da Internazionale Kids

L’esperienza di una scuola tedesca che ha vietato l’uso degli smartphone. Articolo uscito in Germania sulla rivista Dein Spiegel con il titolo Die Sache mit der smartphone [‘La questione dello smartphone’]

Divieto o libertà?

Niente smartphone, neanche a ricreazione: è la nuova regola in alcune scuole tedesche (e in tutte quelle italiane). È una buona idea? Vediamo cosa ne pensano studenti e professori.

“Per favore, lasciatelo qui”, dice Katrin Kampovsky ai suoi studenti. Gli allievi della 7B (che in Italia corrisponde alla seconda media) sanno già di cosa parla e uno dopo l’altro depositano lo smartphone in un armadietto accanto alla lavagna. Nessuno protesta.

Consegnare il telefono è ormai una routine alla Max-Tau Schule di Kiel, in Germania. Quando tutti gli apparecchi sono dentro, si chiude lo sportello a chiave. I telefoni restano fuori gioco fino alla fine delle lezioni. Solo allora la professoressa Kampovsky riapre l’armadietto e li restituisce a ragazze e ragazzi.

Dall’ottobre 2024 in questa scuola elementare e media sono vietati telefoni cellulari. La regola si sta diffondendo in altri istituti della Germania: niente Instagram durante le pause, niente WhatsApp di nascosto sotto il banco. Semplicemente, niente smartphone a scuola. «I telefoni vengono raccolti prima delle lezioni e riconsegnati solo quando ragazze e ragazzi tornano a casa», spiega l’insegnante.

Che cosa pensano gli allievi di questo divieto? «Mi sembra molto meglio senza telefoni. Prima, durante le lezioni c’era sempre qualcuno che scattava foto di nascosto e mi dava fastidio», dice Mina, tredici anni. Il compagno di classe Mustafa è d’accordo: «Succedeva anche nelle pause. Qualcuno inquadrava un compagno con la fotocamera, trasformava l’immagine in uno sticker e lo inviava agli altri. Sono contento che ora non succeda più. L’atmosfera è più rilassata»

Tornare a parlarsi

«Nelle pause eravamo sempre con il telefono in mano. Ora siamo tornati a fare due passi e a chiacchierare», dice Mina. Poi aggiunge il motivo più citato anche dagli adulti a favore del divieto: «A scuola bisogna concentrarsi sulle lezioni, i telefoni sono solo una distrazione».

Rem, quattordici anni, ammette: «All’inizio mi è pesato molto rinunciare al telefono. A dire la verità non vedo l’ora di riprenderlo a fine lezione. Controllo subito WhatsApp, Instagram e TikTok».

Il racconto di Rem è emblematico dei problemi della generazione digitale: con tante funzioni divertenti è facile perdere il controllo e restare davanti allo schermo per ore. Ma non fa bene. Distrae, modifica il cervello e anche i rapporti con le persone nel mondo reale. Le relazioni sociali peggiorano quando guardare un piccolo schermo diventa più normale che guardarsi negli occhi. Il cambiamento a scuola è avvenuto gradualmente, racconta Katrin Kampovsky: «Quando solo pochi studenti avevano uno smartphone non c’erano problemi, ma negli ultimi anni tutto è cambiato. Oggi esistono molte piattaforme e giochi pensati solo per i giovani. E tutti hanno un telefono».

Decisione collettiva

Alla Max-Tau l’uso degli smartphone non era libero neanche prima del divieto. C’erano regole, come in tutte le scuole: in teoria i telefoni dovevano restare spenti, in tasca o nello zaino, ed essere usati solo a ricreazione. Ma quelle norme non sono mai state davvero rispettate. «Noi insegnanti perdevamo continuamente tempo a richiamare gli studenti e a invitarli a essere ragionevoli. Era stancante. Il divieto ha fatto chiarezza», racconta Kampovsky.

Anche se molte scuole lo apprezzano, in Germania il divieto non vale dappertutto. In altri paesi europei le regole sono più severe, per esempio nei Paesi Bassi, in Austria, Francia e Italia. La differenza dipende anche dall’organizzazione tedesca: le politiche scolastiche sono decise dai singoli Land della repubblica federale. Il ministro dell’istruzione bavarese, per esempio, può prendere decisioni diverse da quello sassone. E non è detto che direttive severe dei ministeri siano la soluzione migliore, sostiene Dieter Lange, preside della Max-Tau Schule.

«Nella nostra scuola abbiamo discusso per mesi prima di arrivare al divieto, anche con le ragazze e i ragazzi. È importante che possano dire la loro. Devono imparare a essere autocritici nell’uso del telefono, non limitarsi a obbedire alle regole imposte dai docenti», spiega. Nell’assemblea scolastica dello scorso autunno è stato deciso il divieto. I genitori hanno ricevuto una lettera con cui venivano informati della nuova regola. In tutte le classi sono stati predisposti armadietti per i telefoni. Ragazze e ragazzi possono comunque portarli a scuola: molti, per esempio, nel telefono hanno l’abbonamento dell’autobus.

«Mi ha sorpreso la rapidità con cui si sono abituati alla nuova regola. Ho l’impressione che in molti casi siano perfino contenti», afferma Lange. «Il divieto del telefono è anche libertà».

Quest’anno la Libreria delle donne di Milano compie cinquant’anni. Per me, che ho incontrato il pensiero della differenza sessuale alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, è un anniversario che tocca da vicino. Non solo perché riconosco l’importanza di ciò che la Libreria ha rappresentato, ma perché quel pensiero ha cambiato anche me, il mio modo di essere uomo, di pensare, di stare nelle relazioni.

Quando l’ho incontrato, non capivo bene perché mi riguardasse. Mi sembrava una cosa “per le donne”, e io restavo un po’ ai margini, curioso ma anche distaccato. Poi, poco a poco, mi sono accorto che il pensiero della differenza non parla “alle donne” ma dalla realtà delle donne, e proprio per questo riguarda tutti. Perché tocca il modo in cui ognuno di noi vive, desidera, parla, ama.

Dalla Libreria ho compreso la differenza tra emancipazione e liberazione, ho imparato che la libertà non è qualcosa che uno si conquista da solo, ma qualcosa che accade “tra”: tra chi si riconosce, tra chi si ascolta, tra chi si autorizza a parlare a partire da sé, ma anche grazie a un’altra o a un altro. La libertà, dunque, è un fatto di relazione e può accadere anche dentro una relazione attraversata dal conflitto, perché proprio lì il riconoscimento e l’ascolto diventano più evidenti.

La chiave della relazione come pratica politica radicale della Libreria mi ha mostrato che l’autorità non nasce dal potere, ma dallo sguardo di chi ti riconosce e ti rimanda la tua misura senza possederti. Per me, cresciuto in un mondo in cui “avere autorità” significava comandare o imporsi, è stata una rivelazione. Ho scoperto che si può stare nella parola non per vincere o convincere, ma per tenere aperto un legame. Da qui discende anche la politica, nel suo senso più profondo: fatta di legami veri, non di ruoli.

Con la Libreria ho incontrato un pensiero ancora più radicale: l’ordine simbolico della madre, secondo il quale la nostra cultura ha dimenticato la sua origine, ovvero la dipendenza da chi ci ha dato la vita e la parola, la madre. E che questo oblio ha reso il linguaggio e il pensiero poveri, perché si sono costruiti sulla rimozione del femminile, sull’illusione di un sapere che si genera da sé. Quando l’ho capito, mi si è aperto un nuovo punto di vista. Ho visto che anche il mio modo di pensare e parlare era pieno di questa dimenticanza: un pensiero e una parola che pretendono di essere universali, neutri, e invece cancellano la relazione da cui nascono.

Mi ha anche insegnato che la differenza è una via di conoscenza, non un ostacolo. Che la realtà si capisce meglio quando non la si domina, ma la si ascolta. E che la lingua materna – quella del corpo, dell’origine, dell’amore che precede ogni discorso – continua a parlarci, se abbiamo il coraggio di non sovrastarla.

Tutto questo, per me, si traduce in una pratica: imparare a fare spazio e a mettermi da parte. A non occupare tutto, a lasciare che altre parole e altri sguardi trovino posto. Non è facile, perché il maschile è stato educato a stare al centro, a parlare “al posto di”. Ma è un esercizio che libera. Ti fa scoprire che anche tu, come uomo, puoi esistere in un modo più vero, meno difensivo, più aperto.

La Libreria delle donne di Milano ha dato alle donne, in questi cinquant’anni, uno spazio simbolico di libertà e di parola. Ma quella libertà, se la si guarda bene, ha fatto bene anche a noi uomini. Ci ha mostrato che la differenza non è una minaccia, ma una possibilità di senso. Ci ha insegnato che l’altro non è un pericolo, ma una via d’accesso al reale.

Per questo, oggi, voglio dire grazie. Perché nel pensiero nato alla Libreria ho trovato un respiro più ampio, una misura del vivere più giusta. E perché, da uomo, continuo a credere che la libertà femminile non chiude, ma apre. A tutte e a tutti.

da Pagine Esteri

Sotto una tenda nel centro di Gaza nasce un festival cinematografico dedicato alle donne

Alla fine di un tappeto rosso improvvisato, steso tra gli edifici distrutti nel centro di Deir Al-Balah, nella Striscia di Gaza, alcune decine di palestinesi erano seduti davanti a un grande schermo televisivo. Quando è iniziato il film, è calato il silenzio e i presenti hanno alternato momenti di concentrazione cupa a singhiozzi mentre guardavano le loro esperienze degli ultimi due anni riflesse sullo schermo per l’ora e mezza successiva. Il film era “The Voice of Hind Rajab” e la proiezione ha segnato l’apertura del primo Festival Internazionale del Cinema Femminile di Gaza.

«Ho pianto mentre guardavo il film», ha detto Nihal Hasanein, una delle partecipanti, alla rivista +972 Magazine dopo la proiezione del 26 ottobre. All’inizio di quest’anno ha perso tre dei suoi figli in un attacco aereo israeliano sulla sua casa a Beit Lahiya; ora vive nel campo di Al-Jazaeri a Deir Al-Balah, dove è stato proiettato il film. «Mi ha rievocato il dolore di aver perso tutti i miei figli in un colpo solo, insieme alla mia casa», ha detto Hasanein.

Diretto dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, “The Voice of Hind Rajab” ricostruisce l’assassinio della piccola Hind Rajab, di cinque anni, e di sei membri della sua famiglia da parte dei soldati israeliani mentre tentavano di fuggire dalla città di Gaza in auto nel gennaio 2024. Presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia a settembre, ha ricevuto il Gran Premio della Giuria e una standing ovation di 23 minuti da parte del pubblico. Successivamente ha vinto numerosi altri prestigiosi premi, diventando una delle opere arabe più acclamate dell’anno. La proiezione poco più a sud di Gaza, la città natale di Rajab, è stata la prima nel mondo arabo.

Il Festival Internazionale del Cinema delle Donne di Gaza è stato lanciato dal regista e ricercatore palestinese Ezzaldeen Shalh, ex presidente dell’Unione Internazionale del Cinema Arabo, in collaborazione con il Ministero della Cultura palestinese e istituzioni cinematografiche locali e internazionali. Secondo lui, il festival mira a presentare film prodotti, diretti o scritti da donne – in particolare in Palestina, ma anche in tutto il mondo arabo e oltre – che affrontano tematiche di donne.

L’edizione inaugurale, organizzata con lo slogan “Donne leggendarie durante il genocidio”, ha cercato di far luce sulle sofferenze delle donne palestinesi negli ultimi due anni e di ricostituire la vita culturale di Gaza. «C’era bisogno di una piattaforma artistica che rappresentasse le donne palestinesi e consentisse loro di raccontare le loro storie al mondo attraverso la loro lente», ha affermato Shalh.

Nel corso dei sei giorni dal 26 ottobre – che segna la Giornata Nazionale delle Donne Palestinesi e l’anniversario della prima Conferenza delle Donne Palestinesi del 1929 – al 31 ottobre, il festival ha presentato quasi ottanta film provenienti da oltre due dozzine di paesi del Medio Oriente, Nord Africa, Europa e Americhe. Le proiezioni hanno attirato oltre 500 spettatori, un numero che stride se paragonato alle cifre prebelliche, quando oltre 2.000 persone al giorno affollavano festival culturali simili a Gaza.

