Sono rimasta molto colpita dal dibattito di sabato 16.2 sull’aborto. Era la prima volta che partecipavo ad un incontro in questa sede ho avuto l’impressione di essere arrivata a discorso già iniziato per qui alcune cose non mi sono risultate chiare e per altre si percepiva che era già parte di un percorso avviato. Comunque mi è sembrato di rivivere una situazione già vista. Premettendo che ho quasi 50 anni, mi sono rivista proiettata in una sequenza di infinite discussioni dove si tentava di essere analitiche e rispettose, di coinvolgere tutto e tutti, di essere corrette (vedi anche il rispetto del dolore provato dal feto!!) ed intanto l’altro ti picchia, ti violenta, ti impedisce di accedere alla cultura, all’indipendenza e se in qualche caso non ci riesce ti fa impazzire con i sensi di colpa. Continuiamo così a farci del male. Per me i piani dell’agire per lo specifico dovrebbero essere due separati ma interdipendenti. Uno è quello culturale-emotivo di agire e spingere per una consapevolezza diversa sulla nostra sessualità e quella maschile. Il secondo e quello della difesa immediata dell’essere “donna”. Mi sembra che il senso di sorellanza, di appartenenza in questi anni si sia un pò perso proprio per aver abbassatoto la guardia e per il cambiamento dei processi sociali. Così come per il mondo del lavoro dove questo ormai si è così articolato e sgretolato che ora si parla come non si faceva più da tempo di “classe operaia” (vedi documentario della Comencini e dibattiti sindacali ecc.) così come l’appartenenza sta riprendendo piede, sta ridiventando un’esigenza, così dovrebbe ridiventarla per noi. Siamo donne non solo lavoratrici, manager, intellettuali, politiche, casalinghe ecc. In oltre penso che abbiamo sbagliato a dare per scontato che certe conquiste siano diventate intoccabili, siano diventate valori etici-morali. Le nuove generazioni sono senza memoria. Come vedere certi documentari su come è cambiata la società, la classe operaia, come è importante avere “il giorno della memoria” per gli eccidi del nazismo, il 25 aprile per la liberazione così dovremmo riprenderci il significato politico della memoria per continuare con le giovani generazioni che tutto ciò non lo hanno vissuto in prima persona. Mi sembra che questi continui attacchi siano come il colpo di coda dello squalo che sta per essere catturato: l’uomo che perde potere in tutti i campi (culturale, politico, economico) perchè si deve confrontare con donne sempre più preparate, autonome e consapevoli e gioca ancora la sua carta più profonda e intima, quella del dominio del nostro corpo sotto tutti gli aspetti, da quelli bassi della violenza fisica a quelli più sofisticati dell’agire sull’inconscio e sui nostri vissuti. Certe volte penso che sia l’invidia del non poter generare che li ha spinti a volerci controllare oppure è il loro senso di potere smisurato che vogliono perpetuare. Comunque chè l’urgenza di trovare molteplici modi per riaprire il dibattito e ridiventare parte attiva sulla scena politica, e dico molteplici perchè per me non basta ritrovarsi tra noi in “circoli protetti” come non basta la piazza, anche se ritengo che questa visibilità sia importantissima. Ma per riaccendere le coscenze serve anche altro: dal volantinaggio alle assemblee pubbliche, all’accettazione, anche se a malincuore, delle quote rosa, al sostegno di donne “illuminate” che facciano da modello, da apripista forse con un po’ più di audacia. Non so, ma so solo che da sole non ce la si fa. Riflessioni sparse ma spero utili e chiare per unirmi a questo confronto. Ciao ALMA
Il disegno dell’emancipazione si è realizzato: e adesso che cosa ci aspetta? La definitiva omologazione al modello maschile ‘globale’ o la ricerca di una civiltà femminile?
Questa la presentazione dell’incontro di mercoledì 23 maggio alla Libreria delle Donne – Circolo della Rosa.
Liliana Rampello ne ha discusso con l’autrice a partire dal libro La scomparsa delle donne di Marina Terragni (Mondadori 2007). Riportiamo l’introduzione di Liliana Rampello all’incontro.
