da la Repubblica
Edith Bruck è nel suo salotto circondata da due mazzi di roselline bianche. Rinuncia al caffè, ma non a una sigaretta leggera. Ha ascoltato le dichiarazioni di Eugenia Roccella. Fa un sorriso mesto. Dice piano: «Non sono gite». Non sono gite i viaggi della memoria ad Auschwitz, se hanno un limite è quello di non riuscire a mostrare tutto: «Sono tornata a Dachau, ma non c’è più niente: è rimasto solo il forno crematorio e giù in fondo, le docce. Non ci sono le baracche, tutte distrutte». E invece bisogna vedere come dentro al memoriale di Auschwitz, «le montagne di scarpe, le migliaia di occhiali. Ricordo i corpi accatastati che mi sono trovata davanti l’ultimo giorno a Bergen Belsen, una Tour Eiffel di cadaveri».
Esce oggi per La Nave di Teseo l’ultimo libro della scrittrice di origine ungherese che ha scelto la nostra lingua per poter dire l’orrore. Perché come ama ripetere «la carta sopporta tutto». Si intitola L’amica tedesca, è una storia in cui il suo dolore di sopravvissuta incontra il dolore di chi della guerra non sapeva nulla.
Ha sentito le parole della ministra Roccella. Possiamo considerare la memoria dell’Olocausto come qualcosa di parte, coltivata solo per accusare il fascismo?
Primo Levi diceva: noi possiamo raccontare mille volte, ma non sarà mai comprensibile quel che è accaduto. Nonostante questo, ho passato gli ultimi sessant’anni della mia vita ad andare a parlare nelle scuole, con i ragazzi, ed è così importante farlo. Non per noi, ma per loro.
Sono in grado di capire?
Ho sempre parlato davanti a platee mute e in ascolto. A volte, accanto a qualche ragazzo che piangeva con me. Non so dire quanto sia grata di quegli incontri. E delle valanghe di lettere che mi scrivono ancora. Un giorno in un liceo un professore mi ha detto: signora Bruck, si ricorda di me? Era venuta a parlare nella mia scuola. Ora che sono caduta e non riesco ad andare, faccio con Zoom, ma finché avrò vita e voce non smetterò a parlare della Shoah.
Il governo vuole sminuire le colpe del fascismo?
Lo fanno da sempre. Nelle scuole, a parte questi incontri, cosa si insegna? Se ne parla poco e male. Da subito dopo la guerra nessun paese ha voluto confrontarsi con i propri delitti. Né l’Italia, né l’Ungheria. Forse, paradossalmente, a farlo più di tutti è stata la Germania. Noi sopravvissuti volevamo parlare, dovevamo liberarci di questa colpa – essere vivi – ma nessuno voleva ascoltarci. Dicevano: anche noi abbiamo sofferto la fame, anche noi abbiamo avuto i bombardamenti.
Ha visto l’accordo di pace, il rilascio degli ostaggi?
È qualcosa, certo, ma non riesco a fidarmi. Netanyahu ha fatto un grande danno con le sue dichiarazioni e la sua politica. In Europa l’antisemitismo si è acceso di nuovo, diventando uno tsunami. Mi è molto dispiaciuto vedere che a Bologna il palazzo municipale abbia esposto la bandiera palestinese, e non quella israeliana. Se vuoi la pace, devi volerla per tutti.
Perché non si fida?
Più si uccide, più si muore. Non puoi non morire un po’ dentro quando spari in faccia a qualcuno, un altro come te. E quindi con questa guerra senza fine ci stiamo tutti suicidando. La nostra umanità sta morendo. Ed è un dramma perché non c’è alcun rispetto per la vita in sé, non si rendono conto di quanto sia preziosa, di quanto – quando è in pericolo come lo era per noi ogni giorno nei campi – si sia disposti a fare qualsiasi cosa per difenderla.
Perché non se ne rendono conto?
Perché dal 1948 ci sono state solo guerre e odio. C’è stato un tentativo, poi hanno ucciso Rabin e siamo tornati indietro. Quante generazioni da allora sono cresciute nell’odio? Dico da sessant’anni, non da oggi, che non ci sarà pace finché non ci saranno due stati e due popoli.
L’amica tedesca è un romanzo che parla di un incontro difficile per lei. Lo aveva scritto molti anni fa, ma glielo avevano rifiutato.
Un editore di Firenze mi aveva detto che era un romanzo per lesbiche e io ci ero rimasta malissimo. Nessuno mi aveva mai rifiutato un romanzo, mi ero offesa come una bambina. Poi mio marito Nelo Risi mi fece l’elenco di tutte le opere di grandi scrittori rifiutate, a cominciare dal Gattopardo!
Perché era così difficile per lei avere una amica tedesca?
Non so descriverlo, ma perfino la voce, il suono della lingua, al principio mi feriva. Quando sentivo halt, o schnell, “rapido”, mi impietrivo perché mi sembrava di essere tornata al campo. Questa ragazza, che nella realtà si chiamava Brigitte, non sapeva nulla della guerra. Lo sceneggiatore con cui viveva le aveva fatto leggere il mio primo romanzo e lei aveva scoperto all’improvviso cos’era successo nel suo Paese, cosa aveva fatto quell’Hitler la cui foto sua madre teneva sul comodino, e prese a tempestarmi. Avrà bussato trenta volte alla mia porta prima che le aprissi.
Anche la vita di lei, nata nel 1945, era piena di dolore.
La madre aveva fatto tre figli con tre soldati diversi per darli a Hitler, che venerava. Poi li aveva lasciati a varie famiglie affidatarie. Brigitte era finita con padri che la abusavano, ma le mogli prendevano le loro parti e la accusavano di mentire. Come accade anche oggi, quando non si crede alle donne vittime di violenza, e si rovesciano le colpe.
Brigitte era omosessuale, il suo affetto per lei era fortissimo, non era questo però a turbarla.
No, per me era difficile stabilire un rapporto vero con una tedesca e mi stupivo di me stessa perché io non sono così. Ma la diversità – chi sei, chi ami – non mi ha mai turbata. Da quando sono venuta al mondo ho sentito che ogni vita è preziosa, e non ci sono persone di serie A, B, C.
da Casa delle donne di Milano

Ciao Luisa… Ti ho salutato così fino all’altro ieri, come tante altre compagne e amiche della Casa e non solo. Dovevamo vederci ieri pomeriggio, domenica 12 ottobre, a un concerto all’Auditorium, con altre amiche e amici. Ero po’ in ritardo, ti ho chiamato senza avere risposta, ho pensato: chissà, forse è già in sala e ha spento il telefono. O non ha sentito.
Poi, mentre ascoltavamo la Quarta sinfonia di Brahms, abbiamo cominciato a preoccuparci. Non era da lei, non avvertire. Era molto attenta e puntuale, ci aveva detto che dopo il concerto avremmo potuto fare un aperitivo da lei, che abitava a poca distanza. Quante volte eravamo state invitate a casa sua, in via Pietro Custodi, nel grande soggiorno affacciato sul retro, da cui andava e veniva il suo amato Micio Macho. Quanti compleanni e feste con gli amici fatti lì, in quello spazio luminoso.
Invece.
Ora scrivo di lei incredula e sconvolta. La conoscevo da più di cinquant’anni, siamo state compagne nei movimenti degli anni Settanta, nei Cub, in Avanguardia Operaia, nel movimento femminista. Abbiamo lavorato insieme dal 1974 al 1978 al “Quotidiano dei Lavoratori”. Lei poi aveva insegnato, vissuto negli Stati Uniti, studiato la storia di quel paese, delle donne pioniere dei diritti, dei movimenti. Ha pubblicato diversi libri per Sellerio, l’ultimo Storie di anime ribelli. Diritti e utopie nell’Ottocento americano uscito nel maggio scorso.
Il ricordo non può non partire da cinquant’anni fa. Eravamo impegnate, entusiaste, fiduciose nella possibilità di rivoluzionare il mondo, di far nascere un mondo migliore. Ragazze che si raccontavano anche gli amori e i progetti, le cose della vita. Non è stata facile la sua, anzi. Eppure sempre, in questi decenni, è stata sempre pronta ad aiutare tutte le amiche e compagne che avevano problemi. Le accompagnava negli ospedali, nelle visite, le invitava a rilassarsi nella sua bella casa sopra Tremezzo, sul lago di Como. Era buona e generosa.
Di lei vorrei ora ricordare soprattutto gli ultimi anni alla Casa delle Donne. Penso che siano stati tra i più felici e appaganti della sua vita.
Era socia della Casa dalla fondazione, nel 2014. Ma per vari motivi – i libri che scriveva, i soggiorni sul lago, dove la casa era diventata negli ultimi anni un bed & breakfast – non si era impegnata più di tanto. Poi, due anni e mezzo fa, aveva deciso di candidarsi al Consiglio Direttivo. Aveva maturato la decisione nei mesi precedenti. E l’aveva motivata, davanti a molte socie della Casa, con parole il cui senso era più o meno: «Dopo anni in cui ho seguito la Casa della Donne e ricevuto tanto, ho deciso che è il momento di restituire, di impegnarmi di più. Per questo mi candido al Direttivo».
Eletta senza avere il curriculum classico delle fondatrici o delle più attive, è stata in questi due anni e mezzo una presenza indispensabile nel Consiglio Direttivo di “noi sette”, come ci chiamiamo nelle password. Eravamo quasi tutte “nuove” a un’esperienza di gestione della Casa. Lei ci ha messo un grandissimo entusiasmo, con l’idea che la Casa dovesse essere aperta a tutte le donne, alla città, al mondo terribile con cui dobbiamo confrontarci. Aveva una caparbia volontà di cercare il positivo anche nelle peggiori tragedie cui quotidianamente assistiamo, come sanno le donne che hanno partecipato in questi mesi alla lettura dei giornali del mercoledì.
Partecipava attivamente ma sapeva anche “gestire gli eventi”: dal caffè alle cene, dai microfoni al mixer, sapeva fare ogni cosa. Tutte la ricordiamo arrivare ed esserci, sempre pronta e sorridente. Faceva i verbali, rispondeva alle richieste che arrivano ogni giorno alla Casa. Era disponibile in qualsiasi giorno e orario. Diceva sempre che l’esperienza del Consiglio Direttivo l’aveva arricchita molto, le aveva fatto conoscere realtà di donne e di mondo che non avrebbe mai avuto modo di incontrare altrimenti. Negli ultimi giorni insisteva sul fatto che candidarsi non era poi così difficile e impegnativo, che “si poteva fare” anche da socie senza particolari esperienze. Come era successo a lei.
Non potevamo immaginare che non ci fosse stasera, all’incontro (disdetto) del Direttivo con le socie per discutere di candidature. Né domani. Né nel prossimo Direttivo.
Ci mancherai, mi mancherai molto e molto mancherai alla Casa.
Addio Luisa, cara, generosa amica e compagna di sempre.
da L’Altravoce il Quotidiano
Francesca Albanese e Greta Thunberg sono due donne coraggiose e autorevoli, l’una “relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967”, l’altra, giovane svedese promotrice del movimento mondiale Fridays for Future contro il surriscaldamento globale. Oggi, entrambe sono oggetto di pesanti attacchi volti a delegittimarle, infangarle, screditarle e con false accuse renderle non credibili. Attacchi volti a farle zittire, con minacce, insulti, intimidazioni. Ma loro non si fanno zittire, parlano, vengono ascoltate e credute. Contro di loro si è scatenata una campagna di odio violentissima. L’una per aver denunciato e accusato, davanti alle Nazioni Unite con il suo report “Anatomia di un genocidio”, Israele e i suoi complici di apartheid, occupazione illegale dei territori palestinesi e di genocidio. L’altra per essersi imbarcata sulla Global Sumud Flotilla, condividendo la sorte dell’equipaggio. Entrambe sono state accusate di antisemitismo, di essere amiche dei terroristi, di essere al soldo di Hamas. Albanese è odiata per aver fatto i nomi delle “entità aziendali”, americane, israeliane e occidentali (produttori di armi, aziende tecnologiche, società di costruzione e edilizia, industrie estrattive e di servizi, banche, fondi pensioni, assicurazioni, università e organizzazioni di beneficenza) «che sono state a lungo coinvolte nel sostegno all’occupazione coloniale» e continuano a «sostenere, beneficiare e normalizzare un sistema economico legato al genocidio». Il segretario di Stato americano in una lettera alle Nazioni Unite ha chiesto la sua «immediata rimozione» dall’incarico per il suo «virulento antisemitismo e sostegno al terrorismo». L’ha accusata di essere bugiarda, di diffondere false notizie e che il suo rapporto «non è una difesa dei diritti umani ma una campagna diffamatoria». È stata sanzionata come «nemica di Israele, degli Stati Uniti e dell’Occidente». È stata citata in giudizio per diffamazione da un centro legale ebraico americano per aver elencato nel suo rapporto «organizzazioni caritatevoli cristiane» che «con le loro donazioni, hanno contribuito a progetti di sostegno agli insediamenti israeliani, tra cui la formazione di coloni estremisti». È stata attaccata per aver chiesto che la Corte di giustizia internazionale indaghi su queste «entità aziendali» che «traggono profitti dalla distruzione delle vite di persone innocenti» e per aver ricordato come «i processi agli industriali dopo l’Olocausto hanno gettato le basi per il riconoscimento della responsabilità penale internazionale dei dirigenti aziendali per la partecipazione a crimini internazionali».
Greta, da parte sua, è stata umiliata dai militari israeliani che dopo l’arrembaggio alla Flotilla in acque internazionali l’hanno costretta a gattonare e baciare la bandiera israeliana, nella quale poi l’hanno avvolta. Ha subito, come gli altri, maltrattamenti e abusi durante la prigionia di cui al momento non ha voluto parlare quando è atterrata ad Atene, dopo essere stata rilasciata. Ha accusato, anche lei, gli stati, le istituzioni, i media e le aziende di rendere possibile e alimentare il genocidio di Israele a Gaza. La marea umana che si è riversata nelle piazze di tutto il mondo sta con Albanese e Greta e mentre i militari israeliani abbordano l’altra Flotilla, carica di medicinali, medici, infermieri e giornalisti, tutti arrestati, le piazze tornano a riempirsi. Non si tratta, come ha detto Greta, di salvare i palestinesi, ma l’umanità dentro ognuna/o di noi. Umanità tradita, sbeffeggiata, insultata, criminalizzata, da chi, come il governo italiano, in questi anni è stato complice di genocidio e della distruzione di Gaza e oggi di fronte alla possibilità di porvi fine, ha la sfacciataggine di dire di aver sempre lavorato per la pace, ma la verità è più forte delle loro menzogne.
da il manifesto
Quando le bombe smettono di cadere, il mondo presume che la guerra sia finita e la chiama pace. Ma a Gaza il silenzio che segue il bombardamento non è pace; è l’inizio di un confronto con il vero dolore. Un cessate il fuoco non significa la fine, significa semplicemente che il rumore si è placato, permettendo alla voce del dolore di farsi sentire.