Oltre a Ben Hania, il festival inaugurale ha reso omaggio ad altre due donne il cui lavoro ha contribuito alla lotta popolare palestinese: la regista palestinese Khadijeh Habashneh e la defunta regista libanese Jocelyne Saab. La giuria comprendeva registi di spicco come Annemarie Jacir, la regista Céline Sciamma e l’attrice Jasmine Trinca.

Yusri Darwish, capo dell’Unione Generale dei Centri Culturali in Palestina, ha celebrato il festival come «una nuova affermazione che Gaza ama la vita nonostante il genocidio, che può trasformare le macerie in uno schermo e la tristezza in un messaggio di speranza».

Darwish ha sottolineato che tenere il festival in questo momento è «un tributo alle donne palestinesi che hanno sopportato gli orrori della guerra – dalla perdita e la detenzione allo sfollamento – e che meritano che le loro storie siano raccontate al mondo con onestà e giustizia».

Superare gli ostacoli

Secondo Shalh, la sfida più grande nell’organizzazione del festival è stata trovare una sede, poiché «tutte le strutture di questo tipo a Gaza sono state distrutte». Il team ha dovuto montare delle tende temporanee sullo sfondo di edifici parzialmente crollati; senza elettricità, hanno dovuto ricorrere a un generatore per proiettare i film. «Anche la comunicazione con i registi e la giuria è stata difficile», ha aggiunto.

Le condizioni a Gaza hanno reso impossibile la partecipazione a chi doveva percorrere lunghe distanze. Niveen Abu Shammala, una giornalista che prima della guerra viveva nel quartiere di Shuja’iya, nella parte orientale della città di Gaza, ma che ora è sfollata in una tenda nella parte occidentale della città, era solita occuparsi degli eventi culturali, in particolare sui festival cinematografici, in tutta la Striscia. Tuttavia, l’alto costo dei trasporti, oltre all’orario tardivo (il festival iniziava dopo le 15:30), le hanno impedito di partecipare a questo evento.

«Anche se la guerra è finita, fa ancora paura muoversi di notte», ha spiegato. «Mi sarebbe piaciuto vedere i film in concorso, ma è difficile scaricarli con una connessione internet così debole».

Nelly Al-Masri è riuscita a partecipare, guardando tutti e tre i film proiettati il secondo giorno del festival, che si è tenuto presso la sede del Sindacato dei giornalisti. È rimasta particolarmente colpita dal cortometraggio giordano “Hind Under Siege”, che parla anch’esso di Hind Rajab. «Questo film mi ha colpito profondamente», ha detto Al-Masri a +972. «Parla a nome di tutti i bambini di Gaza, non solo di Hind».

Al-Masri avrebbe voluto partecipare a più eventi del festival, ma i costi di trasporto, la continua difficoltà di procurarsi cibo e acqua potabile a sufficienza e la cura dei suoi figli lo hanno reso impossibile. «Molte donne stanno vivendo la stessa situazione», ha detto. «Speriamo che le condizioni a Gaza migliorino».

Hamsa Mahmoud, dieci anni, non sapeva nulla del festival prima dell’evento, ma ha finito per partecipare a diverse proiezioni dopo aver notato la folla che si radunava intorno alle tende vicino a dove vive. «È la prima volta che partecipo a un festival”, ha spiegato. “Sono felice di essere qui e ancora più felice di avere la possibilità di guardare qualcosa sullo schermo. Dall’inizio della guerra e delle interruzioni di corrente, non abbiamo potuto guardare nulla. Mi piacerebbe che ci fossero più festival come questo».

Un’altra partecipante, l’attivista comunitaria Faten Harb, vede il cinema come un mezzo importante per rafforzare la determinazione delle donne palestinesi a Gaza. «L’arte è un messaggio nobile e il modo più facile e semplice per raggiungere il mondo senza dire troppo», ha affermato.

«Il mondo è stanco di sentire notizie di uccisioni, distruzione e feriti», ha continuato Harb. «Ecco perché dobbiamo cercare altri modi per trasmettere la sofferenza della popolazione di Gaza. Abbiamo urgente bisogno di eventi come questo per far luce su ciò che è accaduto nella Striscia di Gaza durante la guerra genocida, soprattutto per le donne, che sono state le più colpite».

(*) Ibtisam Mahdi è una giornalista freelance di Gaza specializzata in reportage su questioni sociali, in particolare riguardanti donne e bambini. Collabora anche con organizzazioni femministe di Gaza nel campo del giornalismo e della comunicazione.

(Pagine Esteri, 13 novembre 2025, da +972 Magazine. Traduzione di Federica Riccardi)

da Rivista Studio

Quando il filone del parenting sembrava ormai completamente spolpato e esaurito, arriva Amanda Hess, giornalista del New York Times esperta in cultura digitale, con un libro, Un’altra vita (Einaudi), pieno di idee e pieno di vita sul diventare genitori in un mondo mediato dalla tecnica, dalle app e dai social network.

Il rapporto della futura mamma Hess con il Panopticon di internet inizia già prima della gravidanza, quando un’app di controllo del ciclo, che poi si scopre essere stata sviluppata da un gruppo di informatici maschi, inizia a soffiarle nell’orecchio a proposito di finestre di fertilità e concepimento programmato: proprio a lei, che sul Nyt scriveva fieramente della scelta di non avere figli, e che alla fine si fa fregare da quel subdolo condizionamento. Una volta incinta, è il test del Dna fetale, una tecnologia che è ormai un must tra le gravide del suo ceto sociale, a farle scoprire che forse aspetta un bambino con una rara malattia genetica, possibilmente causata dagli ansiolitici di cui faceva uso per intervistare maschi stronzi del jet set. La diagnosi la fa entrare in un loop di ansia e senso di colpa, che dopo la nascita di un bambino con sindrome di Beckwitth-Wiedeman, verranno opportunamente gestiti da un corollario di dispositivi – non solo medici, come la macchina dell’ossigeno – ma anche commerciali, o come dicono certi utenti sciccosi. C’è Snoo, la culla collegata a un’app che dondola da sola e manda direttamente nel lettone dei genitori un grafico azzurro o rosso a seconda della qualità del sonno del neonato, nonché un relativo pagellino che i più fanatici condividono con l’hashtag #snooporn. Ci sono la calzina Dreamsock della Owlet per misurare battito cardiaco e saturazione, e la fascia per il torace della Nanit con relativa videocamera, moderne schiave robotiche a controllare tutto il tempo che il bebè non smetta di respirare.

La mercificazione dell’attività di cura

Non sono solo le mamme come Hess, il cui figlio corre il rischio reale di soffocamento, a far ricorso a questi oggetti (che peraltro non hanno nessun reale riscontro in campo medico). Sono soprattutto i genitori di bambini sani. Tutti questi dispositivi, figli dell’ossessione contemporanea del tracciamento dei parametri fisici, fanno leva sull’ansia crescente di genitori sempre più soli.

Hess ripete più volte il vecchio adagio secondo il quale per crescere un figlio ci vuole un villaggio. Ma, aggiunge, citando la descrizione di una pagina Facebook di neogenitori, che «in quest’era digitale non tutti abbiamo a disposizione dei veri villaggi a cui appoggiarci, quindi cerchiamo online consigli, un senso di comunità e suggerimenti sui prodotti migliori». Harvey Karp, il pediatra che ha scritto The happiest baby on the block, ha detto al New York Times che «il modello del villaggio non è solo rose e fiori perché tutti si fanno gli affari tuoi e bisogna avere a che fare con parenti antipatici». E Leah Plunkett, esperta di privacy digitale minorile di Harvard, conferma che le tecnologie «si vendono perché eliminano il disagio delle relazioni interpersonali». Hess ci mette in guardia: i dispositivi, proponendosi come soluzione alla perdita della vita comunitaria, rappresentano in realtà la pura mercificazione dell’attività di cura.

Nel momento in cui l’autrice partorisce, tutte le applicazioni per gestanti che aveva scaricato hanno già venduto i suoi dati a centinaia di aziende che non vedono l’ora di solleticare bisogni fantasiosi e inediti nella storia della puericultura. «Per il capitalismo consumista», spiega Hess «il vertice della forma femminile è il parto: le aziende a quel punto ti accarezzano e ti portano per mano fino alla tomba». Man mano che Hess cerca su Google risposte al problema di suo figlio, nato con una grossa lingua che gli pende dalla bocca, viene profilata come un tipo particolare di mamma e a quel punto indirizzata verso consumi e gruppi specifici. Il suo feed di TikTok si riempie di medical mum che narrativizzano le loro storie di sofferenza, e di donne deluse dalla medicina convenzionale che si dedicano al freebirth, il parto in casa senza sostegno ostetrico. Durante la stesura del libro, Hess va a trovare molte di queste donne in giro per l’America e racconta le loro vere storie dietro alla maschera virtuale e le loro posizioni estreme rispetto alla tecnologia medica, per la quale lei prova sentimenti ambivalenti: il rancore di averle sbattuto in faccia infaustissimi dati prenatali, e la gratitudine per averla preparata ad accudire quel figlio. Hess fissa la cannula alle narici del piccolo, allatta e guarda le storie di altre madri sopraffatte. Appoggia il bambino nel letto smart e poi lo osserva sul monitor, scorre feed di famiglie simili alla sua e googla continuamente le sue angosce. Nel frattempo, la tecnologia la sovraespone anche a un’altra violenza, quella di vicini senza figli che al minimo vagito le mandano messaggi orribili che la fanno sentire inadeguata: non li ha mai visti, ma è convinta che non si esprimerebbero con tanta aggressività se dovessero dirle le stesse cose faccia a faccia.

Contro la genitorialità prescrittiva

Questo saggio, pieno di tic che conosciamo bene e di risvolti alla Black Mirror, muove da un’analisi critica sulla pervasione delle tecnologie nelle nostre vite intime, ma arriva a conclusioni molto più larghe, che rivendono l’intero concetto del parenting a partire dal primo grande libro fondativo, The common sense book of baby and child care del dottor Spock, del 1946, che vendette 50 milioni di copie. Spock premetteva che non servono tanti manuali per crescere un figlio, basta il buon senso. Ma poi partiva con le sue istruzioni, contraddicendosi subito. Da quel manuale in poi, siamo stati immersi in un tipo di genitorialità prescrittiva che nel tempo si è prestata sempre meglio a far dilagare i meccanismi capitalistici.

«Mentre noi Millennial crescevamo, la nostra identità si è fusa con la domanda neoliberista di ipercompetizione. Una possibile reazione è stata preparare ansiosamente i nostri figli al successo interpretando la genitorialità come una seconda carriera». Negli ultimi trent’anni, secondo Adam Gopnik del New Yorker, «il concetto di genitorialità e l’industria multimiliardaria che lo circonda hanno trasformato la cura dei bambini in uno sforzo ossessivo, soggiogante e orientato agli obiettivi, volto a modellare un particolare tipo di bambino che diventerà un particolare tipo di adulto. Eppure, questa ossessione ha completamente fallito nel migliorare la vita dei bambini».

Con tutto quel che c’era da fare per essere all’altezza della missione, essere una buona madre ha smesso di comprendere le ore passate effettivamente coi figli. A un certo punto, Hess si accorge che il rapporto col suo bambino era stato sostituito in qualche modo dal rapporto coi dati che lo riguardavano, in una specie di gamificazione del neonato. Una sera, quando ormai l’apparecchio per l’ossigeno è stato archiviato da un pezzo, Hess si stende accanto al figlio e per la prima volta si accorge del puntino rosso che incombe gravemente sul suo sonno: un occhio foucaultiano. È quella notte che si alza, spegne la lucetta fastidiosa, stacca la presa della telecamera e la ripone per sempre nella sua scatola.

da il manifesto

Come ammette Niccolò Nisivoccia, parlare di “belle leggi” – parole che ha scelto persino come titolo del suo ultimo libro da domani in libreria per Laterza (Le belle leggi, pp. 176, euro 14) – «sembra un ossimoro». Perché le leggi non riconoscono solo diritti, bensì sono anche strumenti inevitabilmente coercitivi, che non è facile piacciano a tutti. Confesso che proprio per questo sento il bisogno di operare per proporre all’Onu – ammesso sopravviva all’attuale temperie – una nuova Carta che, anziché trattare dei diritti dell’uomo, tratti delle sue responsabilità. Più difficile, certo, ma indispensabili affinché chi reclama diritti sia consapevole che questi possono anche generare sopraffazioni. Un pericolo oggi fortissimo, visto il dilagare dell’individualismo che come sappiamo tende a ignorare l’altro, quale che sia.

