)creare i suoni e le melodie del bullerengue a renderlo così naturale, istintivo e genetico? Sono sufficienti la voce, le mani, l’acqua. Si sono poi aggiunti il tamburo con pelle di animale e un vaso che raccoglie cocci rotti a dettare il ritmo e ordinare la voce. Si tratta di un dialogo continuo tra tutte le parti che interagiscono: la voce impera, il coro risponde, il corpo segue e comanda la melodia che, come una rete, raccoglie tutto insieme. Se prima gli schiavi neri suonavano il dolore e lo strazio davanti al fuoco, nel tempo il bullerengue è diventato un vero e proprio mezzo di educazione, di trasmissione di conoscenza ed eredità, di racconto e di memoria. Non solo sofferenza, resilienza e strategia, i bailes cantaos sono diventati apprendimento, istruzione, necessità, pratica di vita: si insegna come coltivare le piante, cucire, prendersi cura di sé e della comunità.
Catapum, il titolo del documentario, riprende il nome del movimento che fa l’acqua quando è prepotentemente percossa dalla mano: Ceferina spiega come il Catapum a volte riesca e a volte no: bisogna provare, seguire il tempo e caderci dentro. Non si premedita questo tipo di ritmo, non ci sono spartiti, non rimangono testi delle strofe già cantate: quello che non deve andare perso è la pratica del suono, la cultura della voce, l’uso delle mani per battere suoni che rinforzano e tracciano il percorso per la parola che verrà, per il pensiero che ancora non c’è. Il bullerengue è meditazione, raccoglimento, riflessione: c’è sempre qualcosa da pensare, da calcolare, da ricordare, da raccontare a chi è vicino e deve sapere quello che è stato, affinché la storia cambi e non si ripeta.
«Te levantas y cantas. Lavas los platos y cantas. Trabajas y cantas. No importa lo que enfrentes, siempre cantas…»2
(1) «Il suono del tamburo ha accompagnato generazioni e lotte di resistenza nelle comunità nere. Ciò che fa è muovere lo spirito, tocca certi nervi perché ha quella storia, ha quello spirito. È come uno spirito nascosto dentro il tamburo.»
(2) «Ti svegli e canti, lavi i piatti e canti, lavori e canti. Qualunque cosa ti capiti, canti sempre.»
da Rivista Plurale Online Ytali-Venezia
Lavoriamo insieme su diversi progetti almeno da una decina di anni, ma da più di un anno abbiamo costituito un gruppo di riflessione politica sulla città, che si è dato il nome di Labfem5.0: ci incontriamo una volta al mese da ottobre 2024 per ragionare come semplici abitanti, tenendo conto del nostro essere donne e della lunga esperienza politica e sociale di ognuna, sui problemi, le contraddizioni, le potenzialità, i punti di forza e di debolezza della città in cui abitiamo.
Ci siamo collocate tra quelle e quelli che amano la città, ne usano spazi e risorse, ma anche sentono l’obbligo di restituire, rimettere in ordine, prendersi cura, impegnarsi per il cambiamento.
Abbiamo adottato il punto di vista di chi percorre la città a piedi tutti i giorni, ne fa esperienza diretta, tocca con mano le contraddizioni, vede i problemi, intreccia trame di incontri, parla con le persone che incontra: l’edicolante, il commerciante, il postino, il farmacista, la parrucchiera, donne e uomini che stanno dietro i banchi di frutta e verdura al mercato, donne e uomini che si impegnano nella politica della città.
Molte le cose che abbiamo fatto: abbiamo individuato aspetti diversi del vivere quotidiano, problemi irrisolti che si ripresentano a ogni cambio di governo; abbiamo descritto i luoghi della città che più frequentiamo; abbiamo elaborato un elenco di ciò che della città ci piace e ciò che non ci piace, facendo differenza tra le cose che vanno bene e possono restare e quelle che, secondo noi, vanno messe in discussione e cambiate.
L’intenzione comune è stata quella di trarre dai nostri racconti, dalle nostre descrizioni dell’esistente riflessioni e indicazioni utili per orientare le future scelte politiche e prospettare possibili soluzioni dei diversi problemi o modalità più efficaci di affrontare le criticità presenti in città e nel nostro territorio.
Consapevoli che una città è tenuta insieme dalla sapienza di pratiche minuziose e pazienti, da gesti di cura che appartengono alla sfera domestica, affettiva, ma trasferibili e traducibili anche in altri ambiti, in contesti più ampi, abbiamo guardato alla città come un’interazione di soggettività che agiscono contemporaneamente, trasformando il quotidiano.
Con l’arrivo negli ultimi trent’anni dal Sud e dall’Est del mondo di donne e uomini in cerca di lavoro e di una vita migliore, Mestre si è radicalmente trasformata, è diventata un intreccio di lingue, religioni, stili di vita, tradizioni, abitudini, saperi, modi di vestire e di cucinare molto diversi tra loro. La città è spazio in cui si incontrano e si scontrano differenze etniche, religiose, economiche, sociali, culturali e in essa vivono numerose comunità di stranieri per lo più tra loro separate.
Nei quartieri e in alcune zone, dove già negli anni Settanta c’era stata una prima immigrazione dal Sud Italia, ma anche da Venezia – in particolare dopo l’alluvione del 1966, quando iniziò un vero e proprio “esodo” in terraferma – si sono formate nuove comunità e alla prima generazione ora si aggiungono le seconde e le terze.
Negli anni Novanta Mestre era una “città di frontiera”, nel senso che vi si sperimentavano pratiche innovative di integrazione e di accoglienza.
Oggi con la lenta scomparsa di reti amicali, parentali e di vicinato diminuisce anche a Mestre il senso di sicurezza. Ci siamo soffermate a lungo a ragionare sulla sicurezza che passa attraverso la rigenerazione della città, la presenza di negozi, di luoghi di aggregazione, di spazi pubblici dove avvengono incontri e discussioni politiche. La sicurezza, spesso associata a politiche di repressione e controllo, va vincolata secondo noi soprattutto alla partecipazione: prossimità e partecipazione creano, infatti, controllo sociale e di conseguenza senso di sicurezza. Siamo convinte che al diffuso senso di insicurezza che circola in città non si debba rispondere unicamente con la repressione e che questa sia in realtà un grande inganno che fa credere di risolvere i problemi, ma di fatto non lavora lì dove questi nascono. Contemporaneamente ci abitua ad un controllo che limita la nostra libertà individuale.