Nel momento in cui viene dichiarata la calma, la memoria inizia a parlare. Il padre che ha perso suo figlio si sveglia ogni mattina con la sua immagine. La donna che ha detto addio al marito martire impara a parlare all’assenza stessa. Il bambino sopravvissuto porta negli occhi il ricordo di una casa ridotta in cenere.
La fine della guerra a Gaza non è una vittoria, è un risveglio doloroso. Apriamo gli occhi sulla portata della perdita e reimpariamo a vivere senza ciò per cui un tempo vivevamo. Le case distrutte non si ricostruiscono facilmente nel cuore e i volti scomparsi non possono essere sostituiti dal silenzio o dalle promesse di ricostruzione.
Questa fragile calma che aleggia sulle rovine è lo spazio in cui gli abitanti di Gaza si confrontano con se stessi, scoprendo che la sopravvivenza non è conforto, ma una nuova responsabilità. Vivere dopo tutto questo significa portare il dolore di coloro che non ce l’hanno fatta.
Così, quando il fuoco si spegne, non inizia la pace, ma le parole. Parole di cuori afflitti, ricordi pesanti e persone che cercano la loro strada in una città sfinita dalla perdita. A Gaza, la fine della guerra non è la fine; è l’inizio di un altro capitolo di sofferenza silenziosa, non meno dolorosa dei bombardamenti.
La ricostruzione non inizia con le pietre, ma con i cuori. Le case possono essere ricostruite, ma chi ricostruisce gli esseri umani che vi abitavano? Come può una madre, che trema ancora al rumore del vento perché le ricorda le esplosioni, sentirsi di nuovo al sicuro? A Gaza, le persone riparano non solo i muri, ma anche le anime frantumate dalla paura incessante.
I bambini, tuttavia, sono una storia che non finisce mai. Quelli che hanno imparato a contare al suono dei razzi invece che con i numeri sui loro quaderni, e che hanno capito l’assenza prima di poter capire il futuro. Ogni notte, un genitore si siede accanto a loro, promettendo che la vita tornerà a sorridere, ma i loro occhi rivelano ciò che non può essere detto: la paura che i loro figli crescano credendo che la guerra sia normale.
Al mattino, dopo la guerra, il caffè non ha più il suo solito aroma; l’aria si mescola con la polvere e la cenere. La gente cammina lentamente, con il pane in mano e il peso dei ricordi nel cuore. Si fermano davanti alle rovine delle loro case, toccando le pietre come se fossero i volti dei loro cari, raccogliendo foto dalle macerie come se raccogliessero i frammenti dei propri cuori.
E la sera il silenzio non è tranquillo, ma carico del clamore nascosto delle domande e del dolore. Ogni finestra chiusa sussurra una storia, ogni strada in rovina racchiude l’eco di passi che non torneranno mai più. In questo silenzio, le anime parlano più di quanto le persone potrebbero mai fare.
«La guerra è finita», dicevano. Ma nei cuori non è mai finita. Dopo che il mondo era piombato nel silenzio, la voce del dolore si levò dapprima sommessa, poi chiara, come se provenisse dalle profondità. Una madre siede sulla soglia di una casa ridotta in macerie, fissando la strada da cui suo figlio tornava ogni sera. Un tempo riconosceva il suono dei suoi passi prima ancora di vederlo, ma ora ogni passo che sente risveglia in lei la falsa speranza che sia tornato. Stringe a sé i suoi piccoli vestiti trovati tra le macerie, premendoli sul petto come se cercasse di recuperare il calore della vita dalle ceneri. Il mondo è silenzioso, ma dentro di lei infuria una guerra che non cesserà mai, una guerra tra la memoria e l’oblio, tra l’amore e la perdita.
In un’altra casa, una ragazza è seduta accanto a una porta che non è stata aperta dalla sua partenza. La sua ultima promessa era stata quella di aspettarlo dopo la guerra, ma la guerra è finita e tutto è tornato come prima, tranne lui. Ogni sera parla alla sua fotografia, chiedendogli com’è andata la sua giornata, raccontandogli della città che sembra strana senza la sua voce. Impara che l’assenza non guarisce, e che la solitudine non sta nel vuoto, ma nella presenza di una persona cara solo nei ricordi. Non lo ha perso una volta quando è stato martirizzato, ma lo perde ogni giorno quando si sveglia e non lo trova.
Il bambino che è sopravvissuto da solo ora porta nei suoi occhi un’età superiore alla sua. La gente gli chiede il suo nome, ma lui rimane in silenzio, come se i nomi non avessero più alcun significato dopo che tutte le voci che lo chiamavano sono svanite. Cammina per le strade in rovina, alla ricerca di un volto familiare, di una mano che stringa la sua, di un abbraccio che gli restituisca un senso di sicurezza. A volte gioca tra le macerie, ma ogni risata porta con sé una scheggia di dolore. Piange raramente, forse perché le lacrime non bastano più per ciò che prova dentro.
Sì, la guerra è finita. Ma non ha lasciato i loro cuori. Vive ancora lì, nei dettagli di ogni giorno, negli sguardi, nel lungo silenzio prima di addormentarsi. A Gaza, la guerra non finisce con un cessate il fuoco; rimane dietro ogni sorriso spezzato, ogni cuore che cerca di reimparare a vivere dopo aver perso la vita stessa.
Ricordo la prima tregua annunciata nel gennaio 2025. La gente scese in strada per festeggiare, applaudendo e alzando la voce con gioia. Io, invece, piansi. Piansi con un dolore diverso dalle lacrime di sollievo, ma lacrime di oppressione.
Non sentivo che la guerra fosse finita; sentivo che ricominciava dentro di me. Vedevo negli occhi delle persone una speranza che non potevo raggiungere, ricordando la mia vecchia casa e la famiglia cancellata dall’esistenza, ricordando tutto ciò che si era fermato nella mia vita come se il tempo stesso si fosse congelato in quel primo momento di perdita. Mentre le voci si alzavano in segno di gioia, io sentivo solo il pesante silenzio che aleggiava tra le rovine del mio mondo interiore. Quel silenzio non può essere descritto, e non si può dire «La guerra è finita», perché sappiamo che non è ancora finita.
Eppure, continuo a credere che il cuore che ha pianto in profonda angoscia sia lo stesso cuore capace di risorgere dalle macerie. A Gaza, il dolore non finisce mai del tutto, ma impara a convivere con la vita. Portiamo con noi il nostro dolore non come un fardello, ma come prova che siamo ancora vivi.
Guardiamo il cielo ancora avvolto dal fumo, sussurrando dentro di noi: ricostruiremo. Non solo ciò che è stato distrutto intorno a noi, ma anche ciò che è stato spezzato dentro di noi. La vera pace, per noi, non è quando smettono di cadere le bombe, ma il giorno in cui potremo sorridere senza temere i ricordi.
da Il Fatto Quotidiano
Il 7 ottobre segna due tragedie: l’omicidio della giornalista russa nel 2006 e il pogrom di Hamas nel 2023, entrambi simboli di repressione
Quello del 7 ottobre è un doppio drammatico ed emblematico anniversario: diciannove anni fa, l’assassinio della giornalista russaAnna Politkovskaja nell’androne di casa sua, a Mosca. Due anni fa, il pogrom di Hamas che ha provocato la morte di 1200 civili e militari israeliani e il rapimento di oltre 250 ostaggi, scatenando la spietata reazione di Israele, la devastazione di Gaza, la morte di 70mila palestinesi di cui oltre 50mila civili, molti, troppi dei quali bambini, oltre ad aver costretto alla fuga gli abitanti della Striscia, afflitti da malattie, carestia, fame.
Azioni che hanno fatto accusare (a cominciare dall’Onu) il premier israeliano Netanyahu di genocidio. Due fili della Storia apparentemente slegati e disconnessi ma che invece sono purtroppo orditi dallo stesso disprezzo nei confronti dei diritti umani, della libertà, dei principii basilari di una società civile e democratica.
Anna Politkovskaja era una giornalista scomoda per il potere, lavorava per il bisettimanale Novaja gazeta dove pubblicava inchieste documentatissime che inchiodavano apparati dello Stato, del Cremlino, delle forze armate. Corruzione, intrallazzi, atrocità in Cecenia, e soprattutto l’onnipresente ruolo dei servizi segreti, ossia gli uomini dell’ombra, le eminenze grigie che stavano di nuovo forgiando la Federazione Russa scaturita dalle macerie dell’Unione Sovietica, orchestrate dall’uomo forte del Cremlino, ossia Vladimir Putin.
È su di lui che spesso si concentra il lavoro investigativo di Anna, e sulla questione cecena, gli intrighi per appropriarsi delle risorse energetiche, l’ascesa di clan legati al nuovo presidente, gli oligarchi che avevano edificato le loro immense fortune all’ombra del sistema Eltsin (il primo presidente della Federazione russa).
I capi dei grandi conglomerati economici, a cominciare dall’onnipotente Gazprom, avevano deciso di continuare ad operare in sintonia col Cremlino: certo, non erano un gruppo monolitico ma, nella sostanza, salvo alcune eccezioni (pagate con arresti, detenzioni in Siberia, fughe all’estero o omicidi…), si erano schierati con chi stava diventando intoccabile, proprio perché la guerra in Cecenia aveva rafforzato la sua alleanza con l’esercito, e perché lui stesso era un ex del Kgb e poi divenuto capo dell’Fsb, l’intelligence sua erede.
Politkovskaja raccontò l’ascesa, spettacolare per tempismo e metodi, di Putin, per lei il Kgb era ritornato al potere, al Cremlino. Descrisse, grazie a fonti molto ben informate, il periodo più delicato della sua scalata al potere, di come si sbarazzò di giudici troppo zelanti che stavano mettendo in croce Eltsin, di come il paese venisse spartito, delle sofisticate manipolazioni per garantirsi il controllo dell’apparato statale, quello che Anna battezzò “il metodo Putin”. Il quale mal sopportava quella ficcanaso, e più volte lo disse e lo fece sapere alla diretta interessata.
Ma lei non si arrese. E firmò, così, la propria condanna a morte. Che venne eseguita, guarda la coincidenza, nel giorno del compleanno di Putin.
Diciassette anni dopo inizia la tragedia di Gaza, col pogrom di Hamas. In questi giorni, le clamorose mobilitazioni per i palestinesi hanno scosso l’apatia politica italiana, cloroformizzata dal governo Meloni. Se Politkovskaja è stata fatta fuori perché le sue rivelazioni, i suoi articoli, le sue accuse, i suoi bellissimi libri d’inchiesta erano una spina intollerabile nel fianco del potere (il processo agli assassini, dei pesci piccoli, non ha chiarito alcunché sui mandanti), dimostrandone il carattere autoritario e l’intolleranza alla libertà d’opinione (tantissimi altri giornalisti sono stati uccisi, tutti i media non allineati e i leader dell’opposizione costretti a chiudere, a emigrare o a finire sotto terra, pensate a Aleksej Naval’nyi, alle testate in esilio, alla censura dominante in Russia), altrettanto è successo in Palestina.
Pure qui, dall’ottobre del 2023 sono stati ammazzati oltre duecento giornalisti, e si è impedito alla stampa straniera di entrare nella Striscia, impedendo così di documentare ciò che succedeva. Secondo le organizzazioni che si occupano di libertà d’espressione – uno dei diritti fondamentali dell’uomo – i giornalisti locali (“gli occhi del mondo su questa atroce guerra”) sono diventati obiettivi militari. Di qui, le accuse ad Israele di non volere testimoni. I giornalisti dunque sono divenuti pure loro vittime di questa tragedia umanitaria: pagano con la vita quello che sentono come un dovere, informare, descrivere, ascoltare, vedere. E documentare.
Non poterlo fare, perché il governo Netanyahu lo ha vietato, è una situazione senza precedenti. È il lato oscuro delle autocrazie. Come ha detto una volta Julian Assange, «se le guerre possono essere avviate dalle bugie, esse possono essere fermate dalla verità». La verità, parola ormai abusata e disossata, è sempre più un vessillo lacerato. La si invoca come ci si aggrappa e si evoca la parola democrazia, quale territorio di progresso e libertà. Come ha scritto Marco Travaglio nella prefazione al libro dell’ex senatore dei Cinquestelle Gianluca Ferrara Nel nome della democrazia (GFE editore, 2025), si sta rivelando una parola vuota, in nome della quale «si sono perpetrati crimini politici e militari indicibili».
L’indescrivibile orrore che ci circonda – Gaza ci è sempre più vicina, così come lo è stata l’uccisione di Anna Politkovskaja – ci lacera dentro e ci fa chiedere: come si può giustificare tutto questo? No, non lo si può giustificare.
Testimonianza dalla Striscia: «Guardando i video ho capito che ciò che ci succede a Gaza non passa inosservato»
La tristezza aleggiava sul campo di Nuseirat dopo che il nostro edificio era stato colpito per la terza volta consecutiva. Ricordo il momento dell’evacuazione, a mezzanotte, e come abbiamo trascorso tutto quel tempo per strada. Il mio cuore era pesante dal dolore.
Pochi giorni dopo l’evacuazione, mentre cercavo di elaborare le nostre perdite interminabili, mi è arrivato sul telefono un video dall’Italia. La scena mi sembrava quasi irreale: strade gremite di persone, striscioni che chiedevano la fine della guerra e bandiere palestinesi che sventolavano ovunque. Le voci gridavano slogan che non riuscivo a comprendere del tutto, ma ne percepivo l’emozione. In quel momento ho capito che ciò che ci sta accadendo a Gaza non passa inosservato, e che ci sono persone che alzano la voce per noi da luoghi lontani, che non abbiamo mai visitato. Le dimensioni delle manifestazioni in Italia, nei video che ci arrivavano, erano sorprendenti: centinaia di città piene di manifestanti che impugnavano cartelli con scritto “Stop alla guerra” e “Palestina libera”. Perfino i sindacati hanno proclamato uno sciopero generale di 24 ore in solidarietà con noi. Quelle immagini non erano soltanto scene su uno schermo: erano un messaggio chiaro che non siamo soli, che il mondo ci guarda e ci sostiene, nonostante la distanza che ci separa e le diverse circostanze.