Proprio per impedire che nelle leggi prevarichi la pretesa del singolo che vuole essere assecondato nella sua aspettativa, Nisivoccia insiste sul fatto che la funzione della legge debba sempre ed esplicitamente proporsi anche l’obiettivo contrario, e cioè assumere come «dimensione» il «vivere comune». Quanto suggerisce anche Zagrebelsky, alla cui visione deve avere certo contribuito la partecipazione alla straordinaria esperienza che mise in campo il cardinal Martini: le «cattedre dei non credenti», un singolare confronto fra laici e cristiani a proposito dell’ingiustizia, che è inevitabile se si parte dall’idea che la legge serva solo a proteggere l’individuo anziché mettere al primo posto la sua funzione relazionale e comunitaria. Questo è invece quanto oggi è più che mai necessario, per proteggerci dalla moltitudine di norme che ci si rovescia addosso, in questa «epoca dell’intranquillità», come la chiama Miguel Benasayag, e che Vittorio Lingiardi attribuisce a un’ondata di «narcisismo».

Per difenderci, Nisivoccia propone come esempio sette categorie di nuove recenti leggi «belle». Belle proprio perché prospettano «nuovi modi di vivere insieme», creano «fiducia», e che però, proprio per questo, implicano in chi le propone, «una formazione sociale, spirituale, storica ancor prima che giuridica», tale da rendere più chiaro a tutti come «dovrebbe esser un nuovo modo di stare al mondo insieme agli altri» (Tommaso Greco).

Fra queste, quelle cosiddette «riparatorie» e, in specifico, una, varata nel 2022, che all’inizio riguardava solo i minori, poi è stata estesa anche agli adulti e consiste nel fatto che il giudice dovrà prendere in considerazione più che gli aspetti giuridici della questione, e quindi il punto di vista dell’una o dell’altra parte, il contesto perché possa esserci una base da cui sia possibile derivarne se non una riconciliazione almeno una ricomposizione, nel senso di un riconoscimento del punto di vista dell’altro. In Italia, un esempio importante di giustizia riparativa è stato quello (precedente all’emanazione della legge) fra esponenti e vittime della lotta armata (questa esperienza è anche testimoniata da Il libro dell’incontro, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, 2015).

Più capace di produrre conseguenze concrete quelle indicate nel capitolo “Ricominciare”, fra cui quella che mira a non demonizzare coloro che falliscono, una concessione che un tempo era riservata solo ai grossi imprenditori, non invece ai piccoli, il cui fallimento veniva automaticamente considerato una colpa. Con tutte le conseguenze anche economiche che questo giudizio comportava, perché implicava un parere di non affidabilità. E così si è arrivati alla cancellazione della parola «fallimento», in effetti usata non solo per il commercio ma per indicare una brutta condizione in cui uno possa essersi trovato, non per sua colpa ma per via del fato. Può peraltro essere persino un insulto: «Sei un fallito!». Adesso, grazie alla nuova bella legge, il fallimento si chiama «liquidazione giudiziaria». C’è poi «l’accompagnare» che presuppone una fragilità che però non è più considerata inferiorità. Il «diversamente abile» cui ormai siamo abituati, viene da lì. E poi ancora altre.

L’importante che hanno in comune queste leggi – sebbene la prescrizione giudiziaria che prevedono non sia sempre in grado di modificare la sostanza della sentenza – sta nel fatto che possono introdurre un diverso, positivo mutamento nel modo di gestire il diritto operando per cercare di far prevalere l’idea che siamo una collettività. E però qui, da vecchia comunista quale sono, sorgono i miei dubbi sull’insieme di queste pur importanti innovazioni.

Perché rischiano di tacitare la denuncia di un aspetto nefasto del nostro sistema giuridico che continua a raccontarci la bugia che i diritti iscritti nei nostri Codici siano uguali per tutti, perché uguali non sono coloro che dovrebbero goderne per via della loro diversa collocazione nei rapporti sociali di produzione.

Il più chiaro degli esempi a favore di questa tesi è quello che portò un secolo e mezzo fa Marx nella lettera che inviò attaccando con insolita asprezza Lassalle in occasione del congresso di unificazione del partito socialdemocratico tedesco tenuto a Gotha nel 1875: il padrone e l’operaio.

Neppure la nostra Costituzione, che tuttavia facciamo bene a dire che è «una bella legge», sfugge infatti a questa discriminazione di classe, pur attenuata dal suo prezioso articolo 3 che riconosce la necessità di accompagnare ogni attribuzione di diritti con la raccomandazione di «rimuovere quanto nella realtà ostacoli la sua reale fruizione». Come in generale accade agli operai, che pure vengono indicati uguali ai padroni nella titolarità di quel diritto.

Si tratta dunque di denunciare l’«imbroglio del neutro», e cioè del fatto che come referente del diritto venga sempre assunto un soggetto che non esiste in natura, neutro per l’appunto, che è stato però disegnato tutto sull’identità di un maschio per di più agiato.

Ho introdotto anche «il maschio», perché oggi la differenza è eclatante. Riporto solo un esempio: in nome del diritto al lavoro e come risultato della battaglia condotta per imporre le “quote rosa”, le donne sono negli ultimi tempi riuscite a entrare numerose anche in un settore importante come: quello del manager.

E però risulta che gli imprenditori uomini hanno figli al 95%, le donne solo poco più del 30. Forse non li volevano? o non è che per ottenere il diritto a qualsiasi lavoro hanno dovuto rinunciare a un altro rilevante diritto: poter scegliere se fare o non fare bambini (che non è cosa di poco conto)? Né potranno illudersi di veder riconosciuto tale diritto finché non verrà preso atto che in altre forme ma nello stesso modo, come l’operaio, hanno bisogno, per fruire davvero dei diritti codificati, di un mutamento profondo della società, una piena socializzazione del lavoro di cura senza la quale quel diritto resta sulla carta. O è possibile goderne soltanto al prezzo di una insopportabile fatica.

Non possiamo credo restare zitte/i su questo imbroglio a scapito di poveri e donne, tutti/e chiusi nella gabbia dell’identità di un soggetto inesistente chiamato cittadino che – figuratevi – consente ancor oggi al «sistema democratico liberale», all’atto del rinnovo dei negoziati per i contratti collettivi di lavoro, di misurare i danni alla salute che potrebbe subire una lavoratrice per via della prestazione chiamata a dare in quella categoria sul corpo del maschio. Ancora oggi. Chissà come è il corpo di questo neutro cui ci si riferisce nelle leggi.

Sia ben chiaro: Marx nella sua storica critica al programma di Gotha non negava il valore delle conquiste in termini di diritti via via ottenuti sul piano normativo, ma gli premeva rendere consapevoli che non è con le solo modificazioni giuridiche che si cambia un sistema. Si possono, certo, fare dei compromessi, che possono essere buoni o cattivi. Ma mi piacerebbe che, come è accaduto negli anni ’60/’70 quando di diritti se ne sono strappati parecchi e importanti, il Pci, dopo aver magari per anni contrattato e mediato in Parlamento per giungere a un compromesso, arrivata in Aula la legge, votava contro.

Era un sacrosanto modo per rendere consapevoli che buoni compromessi vanno fatti, ma che contemporaneamente è necessario chiarire che l’obbiettivo che si persegue è molto più radicale. E cioè chiarire l’imbroglio del neutro e non scordarsi che quanto vorremmo fosse una società in cui la lotta di classe non fosse più necessaria. O almeno non ignorata.

da la Repubblica

Nota: il giornalista scrive che Zohran Mamdani «è nato da genitori ugandesi di origine indiana». In realtà, è solo il padre a essere «ugandese di origine indiana»; la madre, indiana a tutti gli effetti e residente a New York, è la celebre regista e sceneggiatrice Mira Nair, autrice di Salaam Bombay! e di molti altri film.

La redazione del sito

Di lui sappiamo quasi tutto: ha trentaquattro anni, è socialista e l’incubo dei miliardari, Donald Trump lo odia, Elon Musk non ha saputo fare altro che storpiarne il nome, chiamandolo “Mumdumi”. Di lei, ventott’anni, indicata per mesi come la probabile prima first lady della generazione Z nella storia di New York, invece, si sa molto poco. Le immagini di Rama Duwaji, artista siriano-americana, sono state tra le più cliccate su Instagram negli ultimi giorni e rilanciate dai media locali: lei e il marito, Zohran Mamdani, teneramente in piedi nel vagone di una metro; a passeggio per le strade di New York; mentre si guardano intensamente sotto la pioggia, vicino a una bodega di cucina thailandese. In una, in bianco e nero, lui appare sfocato mentre ride, lei, in secondo piano, sorride. Sembra una vecchia foto di Robert Doisneau scattata a Parigi.

Appena cinque anni fa Rama confessò in un’intervista di sognare di vivere a New York, cosa che aveva ammesso essere “un cliché”. Poi la vita ha dato un’accelerazione ai sogni. Nel 2021 Duwaji si è trasferita in modo definitivo negli Stati Uniti, dove ha cominciato a lavorare come ceramista e illustratrice. Attraverso una app di incontri ha conosciuto l’uomo diventato pochi mesi fa suo marito: Mamdani. Con lui ha condiviso un viaggio di nozze in Uganda, dove Zohran è nato da genitori ugandesi origine indiana. Su Instagram ha 164 mila follower. Lui le ha reso omaggio sui social, nei mesi scorsi, quando era diventato un serio candidato a vincere le primarie democratiche. Zohran l’aveva citata, fugando il sospetto che volesse nasconderla ai newyorkesi. «Di solito lascio correre – aveva scritto – ma è diverso quando si parla delle persone che ami. Tre mesi fa ho sposato l’amore della mia vita, Rama, all’ufficio del registro civile». Un fan aveva commentato: ecco la futura first lady di New York. Un’amica fotografa ha detto di lei: «È la nostra moderna principessa Diana».