La città subisce un processo di invecchiamento della popolazione e le giovani generazioni fuggono da Mestre per mancanza di casa e di lavoro.
L’offerta commerciale è diminuita e anche a Mestre c’è il fenomeno della chiusura dei negozi. In compenso, in questa città c’è grande ricchezza di proposte culturali: librerie, cinema, dibattiti, convegni, mostre, gruppi lettura, gruppi di poesia, associazioni culturali.
L’attuale amministrazione non crede veramente nella partecipazione, nell’innovazione e nell’inclusione; è fortemente sicuritaria, ha abolito le Consulte, i Forum, le Municipalità, gli organismi di partecipazione, strumenti decentrati dell’ascolto e dell’agire nella città.
Ci siamo dette che è la vita quotidiana, con le sue infrastrutture fisiche e sociali, che permette di ricucire e integrare rigenerazione e welfare. È la vita quotidiana la chiave di volta che può sostenere una nuova pianificazione dei servizi. È questo il pensiero che ha innervato le pratiche di quante di noi lavorano politicamente all’interno di un partito e che l’attenzione delle donne ci suggerisce. Pensiamo che sia necessario mettere in discussione una visione ormai superata della progettazione urbana che continua a basarsi sull’idea di bisogni “universali” e standardizzati, come se la città fosse abitata da un cittadino medio, neutro, astratto. Questa logica ancora troppo presente nelle politiche pubbliche finisce per ignorare non solo la differenza tra i sessi, ma anche le profonde disuguaglianze sociali, economiche e culturali che attraversano i nostri territori. Progettare la città oggi significa riconoscere e dare spazio alla pluralità: ai corpi, ai bisogni, alle vite che troppo spesso rimangono ai margini. Significa andare oltre l’omologazione e costruire politiche urbane capaci di includere, invece di cancellare.
A un certo punto della nostra ricerca, ci siamo poste anche delle domande sulle quali tuttora siamo impegnate a lavorare. Per esempio: come possono crescere la partecipazione e la disponibilità a costruire con altre e altri?
Come pensare al futuro con uno sguardo che rimotivi alla partecipazione, restituendo ad ogni abitante emozione, desidero di impegno e voglia di lavorare per il cambiamento?
Quale azione politica è possibile per superare la logica individualistica diffusa che mette al primo posto il narcisismo individuale (spesso maschile) e gli interessi privati rispetto a quelli della comunità?
Che cosa rende un insieme di persone, donne e uomini, una comunità generativa e aperta all’agire per promuovere trasformazione politica?
La domanda da cui siamo partite è questa: le porte delle nostre case oggi sono e rimangono “aperte” o le abbiamo chiuse?
da Pressenza
In una delle province più produttive d’Italia, dove le fabbriche hanno fatto la storia del lavoro ma la disoccupazione femminile resta ancora una ferita aperta, un piccolo laboratorio sartoriale prova a cambiare il destino di molte donne. Si chiama Atelier Bebrél, e dietro a un semplice ago e filo si cela una rivoluzione silenziosa: un modello di inclusione sociale e sostenibilità che intreccia storie, competenze e nuove opportunità professionali.
Dalla fragilità alla rinascita: la forza di un progetto
Nato a Rodengo Saiano, nel cuore del bresciano, Atelier Bebrél è più di un laboratorio di sartoria creativa. È un luogo dove le donne in situazioni di fragilità – vittime di violenza, migranti, disoccupate di lunga durata – trovano una seconda possibilità attraverso la formazione e il lavoro.
Il progetto prende forma grazie alla sinergia tra Punto Missione Onlus e Associazione Casa Betel 2000 Onlus, due realtà impegnate nell’accoglienza di donne sole e madri con figli. Qui la sartoria diventa strumento di autonomia, ma anche terapia, riscatto e comunità.
«La consapevolezza che il lavoro è la chiave per costruire una nuova identità e un’integrazione sociale reale – spiega Silvia Daminelli, coordinatrice dell’Atelier – ci ha spinto a creare percorsi formativi aperti non solo alle nostre ospiti, ma anche alle donne del territorio, spesso escluse dal mercato del lavoro perché prive di competenze spendibili».
Un modello formativo a cascata
Oggi Atelier Bebrél ha compiuto un passo in più. Con il sostegno della Fondazione Marcegaglia e la consulenza di Mending for Good, ha avviato un innovativo percorso di formazione in moda sostenibile e upcycling.
Il progetto è partito da un workshop intensivo rivolto a cinque professioniste dell’Atelier – una stilista e quattro sarte – che hanno acquisito competenze avanzate in riuso creativo e design circolare. Sono poi loro, in un modello “a cascata”, a formare oggi 15 donne in situazioni di vulnerabilità, moltiplicando così conoscenze, opportunità e autonomia.
Non si tratta solo di corsi, ma di un percorso completo che include tirocini retribuiti e mentoring individuale, con l’obiettivo di un inserimento concreto nel settore della moda etica. «Vogliamo costruire un sistema di valore – spiega Alberto Fascetto, responsabile del progetto per la Fondazione Marcegaglia – dove la formazione diventa un trampolino per l’indipendenza economica e la dignità personale».
Cucire per ricucire: il valore dell’upcycling
Accanto al valore sociale, c’è una visione ambientale forte. Grazie alla collaborazione con Mending for Good, società specializzata in upcycling e design circolare, Atelier Bebrél impara a trasformare scarti tessili e materiali dimenticati in nuovi capi unici, di alta qualità e dal forte impatto etico. «Parliamo di rammendo nel senso più ampio del termine – spiegano Alessandra Favalli e Barbara Guarducci, fondatrici di Mending for Good –. Riparare un sistema significa considerare la responsabilità ambientale e sociale, rispettare le persone e il pianeta, creando circoli virtuosi tra artigianato e moda».
Storie che diventano tessuti
Dietro ogni cucitura, ci sono storie di vita. Come quella di Olga, arrivata a Brescia da Kiev nel marzo 2022, in fuga dalla guerra insieme alla nonna novantaduenne. A casa sua gestiva una sartoria, qui, grazie ad Atelier Bebrél, ha potuto ricominciare. Oggi coordina la linea creativa del laboratorio e guida altre donne nella produzione. «A Brescia ho trovato una nuova stabilità – racconta –. Lavorare di nuovo con ago e filo mi ha permesso di ricostruire la mia vita».