Il sostegno italiano non si è limitato alle parole; ci sono state iniziative concrete che ci hanno dato speranza. Tra queste, la Sumud Flotilla, salpata verso Gaza nonostante i tentativi di fermarla. La loro incrollabile decisione di proseguire ci ha ricordato la nostra stessa resistenza, e come un singolo gesto di determinazione possa fare una significativa differenza. Queste iniziative hanno reso la solidarietà tangibile, dimostrando che il sostegno altrui non è passeggero, ma un’azione reale che lascia un segno nelle nostre vite, in mezzo a tante difficoltà.
Quando le persone a Gaza hanno visto quelle immagini e quei video, hanno percepito che qualcuno stava al loro fianco. Le conversazioni tra vicini e amici erano piene di racconti di solidarietà, e si percepiva una strana sensazione di speranza, nonostante tutto il dolore e la perdita. Non aleggiava più solo tristezza; cominciava a farsi strada la sensazione che il mondo non ci avesse dimenticati, che le nostre voci arrivassero lontano, e che non fossimo soli di fronte alla guerra e alla distruzione. Questo impatto psicologico è stato molto importante, perché ha dato alle persone la forza di andare avanti, anche solo per un momento, di fronte a una realtà così dura.
Alla fine, è evidente che anche un piccolo gesto può fare una grande differenza. La solidarietà che ci è giunta dall’Italia non è stata solo fatta di parole, ma di messaggi e azioni concrete che ci hanno ridato un senso di speranza. Siamo profondamente grati al popolo italiano per essere al nostro fianco e per il suo sostegno costante in questi tempi difficili. Gaza ha bisogno che il mondo continui a ricordare la sua gente e a offrire il proprio aiuto, con le parole o con i fatti. Nonostante tutte le difficoltà e la distruzione, il nostro legame con il resto del mondo resta una fonte di motivazione per resistere e perseverare – e speriamo che tutti si rendano conto che le nostre voci e le nostre storie contano, e meritano di essere ascoltate.
da L’Altravoce il Quotidiano
Israele può fermare, sequestrare e arrestare, come ha fatto, in spregio ad ogni sentimento di umanità prima che del diritto internazionale, le donne e gli uomini della flotta della Global Sumud Flotilla, ma non può arrestare e fermare l’indignazione, lo sdegno, il senso di giustizia e solidarietà verso il popolo palestinese. Lasciare morire di fame bambine/i, usare la fame come arma di guerra contro un popolo inerme, impedire di portare loro viveri e medicinali, è di una crudeltà e una barbarie che grida giustizia. Un grido che in questi giorni è risuonato forte e potente nelle piazze e nelle città di tutto il mondo; un risveglio delle coscienze, grazie alla missione umanitaria della Flotilla, di fronte all’ignavia dei governi e degli stati verso il genocidio di un popolo. Manifestazioni pacifiche con migliaia e migliaia di persone, di ragazze/i, a gridare “Palestina libera” e sventolare bandiere palestinesi. Quelle piazze sono palestre di politica per le nuove generazioni di tutto il mondo, come lo sono state per la mia quelle per la guerra in Vietnam. Anche noi, con Arafat, gridavamo “Palestina Libera” e sventolavamo la bandiera palestinese. Questo per dire che lo sterminio dei palestinesi non è iniziato dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre. Anche allora, come oggi, ci accusavano di antisemitismo, ma oggi ormai questa accusa non funziona più di fronte all’uccisione di 20.000 bambine/i palestinesi, di fronte a migliaia di bambine/i feriti, mutilati, orfani, affamati, ammazzati mentre in fila cercano un po’ di pane e di acqua per sopravvivere. Quanta crudeltà! Impedire alla Flotilla di portare il suo carico di viveri e medicinali ai sopravvissuti al genocidio, ancora in corso, è un crimine contro l’umanità. Che fine hanno fatto quei viveri e quei medicinali? Arriveranno mai ai palestinesi? Impedire di aprire una breccia nel blocco navale che Israele ha imposto sin dal 2009 in un mare che appartiene ai palestinesi e non agli israeliani, è un crimine contro l’umanità. Impedire di aprire un corridoio umanitario via mare per portare aiuti ad esseri umani stremati, è un crimine contro l’umanità. Di questi crimini e di genocidio Israele, l’Europa, gli stati e i governi suoi complici, come quello italiano, dovranno pur rispondere in qualche tribunale per essere giudicati e condannati. La storia e l’umanità li ha già condannati. Adesso, per ripulirsi la coscienza, accettano acriticamente il cosiddetto “piano di pace” di Trump e Netanyahu. Un piano su cui si sono accordati due uomini, due suprematisti, due vecchi del secolo scorso, residui di un mondo patriarcale violento e cultori della forza, che sia dei soldi o delle armi. È a questa visione del mondo che risponde quel piano. Una visione dentro a quella logica coloniale che la scrittrice palestinese in esilio Nada Elia nel suo libro La Palestina è una questione femminista chiama “colonialismo d’insediamento”. Il colonialismo d’insediamento è «furto di terre, spossessamento, sfollamento, supremazia ebraica», sul cui progetto è nato il sionismo e lo Stato d’Israele nel 1948. Con il “piano” di Trump e Netanyahu e il coinvolgimento della Gran Bretagna attraverso Tony Blair, l’immobiliarista che dovrà sovrintendere alla ricostruzione di Gaza, ai palestinesi sarà imposta la supremazia americana, israeliana e britannica. L’esercito israeliano continuerà ad occupare Gaza sine die, e i coloni in Cisgiordania a cacciare i palestinesi dalla loro terra e dalle loro case. Per quanto ingiusto sia, quel piano i palestinesi dovranno accettarlo vista la minaccia dei due cowboy di ammazzarli tutti, se non l’accettano. Tra morire e vivere, è sempre meglio vivere, anche a caro prezzo. Intanto, mentre scrivo, le manifestazioni non si fermano e una nuova flottiglia è partita per Gaza, dalla Turchia (45 navi) e dalla Sicilia (11), con medici e infermieri. Il mondo intero oggi è con Gaza e con la Flotilla.
da La Stampa
Per Ilan Pappé, Israele sta vivendo una crisi politica, morale e istituzionale che segna la fine di un capitolo della sua storia: l’inizio della fine del progetto sionista.
Rinomato storico israeliano, una delle voci più forti dei nuovi storici nel Paese, è professore di storia presso l’università di Exeter, in Gran Bretagna, dove dirige anche lo European Center for Palestinian Studies. Noto soprattutto per il suo libro del 2006 La pulizia etnica dei palestinesi, esce in Italia con il suo nuovo libro La fine di Israele, in libreria dal 7 ottobre nella traduzione di Nazzareno Mataldi.
Vorrei iniziare con gli eventi delle ultime ore. Le risposte di Hamas e Netanyahu al piano di pace proposto da Trump. L’ottimismo del presidente statunitense e lo scetticismo degli analisti. Partiamo da qui, da storico, come giudica i venti punti del piano Trump per il dopo Gaza?
«Il piano di Trump ha tutte le caratteristiche delle proposte di pace del passato e dei processi falliti finora. La prima: nessuno parla con i palestinesi. Tutti dicono loro quale dovrebbe essere il futuro della Palestina senza capire che ogni proposta che non sia discussa con i palestinesi è destinata a fallire. E anche questa fallirà. Dopodiché nel prossimo futuro penso che ci sarà lo scambio di ostaggi e prigionieri, credo che l’esercito israeliano darà un po’ di tregua alla popolazione di Gaza, ma non credo che questo risolverà il problema principale che abbiamo in Israele e Palestina, cioè l’incapacità degli israeliani di accettare i palestinesi come cittadini con pari diritti, come uguali esseri umani. Il programma non ha alcuna risposta alla natura di base del progetto sionista, che è un progetto volto a eliminare i palestinesi in Palestina, non necessariamente attraverso il genocidio, ma rinchiudendoli in enclave come piccoli bantustan, cosa che la maggior parte dei palestinesi non accetterà mai. Quindi è un piano che non affronta davvero la questione alla radice. In parte è una messa in scena, in parte un gioco, in parte il modo di Trump di pensare che tutto sia un problema di business, e di molti altri come Tony Blair che pensano che ci sia molto denaro coinvolto in tutto questo. Quindi credo che sì, ci sarà un tentativo, ma non avrà successo».
Partiamo dal titolo del suo libro: Israel on the brink nella versione inglese, La fine di Israele in quella italiana. Dove vede i segni della fine di Israele?
«L’Israele per come lo vediamo oggi non può sopravvivere a lungo, perché stiamo vivendo la fine di un capitolo della storia del sionismo. È già sotto i nostri occhi. Il sionismo è diventato colonialismo quando gli europei, gli ebrei non europei e una minoranza di ebrei in Europa hanno deciso che gli ebrei non avessero futuro in Europa ma dovessero in qualche modo “restare europei”. Così il sionismo ha mirato a costituire uno Stato europeo nel mondo arabo, con l’idea che il futuro degli ebrei sarebbe stato meglio servito da uno Stato ebraico nel cuore del mondo arabo e a spese dei palestinesi. Qualcosa che si può ottenere e sostenere solo con la forza, con la pulizia etnica e che col tempo è diventata un’ideologia di Stato. Un’ideologia di apartheid».
Quali questioni considera cruciali per comprendere la crisi del progetto sionista che descrive nel libro?
«Il primo è un problema interno del sionismo: cercare di definire l’ebraismo come nazionalismo. Oggi, dopo ottant’anni, sappiamo che non funziona. È come se fosse impossibile parlare del cristianesimo come nazionalità, o dell’islam come nazionalità. È anche impossibile parlare dell’ebraismo come nazionalità, e il risultato di questa impossibilità è che ora ebrei laici e più religiosi trovano impossibile accordarsi su cosa significhi essere ebrei. E questo non è solo un problema individuale, è un problema collettivo, dello spazio pubblico, cioè il carattere dello Stato: è governato da idee ebraico-teocratiche o è governato da idee moderne? Questo problema non risolto per ottant’anni si è trasformato, oggi, in un conflitto sociale. Dunque questo è il primo dato: il fallimento nel far coincidere ebraismo e nazionalismo».
Nel suo libro descrive e divide fra uno Stato laico, Israele, e uno Stato religioso, lo Stato di Giudea. Quanto è diventata irreversibile questa divisione nella società e nella politica israeliana?
«È una divisione molto acuta. Parlo dello Stato di Giudea, del tipo di Stato alternativo rispetto all’attuale Stato di Israele che è emerso, prima di tutto, negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma che si è diffuso, nei fatti, in tutto Israele. Il modo migliore per descrivere questo processo è che lo Stato di Giudea sta inghiottendo lo Stato di Israele.
Gli esponenti e i rappresentanti di quello che chiamo Lo Stato di Giudea, hanno già una presenza dominante in politica, nei servizi di sicurezza, tra i generali dell’esercito e nei media ufficiali. Dobbiamo ricordare che non sono affatto pochi gli israeliani che non sanno cosa sia Haaretz [in ebraico, “la terra” (sottinteso di Israele), ndr] e ora stanno assalendo il sistema giudiziario.
L’ultimo bastione che devono conquistare è la Corte Suprema di Israele, e sono sulla strada per farlo. Hanno già il parlamento. Hanno il governo.
Ora, anche se alcuni cambiamenti potrebbero verificarsi a causa della particolare personalità di Netanyahu, rimarrà comunque una forza dominante nella politica e nella vita israeliana. Ed è molto difficile intravedere dinamiche di cambiamento che possano veramente sfidare in modo efficace la loro predominanza nella politica e nella vita israeliana».
Parliamo dell’importanza della memoria collettiva e della rimozione della storia palestinese, della catastrofe degli sfollamenti e della pulizia etnica nella sfera pubblica israeliana.
«Questa questione riguarda il rapporto storico con i palestinesi. Il Dna del progetto sionista è un progetto coloniale di insediamento che ritiene che la popolazione indigena nativa sia un problema che deve essere risolto. Di solito rimuovendola o eliminandola. E questo è qualcosa che permea il sistema educativo, il sistema politico, il sistema culturale. Gli israeliani, fin da bambini, vengono indottrinati a pensare ai palestinesi come esseri umani inferiori, come un problema demografico, come un ostacolo alla loro vita in “sicurezza”. Se ci pensa, è davvero notevole che il sionismo sia presente in Palestina da 120 anni e che il 99% degli ebrei israeliani non conosca l’arabo. Questo la dice lunga su quanto siano distaccati dalla società, dalla comunità e dalla cultura palestinese».
Che ruolo hanno, e che ruolo potrebbero avere, le narrazioni storiche e la memoria nel mettere in discussione il progetto sionista?
«Vede, negli ultimi venti o trent’anni quella che sembrava essere una posizione ideologica palestinese – la memoria della catastrofe, della Nakba – è stata supportata dalla ricerca accademica. Fino a trent’anni fa quando i palestinesi dicevano di essere stati vittime di pulizia etnica nel 1948, la gente intorno diceva “è la vostra propaganda, non la verità”. Dunque oggi i ricercatori sono d’accordo nel sostenere che nel 1948 si sia verificato un crimine contro l’umanità a danno dei palestinesi. Analogamente, l’affermazione che Israele non sia una democrazia è corroborata da studiosi e organizzazioni per i diritti umani – Human Rights Watch, Amnesty International – la Corte Internazionale di Giustizia, la Corte Penale Internazionale. Quindi qualcosa è cambiato nella percezione della narrazione sionista come propaganda non basata sui fatti, ma come manipolazione e fabbricazione della verità».
La sinistra israeliana oggi appare paralizzata.