Liliana Rampello ringrazia Marina Terragni, autrice de La scomparsa delle donne (Mondadori 2007), la ringrazia anche per aver scelto la Libreria come il primo luogo in cui converserà sul libro.
“Marina Terragni è una giornalista – la presenta Liliana -, opinionista, editorialista del Corriere della Sera, su Io Donna ha una rubrica fissa Maschile Femminile, scrive anche per il Foglio, collabora scrivendo e pensando con noi, alla nostra rivista che è Via Dogana. Ci aiuta a pensare quella che è la nostra politica, ci aiuta a pensare alla differenza femminile e lo fa partecipando, scrivendo. Lo ha fatto in modo molto intelligente e rivelando un grandissimo talento con questo libro in cui, se mi si passa la parola, traduce pensieri e pratiche della nostra politica in quella che è, da noi, chiamata lingua corrente. La traduzione non è cosa semplice, significa che alcuni dei nostri pensieri, delle nostre pratiche a volte sono davvero considerate, da alcune, astruse. Da altre sono maliziosamente valutate incomprensibili, incomprensibili perché con questi pensieri e pratiche non ci si vuole confrontare. Marina con questo testo attraversa tutta l’attualità rileggendola con uno sguardo molto vicino al nostro, non voglio dire interno perché lei poi ha una sua libertà e passione molto travolgenti, ed è riuscita a far sì che tutta una serie di questioni possano essere riproposte e in qualche misura messe alla portata di tutte e di tutti senza che nessuno possa definire questo pensiero difficile, astruso, astratto, troppo intellettuale. Anzi la chiave della sua scrittura è fortemente anti- intellettualistica e il libro offre delle questioni a chiunque abbia voglia di leggere e occuparsi di politica. Questo, per me, è un libro di politica che ci parla di lei, Marina è molto presente nel testo, ci parla di noi, è un libro che parla delle donne alle donne, degli uomini agli uomini. Chiede una parola non di risposta ma di interlocuzione sia alle donne che agli uomini. Non necessariamente risposte perché lei fa a tutte noi, e a se stessa, moltissime domande. Chiede una parola che tenti di stare il più possibile all’autenticità della propria esperienza, esperienza che uomini e donne fanno di questo mondo. Per questo basterebbe guardare l’indice. Lo sviluppo dei suoi quindici capitoli indica la sua attenzione alla contemporaneità, all’attualità, a quello chesta succedendo intorno, costantemente. Ci sono moltissime discipline che intevengono: sociologia, psicologia, psicoanalisi, demografia, statistica…Marina ci dà conto nelle sue note di conoscere moltissimi di questi testi.
L’importanza del suo libro è che lei legge con un taglio politico molto chiaro la realtà che la circonda e ha dei bei chiari obiettivi polemici. Io ne ho individuati alcuni: il primo è un’emancipazione che annulla la differenza, la annulla perché la ritraduce in parità e uguaglianza. Il secondo obiettivo polemico è il linguaggio dei diritti e dei doveri che invade e occlude ogni spazio di intimità del soggetto con se stesso e nel rapporto con gli altri; e con questa invadenza ne tocca in qualche misura lo statuto di singolarità e integrità. Il terzo obiettivo polemico a me sono sembrati gli studi di genere: i cultures studies e queer studies, tutti quei lavori indirizzati alla sottolineatura del politically correct. Tutti questi studi sono in qualche modo, anche con eleganza, grazia, a volte, presi in giro da Marina perché mi sembra che l’idea stessa di decostruzione non le interessi, non le piaccia in quanto questa ha tentato di sfondare l’idea stessa di soggettività concreta e reale, quel nostro essere al mondo con il nostro corpo così come siamo. Ora, perché non si fraintenda, non si intenda che questi obiettivi polemici sono in qualche modo una sorta di fantasma della sua mente, ma sono reali, torno proprio alla lingua che ha saputo usare per dirci tutto questo che è la lingua politica dell’esperienza. Quell’esperienza che, toccando tutti e tutte, si fa capire e la lingua che si fa capire è la lingua dello scambio, la lingua della relazione, la lingua della seduzione del corpo, del bisogno, del bisogno