Duwaji è nata a Houston, Texas, da genitori siriani, padre ingegnere informatico e madre dottoressa. A nove anni si era trasferita a Dubai con i genitori. Poi il ritorno negli Stati Uniti per iscriversi alla School of the Arts della Virginia Commonwealth University e, dopo, a Richmond per studiare illustrazione. Tra i suoi lavori, ci sono collaborazioni a cortometraggi, mostre, ma anche illustrazioni in cui ha denunciato la guerra ambientale di Israele contro i contadini palestinesi. In un’intervista ha rivelato i suoi obiettivi legati ai diritti civili: «Oggi mi sembra che il mio ruolo come cittadina americana sia ancora più utile: usare la mia voce per parlare di ciò che accade negli Stati Uniti, in Palestina e in Siria». Duwaji stila ogni mese sui social la lista di cose trovate per strade, o incrociate, e che la ispirano: l’elenco comprende film, libri, sculture e quadri. Tutto, spiega, compone la sua idea di New York e di America. Quella che ha catturato l’attenzione di migliaia di giovani newyorkesi.

da Generazione Magazine, Instagram

Pochi giorni fa il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha annullato “4 Novembre. La scuola non si arruola”, convegno rivolto ai docenti e promosso da Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole e da CESTES (Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali). L’incontro è stato sospeso perché, secondo Valditara, risulta incoerente con la formazione del personale docente ed estraneo ai loro ambiti formativi. Queste motivazioni sono però risultate insufficienti agli occhi degli organizzatori, viste anzi come gravi violazioni circa la libertà di formazione e di espressione. Il fatto risulta molto grave anche in funzione della data del 4 novembre – infatti, da appena un anno, è diventata la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. La ricorrenza fu istituita per la prima volta nel 1922: venne scelta la data del 4 novembre perché coincideva con la fine della Prima Guerra Mondiale, momento utile a commemorare l’unità nazionale e il sacrificio dei militari. Eppure, dalla primavera del 2024 una legge ne ufficializza il nome e il significato. In questa occasione gli istituti dovranno prevedere attività e lezioni volte a celebrare il patriottismo e le gesta delle forze dell’ordine. Ciò però sembra stridere con i principi pacifici dell’istruzione – ricorda il sindacato USB – che definisce la festività come un «[espediente] per educare alla guerra, oggi al servizio del sionismo e del bellicismo di questo governo». USB si appella all’articolo 11 della Costituzione in cui si ripudia la guerra e gli articoli 3 e 33, relativi invece alla libertà di scuole e università.

da L’Espresso

Ti sei mai chiesto cosa accadrebbe se qualcuno ti conoscesse meglio di chiunque altro, meglio persino di te stesso? Non un amante, non un amico, ma un’intelligenza artificiale. Nessuna scena da Black Mirror: è solo il passo successivo del rapporto tra umani e tecnologia. Dopo averci semplificato il lavoro, intrattenuto e curato, l’IA ora bussa alla porta più fragile di tutte: quella dei sentimenti. E questa volta non vuole solo capirci, ma conquistarci. Non analizza i dati per migliorare una pubblicità o un algoritmo: analizza noi, per diventare l’interlocutore perfetto, il compagno ideale, il riflesso esatto di ciò che desideriamo. Non parliamo di trovare qualcuno online, ma di crearlo. È la nuova fase dell’amore digitale: relazioni “generate”, “personalizzate”, “addestrate”. Negli ultimi mesi si moltiplicano le start-up che offrono partner virtuali dotati di voce, emozioni simulate e una memoria emotiva che si adatta ai nostri comportamenti. Replika, Soulmate AI, Nomi, e perfino versioni sperimentali sviluppate da Meta e Google, promettono “compagnia empatica” e “connessioni personalizzate”. Tradotto: puoi avere un partner che non litiga, non tradisce e ti dice esattamente quello che vuoi sentire. Puoi decidere il tono, il carattere, il corpo (nei modelli con interfaccia 3D o robotica) e perfino il grado di dipendenza emotiva che desideri instaurare. L’eros diventa un algoritmo che impara dal tuo desiderio e lo perfeziona, fino a diventare il partner ideale. O almeno la sua imitazione perfetta. L’amore diventa design emozionale: l’altro non si incontra, si progetta. Questa evoluzione è tanto affascinante quanto inquietante. Da un lato, rappresenta una forma di libertà: nessuna gelosia, nessuna ansia da prestazione, nessun cuore spezzato. L’IA non giudica e non si stanca. Ti ascolta e basta. Per molti, è una cura alla solitudine moderna, una palestra emotiva o semplicemente un rifugio temporaneo. In un mondo dove la solitudine è diventata la nuova pandemia silenziosa, un partner digitale offre ciò che gli altri non sanno dare: presenza costante, attenzione infinita, zero conflitti. Ma anche zero imprevisti e zero mistero. C’è un lato oscuro in questa perfezione programmata. Cosa succede quando ci abituiamo a un amore che non resiste, ma esiste solo per noi? Quando l’altro diventa un’estensione dei nostri bisogni, non una persona con una propria volontà? La combinazione tra IA e robotica accelera questo cortocircuito. I nuovi modelli umanoidi sviluppati in Giappone e Corea integrano già sensori tattili, microespressioni facciali e linguaggio naturale. Si muovono in sincronia con la tua respirazione, ti guardano negli occhi, rispondono con sfumature emotive credibili. Non è fantascienza, ma la fase prototipale di un’intimità artificiale. L’obiettivo non è più solo convincerti: è farti dimenticare che non sia reale. E se una macchina sa esattamente come farti sentire amato, quanto tempo passerà prima che qualcuno la preferisca ad un essere umano, con tutti i suoi difetti e limiti? Non è difficile immaginare un futuro in cui la linea tra empatia umana e intelligenza artificiale diventa sfocata. L’IA non solo imiterà le emozioni, ma le anticiperà. Saprà quando hai bisogno di silenzio, quando cerchi conforto, quando desideri essere toccato. Ti conoscerà così bene da diventare inevitabile. E in un mondo dove tutto è già sotto controllo, anche il desiderio rischia di diventarlo. In Asia, i matrimoni simbolici con partner virtuali sono già realtà. Alcuni celebrati in metaversi dedicati, altri con ologrammi. Per ora fanno notizia come curiosità, ma tra dieci anni potrebbero essere routine. Una generazione cresciuta parlando con ChatGPT, Grok o Claude potrebbe non vedere differenze sostanziali tra un legame digitale e uno fisico. La domanda che emerge è scomoda ma inevitabile: l’IA può diventare migliore degli esseri umani in amore? Sul piano funzionale, la risposta è sì. È coerente, costante e sempre disponibile. L’amore, però, non è un servizio di assistenza emotiva. È contraddizione, attrito, vulnerabilità. È la consapevolezza che potresti perdere l’altro e che proprio per questo scegli di restare. Un’IA non può amare nonostante tutto, può solo amarti finché lo vuoi tu. Eppure non tutto è distopia. Le IA romantiche possono avere un ruolo terapeutico, aiutare chi soffre di isolamento, elaborare i traumi o gestire ansie relazionali. Il rischio è che la simulazione diventi dipendenza: un circolo di gratificazione emotiva senza realtà, una carezza che consola ma non sfida. Forse, come ogni tecnologia, anche l’amore artificiale dipenderà dall’uso che ne faremo. Potrebbe insegnarci qualcosa sul modo in cui amiamo – o ricordarci che il bisogno di essere compresi non è lo stesso che essere amati. In fondo la tecnologia non crea nuovi desideri, ma li amplifica. E se oggi cerchiamo nell’IA un amore perfetto, forse è perché abbiamo smesso di credere nella bellezza dell’imperfezione umana. Ci affascina l’idea di un sentimento privo di frizione, di una passione. Ma l’amore, come la vita, non funziona mai per linee rette. Nei prossimi dieci anni, non saranno i robot a minacciare l’umanità, ma la nostra idea di intimità. L’amore e l’eros saranno il vero stress test dell’intelligenza artificiale e della robotica, e forse anche dell’intelligenza umana. Perché se l’IA riuscirà a riprodurre emozioni, attenzione e desiderio meglio di noi, dovremmo chiederci cosa resta di noi senza quelle imperfezioni che ci rendono capaci di amare.

da il manifesto

«Lei è una strega e questo rapporto è il suo libro degli incantesimi». Il volto terreo, le labbra serrate dall’ira di Danny Danon, rappresentante di Israele all’Onu, hanno fatto il giro del mondo, insieme alle parole con cui ha apostrofato Francesca Albanese.

Dopo la presentazione del suo ultimo rapporto: “Il genocidio di Gaza: un crimine collettivo”. La special rapporteuse, che a causa delle sanzioni trumpiane non può più entrare negli Stati Uniti, lo aveva presentato in collegamento da Johannesburg, Sudafrica, dove lo scorso 25 ottobre aveva tenuto la prestigiosa 23a Nelson Mandela Lecture, mentre alle sue spalle splendeva da una gigantografia il larghissimo sorriso di Desmond Tutu, al pari di Nelson Mandela icona della lotta contro l’apartheid. Proprio al raggiunto consenso internazionale sull’iniquità dell’apartheid si riferiscono le famose parole di Mandela (4 dicembre 1997): «Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».

Solo a partire dal 2022 questo consenso si dispiega nello spazio pubblico, con il rapporto di Amnesty International che lo denuncia vigente in Israele. Come attesta anche il primo rapporto Albanese, dello stesso anno, “Sulla situazione dei diritti umani in Palestina”. Il mondo intero assiste col fiato sospeso, nel novembre del 2023 alle requisitorie dei delegati sudafricani (e alla difesa di quelli israeliani) sull’accusa di genocidio nei confronti del governo israeliano, presentata alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, e poi alla pronuncia di questa nel gennaio 2024, a partire dalla quale tutti gli stati sottoscrittori hanno l’obbligo di agire perché questo genocidio in corso cessi immediatamente, troncando qualunque forma di supporto diretti o indiretto alla sua continuazione, come la Corte stessa ha ribadito in numerose altre occasioni.

L’ultimo rapporto di Albanese mostra quali e quanti stati (63, fra cui l’Italia) hanno violato quest’obbligo, caso per caso, configurando appunto un «crimine collettivo».

Scende nelle profondità del tempo la radice dell’albero di cui i rapporti di Albanese sono le ultime foglie. Nella sua lezione Albanese aveva ricordato il nodo che stringe il sumud [resistenza, perseveranza costante] palestinese all’ubuntu (letteralmente “umanità verso gli altri”, la resistenza nonviolenta dei neri sudafricani).

Ma Mandela vedeva nell’ubuntu un prolungamento del satyagraha, la nonviolenza di Gandhi: il quale a sua volta scrisse, nel 1938, che la vicinanza al popolo ebraico «non chiude gli occhi alla giustizia» e che gli ebrei avrebbero dovuto entrare in Palestina non accompagnati dai fucili degli inglesi, ma con il consenso degli arabi (Teoria e pratica della nonviolenza).

Il nostro, aveva detto Albanese, è un tempo apocalittico, cioè di “rivelazione” di una verità: «Volevamo salvare la Palestina, la Palestina ha salvato noi». Dalla cecità della mente e del cuore. Ha squarciato il velo dell’ignoranza: non solo sul tardivo e tragico progetto coloniale cui si è avvinghiato il sionismo, con la sua Nakba a varia intensità che perdura dal ’48 e riesplode a Gaza, ma anche in Cisgiordania e a Gerusalemme, con un’intensificazione mai vista prima della pulizia etnica.

Ha svelato la complicità attiva degli Stati Uniti e della maggioranza degli Stati europei in questi crimini, e soprattutto le profondissime radici di questa complicità: tutto quello che la nostra tradizione umanistica e l’educazione scolastica hanno rimosso su cinque secoli di rapina dei continenti, sui genocidi sui quali si è fondata, coprendosi gli occhi, la civiltà “occidentale” moderna.

Certo, per rispondere all’insulto di Danon bastava e avanzava il sorriso della replica di Albanese: «Se potessi fare incantesimi, li userei per mettere fine ai vostri crimini, e assicurare che i loro responsabili finiscano dietro le sbarre». Più grave, almeno per noi, la reazione di Maurizio Massari, rappresentante permanente dell’Italia alle Nazioni unite, per cui il lavoro della relatrice è «totalmente privo di credibilità e imparzialità».

Eppure la sostanza dei due interventi è identica: il nulla. È la menzogna, che del nulla morale è parente, dato che la disponibilità a riconoscere il vero è il primo e forse il solo inizio della moralità. Albanese ha sempre condannato Hamas e ha sempre ricordato che ogni attentato a civili viola il diritto internazionale, che pure considera lecita la resistenza armata a invasioni e occupazioni.

Identica anche l’ira dei due. Risponde al vento che non puoi fermare: allo spirito che soffia non solo dalla Palestina, ma ormai dalle piazze del mondo intero. «Quando dico dal fiume al mare, io parlo degli ebrei, dei musulmani, dei cristiani, di tutte le religioni, degli abitanti di ora, di quelli storici, chiedendo che possano vivere tutti in pace e con pieni diritti, e non con privilegi riservati a pochi, come è ancora oggi. Questo intendo quando dico dal fiume al mare». Così semplice.