«La sinistra sionista funziona a malapena. Ma è chiaro, non si può essere un colonizzatore di sinistra. La sinistra antisionista è cruciale, molto coraggiosa, ma minoritaria. Sono gli unici che manifestano contro la guerra perché a Gaza è in corso un genocidio. Una delle storie tristi qui è che la forza di contrasto – chiamiamola l’élite liberale e laica in Israele – ha deciso, invece di combattere, di lasciare il paese, e quelli che sono rimasti, soprattutto a Tel Aviv, quelli che chiamiamo i kaplanisti e animano le manifestazioni del sabato, non hanno davvero una visione alternativa allo Stato di Giudea. Quello che vogliono è continuare la loro privilegiata vita a Tel Aviv senza esserne toccati, ma non hanno una percezione alternativa di quale sia il problema con i palestinesi e di come affrontarlo; perciò credo che perderanno, o che forse hanno già perso perché l’altra parte – lo Stato di Giudea – è molto chiara nella sua visione, nella sua ideologia, nei suoi mezzi, nel modo in cui vuole procedere verso il futuro per raggiungere i propri obiettivi, e ci sta riuscendo».
Nel libro sostiene la decolonizzazione anziché gli aggiustamenti alla soluzione dei due Stati. Decolonizzazione come unico quadro morale e politico duraturo. E dalla decolonizzazione un percorso che unisca misure di giustizia riparativa, riorientamento giuridico, risarcimenti, riparazioni. Come risponde alle critiche che definiscono la soluzione politica che lei propone nel libro come una soluzione irrealizzabile, e impraticabile?
«È un’utopia? Forse, ma non c’è nulla di sbagliato in questo, perché le utopie possono dare un orientamento. Ma io credo che i processi di disgregazione – che forse non sono visibili a tutti – siano già cominciati. Sono uno storico e so che il crollo degli Stati e dei regimi può, all’inizio, essere molto lento e poi accelerare rapidamente. L’espressione del potere, soprattutto quello militare da parte dello Stato populista messianico di Israele lo farebbe istintivamente pensare come uno Stato forte. Ma pensiamoci bene, uno stato che lancia bombe in Qatar, in Yemen, che ha occupato parte della Siria e parte del Libano, che commette un genocidio a Gaza, è uno stato che non può che generare ostilità e alienazione. Uno Stato che con questa condotta non può essere tollerato e sostenuto ancora a lungo. Sa, l’’Egitto, la Giordania, la Siria e il Libano – a cui si possono aggiungere l’Iraq e l’Arabia Saudita – ora pensano di poter tollerare Israele; pensano persino che questo tipo di Israele dia loro dei dividendi. Ma questa non è una posizione condivisa dalle loro popolazioni.
Quindi qualsiasi cambiamento nella relazione tra società e regimi nel mondo arabo cambierebbe la posizione dei Paesi intorno a Israele. C’è un momento – lo dico come storico, naturalmente non sto predicendo il futuro – in cui un tale comportamento non è più tollerato, Israele sta alienando tutti intorno anche molti – molti amici. È qualcosa con cui gli israeliani devono cominciare a fare i conti».
da Techeconomy2030 -Digital Transformation For Sustainability
“L’uomo è diventato una specie di dio-protesi: quando si serve di tutti i suoi organi ausiliari è veramente magnifico; ma non li porta con sé e spesso non riesce a usarli senza difficoltà”
A volte ci spaventiamo dell’intelligenza artificiale come se fosse una potenza autonoma pronta a ribellarsi, e nello stesso tempo sembriamo distratti di fronte agli usi concreti che governi e imprese ne fanno quotidianamente. È questa la vera contraddizione del nostro tempo: non la macchina in sé, ma il modo in cui la usiamo o, peggio, lasciamo che altri la usino per noi.
L’inchiesta che ha svelato l’impiego dei servizi cloud e di intelligenza artificiale di Microsoft da parte dell’Unità 8200 israeliana per la sorveglianza massiva dei palestinesi ne è un esempio clamoroso. Il contratto risaliva al 2021 e permetteva di immagazzinare e processare milioni di chiamate telefoniche, con una capacità impressionante: fino a un milione di conversazioni l’ora. Tutto questo è avvenuto per anni, lontano dallo sguardo pubblico, fino a quando non è esploso lo scandalo. Solo allora Microsoft ha interrotto i servizi del suo sistema Azure – che sembra voler trasmettere anche nel nome calma e tranquillità, come un fondo pensione –, quando i dati erano già stati raccolti e utilizzati. Un classico caso di stalla chiusa a buoi già scappati, che mette in luce la sproporzione tra la rapidità con cui la tecnologia si insinua nelle nostre vite e la lentezza con cui reagiamo quando se ne svela l’abuso.
Il tema, però, non è nuovo. Già i Greci avevano intuito che la téchne, l’arte del fare, non fosse una licenza illimitata ma una forma di supplenza, un modo per colmare la nostra fragilità. Pensiamo a Dedalo, che con la sua inventiva dona le ali al figlio Icaro, ma non può impedirne la caduta quando la spinta dell’eccesso lo porta troppo vicino al sole. O all’automa di bronzo Talos, creato da Efesto per vigilare su Creta, metà prodigio e metà minaccia. In questi racconti la tecnologia appare come un dono ambiguo: estensione delle nostre capacità e, insieme, potenziale dismisura, hýbris contro gli dèi.
Che cosa significa téchne (e i miti che la raccontano)
In greco antico, téchne non era “tecnologia” nel senso moderno, ma arte, mestiere, capacità pratica. Era distinta dalla epistéme (conoscenza teorica) e indicava il saper trasformare un’idea in azione o in oggetto.
I miti ci mostrano bene la sua ambivalenza: Dedalo, inventore geniale, costruisce le ali che permettono a Icaro di volare – ma l’eccesso porta alla caduta. Efesto forgia automata di metallo capaci di muoversi e servire, straordinari e inquietanti antenati dei nostri robot. La lezione resta attuale: la téchne colma una mancanza, ma se usata senza misura diventa hýbris.
Questi miti ci ricordano che la questione non è mai stata tecnica, ma sempre etica e politica. Lo vediamo anche oggi, nell’ipocrisia con cui giudichiamo certe piattaforme e ne tolleriamo altre. TikTok, per esempio, negli Stati Uniti è stato trattato come una minaccia alla sicurezza nazionale, al punto da imporne la vendita forzata per proteggerne la democrazia. Ma la stessa lucidità non si applica a piattaforme americane come Meta o X, che ogni giorno plasmano le nostre bolle informative e influenzano le opinioni politiche senza che questo sollevi allarmi equivalenti. Condanniamo la propaganda “straniera” e ci abituiamo a quella domestica, anche quando la sua portata non è meno invasiva.
Chi controlla gli algoritmi, in fondo, controlla l’accesso all’informazione e con esso la trama stessa delle relazioni sociali. È qui che la tecnologia smette di essere un tema da ingegneri per diventare un nodo di potere. Se il dibattito pubblico resta limitato a slogan e a paure generiche sull’IA “buona” o “cattiva”, perdiamo di vista il punto centrale: lasciamo che soggetti privati, spesso stranieri, stabiliscano le regole invisibili della nostra democrazia informativa. Il rischio sistemico non sta tanto nella provenienza di una piattaforma, quanto nella concentrazione di potere e nella mancanza di trasparenza con cui viene esercitato.
Qui entra in gioco la politica, o meglio la sua assenza. Se la tecnologia è un attore di scena, chi scrive il copione? Chi decide i limiti, le regole, le conseguenze? Non possiamo più accontentarci di reazioni tardive, come quella di Microsoft. Servono norme chiare e strumenti di controllo democratico che riducano al minimo la possibilità di violare impunemente i principi dei nostri codici civili e costituzionali. In mancanza di ciò, continueremo a inseguire gli scandali a giochi già fatti.
E infine c’è un equivoco che vale la pena di sfatare: l’idea che l’intelligenza artificiale abbia una sua “etica intrinseca”. È una narrazione rassicurante, che sposta il problema dalle nostre responsabilità alla macchina. Ma, come ricorda Stefano Epifani nel suo ultimo libro Il teatro delle macchine pensanti, l’IA non possiede etica: ha istruzioni, vincoli, dati e obiettivi che noi definiamo. L’etica appartiene alle persone, alle società, ai governi che decidono come usarla. Illudersi che la macchina possa in qualche modo sostituire questo compito significa ripetere, in versione digitale, la stessa hýbris che i Greci avevano già messo in guardia nei loro miti.
Tre priorità per la politica
1. Trasparenza: aprire dati e algoritmi a controlli indipendenti.
2. Simmetria: regole uguali per tutte le piattaforme con impatto sistemico, non solo per quelle “straniere”.
3. Legislazione efficace: norme capaci di ridurre al minimo le possibilità di violare impunemente i principi dei nostri codici civili e costituzionali.
Tra Prometeo e Azure, il messaggio resta lo stesso: non è la tecnologia a renderci più o meno giusti. Siamo noi, con le nostre scelte, a darle una direzione. E se vogliamo evitare che le nostre protesi diventino catene, dobbiamo assumere fino in fondo la responsabilità politica ed etica del loro governo.
da Sette
L’AI (e non solo) nasce da un incontro che si è sedimentato fra matematica, informatica, neuroscienze, filosofia… Marilù Chiofalo*, fisica quantistica, spiega perché «uscire dal modello unico» è l’approccio giusto
Il principio di sovrapposizione quantistica dice che una particella può trovarsi in più stati contemporaneamente: zero e uno, qui e lì. È una delle basi della meccanica quantistica, ed è anche la prova di quanto questa scienza sia distante dall’evidenza dei nostri sensi e dal modo consueto di comprendere il mondo. Eppure, incontrando Marilù Chiofalo si ha l’impressione che quell’astrazione, che ci è sempre sembrata un paradosso inconcepibile, trovi una forma viva, concreta, proprio davanti a noi.
Un dottorato di ricerca alla Scuola Normale, professora di Fisica della materia condensata all’Università di Pisa, il suo approccio alla ricerca è interdisciplinare, così come assume diverse dimensioni il suo modo di insegnarla e raccontarla, tra radio, video, riviste, attività per le scuole e molto altro. Parlare con lei è come intraprendere un viaggio che non conosce confini: scienza, arte e cultura si intrecciano senza mai separarsi.
«Da piccola correvo scalza tra i torrenti della Magna Grecia, osservavo le stelle, mi sbucciavo sempre le ginocchia, giocavo a pallone (da centravanti) e a pallavolo (facendo punto in tre tocchi di cui uno, il mio, come alzatrice), suonavo strumenti, fondavo associazioni (per l’ambiente, contro la mafia) e pensavo che la fisica è la poesia della matematica». La sua curiosità non può essere contenuta, si muove in tutte le direzioni e non è rivolta soltanto ai contenuti, ma al come esplorarli. È affascinata soprattutto da questo: dai percorsi, dalle prospettive, dai linguaggi. E il suo preferito è quello di chi sa stare tra le discipline, senza lasciarsi ingabbiare da una sola. Così, seguendo un cammino non convenzionale, Marilù Chiofalo si è ritrovata a studiare tecnologie quantistiche per esplorare il cosmo e la mente, e a inventare nuove realtà grazie alle simulazioni al computer.
«La scienza del futuro che voglia svelare i grandi misteri dell’umanità come l’universo, la mente, la coscienza, è necessariamente interdisciplinare e connettiva: richiede puzzle di competenze e risorse, connessione fra astrazione ed esperienza, in ambienti di ricerca complessi per dimensioni, dinamiche ed enorme qualità di diversity», dice. E in effetti, se pensiamo all’Intelligenza Artificiale di cui parliamo per il suo potenziale trasformativo, non possiamo non notare che non nasce da una sola disciplina, ma è frutto di un incontro di saperi molto diversi che si sono intrecciati nel tempo: matematica, statistica, informatica, neuroscienze, psicologia cognitiva, ingegneria, linguistica, filosofia, e scienze sociali ed economiche. Se adottiamo un atteggiamento interdisciplinare ci accorgeremo che «ciò che appare distante non lo è perché lo sguardo di chi osserva, che è uno, collega e associa, manipola e trasforma. Così nasce qualcosa di nuovo, capace di contenere e persino riconciliare le contraddizioni».
Ma nel mondo accademico non è facile assumere questo atteggiamento. Come sottolinea Marilù Chiofalo: «Se lavori al confine tra due o più discipline, per il mondo non sei specializzata né in una né nell’altra.» Per chi vuole intraprendere un percorso come il suo, la strada è più faticosa. La svolta è arrivata con l’incontro a Labodif, il primo istituto di ricerca e formazione sulla differenza, fondato dalla regista Gianna Mazzini e dall’economista Giò Galletti. Lì, racconta, ha imparato come riconoscere le donne che sanno tracciare nuove direzioni. «In fisica questa sarebbe un’accelerazione. A Labodif le chiamiamo madri».
La sua interdisciplinarità si è trasformata in una in-disciplina. «Essere in-disciplinata per me non è solo costruire ponti tra saperi diversi. È ricomporre la bambina di allora con la donna che sono oggi». Vuol dire affrontare prima di tutto una trasformazione interna, più che un conflitto con l’esterno e con le regole del sistema. Vuol dire imparare a guardarsi dentro e avere il coraggio di mostrarsi interamente, in tutto ciò che si fa.
Un’urgenza, soprattutto nel mondo della scienza, dove di donne ne «entrano poche, e restano meno». C’è ancora molto da fare. Essere una ricercatrice significa affrontare una fatica doppia: muoversi dentro un sistema che porta impresso un punto di vista maschile e che misura quasi tutto con un metro valido, certo, ma che non può essere l’unico. Lo sottolinea con chiarezza: «Il problema non è che esista un metro maschile. Il problema è quando quel metro diventa l’unico possibile. L’auspicio è che più metri possano convivere».
L’attuale metro rischia di incastrarci in un meccanismo escludente, soprattutto per le donne. «Capita spesso», mi dice Marilù Chiofalo, «che le donne non vengano viste. O, se viste, non vengano riconosciute. Anche per il modo diverso con cui fanno le cose.»
La scienza, dopotutto, è fatta da persone. Eppure, ce ne dimentichiamo. Dove ci sono persone che fanno scienza, ci sono sempre due dimensioni: quella oggettiva, legata ai risultati della ricerca; e quella soggettiva, legata al percorso unico e irripetibile con cui si arriva a quei risultati. È proprio questa dimensione soggettiva che andrebbe valorizzata. Non solo per le donne, ma per tutti. Perché abbiamo bisogno di nuovi metri narrativi, capaci di dare spazio e valore a questa diversità.