di distanza, di fare vuoto, la lingua della separazione ma è soprattutto, declinata in tutti i quindici capitoli, la lingua dell’amore secondo modalità molto diverse. Una lingua di questo genere si può dire che porti in sé, dentro di sé, come una necessità, l’altra e l’altro. Mi veniva in mente uno studioso russo, Bachtin, che parlando del romanzo diceva che la lingua del romanzo è una lingua internamente dialogica intentendo che sa tenere al proprio interno l’eco della parola altrui. Mi sembra che in una chiave diversa, nella sua lingua, Marina scriva con l’eco della parola altrui dentro la propria, quindi in una sorta di dialogo interno alle parole stesse che lei usa, che sanno, che hanno una storia e che rideclina a modo suo. Una lingua di questo genere è una lingua che non vuole farsi sistema, che non esclude anche quando giudica, perché il libro ha anche dei giudizi precisi su tutta una serie di faccende e vicende che stanno succedendo intorno a noi, ma nemmeno include nel senso semplice di chiamare a sé solo ciò che è simile a sé. Quindi da un lato non esclude, dall’altro non include nel senso di includere solo ciò che mi è prossimo, vicino, facile. Si tratta di una lingua che apre uno spazio dell’intelocuzione che sappia partire da sé. Da questo punto di vista rispetto al lavoro che lei, noi, facciamo, in questo testo ci sono tematiche che sono decisamente spostate in avanti e altre che sono spostate in parte a lato come una mossa del cavallo negli scacchi ovvero come una mossa che disorienta chiunque.
Voglio farvi degli esempi, ricordando che ogni capitolo è una domanda proposta con libertà. Le citazioni vengono da ogni pensiero che le sia sembrato interessante, indipendentemente dalla collocazione di questo pensiero e appunto dalla passione che per lei è imprescindibile.
Primo esempio è la questione dell’emancipazione e il rapporto fra questa e la libertà femminile. Io ho preso come punto mio di riferimento mentale, per capire il ragionamento di Marina, il Sottosopra Rosso La fine fine del patriarcato. In quel documento la Libreria affermava che il patriarcato finisce quando una donna toglie il proprio credito all’uomo. Una frase semplicissima che ha trovato subito obiezioni: ma il patriarcato non è morto, c’è violenza, gli uomini dominano dappertutto, le donne sono vittime…In quella frase importantissima si indicava qualcosa di diverso, qualcosa che anche Marina sa usare nel testo, ovvero una mossa simbolica, un taglio al presente che, per ognuna che lo fa, spezza la linearità positiva del tempo, quella linearità per cui dentro il patriarcato per non essere più vittime bisogna seguire una serie di passaggi: prima bisogna emanciparsi economicamente poi liberarsi eventuamente culturalmente e poi e poi e poi senza che ci sia una fine possibile, una uscita possibile dalla progressione del tempo. Naturalmente lo ha insegnato Luisa Muraro a tutte noi, il simbolico non ha bisogno di tempo, la mossa simbolica avviene al presente. Questa questione che toglie credito all’uomo e quindi fa crollare il patriarcato toglie però anche alla donna un’altra cosa cui probabilmente era affezionata. Le toglie l’identità di vittima, perché anche essere una vittima è un ruolo identitario per quanto doloroso possa essere. Mi pare che su questo elemento Marina apre il proprio problema. Se non siamo più vittime non abbiamo come alternativa solo quella di infilarci nei vestiti nei panni dell’uomo, di trasformarci in ometti. Se noi non più vittime emancipate ci infiliamo nei panni degli uomini riduciamo di nuovo il mondo all’uno quindi percorriamo la strada di un diverso esilio, ma pur sempre di un esilio, offriamo una nuova complicità a quel mondo che non ci aveva previsto. Ed è quì che Marina si chiede che cosa sta succedendo e che cosa può sembrare che stia succedendo e farò la prima citazione “Non c’è quasi più nessuna che voglia prendersi la briga di essere una donna. Siamo diventate tutte vere uomini. Uomini, come dice la femminista americana Gloria Steinem, che avremmo sognato di sposare, tutte veri uomini senza aver saputo come sarebbe stato essere vere donne”.