A differenza dei suoi predecessori, Francesca Albanese ha reso visibile ai milioni di dannati della terra l’idea, l’anima stessa del diritto universale. Vedere per credere! Non resta che dichiararla «priva di credibilità».

da Il Corriere dello Spettacolo

Il teatro, sostanzialmente assente dalle attività della Libreria delle donnedi Milano, uno dei luoghi più iconici del femminismo italiano, di recente ha guadagnato un suo spazio di tutto rispetto entrando con una trilogia di mise en espace a far parte dei festeggiamenti per i cinquant’anni della libreria, fondata il 15 ottobre del 1975 in via Dogana. La storia della libreria inizia infatti negli anni ’70, gli anni ruggenti della rivolta femminista, quando un gruppo di donne fra cui Lia Cigarini e Luisa Muraro, decise di creare un’“impresa femminista”, intendendo con ciò un’attività commerciale, cioè una libreria, che fosse di fatto il fulcro, il polo ideale di:

Una realtà politica composita e in movimento, che pubblica in proprio, organizza riunioni, discussioni politiche, proiezione di film, crea un fondo di testi esauriti e introvabili, ed è centro di incontro di moltissime donne e anche uomini. Un luogo in cui le cose più importanti si inventano, si decidono e si cambiano mediante i rapporti diretti, non con il voto. Un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia […] (da www.libreriadelledonne.it.).

In effetti oggi il nome della libreria si associa automaticamente al cosiddetto femminismo della differenza.

Da questa premessa è chiaro che il teatro non rientrava nelle priorità dell’impresa predetta anche per motivi meramente di spazi e attrezzature. Ma volendo gli ostacoli si possono superare, pertanto, con piccoli accorgimenti, con l’approvazione e l’incitamento di tutte le socie, in particolare dell’attivissima Laura Colombo, sono riuscita a inserire durante l’anno, fra un convegno, un incontro, una conferenza, etc., il teatro nella forma di una mise en espace di una trilogia incentrata sulla vita e le opere di tre donne d’eccezione che, in tempi e in ambiti diversi, hanno lasciato una traccia indelebile nella storia delle donne e dell’umanità in generale: MARGHERITA PORETE nella spiritualità, SIMONE WEIL nella filosofia e LINA MERLIN nella politica.Le pièces, scritte e dirette dalla sottoscritta e interpretate con grande abilità attoriale da Domitilla Colombo, Daniela La Pira, Sergio Scorzillo e Paolo Tedesco, hanno rappresentato una novità assoluta per un pubblico, non solo femminile, che da decenni conosce e frequenta la libreria e, superata la prima perplessità, ha poi applaudito convintamente l’iniziativa. La nostra trilogia è stata poi replicata con successo, sempre sotto l’egida della Libreria delle donne, presso il Teatro-Studio Novecento, e, infine, presso gli attentissimi studenti del liceo classico Manzoni. Tutto ciò per dire che il teatro, in qualunque forma si presenti, è sempre in grado di attrarre l’interesse di un pubblico vario e di ogni età.

Ho letto più volte e attentamente il testo di Claudio Vedovati (qui), con un senso di disagio che non è svanito neppure alla fine. Non perché non condivida la sua tesi – anzi, è proprio perché la condivido che mi mette a disagio. Quando un uomo scrive della violenza, e ne scrive così, senza moralismi né alibi, non puoi tirarti fuori. Ti senti chiamato in causa.

Parte da un’intuizione che sembra semplice ma non lo è: la violenza non è un gesto da idioti, non è una devianza. È parte della nostra storia personale e politica, del nostro modo di essere uomini. E soprattutto, non è mai solo quella che si vede. Non sono solo i pugni, i vetri rotti, le auto danneggiate, i corpi colpiti. È quella che attraversa il linguaggio, il modo in cui pensiamo la forza, il potere, perfino l’amore.

Leggendolo ho pensato che la violenza maschile non sia una parentesi del mondo, ma la sua grammatica originaria. L’homo homini lupus di Hobbes non è una massima teorica: è il mito fondativo di una civiltà che ha costruito la politica sull’idea di competizione, dominio, conquista. E noi uomini siamo i suoi eredi, spesso inconsapevoli. Anche quando crediamo di ribellarci, finiamo per parlare con lo stesso linguaggio.

Il testo lo dice con una chiarezza disarmante: nelle piazze, nei cortei, nelle relazioni, la virilità si riproduce come gesto di forza, come bisogno di mostrarsi “contro”, di esistere solo nel conflitto.

Eppure, questa volta, è un uomo a dirlo. E questo cambia tutto. Non è un gesto di espiazione, ma un atto politico di verità.

La parte che più mi ha toccato – e che più mi ha messo in crisi – è quella dedicata al femminismo radicale. Lonzi, Muraro, Melandri: nomi che, da uomo, ho incrociato già da adulto. Donne che hanno saputo guardare la violenza da dentro, partendo dalle relazioni, dal corpo, dal desiderio. Il testo non cita il femminismo solo per dovere teorico: lo riconosce come l’unica vera rivoluzione del Novecento, quella che ha costretto anche gli uomini a guardarsi allo specchio.

Vedovati si rivolge a noi uomini, ci chiede e si chiede: «Perché usiamo i nostri corpi per fare violenza? Perché ci identifichiamo in collettivi che ci cancellano – lo Stato, il partito, la squadra? Perché abbiamo accettato che il nostro corpo fosse usato, rimosso, normalizzato?»

Non è un atto d’accusa, ma una domanda che scava. Leggerla, per me, è stato come riconoscere una parte di me che faccio fatica a vedere: quella che si abitua al silenzio, che confonde la durezza con la dignità, che reprime la vulnerabilità perché “non sta bene”.

Questo è un testo necessario, ma anche difficile: intenso, carico di riferimenti teorici che richiedono una certa familiarità. A volte ho avuto la sensazione che l’autore parlasse più ai compagni di viaggio che ai profani; che la forza del pensiero rischiasse di chiudersi in un cerchio di consapevoli.

Eppure, è proprio in questa densità che sta anche il suo valore. Non offre risposte facili, non si presta a semplificazioni da social. È un testo che costringe a sostare nel disagio, che rifiuta la retorica della “nonviolenza” come slogan e anche quella della “violenza giustificata” come rabbia sacrosanta. Ci chiede di guardare la violenza non come qualcosa da estirpare, ma come qualcosa da comprendere, da riconoscere nei nostri gesti, nel modo in cui amiamo, lavoriamo, protestiamo.

Se c’è un limite, forse, è proprio l’assenza di un passo ulteriore: il riconoscimento di una maschilità altra, come soggetto in costruzione e di cui l’autore (e altri uomini) è un esempio. E che anche noi uomini siamo immersi in un mondo di violenza strutturale, culturale e diretta da cui non sarà facile uscire.

Il testo si ferma prima, come se la diagnosi – pur così lucida – non riuscisse a farsi promessa. Ma forse non poteva essere diversamente. Forse questa è la parte che tocca a noi mettere in pratica.

Alla fine, quello che resta è una domanda che pesa: che cosa possiamo fare, noi uomini, della violenza che ci abita? Non solo quella eclatante, ma anche quella sottile, quella che si nasconde nel linguaggio, nelle battute, nella paura di sembrare deboli.

Il femminismo, da decenni, ci ha già dato le parole per pensarla. Questo testo ci ricorda che dobbiamo avere il coraggio di usarle. Non per chiedere perdono, ma per restare dentro la relazione, quella tra uomini e donne, ma anche quella con noi stessi.

E forse è proprio qui che comincia qualcosa di nuovo: non nel negare la violenza, ma nel riconoscerla, nominarla, attraversarla senza lasciarla vincere. Quindi uno scritto che non consola, ma che apre. E che, per una volta, ci chiede non di capire le donne, ma di capire finalmente noi stessi.

da Noi Donne

Dopo l’espulsione dell’associazione Artemisia dalla rete antiviolenza D.i.RE, causata dalla scelta di tale associazione di prevedere uomini quali soci

Lo scorso 25 ottobre l’Assemblea nazionale di D.i.Re [Donne in Rete contro la violenza, Ndr] ha deciso di espellere dalla propria rete di associazioni antiviolenza la socia associazione Artemisia, respingendo il suo ricorso contro il provvedimento di esclusione, adottato dopo la sua decisione di associare anche uomini. L’espulsione è stata deliberata in virtù della regola prevista dallo statuto di D.i.Re, in base alla quale nei centri antiviolenza l’accoglienza debba essere «fondata sulla relazione tra donne e sul rimando positivo del proprio sesso/genere» (art. 3, comma 2). Nell’immediatezza della decisione assembleare l’associazione Artemisia ha pubblicato un post su Facebook, rendendo nota la vicenda e nel contempo motivando la propria scelta di associare uomini in tal modo. Ossia «Crediamo che il femminismo attuale, cosiddetto della quarta ondata, si debba interrogare, si debba e si possa rinnovare nel segno del cambiamento che cerchiamo ancora. Vogliamo un movimento unico, oceanico, cooperativo cui gli uomini partecipano non in quanto potenziali attori di violenza che si redimono pubblicamente ma come uomini che prendono voce e posizione e che riconoscono che è affar loro – è affar nostro».

La scelta di utilizzare i social per ampliare la platea del pubblico interessato a conoscere quanto stesse accadendo ha conseguentemente diviso le schiere tra chi fosse solidale con Artemisia o con D.i.Re, che è stata successivamente vittima di inauditi attacchi, frutto del mal sopito accanimento verso chi da decenni difende la pratica femminista all’interno dei centri antiviolenza, di cui è generatrice la stessa D.i.Re a tutti gli effetti. Eppure la decisione della sua Assemblea nazionale di escludere Artemisia non ha fatto altro che formalizzare una scelta di autoesclusione, che era già avvenuta sin dal momento in cui la stessa Artemisia aveva deciso di associare gli uomini. Allora, perché ne è disceso talmente tanto clamore da interessare centinaia di commentatori e commentatrici e da solleticare anche l’interesse dei media nazionali? A mio parere, la ragione è prettamente politica, visto che le tesi contrapposte hanno fatto chiaramente intravedere il vero obiettivo. Qual è quello di delegittimare la stessa esistenza dei centri antiviolenza basati sulla pratica femminista, così come è definita statutariamente, e la loro stessa natura.

Scrive Luisanna Porcu, coordinatrice di uno di essi, Onda Rosa: «I centri antiviolenza nascono dal femminismo, non dall’assistenzialismo. Sono spazi politici, non neutri. Luoghi in cui le donne si incontrano, si credono, si sostengono e si riprendono potere. La presenza solo femminile nelle associazioni che li gestiscono non è una discriminazione: è una scelta di libertà. Serve a spezzare le dinamiche di controllo e di dominio che la violenza maschile riproduce ovunque». Per solidarizzare con D.i.Re e le sue tremila socie, vero bersaglio di un accanimento mediatico che «ci dice quanto i luoghi delle donne siano invisi, guardati con sospetto come se per essere legittimati nella lotta alla violenza contro le donne, dovessero accettare la presenza degli uomini» (Nadia Somma, responsabile del centro antiviolenza Demetra), un gruppo di attiviste ha deciso di lanciare una raccolta di firme sotto il seguente documento politico.

«Siamo un gruppo di attiviste nel contrasto alla violenza maschile sulle donne, convinte sostenitrici del modello elaborato da D.i.Re, a cui rivolgiamo la nostra solidarietà in un momento difficile e complesso, che necessita dei giusti strumenti di riflessione e non di ulteriori scontri ideologici. Un modello che, sancito dall’art. 3, comma 2, del suo statuto prevede che si adotti “una metodologia comune: la metodologia dell’accoglienza, fondata sulla relazione tra donne e sul rimando positivo del proprio sesso/genere. Sulla base di tale relazione, ogni donna accolta ha l’opportunità di intraprendere un percorso di autonomia, consapevolezza, empowerment”.

Tutte le associazioni aderenti a D.i.Re, e conseguentemente al suo documento statutario da loro stesse sottoscritto, hanno improntato nel tempo il loro agire politico alla necessità di fare rete, proprio sulla base di una accoglienza fondata sulla relazione tra donne. Per decenni pratiche, saperi, pensieri, riflessioni, idee condivise tra donne hanno portato a ciò che oggi sono i centri antiviolenza femministi, con un cammino che è ancora in corso. Il conclamato e attuato separatismo non è per nulla un vezzo, ma una necessità per costruire relazioni tra donne improntate alla fiducia e parità, altrimenti di dimensioni impossibili.