Alle donne, dice, servono due cose. La prima è decolonizzarsi: disimparando quel modo di fare ordine astratto tra i contenuti e smettendo di misurarsi con il metro altrui, di vivere nella schiavitù della perfezione che impone di sapere sempre più di chiunque altro. La seconda è stabilire un nuovo metro. E un metro nuovo non nasce mai in solitudine: prende forma solo nella risonanza con altre donne. Questa, mi dice, è l’autorità femminile: allargare gli spazi, aprire il campo del possibile e del dicibile. Lo dimostrano due ricerche che Marilù Chiofalo cita con entusiasmo. Entrambe sono nate grazie all’accoglienza e alla generosità di altre donne, ricercatrici in campi diversi, che hanno condiviso con lei l’idea di una collaborazione “in-disciplinata”. La prima utilizza la meccanica quantistica per simulare sistemi complessi come quelli del nostro cervello. Un esempio? La percezione della numerosità: quella capacità straordinaria di guardare un gruppo di persone e sapere quante sono, senza doverle contare a una a una. La seconda prova a ridefinire il tempo.
Un’impresa che sembra impossibile: mettere insieme la visione della meccanica quantistica, dove il tempo è solo un parametro, e quella della relatività, dove invece il tempo è un attributo fondamentale. In altre parole, cercare un modo di pensare il tempo… senza tempo.
Ma come possiamo diventare anche noi un po’ (in)disciplinate, a modo nostro? Ecco i consigli che offre alle sue studentesse: «Se hai un desiderio, non rinunciarvi mai. Cerca madri, come una rabdomante cerca l’acqua nel deserto. E, soprattutto, vai tu stessa nella realtà. Non mandare la tua controfigura, non mascherare la tua natura: così non lascerai indietro pezzi di te.»
Marilù Chiofalo sembra vivere in un tempo senza tempo, come quello che studia. E, in effetti, è insieme la bambina che è stata, la ragazza, la donna di oggi e quella di domani. Tra le tante cose che ci consegna, forse la più preziosa è questa: la possibilità di assumere una postura quantistica nei confronti del grande gioco della vita. Una postura che rifiuta di incasellarsi in uno zero o in un uno, in un qui o in un lì. Che non esclude, ma accoglie. E che, proprio per questo, ci rende massimamente libere.
(*) Marilù Chiofalo è professora di Fisica della materia condensata all’Università di Pisa. Nata nel 1968 a Reggio Calabria, ha praticato sport a livello agonistico (pallavolo, calcio, tennistavolo), studiato flauto al Conservatorio, è appassionata di giochi di ruolo, fumetti e fantasy.
da l’Avvenire
La Chiesa anglicana d’Inghilterra avrà per la prima volta nella sua storia come primate una donna, Sarah Elizabeth Mullally, sessantatré anni, che è stata eletta arcivescovo di Canterbury, titolo che la rende anche primus inter pares tra i primati della Comunione anglicana.
L’annuncio è stato dato stamattina al numero 10 di Downing Street, al termine di un processo iniziato con un’articolata consultazione ecclesiale affiancata da una consultazione pubblica, poi con la scelta del nome di Mullally da parte della Canterbury Crown Nominations Commission – organo composto da 17 membri di nomina reale – il quale l’ha proposto al primo ministro Keir Starmer, che a sua volta l’ha sottoposto al re. E Carlo III l’ha approvato in qualità di governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra. L’insediamento ufficiale è previsto a marzo 2026 dopo una serie di passaggi nei prossimi mesi tra cui l’elezione formale da parte del decano e del Capitolo della Cattedrale di Canterbury.
Mullally succede nell’incarico a Justin Welby, che aveva annunciato le sue dimissioni da arcivescovo di Canterbury il 12 novembre 2024 – diventate effettive il 6 gennaio di quest’anno – dopo essere stato accusato di non aver preso provvedimenti adeguati nei confronti di un abusatore seriale di adolescenti che frequentava da volontario i campi giovanili anglicani.
Mullally, nata nel 1962 a Woking, città di sessantamila abitanti nella contea del Surrey, ha abbracciato la fede anglicana all’età di 16 anni. Ha studiato infermieristica, specializzandosi in infermieristica oncologica, e nel 1999, all’età di 37 anni, è arrivata a ricoprire il ruolo di responsabile del Servizio infermieristico d’Inghilterra presso il Ministero della Salute, la più giovane di sempre. Divenuta sacerdote anglicano nel 2002, nel 2004 ha deciso di lasciare gli impegni civili e di dedicarsi a tempo pieno al servizio pastorale. Ricevuta nel 2015 l’ordinazione episcopale – quarta donna a diventare vescovo nella Chiesa d’Inghilterra – ha guidato prima la piccola diocesi di Crediton e dal 2018 la prestigiosa arcidiocesi Londra.
È sposata dal 1987 con Eamonn Mullally, consulente aziendale in pensione, ed è madre di due figli adulti, Liam e Grace.
«Lavare i piedi ha plasmato la mia vocazione cristiana: come infermiera, poi come sacerdotessa, poi come vescova» ha detto la nuova primate anglicana in un breve discorso nella cattedrale di Canterbury, «nel caos apparente che ci circonda, nel mezzo di una così profonda incertezza globale, la possibilità di guarigione risiede in atti di gentilezza e amore».
Il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, ha dato il suo benvenuto a Sarah Mullally in un comunicato a nome della Conferenza episcopale cattolica di Inghilterra e Galles di cui è presidente. «Porterà con sé molti doni personali e la sua esperienza nel suo nuovo ruolo» ha scritto il porporato, «insieme risponderemo alla preghiera di Gesù affinché “siamo tutti una cosa sola” (Giovanni 17,21) e cercheremo di sviluppare i legami di amicizia e di missione condivisa tra la Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa cattolica romana».
Parole di augurio anche da parte del cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, che ha inviato una lettera al nuovo arcivescovo di Canterbury. […]
da https://obiezioneallaguerra.webnode.it/l/
Oggi, 2 ottobre, celebriamo la Giornata Internazionale della Nonviolenza, un’occasione che onora la data di nascita del Mahatma Gandhi, il pioniere di una filosofia e strategia sì «antica come le montagne», ma che – resa efficace nella dimensione politica pratica – ha cambiato il mondo.
La “vittoria”, sotto la guida di Gandhi, della liberazione dell’India dal colonialismo, nelle straordinarie modalità di svolgimento, ispirate al principio etico del “non uccidere”, ha introdotto la speranza di una “rivoluzione” che sia al contempo profonda conservazione delle basi durature dell’esistenza.
Istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 15 giugno 2007 e commemorata per la prima volta nello stesso anno, questa giornata è un richiamo all’azione per tutti i membri della comunità globale. La risoluzione delle Nazioni Unite invita infatti a «divulgare il messaggio della nonviolenza, anche attraverso l’informazione e la consapevolezza pubblica», riaffermando la sua rilevanza universale.
La ricorrenza ci invita a riflettere sul potere e sulla forza del principio di nonviolenza come strumento essenziale per costruire un futuro di pace, comprensione reciproca e cooperazione della umanità globale nella conversione ecologica.
La nonviolenza che siamo chiamati a propugnare non è una semplice astensione dall’agire o una tecnica pragmatica. È una forza poietica – cioè innovativa e concreta – ancorata al valore fondamentale del rispetto della vita universale.
Essa rappresenta la strategia di trasformare le relazioni di potere (il “potere con” contro il “potere su”), mutando i gruppi umani nemici in gruppi umani amici. La nonviolenza è un progetto di terrestrità: un impegno a salvare non solo l’umanità dai conflitti, ma a curare, da “custodi dell’evoluzione naturale”, la nostra Terra stessa, radicando la civiltà umana in rapporto armonico con l’unico ecosistema vivente cui apparteniamo come specie.
In linea con questi principi, i Disarmisti Esigenti (www.disarmistiesigenti.org), membri di un’organizzazione centenaria della nonviolenza come la War Resisters’ International (WRI), propongono, in modo prioritario, un impegno fondamentale su due “fronti”:
– L’abolizione delle armi nucleari: in collegamento con la Rete ICAN, per eliminare la minaccia più grave alla sopravvivenza umana e planetaria.
– L’obiezione alla guerra: quale tendenza che si sta pericolosamente estendendo, in particolare nei conflitti come quello in Ucraina e in Medio Oriente, riaffermando il rifiuto radicale del metodo della violenza per risolvere le controversie.
A questo proposito ricordiamo la dichiarazione di impegno da sottoscrivere al seguente link:
La Giornata Internazionale della Nonviolenza ci sfida a rendere questi ideali un’azione quotidiana, con impegno personale e collettivo, contribuendo al futuro della pace “disarmata e disarmante”, nel rapporto armonico da ricercare tra società umana e Natura.
C’è in giro un fantasma vendicativo che si aggira indisturbato tra le folle, accompagnando la sete di giustizia di uomini e donne, giovani e anziane, indifferentemente. Proclamandosi riparatore di torti, trova accoglienza in social, piazze e salotti, nutre nuove generazioni, intossica. Invocando riparazione trova plauso in un mondo a ragione assetato di giustizia. Il sentimento, l’emozione prorompe e deborda, ingoiando la distanza necessaria per patire il dolore, ma anche per trascenderlo, trasformandolo in progetto per un mondo futuro vivibile, perché la sopraffazione non rimbalzi, cambi direzione, per perpetuarsi.
La manifestazione per la Giornata Internazionale della Pace, che si è tenuta all’interno del Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano [la “Tenda del Lutto”, organizzata il 21 settembre 2025 dalla Fondazione Gariwo, ndr], è stata una rara occasione per rivedere un pacifismo sincero, fondato sul lavoro di mediazione e nonviolenza, in cui le parole e le pratiche di pace delle donne, quelle che ci hanno dato strumenti per andare oltre alle logiche dello scontro, hanno potuto trovare pubblica rappresentanza. Il momento più emozionante è senza dubbio stato l’incontro con Aisha Khatib e Irit Hakim dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace. Un’organizzazione nata da ex combattenti di entrambe le parti che hanno deciso di abbandonare lo scontro armato per cercare una soluzione nonviolenta.
Nelle parole di Aisha Khatib, nella ferita per la perdita del fratello, in quella vita distrutta da un proiettile sparato da un soldato israeliano che a distanza di dieci anni ha raggiunto il suo esito fatale, nel racconto della rabbia e del successivo smarrimento, nell’incontro prima con i Parents Circles e poi con Combatants for Peace, è emerso un travaglio vitale più forte degli esiti mortiferi della guerra e della vendetta. La stessa cosa che è accaduta a Irit Hakim, israeliana da sette generazioni, sopravvissuta per puro scherzo della sorte al massacro di ventidue giovanissimi israeliani compiuto da un gruppo di terroristi provenienti dalla Siria, sopravvissuta alla morte di un amico d’infanzia, passata attraverso la detenzione del marito per il suo rifiuto di prestare servizio nei territori occupati. Donne che hanno trasformato il dolore, le diffidenze e il desiderio di giustizia in una risorsa per il futuro, nella volontà di conoscersi, parlarsi comunicando le proprie ferite, scoprendo che «non si può essere nemici se conosci tante cose dell’altro».
Non a caso fino alla vigilia del 7 ottobre sono state le donne israeliane e palestinesi riunite in Women Wage Peace in collaborazione con Women of the Sun che hanno costituito la spina dorsale di grandi espressioni pacifiste. Le pacifiste sono state presenti ovunque, anche nelle organizzazioni miste, portando la capacità di riconoscersi reciprocamente il comune dolore e lavorare per la conciliazione.
La celebrazione del Memorial Day (in Israele il Memorial Day è il giorno in cui si commemorano le vittime del terrorismo e i soldati caduti in guerra) in chiave bi-nazionale, per ricordare anche le tante vittime palestinesi, è stata fondamentale per Irit Hakim per scoprire il posto giusto dove lavorare per la pace insieme ad altri uomini e donne: i “nemici” con i quali trovare spazi collettivi per costruire insieme la trasformazione delle memorie.
Il 7 ottobre è stato un momento drammatico per tutti, anche per i Combatants for Peace, un momento di confusione, paura, diffidenza e silenzio. Riprendere a parlarsi e lavorare insieme è stato faticoso e i primi incontri su Zoom sono stati inondati di lacrime.
Oltre alla violenza di questi anni c’è una luce, non ricordiamo solo il male, ma anche le luci che in queste tenebre brillano.
da la Repubblica

Jane Goodall, etologa e antropologa scomparsa ieri all’età di 91 anni, la donna che ha saputo dialogare con gli scimpanzé, era nata il 3 aprile 1934 ad Hampstead, un quartiere chic di Londra. Ma lei amava vivere nella foresta. Da bambina era innamorata di Tarzan ed era gelosa perché lui aveva sposato la Jane sbagliata. Giovanissima, aveva cominciato le sue ricerche sulla vita familiare e sociale dei primati nel Parco Nazionale di Gombe Stream, in Tanzania.
È stata la scienziata che più ha contribuito a farci capire che fra noi e i primati il passo è breve, anzi brevissimo. Le sue ricerche pionieristiche hanno fatto affiorare l’anello mancante dell’evoluzione, quella soglia impalpabile che ci fa amici e fratelli di quei quadrumani dallo sguardo dolce che sorprende e commuove. Perché ci mostra a noi stessi sotto un’altra luce, come in uno specchio un po’ deformante, ma non abbastanza da non fotografare la nostra stessa animalità. Le sue battaglie animaliste per difendere gli scimpanzé a rischio di estinzione si fondavano sull’importanza della conservazione di questa specie sorella della nostra.
Negli anni Settanta aveva fondato l’Istituto Jane Goodall, che dal 1998 ha anche una sede italiana, attualmente diretta da Elisabetta Visalberghi, a sua volta grande specialista dei bonobo, le scimmie più simpatiche che esistono. Perché sono capaci perfino di costruire strumenti come le cannucce per risucchiare le formiche. O aprire una noce senza schiacciarla, per mangiare il frutto intero senza mandarlo in frantumi come facciamo spesso noi, nonostante lo schiaccianoci.