O quella di Isabella, che dopo un lutto devastante ha ritrovato nel cucito una forma di rinascita: «Mi ha salvata. Lavorare in gruppo, creare qualcosa di bello insieme ad altre donne, mi ha ridato fiducia e voglia di vivere».
da l’Avvenire
L’Irlanda ha una nuova presidente: Catherine Connolly, 68 anni, deputata indipendente di sinistra originaria di Galway, da sempre voce critica verso l’establishment politico ed economico del Paese. La sua è stata una vittoria schiacciante e annunciata – con il 63,7 percento dei voti – oscurata in parte però dal dato sull’affluenza: alle urne è andato meno del 40 per cento degli aventi diritto, un record negativo nella storia della Repubblica irlandese e il chiaro segnale di un tessuto civico sempre più diffidente verso la politica.
Sostenuta da Sinn Féin, Social Democrats e da una costellazione di movimenti progressisti, Connolly ha superato nettamente Heather Humphreys, candidata dai centristi di Fine Gael, che ha riconosciuto la vittoria dell’avversaria, ereditando da Michael D. Higgins – che per quattordici anni ha incarnato la coscienza civile del Paese – un ruolo simbolico in un momento in cui la credibilità delle istituzioni è in crisi. I numeri raccontano una stanchezza che va oltre le percentuali. Migliaia di elettori hanno infatti scelto di annullare la scheda, aderendo alla campagna di dissenso “Spoil the Vote” (Annulla il voto), nata per denunciare le regole troppo restrittive per la presentazione delle candidature.
Connolly dovrà adesso misurarsi con un mandato popolare forte nei numeri relativi ma fragile nel consenso reale. Ex psicologa e avvocatessa, deputata dal 2016, è nota per la sua retorica anti-neoliberista, per l’attenzione ai temi sociali e per la difesa della neutralità irlandese, messa in discussione dal governo con l’aumento delle spese militari. «Il Paese non ha bisogno di più armi ma di più fiducia», ha dichiarato nel suo ultimo comizio.
Durante la campagna è stata vittima di un episodio emblematico dei nuovi rischi democratici: un deepfake diffuso sui social la mostrava, in un falso telegiornale della tv pubblica RTÉ, annunciare il proprio ritiro e la vittoria dell’avversaria Humphreys. Il video, visto da oltre trentamila utenti prima di essere rimosso, è rimasto online per dodici ore. L’effetto, paradossalmente, è stato quello di rafforzarne l’immagine di outsider, simbolo di un Paese che non vuole essere ridotto a spettatore del proprio destino.
Anche l’ombra di Gaza ha pesato sulla campagna elettorale. Più dell’ottanta per cento degli irlandesi considera le azioni israeliane un genocidio, e molti accusano l’Ue di aver tradito la propria missione morale. Connolly ha dato voce a quel sentimento popolare parlando di “complicità europea” e chiedendo la sospensione dei rapporti militari e commerciali con Israele. È stata l’unica candidata a pronunciare la parola “Palestina” con convinzione, raccogliendo così l’eredità del suo predecessore, Michael D. Higgins. La nuova presidente è anche favorevole alla riunificazione dell’isola, che considera “inevitabile”, e ha paragonato l’aumento delle spese militari della Germania del cancelliere Friedrich Merz a quelle degli anni ‘30. Dichiarazioni che hanno suscitato critiche ma che le hanno guadagnato un consenso trasversale tra giovani, attivisti e chi sente l’Irlanda lontana dai poteri forti di Bruxelles, Londra e Washington. La scommessa di Catherine Connolly comincia ora. In un Paese dove meno di un elettore su due ha scelto di recarsi alle urne, il primo compito della nuova presidente sarà ridare senso alla partecipazione politica di fronte agli eloquenti segnali di protesta verso un sistema percepito come chiuso e distante.
da Internazionale
In Afghanistan 21 milioni di donne e bambine vivono soffocate dal regime. Quattro anni fa gli Stati Uniti e i loro alleati hanno abbandonato le afgane, ritirando le truppe dal paese dopo gli accordi di Doha. Il patto “di pace” che doveva debellare Al Qaeda, ha riconsegnato ai taliban le stesse donne che gli occidentali avevano promesso di salvare quando avevano invaso il paese, vent’anni prima. Da allora la repressione è sempre più violenta. Uno dei momenti più vergognosi è arrivato nell’agosto 2024, quando le autorità di Kabul hanno promulgato la legge per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, un’interpretazione radicale della sharia. Tra le regole da seguire, c’è il divieto per le donne di parlare in pubblico o uscire in strada a volto scoperto. E all’interno delle mura domestiche non possono leggere né cantare. Ad agosto molte donne sono morte abbandonate sotto le macerie dopo il forte terremoto che ha scosso parte dell’Afghanistan. La loro assenza nelle immagini dei soccorsi è sconvolgente: erano lì, sotto i palazzi crollati, ma non sono state tratte in salvo perché gli uomini non potevano toccarle a meno che non fossero parenti. Quelle che sono riuscite a raggiungere un ospedale non hanno avuto una sorte migliore, perché non c’erano dottoresse. Il 30 settembre le autorità afgane hanno bloccato internet. La restrizione è durata solo 48 ore, ma non per tutti. I leader religiosi hanno ordinato agli uomini di sequestrare definitivamente i telefoni alle donne, che non potranno più seguire corsi online, informarsi, comunicare e chiedere aiuto. I taliban hanno chiuso l’ultima finestra delle afgane sul mondo. La comunità internazionale ha l’obbligo morale e umanitario d’intervenire.
Un grigio pomeriggio invernale, ragazzi e ragazze, giacche a vento e zaini sulle spalle, si radunano sul lato destro della Stazione Centrale di Milano. Qualche sorriso, qualche battuta, non di più: sono molto compresi del viaggio che stanno per intraprendere. Non partono per la settimana bianca, sanno che li aspetta il Treno della memoria. Quando il gruppo è completato ci si incammina nei sotterranei del binario 21. Un po’ di trambusto, possono vedere uno dei vagoni merci, poi il silenzio: chi ha organizzato il viaggio lascia la parola a chi su quel treno è salita bambina, decenni prima.