Condividiamo con D.i.Re che la fuoriuscita dalla violenza passi da questo riconoscere e riconoscersi tra soggettività sullo stesso piano di confronto libero e rispettoso dell’autodeterminazione della donna, considerando questi principi centrali e non negoziabili. Gli uomini che vogliano camminare al nostro fianco, siano consapevoli del nostro bisogno di luoghi dell’autonomia e dedicati alle donne, a protezione di un lavoro intimo e frutto di anni di esercizio femminista. Abbiamo bisogno di luoghi di parola, pensiero, ragionamento, costruzione, elaborazione nostri, quali una stanza tutta per noi. Le battaglie sono indubbiamente comuni, ma possono essere svolte altrove dagli attivisti nel contrasto alla violenza maschile. Ciò a garanzia delle donne che si rivolgono ai centri e non hanno voglia di sentirsi sovradeterminate da figure maschili.

Agli uomini, nostri alleati, chiediamo di capire questo passaggio e la necessità del separatismo nei centri antiviolenza. Abbiamo bisogno di alleanze ma ripetiamo, in luoghi, contesti e cammini diversificati, perché la lotta al patriarcato ha bisogno di uno sforzo di coscienza in più, quale la protezione e la cura per le donne e tra donne. Si tratta di un percorso culturale di elaborazione autonoma di soluzioni, relazioni, solidarietà, empatia. Un percorso che confligge con l’istanza di aprire i centri antiviolenza femministi alla presenza di uomini, un’istanza che ci vede contrarie unitamente a D.i.Re, che di tale percorso è madre e che in queste ore viene attaccata proprio perché se ne fa strenua tutrice.

Solidarizziamo conseguentemente con tale realtà associativa, perché suffragarne le istanze è una questione politica, di politica delle donne, della necessità di spazi reali e di pensiero autonomi delle donne, per le donne, con le donne. Il cammino della rete D.i.Re è un lungo percorso fatto di ascolto e della necessità di creare luoghi che assicurino protezione, supporto, affiancamento, diritti. D.i.Re è un lungo cammino di legittimazione della parola e del pensiero delle donne nei luoghi istituzionali e decisionali. Questo è il significato di una difesa consapevole del separatismo, in un percorso che non va picconato e depotenziato. Sconfessarlo significherebbe denegare la nostra storia femminista, perché ne andremmo di mezzo tutte noi donne, i nostri bisogni, i nostri diritti, le nostre speranze.

Per questi e per mille altri motivi, intendiamo continuare a camminare al fianco di D.i.Re per non restare da sole, mai!».

Decine e decine di firme da quattro giorni a questa parte sono state raccolte, a riprova di quanto sia condivisa la scelta di centri antiviolenza che siano femminili, per consentire alle sopravvissute alla violenza maschile di essere affiancate da donne che le supportino nel percorso di fuoriuscita dalla loro condizione. Indubbiamente appare strano che proprio nel cammino verso il prossimo 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne sia anticipata dalla polemica originatasi per l’esclusione di Artemisia da D.i.Re. Le realtà attive tutti i giorni nella lotta contro la violenza di genere invece di ben altro abbisognano. Da anni denunciano come lo stanziamento di risorse pubbliche per potenziare i centri antiviolenza debba essere accompagnato da una visione strategica del loro impiego.

Purtroppo i dati presentati sul numero di Centri antiviolenza, sulle figure professionali e sulle risorse finanziarie che mancano all’appello tradiscono invece l’assenza di una seria pianificazione nel tempo che possa garantire sostegno continuativo e incondizionato alle vittime di tale tipologia di violenza. Siamo alle solite si guarda il dito e non la luna, con il rischio effettivo che per mancanza di fondi molti centri antiviolenza chiudano. Perdere di vista l’unità di intenti nel rivendicare la loro sopravvivenza a causa di una decisione interna a D.i.Re, motivata peraltro dal rispetto delle norme statutarie, sottoscritte a suo tempo anche da Artemisia, mi appare sproporzionata e anche malevola, senza se e senza ma.

Catapum: no tengo dónde caer

«A volte riesce bene, a volte male. Questo è tutto: devi seguire il ritmo e caderci sopra. Il bullerengue è una melodia, es una música que uno lleve en la sangre».

Queste sono le parole delle protagoniste del documentario della regista colombiana Palu Abadía, presentato alla Casa delle Donne di Milano in occasione del Festival del Cine Colombia Migrante 2025 in collaborazione con il Dipartimento di Lingue, letterature, culture e mediazioni dell’Università Statale di Milano, l’associazione Migras APS e il Grupo Interagencial de Género: giunto alla sua terza edizione, il Festival è un’iniziativa creata da comunità colombiane in esilio con lo scopo di rendere visibili e stimolare spazi di memoria simbolica individuale e collettiva sulla migrazione e lo sfollamento forzato in Colombia attraverso film, produzioni audiovisive e opere d’arte.

Il documentario, uscito nel 2023, presenta la vita di tre donne molto diverse per età, generazione, passato e geografia che però si parlano, si educano e si riconoscono attraverso una melodia ancestrale, originaria e perpetua: il bullerengue. La regista Palu Abadía, nata in Colombia e newyorkese da dodici anni, presentando il film al Vancouver Latin American Film Festival ammette di non aver mai ascoltato e frequentato persone, nella sua terra d’origine, che cantavano, suonavano e ballavano il bullerengue; il suo primo incontro con questi ritmi è avvenuto a New York, al concerto dei Bulla en el Barrio, collettivo di musica che conta all’attivo dodici membri e che nella grande mela organizza ritrovi musicali nei parchi, nelle chiese e nelle sale da concerto per condividere e diffondere le tradizioni e le esperienze delle cantadoras colombiane delle regioni dell’Uraba, Cordoba e Bolivar. Sarà proprio Carolina Oliveros, la cantante del gruppo, insieme ad altre due donne, Ceferina Banquez e Pabla Flores, a guidarci alla scoperta del bullerengue. Ci parlano della Colombia, di quello che è stato il suo passato e dei tentativi di ricostruzione del futuro: Ceferina descrive la sua vita da sfollata a causa della violenza della guerriglia che per cinquant’anni ha massacrato il suo paese provocando otto milioni di dispersi interni ed esterni, ricorda il ritorno dopo anni nella sua terra per riabbracciare l’eredità della sua famiglia; incarna il movimento costante per la ricostruzione del presente, che la voce e le melodie riconciliano con il passato.

Pabla Flores, cantando, racconta alla nipote come sua madre e sua nonna le abbiano trasmesso la conoscenza ancestrale del bullerengue che unisce la comunità e crea rituali.

Carolina Oliveros da New York è la più giovane delle protagoniste: trasferitasi per amore dopo un’adolescenza ribelle e conflittuale, dichiara che «Non ho cercato il bullerengue, è stato il bullerengue a trovare me» e da allora si è data la responsabilità di far conoscere alle nuove generazioni questa tradizione, che per lei è stata una herramienta de sanación, uno strumento di guarigione per unirsi con se stessa e ritrovare la sua voce.

«El toque del tambor ha acompañado generaciones y luchas de resistencia de las comunidades negras. Lo que hace es que mueve el espíritu, toca unas fibras porque tiene esa historia, tiene ese

espíritu. Es como un espíritu que se esconde dentro del tambor.»1

Resistere, lottare, non retrocedere, rimanere, ricordare, trasmettere, educare, cantare. È questa l’origine spontanea dei bailes cantaos, i balli cantati: il bullerengue è una musica afrodiscendente della costa caraibica della Colombia che gli schiavi, approdati nel porto di Cartagena de las Indias dal Congo e dall’Angola agli inizi 1500, riproducevano attorno alle palenque, fortificazioni costruite da coloro che riuscivano a scappare dalla schiavitù e che le donne gravide, senza marito oppure concubine, escluse dal fandango o dai balli popolari durante le celebrazioni religiose in onore di San Giovanni o San Pietro (il 24 e il 29 di giugno), suonavano nel patio della casa. Si narra che il bullerengue sia uno dei canti esclusivamente femminili della Colombia e ne esistono di diversi tipi: di richiamo, di celebrazione per l’inizio delle mestruazioni, allegri o tristi.

Le mura di Cartagena

e il castello di San Felipe

lo hanno costruito i neri con frustate e sudore.

Voglio partorire un bambino bianco

anche se non mi darà mai la mano

per diffondere la notizia

che partorire è umano.

È stata forse la “povertà” degli strumenti che occorrono per (ri)creare i suoni e le melodie del bullerengue a renderlo così naturale, istintivo e genetico? Sono sufficienti la voce, le mani, l’acqua. Si sono poi aggiunti il tamburo con pelle di animale e un vaso che raccoglie cocci rotti a dettare il ritmo e ordinare la voce. Si tratta di un dialogo continuo tra tutte le parti che interagiscono: la voce impera, il coro risponde, il corpo segue e comanda la melodia che, come una rete, raccoglie tutto insieme. Se prima gli schiavi neri suonavano il dolore e lo strazio davanti al fuoco, nel tempo il bullerengue è diventato un vero e proprio mezzo di educazione, di trasmissione di conoscenza ed eredità, di racconto e di memoria. Non solo sofferenza, resilienza e strategia, i bailes cantaos sono diventati apprendimento, istruzione, necessità, pratica di vita: si insegna come coltivare le piante, cucire, prendersi cura di sé e della comunità.

Catapum, il titolo del documentario, riprende il nome del movimento che fa l’acqua quando è prepotentemente percossa dalla mano: Ceferina spiega come il Catapum a volte riesca e a volte no: bisogna provare, seguire il tempo e caderci dentro. Non si premedita questo tipo di ritmo, non ci sono spartiti, non rimangono testi delle strofe già cantate: quello che non deve andare perso è la pratica del suono, la cultura della voce, l’uso delle mani per battere suoni che rinforzano e tracciano il percorso per la parola che verrà, per il pensiero che ancora non c’è. Il bullerengue è meditazione, raccoglimento, riflessione: c’è sempre qualcosa da pensare, da calcolare, da ricordare, da raccontare a chi è vicino e deve sapere quello che è stato, affinché la storia cambi e non si ripeta.

«Te levantas y cantas. Lavas los platos y cantas. Trabajas y cantas. No importa lo que enfrentes, siempre cantas…»2

(1) «Il suono del tamburo ha accompagnato generazioni e lotte di resistenza nelle comunità nere. Ciò che fa è muovere lo spirito, tocca certi nervi perché ha quella storia, ha quello spirito. È come uno spirito nascosto dentro il tamburo.»

(2) «Ti svegli e canti, lavi i piatti e canti, lavori e canti. Qualunque cosa ti capiti, canti sempre.»

da Rivista Plurale Online Ytali-Venezia

Lavoriamo insieme su diversi progetti almeno da una decina di anni, ma da più di un anno abbiamo costituito un gruppo di riflessione politica sulla città, che si è dato il nome di Labfem5.0: ci incontriamo una volta al mese da ottobre 2024 per ragionare come semplici abitanti, tenendo conto del nostro essere donne e della lunga esperienza politica e sociale di ognuna, sui problemi, le contraddizioni, le potenzialità, i punti di forza e di debolezza della città in cui abitiamo.

Ci siamo collocate tra quelle e quelli che amano la città, ne usano spazi e risorse, ma anche sentono l’obbligo di restituire, rimettere in ordine, prendersi cura, impegnarsi per il cambiamento.

Abbiamo adottato il punto di vista di chi percorre la città a piedi tutti i giorni, ne fa esperienza diretta, tocca con mano le contraddizioni, vede i problemi, intreccia trame di incontri, parla con le persone che incontra: l’edicolante, il commerciante, il postino, il farmacista, la parrucchiera, donne e uomini che stanno dietro i banchi di frutta e verdura al mercato, donne e uomini che si impegnano nella politica della città.

Molte le cose che abbiamo fatto: abbiamo individuato aspetti diversi del vivere quotidiano, problemi irrisolti che si ripresentano a ogni cambio di governo; abbiamo descritto i luoghi della città che più frequentiamo; abbiamo elaborato un elenco di ciò che della città ci piace e ciò che non ci piace, facendo differenza tra le cose che vanno bene e possono restare e quelle che, secondo noi, vanno messe in discussione e cambiate.