Subito dopo dice: “Le ragazze nascono belle pari, si comportanto socialmente, sessualmente come maschi vanno allo stadio e fanno carriera. La maternità è under attack prima o poi un utero di plastica ci dispenserà del tutto dall’incomodo. Abbiamo le nostre soldatesse sadiche, ad Abu Ghraib ci abbiamo lasciato la pelle, e c’è una presidente degli Stati Uniti all’orizzonte. Questo per farci intendere da subito come le mani entrino in pasta. E’ questo il risultato dell’emancipazione? E’ questa la libertà delle donne? E come si fa a non scomparire come donne, per arrivare a quello che per lei è il momento dell’oggi, un momento in cui tutto è a rischio perché possiamo scomparire?” Ancora dice: “Il momento è oggi, siamo sul crinale, l’emancipazione è al suo climax e a questo punto ci tocca scegliere, non si tratta di andare avanti o tornare indietro, non è questione, come molti credono, di invertire la marcia: di tornare a casa o di far tornare il patriarcato. La questione è se rilegarsi a sé per salvare la propria differenza femminile o slegarsene definitivamente”
E questo è il cuore del suo ragionamento. Ora, per non scomparire come donne, il terzo atto, l’unico atto possibile che può attenderci che è lì, di fronte a noi all’orizzonte, è secondo un’intuizione, di Luce Irigaray, il terzo atto, il tempo delle nozze, ma perché avvengano delle nozze bisogna esser in due e due diversi. Allora già a partire dall’introduzione il tema è cosa significa essere semplicemente una donna. Cosa significa lo dirà più avanti: liberamente essere, restando donne. E qui si aprono alcuni pericoli perché si possono banalizzare molto due affermazioni di questo genere. Indico le banalizzazioni che a me paiono più semplici: la prima pensare che si tratti di un rilancio essenzialistico ovvero una nuova ontologia femminile, l’essere donna in forma astorica, e in questo caso eterosessuale in primis. Il secondo pericolo è che la frase se non viene radicata nel testo possa indurre a credere che Marina stia pensando al ritorno al materno biologico. Il terzo pericolo è che si possa intendere questo restare donna, essere una donna secondo un’antica identità femminile che fa da specchio a quella maschile che ti fa vedere di fatto il vero uomo, la vera donna uno di fronte all’altro ma lascinado l’uomo nel suo ruolo di patriarca. Questi tre pericoli secondo me sono reali proprio perché la lingua esprime così semplicemente la propria essenza, (“significa essere semplicemente una donna”), e vanno combattuti perché questo libro non dice nessuna di queste tre cose, allora dove si sposta? Prendiamo una delle questioni che lei tratta ovvero il rapporto tra il lavoro e la maternità, rapporto che troviamo costantemente sui giornali e si discute spesso banalizzando. La banalizzazione è che la donna deve scegliere tra carriera e figli. MaMarina ci spiega , anche sulla scorta di un lungo lavoro fatto qui in Libreria con due Quaderni dedicati al lavoro, questa specie di bivio che le giovani donne si trovano di fronte. Siamo a fronte di una libertà femminile maggiore, non è o questa scelta o quella, o questa o quella significa che spesso rinviano, posticipano, rifiutano, sono confuse rispetto al loro stesso desiderio di maternità. La proposta è piuttostola sostituzione dell’ o o con e e, e questo e quello,:una donna può desiderare e il lavoro e la maternità. Per questo ci vuole una lotta. Carriera e maternità sono in opposizione o in ragione della regola aurea del mercato, la produttività, o per la capacità del mercato di inglobare nei suoi bisogni tutto quel lavoro femminile di cura relazionale che non viene più rivolto al figlio. Su questo campo il debito di Marina verso il gruppo della Libreria è notevole ma lei se lo gioca anche in prima persona dicendoci quando come e perché ha fatto le proprie scelte. Fra l’altro lo dice in modo divertente e appassionante. Mi viene in