Il viaggio è lungo, più di ventidue ore durante le quali si legge, si discute, una classe mette in scena una piccola rappresentazione a partire dalle parole di diari e memorie di chi è stato deportato. Il sonno arriva quasi all’alba.
Il lavoro fatto nei mesi precedenti li ha preparati a vivere un’esperienza da cui torneranno trasformati: hanno studiato e ricercato, approfondito incontrando ex-deportati ed ex-deportate.
Il 27 gennaio è tutto dedicato alla visita dei Campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau: le poche baracche ricostruite, il ‘museo’ con l’agghiacciante raccolta di quello che rimane di migliaia di vite.
Chiedono alle guide e alle docenti spiegazioni o scambiano emozioni, con voci sommesse, per non profanare il silenzio e lasciare parlare il vento gelido.
Fotografie? Sì, certo hanno scattato fotografie per documentare il viaggio: immagini che mostrano il vuoto degli spazi e il silenzio, o le scritte e gli oggetti tante volte visti riprodotti nei libri che ora, proprio perché quasi toccate con mano, assumono una pregnanza diversa. Hanno fotografato anche le compagne e i compagni in gruppo, di schiena: però i protagonisti, lì, non erano loro.
Selfie? Sì, certo la sera a Cracovia, quando la tensione in parte si è allentata.
Durante il viaggio di ritorno sul treno si formano gruppi spontanei per rielaborare ciò che avevano vissuto, cresce la consapevolezza che quell’esperienza deve essere conosciuta da chi non ha potuto partecipare: si comincia a pensare cosa fare.
Il viaggio per le ragazze e i ragazzi non è finito: sentono che ora tocca loro diventare testimoni in un passaggio tra generazioni. Riordinano le foto e le commentano, approfondiscono le diverse tipologie di deportazione, producono un video in cui si intrecciano le loro parole con quelle lette nei libri. Gli incontri con le testimoni hanno generato in loro il desiderio di condividere con altri e altre lo spessore e la preziosità dell’esperienza, consci che la ricchezza conoscitiva e l’ampiezza emozionale legate a quegli incontri siano un’occasione da spartire con altri e altri, in un’assemblea aperta non solo alla scuola.
Negli anni successivi gli e le studenti hanno assunto il ruolo attivo di “testimoni”: in occasione della Giornata della Memoria, hanno collaborato e realizzato una lezione spettacolo sulla Shoah; hanno organizzato una serie di incontri, sapendo diversificare impostazione e linguaggio, sull’esperienza del viaggio ad Auschwitz e sulle deportazioni, rivolti sia a compagni e compagne di altre classi della scuola e di altri istituti, sia anche in qualche occasione pubblica.
Questa esperienza l’ho ripetuta con le classi più volte negli anni.
Una lettera aperta, firmata da almeno 460 intellettuali, celebrità e personaggi politici ebrei e israeliani, invita le Nazioni Unite e i capi di Stato ad affrontare «le condizioni di fondo dell’occupazione, dell’apartheid e della negazione dei diritti dei palestinesi» che sono assenti dall’accordo di cessate il fuoco di Gaza del presidente degli Stati Uniti Trump
Un gruppo di importanti leader e celebrità ebraiche chiede ai leader mondiali di chiamare Israele a rispondere delle sue azioni a Gaza e di usare il cessate il fuoco con Hamas come punto di svolta verso una pace giusta e duratura.
In una lettera aperta intitolata “Gli ebrei chiedono azione” pubblicata mercoledì, l’ex presidente della Knesset e presidente israeliano ad interim Avraham Burg, l’ex negoziatore israeliano Daniel Levy, la scrittrice canadese Naomi Klein e l’autore Peter Beinart sono affiancati da almeno 460 personalità pubbliche ebraiche che sollecitano sanzioni contro Israele e l’applicazione del diritto internazionale.
La lettera, indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite e ai capi di Stato di tutto il mondo, rappresenta il primo appello coordinato di questo tipo da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore il 10 ottobre.
«È con grande sollievo che accogliamo con favore il cessate il fuoco», si legge nella lettera. «Eppure non ci dovrebbero essere dubbi sulla fragilità di questo cessate il fuoco: le forze israeliane rimangono a Gaza, l’accordo non fa alcun riferimento alla Cisgiordania, le condizioni di base dell’occupazione, dell’apartheid e della negazione dei diritti dei palestinesi rimangono irrisolte».
Tra i firmatari figurano artisti, autori e attivisti come gli attori Ilana Glazer, Hannah Einbinder e Wallace Shawn, i registi premi Oscar Jonathan Glazer e Yuval Avraham, i comici Eric André e Leo Reich e lo scrittore premio Pulitzer Benjamin Moser.
Versione originale inglese:
New York – A group of prominent Jewish leaders and celebrities are calling on world leaders to hold Israel accountable for its actions in Gaza and to use the cease-fire with Hamas as a turning point toward a just and lasting peace.
In an open letter titled “Jews Demand Action” released Wednesday, former Knesset Speaker and interim Israeli President Avraham Burg, former Israeli negotiator Daniel Levy Canadian writer Naomi Klein and author Peter Beinart, are joined by at least 460 Jewish public figures urging sanctions on Israel and enforcement of international law.
The letter, addressed to the UN Secretary-General and global heads of state, marks the first coordinated appeal of its kind since the cease-firetook effect on October 10.
“It is with great relief that we welcome the cease-fire”, the letter reads. “And yet there should be no doubt that this cease-fire is fragile: Israeli forces remain in Gaza, the agreement makes no reference to the West Bank, the underlying conditions of occupation, apartheid and the denial of Palestinian rights remain unaddressed”.
Signers include artists, authors and activists such as actors Ilana Glazer, Hannah Einbinder and Wallace Shawn, Oscar-winning directors Jonathan Glazer and Yuval Avraham, comedians Eric André and Leo Reich and Pulitzer Prize-winning writer Benjamin Moser.
da Centro Sereno Regis e Pressenza
Il giorno temuto della prima trivellazione funzionale al Tav (Treni ad Alta Velocità) a Bussoleno è arrivato.
Di buon mattino compare il messaggio: “zona ex scalo ferroviario, camion carico di materiale compatibile con il montaggio trivella”.
Mi sono precipitata sul luogo a rischio, lo stesso della mia passeggiata quotidiana lungo la Dora.