La sua mission era lo studio del rapporto tra umani, animali e ambiente. Per questo le sono sempre interessati gli esemplari selvatici, nel loro habitat prima che il contatto con gli uomini li trasformasse. In un video del 2013 che ha fatto il giro del mondo, Dame Jane viene abbracciata teneramente da Wounda, una scimpanzé che lei con il suo staff aveva strappato al traffico illegale di animali esotici. Alla fine Wounda, dopo essere stata curata e guarita dai ricercatori, è stata rimessa in libertà nella riserva di Tchimpounga, un autentico santuario per scimpanzé creato nel 1992 attraverso un accordo tra il Jane Goodall Institute e il governo congolese. Tra le eredità di Jane c’è anche la scena indimenticabile del video che riprende il momento del commiato. Quando la scimmia si gira verso la donna e la abbraccia con un trasporto che ci strappa il cuore. Come per dirle “mi hai salvato la vita e io non lo dimentico”. Quella sequenza riflette con una immediatezza quasi poetica la coappartenenza della scienziata e del quadrumane allo stesso regno del creato.
Stupiva tutti per la sua calma olimpica, tipica di chi osserva la natura e i suoi tempi lenti senza forzarla con la nostra fretta isterica. E la natura la ricambiava aprendosi a lei, senza nascondersi come diceva Eraclito, il filosofo greco passato alla storia per la frase “La natura ama nascondersi”. In realtà Jane e la natura erano diventate una cosa sola andando al di là dell’opposizione tra cultura e natura. E d’altra parte lei aveva dimostrato che la personalità non è esclusiva della persona umana e che le scimmie antropomorfe intrattengono vere e proprie relazioni interpersonali, simili a quelle delle signore inglesi che chiacchierano bevendo il tè.
Sosteneva, prove alla mano, che gli animali vivono emozioni e hanno una vera cultura. Infatti, amava concludere le sue conferenze parlando la lingua appresa dalle creature della foresta per mostrare che il linguaggio non è appannaggio esclusivo della specie umana. E che tutti gli animali comunicano anche senza parole, con i loro versi e suoni che qualche volta assomigliano più alla musica che alla grammatica.
Il suo impegno per la difesa dell’ecosistema le era valso la nomina a messaggera di pace per le Nazioni Unite. Era una conferenziera instancabile e ha percorso il mondo in lungo e in largo in un never ending tour come quello di Bob Dylan. Senza fermarsi mai fino alla fine. Infatti è morta in California, mentre stava svolgendo un ciclo di conferenze per raccogliere i fondi per le 23 sedi del suo istituto sparse ai quattro angoli del pianeta. E, più in generale, per portare a tutti il suo messaggio ecologista. Come una missionaria dell’ambiente che al collo, al posto della croce, portava un ciondolo con il disegno dell’Africa.
Nel 1991 aveva fondato Roots and Shoots, (Radici e germogli) che suona come un titolo dei Beatles, ma in realtà è un grande programma di educazione alla sostenibilità rivolto ai giovani di ogni età per formarli all’impegno civico nelle proprie comunità. Perché solo chi è di casa nel proprio villaggio può esserlo anche nella foresta. La inquietava molto il fatto che i nostri bambini passassero il loro tempo nell’astrazione senza corpo dei social, invece che a contatto con le piante e con gli animali.
In fondo questa signora a suo agio nella giungla è stata l’equivalente di Konrad Lorenz, padre dell’etologia. Lui studiava le oche e lei le scimmie. Amava ripetere che il suo maestro non era stato un accademico, ma il suo cane Rusty. E in questa frase c’è la semplicità disarmante, ma potente, di Jane delle scimmie.
da Il Fatto Quotidiano
“È stato un discorso allucinante, ma un discorso inutile. Ha paragonato Israele ai nazisti, complimenti”. Gideon Levy, editorialista di Haaretz tra i più noti, è atterrato in Italia (dove ha ricevuto ieri un premio Kapuscinski dell’istituto polacco a Roma) qualche ora dopo aver finito di vedere in televisione il discorso di Benjamin Netanyahu all’Onu. “L’unica cosa rilevante del discorso è stata la platea vuota, segno dell’isolamento di Israele”.
Ieri hanno ripreso a circolare ipotesi di tregua a Gaza, Netanyahu le sembra pronto?
Dovrà farlo per forza, se sarà Trump a costringerlo. Gli Stati Uniti sono rimasti l’unico alleato di Israele, dopo che Netanyahu è riuscito a perdere il sostegno degli europei. Senza gli Usa, Israele non sarebbe la potenza militare che è. Per questo l’unico vero evento che conta è l’incontro di lunedì con Trump a Washington.
Cosa resterà di Gaza dopo la fine della guerra?
Nessuno di noi può anche solo immaginare la dimensione della distruzione. Mi fanno ridere i piani di ricostruzione che circolano: 1 o 2 anni non basteranno mai a rimettere in piedi la Striscia. E poi, vogliono mettere a capo di tutto Tony Blair. Cioè, tornare alle colonie britanniche? La verità è che l’unica alternativa reale è che si torni al 6 ottobre. Hamas non se ne andrà, non la cacceremo così, nessuno, né i sauditi né gli americani, vogliono finanziare la ricostruzione di un posto che sanno che Israele distruggerà di nuovo tra 5 anni.
Il suo ultimo libro (Mimesis) si chiama Killing Gaza, non Killing Hamas…
Da mesi ho capito che non possiamo chiamare quest’offensiva in nessun altro modo che un genocidio. La Striscia viene sistematicamente distrutta, muoiono decine di palestinesi al giorno, non c’è un giorno in cui non muoiano bambini. Ci sono prove indubitabili della fame. E quello che vediamo è una minima parte di quanto accade. Una risposta militare dopo il 7 ottobre era attesa e legittima, ma subito dopo il 7 ottobre è diventato una scusa per portare avanti il vecchio piano di pulizia etnica dell’estrema destra al governo.
All’Onu il premier ha detto che l’Idf evita vittime civili, consente aiuti umanitari e chiede alla popolazione di lasciare le zone di guerra…
Ha detto che i nazisti non hanno trasferito gli ebrei, è falso: lo hanno fatto eccome, ed era parte della strategia dell’Olocausto. È quello che stiamo facendo a Gaza: pulizia etnica. Gli unici a credere alle bugie di Netanyahu ormai sono gli israeliani.
Non sono abbastanza i critici di Netanyahu in Israele?
La maggioranza degli israeliani purtroppo non vuole sapere, non vuole vedere. Cercano di evitare il dilemma morale di sapere che sono i loro figli che, nell’Idf, stanno massacrando i palestinesi. Le proteste sono per gli ostaggi, in troppi dicono ‘fate tornare gli ostaggi e poi ricominciamo la guerra’. E la cosa grave è che i media israeliani li assecondano e non mostrano immagini di Gaza nei notiziari e sui giornali. Da due anni sembra che a Gaza vivano solo 20 persone: gli ostaggi. Qualsiasi italiano di provincia ha visto più immagini dalla Striscia di noi. E non c’è la censura, è tutta auto-censura. La colpa non è del governo, ma dei miei colleghi che hanno tradito la professione. Siamo peggio della Russia, almeno lì la censura esiste e i giornalisti che tacciono la verità sono giustificabili.
Come spiega questa mancanza di critica dell’opinione pubblica israeliana?
Con un lavaggio del cervello lungo decenni. E poi c’è stato il 7 ottobre. Quando faccio vedere ai miei amici i video da Gaza la loro prima reazione è dire che sono fake.
La Flotilla è ripartita per Gaza, le autorità israeliane minacciano di arrestarli o peggio. Gli europei possono mediare corridoi umanitari?
Su Haaretz abbiamo scritto un editoriale col titolo Fateli entrare.Lasciateli andare a Gaza per raccontarci la realtà di quella tragedia! Ma non succederà, e quanto agli Stati europei, direi che prima di trattare con la Flotilla dovrebbero fermare Israele, militarmente o meno.
da L’Altravoce il Quotidiano
Luisa Muraro è una delle più importanti pensatrici della contemporaneità, come l’ha definita Vita Cosentino della Libreria delle donne di Milano nel convegno tenuto sabato scorso all’Università Cattolica di Milano, dove 60 anni fa una giovane Muraro si è laureata. Il convegno dal titolo “Come quando si accende la luce” è stato organizzato per il 50esimo della Libreria delle donne – di cui Muraro è stata una delle fondatrici – in collaborazione con i dipartimenti di Sociologia, Storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica e la Comunità filosofica femminile Diotima. Molte le donne, e anche uomini, c’ero anch’io, venute da tutta Italia per rendere omaggio a Muraro ed esprimere, con lei in presenza, la propria riconoscenza per tutto quello che ognuna/o ha ricevuto dal suo pensiero e dai suoi libri. «Siamo qui oggi per celebrare l’autorità che per noi tutte ha rappresentato e incarnato Muraro», che ci ha regalato la sapienza delle mistiche «buona per noi oggi per non farci sprofondare nell’impotenza di fronte alla violenza della storia, delle guerre» (Wanda Tommasi, Diotima). Un’autorità, come insegna Muraro, di origine materna, che non schiaccia, non è «dominio ma relazionalità» (Paolo Gomarasca, Università Cattolica). È nel femminismo “sorgivo” di Lia Cigarini, in sodalizio da una vita, che Muraro ha trovato «le condizioni per portare avanti la sua più grande passione e desiderio, pensare e scrivere». Moltissime donne, come me, si sono rispecchiate nelle sue parole che «fanno luce e orientano». “Maestra” e “amica geniale” per Vita Cosentino, ha insegnato ad altre a pensare e scrivere. Muraro mi/ci ha insegnato, a donne e uomini, la “gratitudine” e la “riconoscenza” per la madre reale e simbolica. «II saper amare la madre è la chiave del femminismo della differenza e del pensiero di Muraro» (Diana Sartori, Diotima). Il concetto di madre, che riconduce alla relazione primaria e all’imparare a parlare da lei, fa di Muraro, nella storia della filosofia contemporanea e nella linguistica del ’900, una filosofa “anomala”, come l’ha definita Cesare Casarino (Minnesota University). Alle origini di tale anomalia c’è una “schivata”, mossa tipica del pensiero di Muraro, che vuol dire «non farsi trovare dove si pensa di trovarla», «guardare da un punto di vista imprevisto», «aprire una nuova prospettiva». Una mossa inaugurata da Muraro all’inizio degli anni ’70 in un dialogo con Bontadini, ricordato da Riccardo Fanciullacci (Università di Bergamo). All’affermazione di Muraro «Sono una donna», non un essere umano, il filosofo, cancellando la differenza sessuale, rispose «Tra uomini e donne non c’è differenza rispetto al filosofare», riportandola in una genealogia maschile. È da una “schivata”, la separazione dagli uomini, che negli anni ’70 nasce «il soggetto imprevisto della differenza sessuale» che ha messo al mondo pratiche e parole nuove che «avevano come solco la pace» (Ida Dominijanni, Centro per la Riforma dello Stato). Oggi che il contesto geopolitico è cambiato, come rilanciare la scommessa originaria? Come declinare la libertà femminile all’altezza di un mondo che va in rovina? Secondo Dominijanni occorre ripensare quello che abbiamo fatto alla luce di tre parole che oggi sono in gioco: democrazia, comunicazione, violenza. Di soggetto sessuato nella ricerca storica ha parlato María Milagros Rivera Garretas (Università di Barcellona): «Non sono gli archivi ad essere sessuati ma chi li frequenta». Storia sono i fatti di cronaca che Muraro, come «le donne di ingegno», ama leggere quotidianamente e da cui si lascia ispirare e ne scrive per sottrarli alle spiegazioni già confezionate (Annarosa Buttarelli, Diotima). Oggi, in un mondo in fiamme, il pensiero di Luisa Muraro, offerto a donne e uomini, si rivela necessario per un cambio di civiltà in nome della madre, della vita e non della morte.
da Enciclopediadelledonne.it
Da dove cominciare? È una domanda che mi sono posta dozzine di volte di fronte alla pagina bianca. Come se mi fosse necessario trovare la frase giusta, quella che mi avrebbe permesso di entrare nella scrittura del libro e avrebbe dissolto in un solo colpo tutti i dubbi. Una specie di chiave… oggi questa frase non ho bisogno di cercarla lontano da me. Sorge lapidaria, in tutta la sua chiarezza… l’ho scritta sessant’anni fa nel mio diario. Scriverò per vendicare la mia razza.
(Discorso tenuto a Stoccolma alla consegna del Premio Nobel 2022)
Nata Annie Duchesne a Lillebonne, nel dipartimento della Senna inferiore in Normandia, il 1° settembre, del 1940, la bambina trascorre la sua infanzia felice tra il retrobottega del negozietto “alimentari-merceria-bar” dei genitori, il cortile, la scuola e i giochi con le amiche. Dotata di grande spirito di osservazione e di una memoria formidabile, Annie è una delle allieve migliori, tanto che i genitori decidono, a un certo punto, di iscriverla in un’ottima scuola cattolica frequentata dalle figlie della buona borghesia. La profonda adesione al mondo che la circonda inizia così a incrinarsi. Nel romanzo d’esordio Gli armadi vuoti la scrittrice ci fornisce una descrizione di cos’era stata la sua vita sino a quel momento:
Domeniche primaverili, biancheria che si asciuga stesa al sole, galline che cantano perché hanno fatto l’uovo. Com’è che diceva la vecchia stronza a scuola? «Non si scrive siamo tal giorno, è sbagliatissimo». E invece io ero domenica dalla testa ai piedi, mi ci sentivo nel vestito da non sporcare, nella bocca gonfia di crema e di ostie immaginarie. Adoravo tutto, le sardine sott’olio, le visite ai poveretti, ai crebacks, agli arabi di cui mia madre andava pazza. Mi piaceva tutto.
Annie studia per diventare insegnante, professione che svolgerà tutta la vita, marcando così quel distacco dalla felicità infantile. Nella costruzione della sua genealogia Ernaux scava nei suoi ricordi e nelle vite dei suoi genitori dedicando loro svariati romanzi. Blanche, sua madre, sarà la protagonista di Gli armadi vuoti (1974), La vergogna (1997), Una donna (1988), L’altra figlia (2011), dove la scrittrice viviseziona la vita della donna che l’ha messa al mondo e le difficoltà della loro relazione:
Di nuovo ci rivolgevamo la parola in quel particolare tono fatto di irritazione e di perpetuo risentimento che faceva sempre pensare, a torto, che stessimo litigando e che riconoscerei, tra madre e figlia, in qualsiasi lingua.