mente quello che Margaret Mead ha detto alla figlia sua e di Gregory Bateson:”Se vuoi essere una grande studiosa, al mattino quando ti svegli metti su una bella carota e una patata a bollire, perché a un uomo piace sentire il profumo del minestrone e tu nel frattempo ti fai i fatti tuoi”. Questo per dire che questa opposizione così violentemente e quotidianamente sotto i nostri occhi ha conosciuto strategie di evitamento ed elusività femminili molto ricche e che oggi si possono riprorporre come una scelta e una lotta per volere entrambe le cose e cercare di coniugarle, ci dice Marina, intanto sottraendosi a una sorta di etero comando, comando che viene dall’esterno di noi. Marina sottoliena molto bene, porta tutti i numeri, quante volte si comanda alla donne di fare e non fare figli, quante volte si dice che il figlio è un dovere, altre che è un diritto ecc. Mette in questione una lingua imbrogliona, una lingua che su questa questione imbroglia e confonde le donne. E risponde a questo aut aut che viene sempre ripresentato. Lei dice che c’è la possiblità di scardinare questo problema con la pratica d’amore, pratica della relazione come spazio politico che è già pubblico sui due temi: il lavoro è già spazio pubblico e la maternità è sottratta al disciplinamento del privato se noi in prima persona facciamo della maternità reale e simbolica, non della maternità biologica, l’esercizio di una pratica politica per cui tra la madre e il figlio mettiamo un’altra donna. Senza questa pratica poltica pubblica della maternità, che è semplice, come ammirare la madre, fare in modo che la socetà riconosca il valore dell’essere madre, perché non riemerga il materno diviso tra la natura e la cultura, quella divisione che ci inchioda senza possibilità di mediazione. La natura ci inchioda a una nuova biologia perché sul corpo della donna c’è un esercizio fortissimo della scienza della medicina, la procreazione assistita e non solo, e qui Marina ragione e riflette su ciò che avviene attorno al corpo di una donna quando su questo corpo si affanna di nuovo una scienza medicapensata dall’uomo, e vede anche come la risposta femminile può essere disorientata di frronte al proprio desiderio. La cultura ci include invece nel già pensato, e quindi in quella astrazione maschile che Marina attribuisce anche ad alcune menti femminili ad esempio a quelle che hanno pensato il corpo cyborg, come Donna Haraway una cultura che tenta di fare a meno di un corpo, di essere senza corpo. Allora se la libertà viene prima dell’emancipazione, di cui questi sono gli esiti tanto negativi, c’una questione da capire: ovvero che esiste un’altra strada che qualcuna chiama pratica delle differenza femminile. Ad esempio il poter stare liberamente e piacevolmente al mondo senza passare attraverso la competizione con gli uomini. Dopo questa affermazione nei capitoli che seguono c’è un invito.Ci invita a fermarci e riflettere perché si possa fare un buon uso di questa libertà e un buon uso, ad esempio, è quello di contrastare la mascolinizzazione della casa, contrastare l’ipotesi di un ritorno a casa da casalinghe disperate o felici e contrastare la lingua invasiva dei diritti e dei doveri. Si tratta di imparare a convivere con la differenza, con quella differenza non solo fra sé e l’altro ma anche fra sé e sé, e imparare, tornando al quel Sottosopra Rosso, che nell’essere umano di sesso femminile e maschile sono sempre insieme e in circolo differenti identità, e questo essere in circolo è quanto fa fuori l’uguaglianza: salvaguarda la differenza prima tra uomini e donne ma salvaguarda anche le differenze tra donne ed è un’apertura non identitaria dell’amore fra uomini e donne, tra donne e donne e tra uomini e uomini. Questo è un libro scritto da una donna apertamente eterosessuale e che apertamente parla anche anche agli uomini e non disegna confini verso altri o verso altre.