Questa volta sono sola, il mio cane Gigio l’ho lasciato a casa, a scanso pericoli… Sul fiume, sui boschi di sempre pesa la foschia della giornata piovosa: oggi l’autunno ha perso l’aura dorata dell’anno che serenamente declina, per coprirsi dell’uggiosa tristezza che sa già d’inverno.
Invece di imboccare il solito sentiero nel bosco, salgo lungo il terrapieno della ferrovia, che offre una visuale dall’alto, complessiva. Non sembra esserci nulla lungo il greto del fiume, nulla nella fascia dei prati che le mappe segnalano come a rischio sondaggi. Respiro di sollievo: forse non è ancora il momento, c’è ancora spazio per la quotidianità ‘buona’ che anche la precarietà della vecchiaia può donare…
Poi la vedo, la trivella, alta, ai margini dell’area che, fino a trent’anni fa, prima della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, era il fiorente scalo merci della stazione di Bussoleno. La zona è inaccessibile, bloccata da un muro di blindati e figure in assetto antisommossa.
Ci torno nel pomeriggio insieme ad un gruppetto di compagni. Il rapporto numerico non ci è favorevole: uno di noi contro almeno tre di loro. Tentiamo invano di avvicinarci. Alla fine ce ne andiamo sotto la pioggia, tra il freddo e la tristezza della sera, mentre le torri-faro si accendono ad illuminare l’ennesima ferita, l’ennesima prepotenza ai danni di questa terra e di chi l’abita.
Oggi, in quello che è diventato per me il “posto delle fragole”, là dove era stata posta a monito e a difesa la bandiera NO TAV, è piantata la trivella e intorno si allargano acqua e fango.
Sono arrivata con Gigio e mi ha colpita di lontano un rumore insolito di ferraglia, di pietra frantumata. Poi l’ho scorta, tra gli alberi, al fondo del sentiero, contro gli spalti boscosi del ponte ferroviario, nel punto in cui esiste un breve accesso al fiume, una piccola spiaggia dalla quale una mattina vidi alzarsi in volo, elegante e solitario, un airone cinerino.
Intorno alla trivella l’affaccendarsi degli operai e la presenza inquietante, più che mai fuori luogo, delle “forze dell’ordine”, in divisa e in borghese.
Non so se in me sia maggiore la rabbia o il senso d’impotenza; sento la mia voce che protesta e mi sembra una voce nel deserto. Di fronte ho un muro di gomma: solo il rumore delle carrucole contro il silenzio delle foglie che continuano a cadere.
Esco dal bosco verso i prati aperti: di fronte, sull’alto dei terrapieni, ancora mezzi blindati, divise, camion in attesa, figure che si muovono sui pendii. In mezzo, un mare di erba e di tarassaco fiorito e, sopra di tutti, il cielo e stracci di nuvole in fuga.
Di lontano arriva il suono delle campane di mezzogiorno.
Impotenza, insensatezza….
Gigio trotterella tranquillo sulla via del ritorno.
da tvxs.gr,
Venerdì 17 ottobre 2025 il segretario dell’ufficio provinciale di Teheran per l’“Imposizione del bene e la proibizione del male” ha annunciato la creazione di un nuovo “Centro operativo per la modestia e l’hijab”, insieme all’organizzazione e all’attivazione di «oltre 80.000 volontari addestrati» e 4.575 istruttori e assistenti giudiziari (noti come zabet-e qazaei).
I funzionari lo hanno presentato come una campagna socio-culturale, che sarà condotta in collaborazione con istituzioni culturali e per la sicurezza. Non si tratta di una voce: molti media iraniani hanno pubblicato dichiarazioni sull’argomento.
Si tratta di una nuova forma di polizia morale? Non esattamente, ma è stata progettata per svolgere un lavoro simile attraverso una struttura diversa. Il cosiddetto “Setad” (nuova unità di polizia) è un organismo di elaborazione e coordinamento delle politiche che opera a livello nazionale sulla base della legge del 2015 “Misure a sostegno di coloro che impongono il bene e proibiscono il male”.
La legge è chiara: la “segnalazione” verbale o scritta è consentita a qualsiasi cittadino, ma l’applicazione pratica della misura è di esclusiva responsabilità dello Stato. In altre parole, i volontari non possono arrestare, trattenere o usare la forza.
Tuttavia, la legge consente ad alcuni assistenti di giustizia certificati, solitamente formati attraverso il Basij e certificati come “funzionari giudiziari”, di raccogliere documentazione e inviare segnalazioni dirette alla polizia e agli uffici della procura.
Il Setad non ha veri e propri poteri di polizia, ma costituisce una rete. Si tratta essenzialmente di un sistema coordinato di segnalazione, documentazione e trasmissione più rapida dei casi alle autorità, non di furgoni che prelevano le donne dal marciapiede.
Perché adesso?
Perché il regime è intrappolato tra la lettera della legge così e una realtà sociale che non può far tornare indietro. Dopo la rivolta di “Donna, Vita, Libertà” le leggi sull’obbligo dell’hijab non sono mai state abrogate, ma la loro applicazione non può essere garantita ed è contestata.
Alla fine del 2024, il governo ha annunciato il congelamento il nuovo disegno di legge sulla “Modestia e l’hijab” a seguito di consultazioni interministeriali; il vicepresidente Shahram Dabiri ha dichiarato che il Parlamento non dovrebbe «per il momento» mandarlo avanti, mentre a maggio 2025 il presidente del Parlamento Mohammad-Bagher Ghalibaf ha rivelato che un ordine scritto del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale intimava al Parlamento di non promulgare la nuova legge. In altre parole: il testo esiste, ma è stato “congelato” dalla massima autorità per la sicurezza.
Questa sospensione ha messo in luce fratture interne sistema. L’importante esponente conservatore Mohammad-Reza Bahonar ha dichiarato apertamente che il disegno di legge sull’obbligo dell’hijab «non è più legalmente applicabile», un’ammissione sorprendente da parte di un fedele del regime.
Allo stesso tempo, i rappresentanti della Magistratura insistono sul fatto che le vigenti normative sull’hijab «restano in vigore». La contraddizione non è superficiale: rivela un vicolo cieco, in cui lo Stato emana leggi che non riesce a imporre alla società civile, e ciascuno dei vari centri di potere improvvisa.