(Una donna)
Alla stessa implacabile disamina sarà sottoposta anche la vita paterna a partire dal libro Il posto:
Mio padre è entrato nella categoria delle persone semplici, o modeste, la brava gente. Non osava più raccontarmi le storie della sua infanzia. Non gli parlavo più dei miei studi.
Ma è ne La vergogna che esplode il racconto tremendo del giorno in cui suo padre tentò di uccidere sua madre, e in cui inizia il tradimento della classe sociale di nascita, tanto che Ernaux potrà dare ai propri genitori un posto nel mondo dei dominatori che usano anche la scrittura per discriminare ed è in questo senso che la sua scrittura è sia vendetta che riscatto sociale, perché «scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito» rivendica Ernaux citando Jean Genet. Se i romanzi sono il primo livello di analisi e di riscatto, sarà poi in articoli, conversazioni, saggi e pagine di diario che la scrittrice arriva in profondità nell’esaminare e giudicare con lo stesso sguardo acuminato i propri libri e a realizzare anche «il grande sogno della mia infanzia: partire, vedere il mondo».
La scelta di eleggere a protagonisti assoluti dei suoi libri i genitori, se stessa e alcuni degli uomini che ha amato, ci offre una chiave di lettura plausibile anche in merito al successo della Ernaux presso un pubblico sempre più vasto. La Madre, Il Padre, La Ragazza, Il Ragazzo, L’Uomo, L’Amante, Il Posto diventano archetipi dell’immaginario della scrittrice e anche nostri. Quella madre diventa tutte le madri, quel padre tutti i padri, quella «ragazza della foto è un’estranea che mi ha lasciato la sua memoria in eredità», ha sollecitato intere generazioni di donne occidentali che hanno infranto i tabù religiosi e combattuto il regime patriarcale in cui sono nate e cresciute.
L’apertura di Ernaux sulla storia del mondo si concretizza con il romanzo Gli anni che inizia con una dichiarazione folgorante: «Tutte le immagini scompariranno». Ed è proprio a partire da questa certezza che la scrittrice richiama dalle profondità della sua memoria tutto quel che riesce a ricordare, consapevole però che: «la nostra memoria è al di fuori di noi, in un soffio piovoso del tempo».
Le riflessioni sulla scrittura e le sue origini sono frutto di un ricco scambio con molti altri scrittori e scrittrici, Ernaux non si sottrae mai al tornare sui propri passi e cercare nuove parole e nuove immagini per dire di nuovo cose già raccontate. Dopo il racconto della vita di coppia e della sua evoluzione dal dopoguerra agli anni Settanta in La donna gelata, è con Passione semplice e Perdersi che Ernaux racconta tutto lo strazio e il piacere dell’amore e del sesso con un uomo molto più giovane di lei, così come l’ossessione che la divora e la disperazione quando lui è lontano. S. è russo, bello, scatenato e ha all’incirca quindici anni meno di Annie che è prossima alla cinquantina. Niente può fermare la ricerca di quel piacere senza tempo e senza progetti che la incalza. Gli unici pensieri tra un incontro e l’altro sono rivolti a lui, al piacere che gli ha dato e al piacere che ha ricevuto. La vita quotidiana sprofonda nel gorgo dei timori, che lui muoia, che lui non torni, che le preferisca una donna più giovane. È solo dopo la fine di questa relazione infuocata che la scrittrice ritrova sé stessa, non identica a chi era stata, ma vicina al nudo piacere dell’esistenza.
Per la prima volta dal 6 novembre (l’ultima in cui ho visto S.) mi sveglio con un’inspiegabile sensazione di felicità. Malgrado tutto, il fatto che si tratti di una felicità senza motivo mi fa uscire dall’incanto, ma giusto un po’.
L’intreccio tra passione erotica e scrittura si ripresenta ancor più violento quando Ernaux inizia una relazione con A. – così lo chiama in Il ragazzo, un giovane uomo che ha ventinove anni meno di lei. Dopo l’inizio in clandestinità – perché lui vive con la sua ragazza – la relazione riporta Ernaux a rivivere sensazioni ed emozioni del passato. Sonnecchiare accanto a lui la domenica pomeriggio, la fa ritornare accanto alla madre che si è addormentata esausta e vestita dopo pranzo. Il frigorifero che non raffredda, il fornello che non scalda, l’umidità dell’appartamento la riportano alla precarietà dei suoi anni da studentessa e all’inizio della relazione con il marito Philippe. Ma il segreto di questa relazione stava tutto nel «fervore che mi riservava che non mi era mai stato, fino ai miei cinquantaquattro anni, consacrato da nessun amante» che tale resterà sino a quando la scrittura prenderà il sopravvento sulla vita e anche quest’ultima passione verrà immolata sull’altare del libro.
Da poco è uscito il libro autobiografico di Philippe Vilain, scrittore francese che insegna all’università di Napoli, il ragazzo che Ernaux, dopo cinque anni di relazione, lascia, salvo poi ripensarci dopo un anno e invitarlo a vivere con lei, senza però riuscire a riallacciare il legame. In possesso di oltre duecento lettere di Ernaux, lo scrittore, in realtà, parla di lei il minimo indispensabile per poter raccontare se stesso e la propria evoluzione, Ernaux e le sue sofferenze restano in qualche modo ai confini della narrazione e forse, chissà, questa è per l’uomo non più ragazzo la forma più sottile di vendetta che potesse mettere in atto.
Leggere in sequenza e poi rileggere i libri di Ernaux, dove le riflessioni sulla scrittura sono spesso centrali, offre nell’ombra dei margini e del non detto la sua vita da insegnante, da moglie e da madre, ruoli che non appaiono però centrali nelle sue narrazioni. Ernaux mi pare sia soprattutto figlia e amante, le due versioni di se stessa che più le si confanno e rendono giustizia all’implacabile desiderio di scrivere che si alterna in lei con la passione di esistere:
La passione è innanzitutto uno stato: di totale godimento dell’essere – un godimento immediato – e di chiusura nel presente. La scrittura non è uno stato, è un’attività. La perdita di sé, che vedo in entrambe e a cui probabilmente tendo, non porta allo stesso risultato.
Segue, a partire al 1984, una regola : «evitare, scrivendo, di lasciarmi andare all’emozione», e riesce per questa strada, attraverso una scrittura asciutta e scarna, a dire quel che per generazioni di donne era stato impossibile: essere un corpo, avere le mestruazioni, provare desiderio, temere una gravidanza indesiderata, abortire, smettere di mangiare, rimpinzarsi di cibo, in un gioco perpetuo in cui il corpo rimanda sempre a qualcosa d’altro, a una relazione indicibile e totalizzante, forse proprio quella con la propria madre. Ernaux si muove in un universo tra «la letteratura, la sociologia e la storia», diventando inventrice di quella forma di auto-socio-biografia che racconta non solo dell’individuo ma della classe sociale cui appartiene. La sociologia, secondo Ernaux, «potrebbe essere considerata parte integrante della mia poetica», una poetica che sfugge perché «la letteratura è l’esatto contrario di una disciplina. È dare forma al desiderio».
Dare una forma, una struttura, è una delle ossessioni letterarie di Ernaux ed è proprio questo l’insegnamento che deve a Virginia Woolf:
Mi sono allontanata da Woolf quando mi sono rimessa a scrivere dopo nove anni di interruzione. Di nuovo, la questione era la realtà. Quel che volevo mettere in luce era la questione sociale e necessitava di un corpo a corpo violento tra le cose e il linguaggio. La mia preoccupazione era di trovare la voce, la mia voce, molto meno la forma del romanzo.
Anche Gli anni deve in qualche modo la sua struttura a Le Onde di Woolf, nel medesimo tentativo di trovare una forma nuova per rendere il passaggio del tempo. Oltre a Woolf, Ernaux ama ricordare le altre letture giovanili che le hanno causato «più che gioia, uno choc, perché dopo non ho più guardato il mondo allo stesso modo». La Recherche di Proust, La nausea di J. P. Sartre, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, L’educazione sentimentale di Flaubert, Nadja e il Manifesto del surrealismo di André Breton, Le onde e Al faro di Virginia Woolf.
Con Simone de Beauvoir ci fu anche uno scambio occasionale di lettere in occasione dell’uscita di Gli armadi vuoti, e il femminismo di Ernaux ha preso vita anche grazie al Secondo sesso che sembra dialogare con La donna gelata di Ernaux.
Mi ricordo di questa esperienza di lettura, in un mese di aprile piovoso, come di una rivelazione. Tutto quel che avevo vissuto gli anni precedenti nell’opacità, sofferenza e malessere, si sono rischiarati all’improvviso. È da questa esperienza che mi sono persuasa che la presa di coscienza, anche se non cambia nulla in sé, è il primo passo verso la liberazione e l’azione.
Il dialogo a distanza e il sentimento di riconoscenza sono profondi anche nei confronti di Marguerite Yourcenar. In particolare Ernaux ricorda la prima lettura delle Memorie di Adriano scoperto durante l’inizio dell’università e poi i due volumi – Care memorie e Archivi del Nord, riletti in preparazione alla scrittura de Gli anni dove l’attitudine sociologica di Ernaux prende il sopravvento, anche se «è partire dalla propria esperienza che differenzierà lo scrittore dal sociologo».
La scrittrice fa risalire il desiderio di scrivere questo libro quando, intorno alla metà degli anni Ottanta, resta colpita dall’improvvisa consapevolezza che niente del mondo dell’infanzia esiste ancora. Così inizia a progettare Gli anni attribuendogli un titolo ben due anni prima di averlo terminato, sapendo che «la scrittura è un alternarsi di disperazione e contentezza».
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Annie Ernaux
Romanzi
Gli armadi vuoti, Rizzoli, 1996, (Les Armoires vides, Gallimard, 1974).
Ce qu’ils disent ou rien, Gallimard, 1977.
La donna gelata, L’orma, 2021. (La Femme gelée, Gallimard, 1981).
Il Posto, L’orma, 2014 (La Place, Gallimard, 1983).
Una donna, L’orma, 2018, (Une femme, Gallimard, 1988).
Passione semplice, Rizzoli, 1992, (Passion simple, Gallimard, 1992).
Diario dalla periferia, Rizzoli, 1994, (Journal du dehors, Gallimard, 1993).
Non sono più uscita dalla mia notte, Rizzoli, 1998, (Je ne suis pas sortie de ma nuit, Gallimard, 1997).
La vergogna, L’orma, 2018, (La Honte, Gallimard, 1997).
L’evento, L’orma, 2019, (L’Événement, Gallimard, 2000).
La Vie extérieure, Gallimard, 2000.
Perdersi, L’orma, 2023 (Se perdre, Gallimard, 2001)
L’Occupation, Gallimard, 2002.
L’Usage de la photo, avec Marc Marie, textes d’après photographies, Gallimard, 2005.
Gli anni,L’orma, 2015, (Les Années, Gallimard, 2008).
L’altra figlia, L’orma, 2016, L’Autre Fille, coll. « Les Affranchis », NiL Éditions, 2011.
Retour à Yvetot, éditions du Mauconduit, 2013.
Guarda le luci, amore mio, L’orma 2022, Regarde les lumières mon amour, éditions du Seuil, 2014.
Memoria di ragazza, L’orma, 2017, (Mémoire de fille, Gallimard, 2016).
Hôtel Casanova, Gallimard, 2020, 96
Il ragazzo, L’orma, 2022, (Le Jeune Homme, Gallimard, 2022)
Altri libri e risorse
L’Atelier noir, Éditions des Busclats, 2011.
I miei anni Super8, film, 2022.
con Michelle Porte, Le vrai lieu, Gallimard, 2014.
Alice Figini, Annie Ernaux, doppiozero, 2019
con Pierre Bras, Scrivere è un dare forma al desiderio, Conversazione, Castelvecchi, 2020.
con Frédéric-Yves Jeannet, La scrittura come un coltello, L’orma, 2024.
con Rose-Marie Lagrave, Una conversazione, Oligo, 2024.
Pierre-Louis Fort e altri, Ernaux, L’Herne, 2022.
Ornella Tajani, Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell’opera di Annie Ernaux, Marsilio, 2025
Philippe Vilain, Lo studente, Gremese, 2025.
Valeria Lo Forte, La scrittura come un coltello, inedito
Signor Presidente del Consiglio Giorgia Meloni,
mi rivolgo a Lei nella speranza che quanto mi propongo di sottoporre alla sua attenzione possa trovare modo di raggiungerla.
Come tutta Italia, ho appreso dai mezzi di comunicazione del grande Piano casa per le giovani coppie che il governo da Lei presieduto intende attuare.
Io mi chiamo Simona Olivito, sono una donna di 48 anni single e senza figli, che lavora da più di 20 anni a Roma pur non essendo originaria di questa città.
Svolgo un lavoro molto impegnativo e di responsabilità, che assorbe gran parte delle mie giornate, senza che questo mi impedisca di avere una soddisfacente vita di affetti e di aver cura della mia famiglia di origine, benché lontana.
Accade però che quando anche questo governo pianifica aiuti e incentivi per l’acquisto di una casa per giovani coppie, una persona come me si chieda come mai la fascia di età e lo stato civile a cui appartiene non rientri mai nei focus di chi governa in relazione al tema casa.
Lo stesso è stato per i precedenti governi, che hanno consentito a categorie di volta in volta definite come «giovani al di sotto dei 35 anni» e simili di poter comperare una casa a prezzi calmierati.
Ora, facendo una rapida sintesi: non sono giovane, non sono in coppia, non ho figli, ma non credo questo faccia di me una persona e una lavoratrice meno degna di avere accesso a una necessità primaria come l’avere un tetto sulla testa, proprio per poter contribuire alla vita del paese nel modo più proficuo possibile e avere una serenità personale che agevoli questo scopo.
Le possibilità economiche di chi vive solo ed esclusivamente del proprio lavoro, come nel mio caso, senza quindi l’agio di accedere a beni derivanti da eredità o comunque sostegni familiari, sono particolarmente ridotte, pur a fronte di un indefesso impegno quotidiano nel più alto rispetto dei valori sui quali il Paese è fondato.