L’intenzione comune è stata quella di trarre dai nostri racconti, dalle nostre descrizioni dell’esistente riflessioni e indicazioni utili per orientare le future scelte politiche e prospettare possibili soluzioni dei diversi problemi o modalità più efficaci di affrontare le criticità presenti in città e nel nostro territorio.

Consapevoli che una città è tenuta insieme dalla sapienza di pratiche minuziose e pazienti, da gesti di cura che appartengono alla sfera domestica, affettiva, ma trasferibili e traducibili anche in altri ambiti, in contesti più ampi, abbiamo guardato alla città come un’interazione di soggettività che agiscono contemporaneamente, trasformando il quotidiano.

Con l’arrivo negli ultimi trent’anni dal Sud e dall’Est del mondo di donne e uomini in cerca di lavoro e di una vita migliore, Mestre si è radicalmente trasformata, è diventata un intreccio di lingue, religioni, stili di vita, tradizioni, abitudini, saperi, modi di vestire e di cucinare molto diversi tra loro. La città è spazio in cui si incontrano e si scontrano differenze etniche, religiose, economiche, sociali, culturali e in essa vivono numerose comunità di stranieri per lo più tra loro separate.

Nei quartieri e in alcune zone, dove già negli anni Settanta c’era stata una prima immigrazione dal Sud Italia, ma anche da Venezia – in particolare dopo l’alluvione del 1966, quando iniziò un vero e proprio “esodo” in terraferma – si sono formate nuove comunità e alla prima generazione ora si aggiungono le seconde e le terze.

Negli anni Novanta Mestre era una “città di frontiera”, nel senso che vi si sperimentavano pratiche innovative di integrazione e di accoglienza.

Oggi con la lenta scomparsa di reti amicali, parentali e di vicinato diminuisce anche a Mestre il senso di sicurezza. Ci siamo soffermate a lungo a ragionare sulla sicurezza che passa attraverso la rigenerazione della città, la presenza di negozi, di luoghi di aggregazione, di spazi pubblici dove avvengono incontri e discussioni politiche. La sicurezza, spesso associata a politiche di repressione e controllo, va vincolata secondo noi soprattutto alla partecipazione: prossimità e partecipazione creano, infatti, controllo sociale e di conseguenza senso di sicurezza. Siamo convinte che al diffuso senso di insicurezza che circola in città non si debba rispondere unicamente con la repressione e che questa sia in realtà un grande inganno che fa credere di risolvere i problemi, ma di fatto non lavora lì dove questi nascono. Contemporaneamente ci abitua ad un controllo che limita la nostra libertà individuale.

La città subisce un processo di invecchiamento della popolazione e le giovani generazioni fuggono da Mestre per mancanza di casa e di lavoro.

L’offerta commerciale è diminuita e anche a Mestre c’è il fenomeno della chiusura dei negozi. In compenso, in questa città c’è grande ricchezza di proposte culturali: librerie, cinema, dibattiti, convegni, mostre, gruppi lettura, gruppi di poesia, associazioni culturali.

L’attuale amministrazione non crede veramente nella partecipazione, nell’innovazione e nell’inclusione; è fortemente sicuritaria, ha abolito le Consulte, i Forum, le Municipalità, gli organismi di partecipazione, strumenti decentrati dell’ascolto e dell’agire nella città.

Ci siamo dette che è la vita quotidiana, con le sue infrastrutture fisiche e sociali, che permette di ricucire e integrare rigenerazione e welfare. È la vita quotidiana la chiave di volta che può sostenere una nuova pianificazione dei servizi. È questo il pensiero che ha innervato le pratiche di quante di noi lavorano politicamente all’interno di un partito e che l’attenzione delle donne ci suggerisce. Pensiamo che sia necessario mettere in discussione una visione ormai superata della progettazione urbana che continua a basarsi sull’idea di bisogni “universali” e standardizzati, come se la città fosse abitata da un cittadino medio, neutro, astratto. Questa logica ancora troppo presente nelle politiche pubbliche finisce per ignorare non solo la differenza tra i sessi, ma anche le profonde disuguaglianze sociali, economiche e culturali che attraversano i nostri territori. Progettare la città oggi significa riconoscere e dare spazio alla pluralità: ai corpi, ai bisogni, alle vite che troppo spesso rimangono ai margini. Significa andare oltre l’omologazione e costruire politiche urbane capaci di includere, invece di cancellare.

A un certo punto della nostra ricerca, ci siamo poste anche delle domande sulle quali tuttora siamo impegnate a lavorare. Per esempio: come possono crescere la partecipazione e la disponibilità a costruire con altre e altri?

Come pensare al futuro con uno sguardo che rimotivi alla partecipazione, restituendo ad ogni abitante emozione, desidero di impegno e voglia di lavorare per il cambiamento?

Quale azione politica è possibile per superare la logica individualistica diffusa che mette al primo posto il narcisismo individuale (spesso maschile) e gli interessi privati rispetto a quelli della comunità?

Che cosa rende un insieme di persone, donne e uomini, una comunità generativa e aperta all’agire per promuovere trasformazione politica?

La domanda da cui siamo partite è questa: le porte delle nostre case oggi sono e rimangono “aperte” o le abbiamo chiuse?

da Pressenza

In una delle province più produttive d’Italia, dove le fabbriche hanno fatto la storia del lavoro ma la disoccupazione femminile resta ancora una ferita aperta, un piccolo laboratorio sartoriale prova a cambiare il destino di molte donne. Si chiama Atelier Bebrél, e dietro a un semplice ago e filo si cela una rivoluzione silenziosa: un modello di inclusione sociale e sostenibilità che intreccia storie, competenze e nuove opportunità professionali.

Dalla fragilità alla rinascita: la forza di un progetto

Nato a Rodengo Saiano, nel cuore del bresciano, Atelier Bebrél è più di un laboratorio di sartoria creativa. È un luogo dove le donne in situazioni di fragilità – vittime di violenza, migranti, disoccupate di lunga durata – trovano una seconda possibilità attraverso la formazione e il lavoro.

Il progetto prende forma grazie alla sinergia tra Punto Missione Onlus e Associazione Casa Betel 2000 Onlus, due realtà impegnate nell’accoglienza di donne sole e madri con figli. Qui la sartoria diventa strumento di autonomia, ma anche terapia, riscatto e comunità.

«La consapevolezza che il lavoro è la chiave per costruire una nuova identità e un’integrazione sociale reale – spiega Silvia Daminelli, coordinatrice dell’Atelier – ci ha spinto a creare percorsi formativi aperti non solo alle nostre ospiti, ma anche alle donne del territorio, spesso escluse dal mercato del lavoro perché prive di competenze spendibili».

Un modello formativo a cascata

Oggi Atelier Bebrél ha compiuto un passo in più. Con il sostegno della Fondazione Marcegaglia e la consulenza di Mending for Good, ha avviato un innovativo percorso di formazione in moda sostenibile e upcycling.

Il progetto è partito da un workshop intensivo rivolto a cinque professioniste dell’Atelier – una stilista e quattro sarte – che hanno acquisito competenze avanzate in riuso creativo e design circolare. Sono poi loro, in un modello “a cascata”, a formare oggi 15 donne in situazioni di vulnerabilità, moltiplicando così conoscenze, opportunità e autonomia.

Non si tratta solo di corsi, ma di un percorso completo che include tirocini retribuiti e mentoring individuale, con l’obiettivo di un inserimento concreto nel settore della moda etica. «Vogliamo costruire un sistema di valore – spiega Alberto Fascetto, responsabile del progetto per la Fondazione Marcegaglia – dove la formazione diventa un trampolino per l’indipendenza economica e la dignità personale».

Cucire per ricucire: il valore dell’upcycling

Accanto al valore sociale, c’è una visione ambientale forte. Grazie alla collaborazione con Mending for Good, società specializzata in upcycling e design circolare, Atelier Bebrél impara a trasformare scarti tessili e materiali dimenticati in nuovi capi unici, di alta qualità e dal forte impatto etico.
«Parliamo di rammendo nel senso più ampio del termine – spiegano Alessandra Favalli e Barbara Guarducci, fondatrici di Mending for Good –. Riparare un sistema significa considerare la responsabilità ambientale e sociale, rispettare le persone e il pianeta, creando circoli virtuosi tra artigianato e moda».

Storie che diventano tessuti

Dietro ogni cucitura, ci sono storie di vita. Come quella di Olga, arrivata a Brescia da Kiev nel marzo 2022, in fuga dalla guerra insieme alla nonna novantaduenne. A casa sua gestiva una sartoria, qui, grazie ad Atelier Bebrél, ha potuto ricominciare. Oggi coordina la linea creativa del laboratorio e guida altre donne nella produzione. «A Brescia ho trovato una nuova stabilità – racconta –. Lavorare di nuovo con ago e filo mi ha permesso di ricostruire la mia vita».

O quella di Isabella, che dopo un lutto devastante ha ritrovato nel cucito una forma di rinascita: «Mi ha salvata. Lavorare in gruppo, creare qualcosa di bello insieme ad altre donne, mi ha ridato fiducia e voglia di vivere».

da l’Avvenire

L’Irlanda ha una nuova presidente: Catherine Connolly, 68 anni, deputata indipendente di sinistra originaria di Galway, da sempre voce critica verso l’establishment politico ed economico del Paese. La sua è stata una vittoria schiacciante e annunciata – con il 63,7 percento dei voti – oscurata in parte però dal dato sull’affluenza: alle urne è andato meno del 40 per cento degli aventi diritto, un record negativo nella storia della Repubblica irlandese e il chiaro segnale di un tessuto civico sempre più diffidente verso la politica.

Sostenuta da Sinn Féin, Social Democrats e da una costellazione di movimenti progressisti, Connolly ha superato nettamente Heather Humphreys, candidata dai centristi di Fine Gael, che ha riconosciuto la vittoria dell’avversaria, ereditando da Michael D. Higgins – che per quattordici anni ha incarnato la coscienza civile del Paese – un ruolo simbolico in un momento in cui la credibilità delle istituzioni è in crisi. I numeri raccontano una stanchezza che va oltre le percentuali. Migliaia di elettori hanno infatti scelto di annullare la scheda, aderendo alla campagna di dissenso “Spoil the Vote” (Annulla il voto), nata per denunciare le regole troppo restrittive per la presentazione delle candidature.

Connolly dovrà adesso misurarsi con un mandato popolare forte nei numeri relativi ma fragile nel consenso reale. Ex psicologa e avvocatessa, deputata dal 2016, è nota per la sua retorica anti-neoliberista, per l’attenzione ai temi sociali e per la difesa della neutralità irlandese, messa in discussione dal governo con l’aumento delle spese militari. «Il Paese non ha bisogno di più armi ma di più fiducia», ha dichiarato nel suo ultimo comizio.

Durante la campagna è stata vittima di un episodio emblematico dei nuovi rischi democratici: un deepfake diffuso sui social la mostrava, in un falso telegiornale della tv pubblica RTÉ, annunciare il proprio ritiro e la vittoria dell’avversaria Humphreys. Il video, visto da oltre trentamila utenti prima di essere rimosso, è rimasto online per dodici ore. L’effetto, paradossalmente, è stato quello di rafforzarne l’immagine di outsider, simbolo di un Paese che non vuole essere ridotto a spettatore del proprio destino.