Il funzionamento del nuovo “Centro Operativo”
Il regime sta spostandosi dalla repressione per le strade (il classico modello della polizia morale) a un ibrido di “vigilanza” organizzata, sanzioni amministrative e sorveglianza digitale.
Dal 2023-24, le autorità hanno ripristinato le pattuglie, ma hanno introdotto anche misure di controllo “intelligenti”: uso massiccio di telecamere a circuito chiuso, monitoraggio delle targhe, riconoscimento facciale nelle università e l’app NAZER che consente a funzionari e cittadini di denunciare “infrazioni” all’interno di auto e sui mezzi di trasporto.
I proprietari ricevono SMS automatici che li avvisano che verranno sottoposti a multe o al sequestro del veicolo. I rapporti delle Nazioni Unite nel 2025 confermano questa svolta verso il controllo digitale: ora droni, app e flussi di dati supportano l’imposizione dell’hijab, mentre il pubblico la rispetta sempre meno. Il piano Noor del 2024 dimostra come si possano applicare rapidamente questi meccanismi.
Il controllo è ripristinato?
Non proprio. Le strade di Teheran assomigliano a un referendum perpetuo, con comportamenti diffusi di disobbedienza nonostante le periodiche repressioni. Per questo i funzionari adottano un modello di governance che cerca di disciplinare il rispetto della legge: volontari che avvertono e registrano, assistenti che segnalano e intensificano i controlli, telecamere e app che consentono di punire senza arresti spettacolari. Si applica la legge attraverso procedure burocratiche e pixel, non attraverso la persuasione.
Una situazione che ricalca l’esempio delle patenti per motocicli alle donne. Anni fa, il Tribunale Amministrativo dell’Iran ha stabilito che non esisteva alcuna base giuridica per vietare alle donne di ottenere la patente. Tuttavia, la polizia stradale continua a sostenere che “la legge” lo vieta. Solo il mese scorso, un ex-vicecapo della polizia stradale ha ammesso ancora una volta che non esiste uno specifico divieto legale, ma solo uno per ragioni pratiche.
Questo è lo stesso schema: la legge tace, l’applicazione rimane rigida, i diritti sono «teoricamente possibili», ma se ne nega la fruibilità. Il nuovo Centro Operativo si inserisce perfettamente in questa impasse amministrativa.
La violenza strutturale contro le donne
Questa politica si inserisce in un contesto più ampio di violenza strutturale contro le donne. Un rapporto del Centro per i Diritti Umani in Iran (gennaio 2025) ha registrato un aumento dei femminicidi e la mancanza di una legge protettiva completa, pene irrisorie per i “delitti d’onore”, una legislazione che rafforza la tutela maschile e una rete inadeguata di case-rifugio e di assistenza per le donne.
Parallelamente, organizzazioni internazionali hanno segnalato un aumento generalizzato delle esecuzioni capitali nel 2024, comprese quelle femminili, nel contesto di un clima generale punitivo e repressivo. L’imposizione dell’hijab rientra in questo contesto.
L’economia e la politica del corpo
La politica del controllo sul corpo delle donne è sostenuta dall’economia. Nel 2024 in Iran le donne erano solo il 13,4% della forza lavoro, contro il 66,3% degli uomini (secondo la Banca Mondiale e l’ILO), uno dei tassi più bassi a livello mondiale. Non si tratta di una “preferenza culturale”, ma di una scelta politica: diritto di famiglia, modalità di assunzione e precarietà del lavoro inficiano l’indipendenza economica delle donne. Uno Stato che proclama la “modestia” e ostacola l’accesso al lavoro e alla sicurezza delle donne produce economicamente la disuguaglianza che poi disciplina attraverso il codice di abbigliamento.
Quindi cosa sta succedendo?
Le autorità stanno cercando di risolvere un problema di legittimità attraverso la burocrazia. La polizia morale si fa ancora vedere di tanto in tanto, ma ad un costo politico alto, e provoca reazioni. Il Centro Operativo sotto il Setad promette qualcos’altro: una rete burocratico-digitale che sposta la responsabilità all’esterno (sui “cittadini”), standardizza la documentazione (tramite assistenti) e automatizza le sanzioni (tramite telecamere e app).
Legalmente, i volontari non possono arrestarti; praticamente, possono assediarti con una rete di segnalazioni che porta a multe, avvisi o rinvii a giudizio, ed è esattamente questo lo scopo.
Due dure verità
La prima è che lo Stato ha perso l’egemonia sulla vita quotidiana e sull’immagine delle donne; il “congelamento” della nuova legge è una tacita ammissione di questa sconfitta.
La seconda è che il regime non ha concesso diritti, ma sta riducendo la visibilità della coercizione aumentandone l’efficacia con vari nuovi mezzi, oltre ai manganelli. Se vi chiedete se questo sia il “ritorno della polizia morale”, non cogliete il punto: il modello è stato riprogettato. I vecchi furgoni non sono scomparsi del tutto; il nuovo modello trasforma ogni telefono e ogni telecamera in un’auto di pattuglia. E un “Centro Operativo” a Teheran cerca di mantenere in funzione questa macchina, mentre il Parlamento e il Consiglio di Sicurezza Nazionale discutono se esista una base giuridica.
In breve, il Setad non è formalmente una forza di polizia, ma costituisce il sistema operativo che diffonde l’attività poliziesca in tutta la società. E al momento, questo è il modo principale con cui il regime cerca di recuperare un controllo che non può più imporre per le strade.
(*) giornalista e attivista iraniano che vive in Grecia
«Non esiste un punto di vista femminista». «…Sono disposta a perdere ogni coerenza teorica per restare coinvolta nella realtà che cambia».
Due citazioni, tra le tante, nella giornata, venerdì scorso, ospite il Comune di Milano, dedicata al pensiero e alla pratica politica di Lia Cigarini, nell’ambito dei 50 anni della Libreria delle donne.
La prima è in un documento che all’apertura della Libreria, nel 1975, dice come vanno raccolti i «testi di teoria e pratica politica». È molto importante raccogliere libri e ogni scritto che documenti «il sapere conquistato dalle donne», ma sarebbe «catastrofico se questo sapere venisse assunto come ideologia». «Invece di produrre idee attraverso la modificazione collettiva della realtà ci si accontenta di assorbire una visione del mondo…». E la passione per il cambiamento della realtà torna in un testo del 2018 per il lavoro della rivista Via Dogana (c’erano state le elezioni nazionali, il successo del centrodestra e dei 5Stelle: e poi il governo “giallo-verde”).