Il fatto di svolgere onestamente questo lavoro, sostentandosi solo grazie al proprio salario, e di vivere secondo i valori della convivenza civile, avendo cura anche dei propri familiari, nei casi di donna single senza figli vicina ai cinquant’anni parrebbe però con ogni evidenza escludere dalla possibilità di avere accesso alla prima necessità che permette tutto questo: una casa. Perché?
Ciò significa che se non si è più considerate giovani (pur avendo ancora all’orizzonte molti anni di lavoro prima di accedere alla pensione) e se il proprio percorso sentimentale non ha portato a una vita di coppia, questo fa di noi automaticamente persone meno degne di accedere a questo bene primario, pur contribuendo proprio fin dalla tanto considerata giovane età alla vita economica e civile di questo paese?
Sono felicissima di sapere che in alcuni casi si guardi con occhio molto attento a precise circostanze, come appunto a progetti di vita impegnativi che vedono coinvolti partner e prole. Penso però che le condizioni di partenza che permettono di avere accesso a un supporto, a un bene come la casa nel momento in cui non si dispone di patrimoni familiari né di stipendi di alta fascia debbano essere uguali per tutte coloro che, pur non avendo né mariti né figli, allo stesso modo contribuiscono giornalmente con abnegazione e serietà alla vita civile ed economica, facendo anzi fronte da soli a impegni economici e non economici di ogni tipo.
Mi rivolgo a Lei quindi perché mi riesce molto difficile pensare che una donna mia coetanea con una storia personale di grandissima determinazione individuale e profuso impegno, attestato dalle altissime responsabilità che la vedono oggi protagonista, possa considerare del tutto trasparente a un simile provvedimento una fascia di cittadine quasi cinquantenni lavoratrici single e senza rendite diverse dal proprio salario, ma che onora quotidianamente la patria col proprio operato. Mi riesce altresì difficile pensare che non sia evidente l’apporto che queste cittadine danno al Paese.
Se è vero che senza una casa è più difficile costruirsi una famiglia, ritengo altrettanto vero che per chi non vive in un nucleo familiare tradizionale sia più complicato far fronte alle enormi sfide quotidiane nel momento in cui non si è nati in condizioni di agiatezza.
Spero di non averle sottratto troppo tempo prezioso e la ringrazio sentitamente per l’attenzione che avrà voluto dedicarmi,
Simona Olivito
(Lettera, 26 settembre 2025)
da diotimafilosofe.it
Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 3 ottobre 2025, dalle 17,20 alle 19, in aula Menegazzi, per poi continuare con il seguente calendario fino a venerdì 7 novembre.
Venerdì 3 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Oriella Savoldi – Creare relazioni, creare libertà nel lavoro
Venerdì 10 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Maria Dolores Santos Fernandez – Nel divenire delle pratiche c’è un punto fermo e uno da scoprire
Venerdì 17 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Elena Migliavacca – Le pratiche e la visione
Venerdì 24 ottobre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Debora Pasini – L’efficacia trasformativa delle pratiche tra visibile e invisibile
Venerdì 7 novembre 2025, ore 17,20-19 aula Menegazzi: Antonietta Potente – La vita si nasconde
Gli incontri si terranno in aula Menegazzi, ex palazzo di Economia, Università di Verona, via dell’Artigliere 19, angolo via San Francesco.
Per le studentesse e gli studenti: a chi frequenta almeno 4 seminari ed è iscritta/o alla laurea triennale e magistrale di Filosofia, alla laurea triennale e magistrale di Scienze dell’educazione, al corso di laurea di Servizio sociale e a quello di Studi strategici verrà inserito nel piano di studi 1 Cfu.
Grande Seminario di Diotima 2025
L’arte delle pratiche politiche: un’invenzione del femminismo
Riprendendo Carla Lonzi quando diceva che il femminismo è la propria pratica artistica, possiamo dire che l’azione politica femminista è tessuta di tante diverse pratiche, ognuna delle quali è un processo creativo. Tiene conto infatti della necessità del contesto e del desiderio di trasformarlo dall’interno per fare spazio e far esistere ciò che orienta profondamente, ma senza conoscere in anticipo quale sarà il risultato. Come nelle pratiche artistiche si approfitta delle condizioni materiali in cui ci si muove e si aprono possibilità impreviste.
Sono processi che si modificano nel tempo, senza regole definite esplicitamente e senza obiettivi già pensati, se non quello di aprire spazi di libertà. Questo le differenzia dalle tecniche di comportamento – nella gestione organizzativa, nella formazione, nella comunicazione – per le quali viene indicato il ventaglio di risultati da ottenere e dove gli obiettivi sono definiti e le regole precise.
Perché riprendere oggi il discorso sulle pratiche, dato che è stato sempre tema centrale del femminismo? Innanzitutto per mettere in chiaro che l’attività simbolica non è affidata soltanto alle parole, ma anche a processi materiali molto più ampi, nei quali le parole prendono rilievo all’interno di un agire sensato. In secondo luogo perché tante, ma anche tanti, raccontano che nei luoghi di lavoro gli spazi di libertà si sono molto ristretti. Per questo è diventato necessario ripensare e mettere in atto nuove pratiche. Ma soprattutto perché il disordine simbolico, che stiamo subendo a livello internazionale e della politica italiana, ci spinge a immaginare un agire con altre e altri che crei un tessuto di relazioni capace di sostenere il vivere comune.
Alcune pratiche rimangono sempre efficaci, come quella di fare riferimento politicamente a quelle donne che sentiamo guidate dal nostro stesso desiderio. Altre vanno però scoperte e inventate con l’intenzione di trasformare i contesti e far sperimentare un vivere sensato nelle situazioni comuni.
Occorre arte in questo: ogni pratica infatti richiede un pizzico di creatività, una capacità di visione e quanto più sapore possibile.
Bibliografia:
– Giulia Siviero, Fare femminismo, Nottetempo 2024.
– Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana, Liguori 1999.
– Donatella Franchi (a cura di), Matrice. Pensiero delle donne e pratiche artistiche, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano 2004.
– Chiara Zamboni, Una contesa filosofica e politica sul senso delle pratiche, «Per amore del mondo» n. 5 (2006).
da Contexto y Action
L’ignoranza della storia e la concezione manichea delle relazioni internazionali di molti politici, militari, esperti e giornalisti europei lasciano presagire un’estensione del conflitto tra Russia ed Europa.
Il 17 luglio, il capo delle truppe degli Stati Uniti in Europa, generale Christopher Donahue, ha dichiarato a Wiesbaden che la NATO ha un piano dettagliato per attaccare e conquistare la regione russa di Kaliningrad «in un lasso di tempo senza precedenti, più rapido di quanto siamo mai stati capaci». Kaliningrad è un punto militarmente vulnerabile della Russia, incastonato tra Polonia e Lituania, territorialmente disconnesso dal resto della Federazione Russa. Per questo Mosca mantiene lì numerosi soldati, 75 navi da guerra, aviazione supersonica da combattimento e missili nucleari tattici Iskander M.
Poiché la Russia attacca sistematicamente l’industria militare ucraina, Kiev sta delocalizzando in paesi della NATO alcune fabbriche. L’azienda ucraina Fire Point aprirà a dicembre uno stabilimento di carburante per missili in Danimarca. Anche la Germania produrrà armi per l’Ucraina. È la prima volta che paesi della NATO ospitano industrie di un paese in guerra o producono armi sul proprio territorio per conto di altri. Tutti dichiarano che i missili che verranno fabbricati e/o forniti all’Ucraina in (e da) Europa possono e devono colpire la profonda retroguardia russa, città come Mosca e San Pietroburgo. Lo affermano il cancelliere tedesco, il suo ministro della Difesa, i principali politici europei, la responsabile degli Esteri dell’UE e i generali tedeschi, i quali prevedono che il conflitto militare aperto dell’Europa con la Russia comincerà nei prossimi quattro o cinque anni.
[…]
Coloro che prendono le decisioni a Mosca, e il presidente Putin in particolare, sono stati finora molto più moderati dei loro strateghi. Ma gli avvertimenti si susseguono. È ovvio che la Russia non lascerà senza risposta attacchi contro le proprie città condotti con missili tedeschi o prodotti in Danimarca. Una risposta che non avverrà in Ucraina, ma contro i paesi d’origine di tale capacità. L’ampliamento/trasformazione della guerra in Ucraina è servito e ben annunciato.
I politici che sostengono la linea della NATO nell’Unione Europea, ovvero la presidente della Commissione Von der Leyen, la responsabile degli Esteri Kallas e gli attuali dirigenti di Germania, Francia e Inghilterra, stanno mettendo a rischio la sicurezza dell’Europa, provocando la Russia e chiedendole di attaccarli. Si tratta di un’intera generazione europea di politici, militari, esperti e giornalisti che, nella loro grande maggioranza, ignorano la storia e hanno interiorizzato una concezione manichea profondamente stupida delle relazioni internazionali, che li porta a perdere di vista la realtà.
«Nei circoli politici e mediatici di Washington, Bruxelles, Parigi e Londra, gli argomenti storici sono diventati inutili. I loro interlocutori semplicemente non capiscono di cosa si stia parlando e mancano sia delle conoscenze di base sia della vitalità intellettuale per provare a comprenderlo. Chi non sa che la relazione tra Russia e Ucraina (a volte molto conflittuale, a volte consensuale) si è protratta per oltre 400 anni, probabilmente non si rende conto che, impegnando i propri paesi a trasformare l’Ucraina in una barriera militare contro la Russia, stanno assumendo un impegno non solo per le generazioni future, ma per i secoli a venire», afferma l’analista britannico Anatol Lieven.
Uno dei grandi malintesi è non accettare la realtà e gli interessi della Russia, il più grande e popoloso paese del continente che (al di là dei motivi endogeni, che esistono) è stato spinto per tre decenni a riprendere il proprio militarismo ideologico ed economico, che Mosca aveva abbandonato durante la fallita trasformazione successiva alla grande riforma democratizzante e alla fine dell’URSS.
L’Europa ha trasferito agli Stati Uniti tutte le decisioni strategiche in materia di sicurezza e politica estera continentale. Il problema era che Washington considerava che la Russia non fosse più una grande potenza, mentre i russi si consideravano e si considerano tuttora una grande potenza e non hanno, né avevano, alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità e autonomia mondiale.
A questo punto, il lettore potrebbe pensare: «ma non è forse la Russia che in questi giorni ha lanciato droni sulla Polonia e sulla Romania, disturbando gli aeroporti di Oslo e Copenaghen, e violando lo spazio aereo dell’Estonia?» Sì, probabilmente si tratta di avvertimenti alla cosiddetta “coalizione di volontari” che proclama la propria intenzione di intervenire militarmente in Ucraina e di test della loro posizione militare, che mettono in evidenza la loro grande vulnerabilità per assenza di sistemi di difesa aerea e antimissile. Tutto ciò dovrebbe invitarli a riflettere sulle conseguenze delle loro azioni.
In realtà, considerate nel loro contesto, tutte queste “provocazioni” sono state piuttosto innocue. I droni sulla Polonia non erano armati e, nel quadro generale, la presunta violazione dello spazio aereo estone è stata una minuzia. L’Estonia cerca di ampliare la propria zona economica esclusiva aerea e marittima nel Baltico, cosa che la Russia non riconosce, e i dodici minuti di violazione dichiarati impallidiscono rispetto alle oltre 200 violazioni turche dello spazio aereo greco registrate nel 2022 intorno all’isola di Samos. La Turchia e la Grecia sono membri della NATO, ma tali incidenti non hanno mai generato grandi titoli mediatici né accese dichiarazioni o convocazioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e del Consiglio della NATO, come è stato invece per l’Estonia, coincidente proprio con l’annuncio del Pentagono di ridurre l’aiuto degli Stati Uniti nel Baltico…
Il problema è che la retorica aggressiva fa parte della natura stessa di una spirale bellica. «A qualsiasi violazione militare della frontiera si risponderà con mezzi militari, incluso l’abbattimento di aerei da combattimento russi», ha detto il politico della CDU tedesca Jürgen Hardt. «Sono stati avvertiti: se un altro missile o aereo entra nel nostro spazio aereo senza permesso, sia deliberatamente sia per errore, e viene abbattuto, non venite qui a lamentarvi», ha dichiarato mercoledì il ministro degli Esteri polacco Radoslav Sikorski durante la sessione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Una volta che iniziano gli spari, anche in modo fortuito e indesiderato da tutti, la pressione è sempre verso una maggiore distruzione. E ci troviamo chiaramente in quella situazione.
Man mano che maturano le condizioni per un ampliamento territoriale del conflitto militare in Ucraina o per il previsto secondo attacco israeliano contro l’Iran cresce allegramente l’accettazione politica e mediatica dello scenario di una grande guerra con possibile uso di armi nucleari tattiche. La stessa dottrina nucleare russa è stata significativamente riformata in tal senso. La dottrina del governo britannico, approvata quest’anno nella National Security Strategy, avverte che «per la prima volta dopo molti anni dobbiamo prepararci attivamente alla possibilità che il nostro territorio sia oggetto di una minaccia diretta in un potenziale scenario di guerra». La cronaca europea è ormai piena di questo tipo di preparativi e annunci: la spesa del 5% in “difesa”, la fine degli statuti di neutralità (Austria, Svizzera), la ricerca di risorse nucleari (Polonia) o l’avvio del dibattito in Germania… Ma il fenomeno va oltre l’Europa.
Dalla sua Legge di Pace e Sicurezza del 2015, il Giappone ha archiviato la nozione di “autodifesa” che aveva caratterizzato l’interpretazione della Costituzione del dopoguerra. Ora si giustifica l’uso della forza militare non solo in caso di attacco diretto al Giappone, ma in qualsiasi eventualità di “crisi esistenziale”, un concetto ampio e ambiguo che include, ad esempio, la chiusura dello stretto di Ormuz (via di approvvigionamento energetico del paese) e persino cyberattacchi. Perfino la prudente e sempre moderata Cina ha dovuto mostrare i muscoli con un’insolita esibizione delle sue armi di ultima generazione nella recente parata dell’anniversario della vittoria a Pechino. Tutto indica l’ampliamento del conflitto e delle tensioni militari. E non solo in Europa.
(*) Rafael Poch-de-Feliu (Barcellona) è stato corrispondente de La Vanguardia a Mosca, Pechino e Berlino. Autore di vari libri: sulla fine dell’URSS, sulla Russia di Putin, sulla Cina, e di un saggio collettivo sulla Germania della crisi dell’euro.