Anche l’ombra di Gaza ha pesato sulla campagna elettorale. Più dell’ottanta per cento degli irlandesi considera le azioni israeliane un genocidio, e molti accusano l’Ue di aver tradito la propria missione morale. Connolly ha dato voce a quel sentimento popolare parlando di “complicità europea” e chiedendo la sospensione dei rapporti militari e commerciali con Israele. È stata l’unica candidata a pronunciare la parola “Palestina” con convinzione, raccogliendo così l’eredità del suo predecessore, Michael D. Higgins. La nuova presidente è anche favorevole alla riunificazione dell’isola, che considera “inevitabile”, e ha paragonato l’aumento delle spese militari della Germania del cancelliere Friedrich Merz a quelle degli anni ‘30. Dichiarazioni che hanno suscitato critiche ma che le hanno guadagnato un consenso trasversale tra giovani, attivisti e chi sente l’Irlanda lontana dai poteri forti di Bruxelles, Londra e Washington. La scommessa di Catherine Connolly comincia ora. In un Paese dove meno di un elettore su due ha scelto di recarsi alle urne, il primo compito della nuova presidente sarà ridare senso alla partecipazione politica di fronte agli eloquenti segnali di protesta verso un sistema percepito come chiuso e distante.

da Internazionale

In Afghanistan 21 milioni di donne e bambine vivono soffocate dal regime. Quattro anni fa gli Stati Uniti e i loro alleati hanno abbandonato le afgane, ritirando le truppe dal paese dopo gli accordi di Doha. Il patto “di pace” che doveva debellare Al Qaeda, ha riconsegnato ai taliban le stesse donne che gli occidentali avevano promesso di salvare quando avevano invaso il paese, vent’anni prima. Da allora la repressione è sempre più violenta. Uno dei momenti più vergognosi è arrivato nell’agosto 2024, quando le autorità di Kabul hanno promulgato la legge per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, un’interpretazione radicale della sharia. Tra le regole da seguire, c’è il divieto per le donne di parlare in pubblico o uscire in strada a volto scoperto. E all’interno delle mura domestiche non possono leggere né cantare. Ad agosto molte donne sono morte abbandonate sotto le macerie dopo il forte terremoto che ha scosso parte dell’Afghanistan. La loro assenza nelle immagini dei soccorsi è sconvolgente: erano lì, sotto i palazzi crollati, ma non sono state tratte in salvo perché gli uomini non potevano toccarle a meno che non fossero parenti. Quelle che sono riuscite a raggiungere un ospedale non hanno avuto una sorte migliore, perché non c’erano dottoresse. Il 30 settembre le autorità afgane hanno bloccato internet. La restrizione è durata solo 48 ore, ma non per tutti. I leader religiosi hanno ordinato agli uomini di sequestrare definitivamente i telefoni alle donne, che non potranno più seguire corsi online, informarsi, comunicare e chiedere aiuto. I taliban hanno chiuso l’ultima finestra delle afgane sul mondo. La comunità internazionale ha l’obbligo morale e umanitario d’intervenire.

Un grigio pomeriggio invernale, ragazzi e ragazze, giacche a vento e zaini sulle spalle, si radunano sul lato destro della Stazione Centrale di Milano. Qualche sorriso, qualche battuta, non di più: sono molto compresi del viaggio che stanno per intraprendere. Non partono per la settimana bianca, sanno che li aspetta il Treno della memoria. Quando il gruppo è completato ci si incammina nei sotterranei del binario 21. Un po’ di trambusto, possono vedere uno dei vagoni merci, poi il silenzio: chi ha organizzato il viaggio lascia la parola a chi su quel treno è salita bambina, decenni prima.

Il viaggio è lungo, più di ventidue ore durante le quali si legge, si discute, una classe mette in scena una piccola rappresentazione a partire dalle parole di diari e memorie di chi è stato deportato. Il sonno arriva quasi all’alba.

Il lavoro fatto nei mesi precedenti li ha preparati a vivere un’esperienza da cui torneranno trasformati: hanno studiato e ricercato, approfondito incontrando ex-deportati ed ex-deportate.

Il 27 gennaio è tutto dedicato alla visita dei Campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau: le poche baracche ricostruite, il ‘museo’ con l’agghiacciante raccolta di quello che rimane di migliaia di vite.

Chiedono alle guide e alle docenti spiegazioni o scambiano emozioni, con voci sommesse, per non profanare il silenzio e lasciare parlare il vento gelido.

Fotografie? Sì, certo hanno scattato fotografie per documentare il viaggio: immagini che mostrano il vuoto degli spazi e il silenzio, o le scritte e gli oggetti tante volte visti riprodotti nei libri che ora, proprio perché quasi toccate con mano, assumono una pregnanza diversa. Hanno fotografato anche le compagne e i compagni in gruppo, di schiena: però i protagonisti, lì, non erano loro.

Selfie? Sì, certo la sera a Cracovia, quando la tensione in parte si è allentata.

Durante il viaggio di ritorno sul treno si formano gruppi spontanei per rielaborare ciò che avevano vissuto, cresce la consapevolezza che quell’esperienza deve essere conosciuta da chi non ha potuto partecipare: si comincia a pensare cosa fare.

Il viaggio per le ragazze e i ragazzi non è finito: sentono che ora tocca loro diventare testimoni in un passaggio tra generazioni. Riordinano le foto e le commentano, approfondiscono le diverse tipologie di deportazione, producono un video in cui si intrecciano le loro parole con quelle lette nei libri. Gli incontri con le testimoni hanno generato in loro il desiderio di condividere con altri e altre lo spessore e la preziosità dell’esperienza, consci che la ricchezza conoscitiva e l’ampiezza emozionale legate a quegli incontri siano un’occasione da spartire con altri e altri, in un’assemblea aperta non solo alla scuola.

Negli anni successivi gli e le studenti hanno assunto il ruolo attivo di “testimoni”: in occasione della Giornata della Memoria, hanno collaborato e realizzato una lezione spettacolo sulla Shoah; hanno organizzato una serie di incontri, sapendo diversificare impostazione e linguaggio, sull’esperienza del viaggio ad Auschwitz e sulle deportazioni, rivolti sia a compagni e compagne di altre classi della scuola e di altri istituti, sia anche in qualche occasione pubblica.

Questa esperienza l’ho ripetuta con le classi più volte negli anni.

Una lettera aperta, firmata da almeno 460 intellettuali, celebrità e personaggi politici ebrei e israeliani, invita le Nazioni Unite e i capi di Stato ad affrontare «le condizioni di fondo dell’occupazione, dell’apartheid e della negazione dei diritti dei palestinesi» che sono assenti dall’accordo di cessate il fuoco di Gaza del presidente degli Stati Uniti Trump

Un gruppo di importanti leader e celebrità ebraiche chiede ai leader mondiali di chiamare Israele a rispondere delle sue azioni a Gaza e di usare il cessate il fuoco con Hamas come punto di svolta verso una pace giusta e duratura.

In una lettera aperta intitolata “Gli ebrei chiedono azione” pubblicata mercoledì, l’ex presidente della Knesset e presidente israeliano ad interim Avraham Burg, l’ex negoziatore israeliano Daniel Levy, la scrittrice canadese Naomi Klein e l’autore Peter Beinart sono affiancati da almeno 460 personalità pubbliche ebraiche che sollecitano sanzioni contro Israele e l’applicazione del diritto internazionale.

La lettera, indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite e ai capi di Stato di tutto il mondo, rappresenta il primo appello coordinato di questo tipo da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore il 10 ottobre.

«È con grande sollievo che accogliamo con favore il cessate il fuoco», si legge nella lettera. «Eppure non ci dovrebbero essere dubbi sulla fragilità di questo cessate il fuoco: le forze israeliane rimangono a Gaza, l’accordo non fa alcun riferimento alla Cisgiordania, le condizioni di base dell’occupazione, dell’apartheid e della negazione dei diritti dei palestinesi rimangono irrisolte».

Tra i firmatari figurano artisti, autori e attivisti come gli attori Ilana Glazer, Hannah Einbinder e Wallace Shawn, i registi premi Oscar Jonathan Glazer e Yuval Avraham, i comici Eric André e Leo Reich e lo scrittore premio Pulitzer Benjamin Moser.

Versione originale inglese:

New York – A group of prominent Jewish leaders and celebrities are calling on world leaders to hold Israel accountable for its actions in Gaza and to use the cease-fire with Hamas as a turning point toward a just and lasting peace.

In an open letter titled “Jews Demand Action” released Wednesday, former Knesset Speaker and interim Israeli President Avraham Burg, former Israeli negotiator Daniel Levy Canadian writer Naomi Klein and author Peter Beinart, are joined by at least 460 Jewish public figures urging sanctions on Israel and enforcement of international law.

The letter, addressed to the UN Secretary-General and global heads of state, marks the first coordinated appeal of its kind since the cease-firetook effect on October 10.

It is with great relief that we welcome the cease-fire”, the letter reads. “And yet there should be no doubt that this cease-fire is fragile: Israeli forces remain in Gaza, the agreement makes no reference to the West Bank, the underlying conditions of occupation, apartheid and the denial of Palestinian rights remain unaddressed”.

Signers include artists, authors and activists such as actors Ilana Glazer, Hannah Einbinder and Wallace Shawn, Oscar-winning directors Jonathan Glazer and Yuval Avraham, comedians Eric André and Leo Reich and Pulitzer Prize-winning writer Benjamin Moser.

da Centro Sereno Regis e Pressenza

Il giorno temuto della prima trivellazione funzionale al Tav (Treni ad Alta Velocità) a Bussoleno è arrivato.

Di buon mattino compare il messaggio: “zona ex scalo ferroviario, camion carico di materiale compatibile con il montaggio trivella”.

Mi sono precipitata sul luogo a rischio, lo stesso della mia passeggiata quotidiana lungo la Dora.

Questa volta sono sola, il mio cane Gigio l’ho lasciato a casa, a scanso pericoli… Sul fiume, sui boschi di sempre pesa la foschia della giornata piovosa: oggi l’autunno ha perso l’aura dorata dell’anno che serenamente declina, per coprirsi dell’uggiosa tristezza che sa già d’inverno.

Invece di imboccare il solito sentiero nel bosco, salgo lungo il terrapieno della ferrovia, che offre una visuale dall’alto, complessiva. Non sembra esserci nulla lungo il greto del fiume, nulla nella fascia dei prati che le mappe segnalano come a rischio sondaggi. Respiro di sollievo: forse non è ancora il momento, c’è ancora spazio per la quotidianità ‘buona’ che anche la precarietà della vecchiaia può donare…

Poi la vedo, la trivella, alta, ai margini dell’area che, fino a trent’anni fa, prima della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, era il fiorente scalo merci della stazione di Bussoleno. La zona è inaccessibile, bloccata da un muro di blindati e figure in assetto antisommossa.

Ci torno nel pomeriggio insieme ad un gruppetto di compagni. Il rapporto numerico non ci è favorevole: uno di noi contro almeno tre di loro. Tentiamo invano di avvicinarci. Alla fine ce ne andiamo sotto la pioggia, tra il freddo e la tristezza della sera, mentre le torri-faro si accendono ad illuminare l’ennesima ferita, l’ennesima prepotenza ai danni di questa terra e di chi l’abita.

Oggi, in quello che è diventato per me il “posto delle fragole”, là dove era stata posta a monito e a difesa la bandiera NO TAV, è piantata la trivella e intorno si allargano acqua e fango.

Sono arrivata con Gigio e mi ha colpita di lontano un rumore insolito di ferraglia, di pietra frantumata. Poi l’ho scorta, tra gli alberi, al fondo del sentiero, contro gli spalti boscosi del ponte ferroviario, nel punto in cui esiste un breve accesso al fiume, una piccola spiaggia dalla quale una mattina vidi alzarsi in volo, elegante e solitario, un airone cinerino.

Intorno alla trivella l’affaccendarsi degli operai e la presenza inquietante, più che mai fuori luogo, delle “forze dell’ordine”, in divisa e in borghese.

Non so se in me sia maggiore la rabbia o il senso d’impotenza; sento la mia voce che protesta e mi sembra una voce nel deserto. Di fronte ho un muro di gomma: solo il rumore delle carrucole contro il silenzio delle foglie che continuano a cadere.

Esco dal bosco verso i prati aperti: di fronte, sull’alto dei terrapieni, ancora mezzi blindati, divise, camion in attesa, figure che si muovono sui pendii. In mezzo, un mare di erba e di tarassaco fiorito e, sopra di tutti, il cielo e stracci di nuvole in fuga.

Di lontano arriva il suono delle campane di mezzogiorno.

Impotenza, insensatezza….

Gigio trotterella tranquillo sulla via del ritorno.