C’è un capitolo, Madri, in cui richiama quell’ammirazione a suo avviso fondamentale perché la maternità venga sottratta al privato e in cui dice chiaramente che la società deve inchinarsi a ciò che è femminile. E questa riconoscenza, questo inchinarsi a ciò che è femminile, che è la madre ma è anche la madre intesa in senso simbolico e dunque l’altra donna, viene poi virata nuovamente nel capitolo Bellissime dove si parla di quello che ognuna di noi fa o può aver voglia di fare o vorrebbe fare o si trova nell’angoscia di decidere se fare o non fare del proprio corpo e questo riguarda l’invecchiamento e c’è poi un capitolo rivolto alle più giovani, Il grande bordello, in cui ci parla di una sessualità femminile che deve ancora liberarsi da una sorta di travestitismo maschile, di un eccesso di maschile. In questo movimento da Madri a Bellissime c’è un punto che ha a che vedere con quello che lei prende da Julia Kristeva, ovvero lo sguardo della madre verso la propria creatura, quasi un archetipo. (Ne parla anche Luisa Muraro). Il bisogno della creatura della madre diventa un punto di vista, un elemento che orienta anche i capitoli sull’attualità del farsi e rifarsi del corpo, sulla bulimia sull’anoressia, li riorientra perché è l’archetipo dell’attrazione, del bisogno che abbiamo di attirare lo sguardo degli altri su di noi.
Dunque, secondo Marina, c’è fame di questa differenza femminile e nel capitolo che lie chiama Politica, polemizza con il fatto che siamo quasi costrette a vedere il sistema dei partiti e delle istituzioni come il centro della politica. Lei non lo vede come centro ma come uno dei centri, quindi parla del potere e parla del potere anche quando esercitato da donne, riprendendo qui una posizione che aveva già preso sul numero 80 di Via Dogana e ci ricorda qualcosa che tutti sanno, anche gli uomini, ovvero che le donne fanno accadere le cose. In effetti molto è già accaduto. Il problema è qui e il libro ci chiama a spingerci più avanti, a fare il passo più forte, più deciso: per capire che di questo molti si sono accorti, cioè che le donne fanno accadere le cose, basta vedere, ad esempio, l’ultima mossa di Sarkozy: Marina dice sta a noi, a nessun altro trarne le conseguenze, mostrare il vantaggio, sedurre a partire da quello che abbiamo guadagnato contrattare da una posizione di forza e non di inimizicia femminile, ricordandosi anche come lei ricorda attraverso un vecchio articolo di Lia Cigarini che bisogna evitare che le donne sentano il bisogno e il desiderio di stravincere. Questo riferimento al testo di Lia Cigarini compare in Violente. Non c’è solo un capitolo intitolato Violenti che sono gli uomini ma anche uno intitolato Violente. Per arrivare agli uomini farei questo passaggio: se non siamo convinte noi del guadagno, del di più, di quello che abbiamo già fatto accadere, se non ne siamo convinte noi sarà molto difficile che riusciamo a convincere gli uomini. Questo è il capitolo Politica.
I passaggi che da qui si dipanano, un po’ li ho indicati un po’ ho indicato il fatto che quello che interessa a Marina è che l’uomo e la donna siano uno di fronte all’altro nella loro verità, nella loro autenticità, ma per quel che riguarda gli aspetti chei vede presenti e prevalenti negli uomini direi che posso indicarene tre: ci sono gli uomini che in casa tentano di rimettere in scena il patriarcato, in casa fanno quello che nello spazio pubblico abitato da donne non riescono più a fare; ci sono uomini che parlano, anche se ancora troppo pochi, e il riferimento è a quegli uomini che hanno scritto il manifesto del 2006 in cui si assumevano in prima persona il problema dello stupro e della violenza del corpo dell’uomo sul corpo della donna e poi ci sono gli uomini violenti tout court, che le donne le ammazzano, le stuprano. E qui la visione non è néottimistica né pessimistica, semplicemente apre una strada diversa a partire da un’esperienza diversa che lei ricorda nel capitolo Violenti, l’esperienza che sta facendo la Casa delle Donne Maltrattate di Milano che ha cominciato a rispondere anche agli uomini violenti che chiedono di capire il perché della loro violenza, che chiedono di capire qual è il problema, che denunciano di avere un problema. Marina indica come lieta novella il fatto che un uomo capisca che ha un problema se stupra o uccide una donna , e parlare di una buona notizia significa non imparare a non sottovalutare, occorre essere le prime a prendere in mano il filo delle relazione perché non si spezzi.