La vita politica di Cigarini era iniziata presto, nella Federazione giovanile del Pci milanese, ma subito rivolta al femminismo, nel gruppo Demau (Demistificazione Autoritarismo Patriarcale), dove scriverà con altre il fondamentale testo Il maschile come valore dominante (1968).
Il titolo del convegno, “Aprire la porta alla parola e alla libertà”, sintetizza una pratica politica basata sulla relazione tra donne, sulla presa di coscienza della propria “differenza” che “apre” al mondo e al desiderio cambiamento. La leva è il linguaggio.
Una «sovversione», come ha detto Stefania Tarantino, filosofa e musicista, un «arieggiare» che porta vento nuovo «nelle stanze del logos e della politica». Un capovolgimento «dal basso», incarnato nei corpi. Relazioni dove giocano disparità e autorità, quali «figure dello scambio»: l’arte di confliggere in modo non distruttivo. Concetto tornato molte volte in questi tempi di guerra.
Lia è avvocata, e un pensiero originale – ne ha parlato Angela Condello (Università di Messina) – l’ha dedicato alla centralità della “pratica processuale” – ancora relazioni e linguaggio – nella creazione del diritto.
Opponendo alla furia legislativa (oggi tutta orientata al penale) l’idea di un “vuoto” capace di «tenere aperte le porte della possibilità».
Altra grande passione: la libertà nel lavoro. Giordana Masotto, tra le fondatrici della libreria, ha ricordato le moltissime iniziative, in parte sintetizzate nel Sottosopra Immagina che il lavoro (2008): al centro l’idea di «tutto il lavoro necessario per vivere».
Le donne ne sono portatrici vivendo sia la riproduzione che la produzione. E Francesca Re David (segreteria Cgil ed ex segretaria Fiom) ha portato una testimonianza appassionata sulla realtà della competizione “bellica” anche tra aziende e sugli ostacoli alla contrattazione.
Cigarini è stata sempre convinta che la politica “delle donne” e della differenza, in quanto “politica delle relazioni” e “del simbolico”, fosse un’occasione anche per gli uomini, ai quali ha rivolto con insistenza l’idea di una “relazione di differenza”, un agire comune.
La risposta non è stata finora evidente. Forse ci siamo a tal punto identificati col mondo da dominare – ipotesi di Claudio Vedovati – da ridurci a un sesso che non sa vedere se stesso. (Consiglio ai maschi che amano la politica il libro di Lia: La politica del desiderio (Orthotes, 2022), magari partendo dall’intervista che le fa Riccardo Fanciullacci).
Nicolò Nisivoccia ha letto una affettuosa lettera dell’amica Luciana Castellina («Da Lia ho capito che non c’è rivoluzione anticapitalista senza svelare l’imbroglio del neutro…»).
da Sibilla
A pochi passi dal Duomo di Milano, dietro il palazzo che ospita l’enorme store di Mondadori, c’è una via ricurva dove i tram passano a malapena. Oggi ci sono negozi alla moda e trappole per turisti; negli anni Settanta c’era una piccola libreria sulla cui porta era affisso un cartello che diceva:
Non esiste punto di vista femminista. I libri cosiddetti femministi che sono in questa libreria valgono, se valgono, per il legame che hanno con la lotta delle donne e con la modificazione della realtà. In ogni caso non contengono il punto di vista femminista.
La libreria di via Dogana 2 aveva aperto le porte il 15 ottobre 1975 e si chiamava Libreria delle donne. Resterà lì fino al 2001, quando traferirà la sua sede in Via Calvi 29, dove è ancora in attività. Nacque «per iniziativa di un gruppo di donne legate tra loro da una lunga pratica politica, […] dal desiderio di rendere più ricche e articolate le relazioni tra donne […] misurandosi in un progetto concreto che impegnasse energie, tempo e denaro». Questo gruppo di donne, che si diede la forma della “cooperativa Sibilla Aleramo”, ebbe l’idea di aprire una libreria dopo aver visitato la Librairie des Femmes di Parigi, inaugurata soltanto un anno prima dal Mouvement de Libération des Femmes – Psychanalyse et Politique.
A metà degli anni Settanta, il femminismo era ormai ovunque: si era appena conclusa la campagna per il referendum sul divorzio e si stava avviando quella per l’aborto; le piazze erano piene di donne che protestavano; c’erano gruppi e collettivi femministi in ogni città italiana, da Nord a Sud; la neonata casa editrice La Tartaruga recuperava o traduceva i classici del pensiero femminista. Il femminismo, da avanguardia politica e culturale, nel giro di cinque anni si era trasformato in un movimento di massa. In questo lasso di tempo aveva strutturato la propria pratica attraverso lo strumento dell’autocoscienza, chiamata anche “piccolo gruppo”, che prevedeva il confronto e la condivisione delle esperienze personali, attraverso il riconoscimento dell’esperienza condivisa in quanto donne. Ma dopo qualche anno, questo strumento era entrato in crisi: alcuni gruppi, più vicini alla politica di movimento, ritenevano conclusa la fase dell’analisi e dello scavo interiore e volevano passare all’azione. Altri, credevano ancora nella potenzialità dell’autocoscienza ma sentivano l’esigenza di rinnovarla.
Il femminismo milanese, sin dagli albori, si era caratterizzato per una certa diffidenza nei confronti dell’azione politica. Carla Lonzi, con Sputiamo su Hegel, aveva “vanificato la presa di potere”, rifiutando come irrimediabilmente patriarcale ogni forma di politica istituzionale o rivoluzionaria. Nel 1972 alcune donne fondarono sempre a Milano il Collettivo di via Cherubini, che fece propria quella tendenza, mettendo in secondo piano le questioni di uguaglianza giuridica ed economica per concentrarsi su un progetto più ampio, esistenziale, di ridefinizione di donna. Mentre passano gli anni, racconta la femminista Lea Melandri, «sorge l’esigenza di concretizzare materialmente, e non solo enunciare teoricamente, una pratica di vita comune. Dopo tanti gruppi di parola, si fa avanti il desiderio di un “fare insieme”, una progettualità che implicasse anche il denaro e il lavoro». L’incontro con la Librairie des Femmes, ma soprattutto con Antoinette Fouque del gruppo francese Psychanalyse et Politique segnerà una svolta cruciale, non solo per la Libreria delle donne, ma per tutto il femminismo italiano.
Il femminismo del fare
Che la Libreria non è soltanto un negozio, lo si capisce dal testo che oggi viene considerato una sorta di statuto di questa esperienza, intitolato Il tempo, i mezzi e i luoghi:
Il tempo, i mezzi e i luoghi adeguati vogliono dire creare delle situazioni in cui le donne possono stare insieme per vedersi, parlarsi, ascoltarsi, mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre; vuol dire coinvolgere in queste situazioni collettive il corpo e la sessualità, in un luogo collettivo non regolato dagli interessi maschili. In questo luogo noi affermiamo i nostri interessi ed apriamo una dialettica con la realtà che vogliamo trasformare.
La Libreria è luogo “del fare”, ma non nel senso che è un luogo dell’azione e della rivendicazione, ma del «fare per la vita, semplicemente vivendo». La Libreria, cioè, non vuole essere dipendente da tutto ciò che le parole portano inevitabilmente con sé, (come il giudizio, la rabbia, la frustrazione) come aveva dimostrato l’esaurirsi dell’autocoscienza. La pratica del fare, si legge nel libro del 1987 Non credere di avere dei diritti, «metteva insieme donne non legate necessariamente da affetti o familiarità né mobilitate dietro una sommaria parola d’ordine, bensì da un progetto comune cui ciascuna aderiva con le sue ragioni, i suoi desideri, le sue capacità, mettendoli alla prova di una realizzazione collettiva». Fare cassa, maneggiare soldi, pagare le bollette della luce è «una politica che non aveva nome politica».
Le madri di tutte noi
E poi c’è la letteratura. L’incontro con le francesi, e in particolare con il pensiero di Luce Irigaray (il cui Speculum verrà tradotto in italiano dalla filosofa Luisa Muraro nel 1975), conduce la Libreria delle donne a ragionare profondamente sulla dimensione del simbolico. La comunità di pensiero che si riunisce intorno alla Libreria delle donne, e nello specifico intorno a Muraro, riconosce il fallimento del femminismo di movimento nella sua incapacità «di tradurre in realtà sociale l’esperienza, il sapere e il valore di essere donne», come si legge in un altro importante documento del 1983, Più che donne che uomini. Questa incapacità sarebbe dovuta al mancato riconoscimento delle differenze tra le donne, che si esprimono anche in differenze di potere, capacità e autorità e che il “femminismo ideologico” cercava di nascondere riunendo le donne in un’unica grande categoria. Per uscire da questa trappola si rendeva quindi necessario trovare «figure simboliche che traducono il fatto di appartenere al sesso femminile nella ragione sociale di tutta la libertà che una donna può desiderare per sé».
Le riviste femministe, le nuove case editrici come La Tartaruga o Scritti di Rivolta femminile, la nascita di biblioteche e centri delle donne favoriscono la ricerca di queste «madri simboliche». Nel 1982 la Libreria pubblica il “Catalogo giallo”, intitolato Le madri di tutte noi, che più che un elenco di “libri femministi”, «serviva a significare quello che la cultura umana non sa della differenza di essere donne»: Jane Austen, Emily Brontë, Charlotte Brontë, Elsa Morante, Gertrude Stein, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann, Anna Kavan, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett. Il Catalogo si configura come il catalogo della disparità dell’esperienza delle donne, ma è proprio la sua stesura che evidenzia la difficoltà di nominarla. Pur vendendo libri, il lavoro della Libreria si poggia sulla consapevolezza che la vita sta fuori dalle parole stampate, nelle relazioni dirette che si creano fra le donne, e fra le donne col mondo.
La Libreria non è mai stato un luogo “facile”. Le sue pratiche sono diverse da tutto ciò che siamo abituate ad associare al femminismo e non sono mancate polemiche e conflitti per le sue prese di posizione. Negli ultimi anni molte donne si sono allontanate, altre si sono avvicinate. Ma ciò che rende la Libreria, anche dopo cinquant’anni, un luogo così importante, è proprio l’essere riuscita a fare il femminismo, a renderlo un’esperienza concreta, autonoma e originale per tutte le donne che hanno attraversato la sua soglia, tanto per restare quanto per prenderne le distanze.
Il consiglio
Sul sito di MemoMI (La memoria di Milano) è possibile vedere gratuitamente il documentario Libreria delle donne, realizzato da Sabina Fedeli, che ripercorre la storia della Libreria. Sempre sullo stesso sito si può trovare la serie Il documentario – Il femminismo a Milano.
dal Corriere della Sera
Mio figlio ha undici anni e ha appena iniziato la prima media. Mi ha raccontato che è l’unico in classe a non avere un cellulare e a non giocare ai videogiochi. Ha detto che i compagni preferiscono giocare ai videogiochi o stare sui social anziché uscire, li vede assuefatti da quello strumento. Per lui una cosa così dovrebbe fare notizia, se ne dovrebbe parlare e non pensare che sia normale.
Questo bambino alieno non fa altro che giocare all’aria aperta, e a differenza di quello che pensano molti è completamente autonomo e ben inserito fra gli amici.
Molti genitori si giustificano dicendo che il cellulare li fa stare più tranquilli, questo è molto pericoloso, i ragazzi hanno bisogno di fiducia e devono essere in grado di uscire in autonomia, senza essere controllati in continuazione. Alcuni dicono: «Gli ho dato il telefono, ma controllo tutto quello che fa». Qui muore la fiducia nei figli, la loro autonomia, la voglia di scoprire cose nuove del mondo reale, anche di nascosto, muore la loro sicurezza. Aspettate che abbiano gli strumenti per gestire certe cose e quando date a vostro figlio la possibilità di accedere a pericoli virtuali, fatelo, perché sapete che è in grado di gestirli e avete fiducia in lui.
Mio figlio mi ha ringraziato per non averlo fatto ammalare di videogiochi, questo mi fa sperare che possiamo crescere figli sicuri di sé, responsabili, autonomi, facendoli uscire nel mondo reale, senza localizzarli e senza pensare che il posto più sicuro sia la loro camera davanti a uno schermo.