Uomini dunque che lei vorrebbe non femminilizzati, uomini che vorrebbe capaci di distinguere la propria virilità dal desiderio di dominio, di possedere il corpo di una donna. Questi uomini veri, non sono veri perché sono gli antichi patriarchi, perché stuprano, ma sono veri perché sanno fare questa distinzione. E qui Marina ha un’idea molto bella: ci propone la figura del tango dove ci sono in carne ed ossa rapresentati da un uomo e da una donna forza e debolezza; c’è il guidare e l’abbandonarsi. Lei dice quando entrambe le posizione saranno liberamente imparate da entrambi i sessi questo sarà il tempo del due. Questo significa che le donne che hanno elaborato la trasformazione di sé non devono affatto scomparire, non sono scomparse se le intendiamo così, e che gli uomini devono trovare certezze fuori dal patriarcato.
Il libro ha attraversato con grande talento tutte le problematiche che costantemente compaiono sui giornali in quell’attualità di cui in parte ci si dimentica, e che in parte viene sempre riproposta con violenza. C’è un unica cosa su cui non sono d’accordo – conclude Liliana Rampello -, ma devo scrivere un libro per ripondere: che Jane Austen non fosse una donna.
Il 4 maggio è stata inaugurata la nuova vetrina del Circolo della rosa, con la mostra di Donatella Chiarenza “Grafike. Libretti magliette fumetti”.
Donatella lavora intensamente da oltre 20 anni come grafica, illustratrice, pittrice, e vive tra Genova e Piacenza con una colonia di gatti siamesi.
Il suo segno artistico è affascinante e inconfondibile: nei fumetti come nelle invenzioni grafiche, crea un mondo ricco di vita, dove le contraddizioni diventano giochi e la malinconia si trasforma in un colorato caleidoscopio.
La vetrina presenta le divertenti e pensierose creature di “Mondo pollastro” pubblicate su “Aspirina”, “Il corriere dei piccoli” e i libri per l’infanzia; le leggere tele realizzate con tecniche miste, dalla fotografia al computer; le magliette con fumetti e illustrazioni; le grandi stampe a colori.
La mostra prosegue fino a luglio.
Progetto su Christa Wolf è il titolo dello spettacolo in scena al Teatro Verdi di Milano fino al 25 marzo, regia di Maurizio Schmidt, con l’attrice Elisabetta Vergani, ospite, venerdì scorso, alla Libreria delle donne, ove ha presentato questo lavoro, introdotta da Anna Chiarloni, docente di letteratura tedesca dell’Università di Torino.
Il dramma è una trasposizione scenica dei romanzi della scrittrice su Cassandra e Medea: Cassandra e Premesse a Cassandra (1983), Medea e L’altra Medea (1996). Vergani è supportata da una percussionista che scandisce pause, toni e momenti topici del dramma.
La partecipazione alla serata è stata davvero soddisfacente.
Cassandra e Medea sono figure oscure, mostruose: una è la profetessa di sventura, l’altra la madre che uccide i propri figli.
Cassandra simboleggia il malaugurio, Medea è la strega infanticida, fratricida e omicida: due miti femminili al contrario, che pagano caramente la loro natura antisociale, la profetessa con la condanna a non essere mai compresa e la pazzia, la strega con l’esilio, l’infelicità e la morte.
Sono due donne mosse da forte pulsione sessuale, difficile per il nostro immaginario pensare il contrario, e in qualche maniera “eccessive” eroticamente: da una parte la frigida sacerdotessa di Apollo che si nega all’amplesso del dio e viene violentata da Aiace durante il sacco di Troia, dall’altra parte la maga mangiatrice di uomini e di eroi greci, colta nell’accecamento della gelosia che la porta a far divampare Corinto.
Sono due donne barbare provenienti dall’est geografico e culturale, che nella mitologia greca era ambientato dalle parti del mar Nero: una troiana ed una colca, figlie di re, testimoni della caduta delle loro antiche civiltà al momento della sottomissione ai nuovi dominatori, i greci. Sono entrambe alla scoperta nel nostro mondo, deportate dall’ovest quali prede dai maschi occidentali: Cassandra ribelle preda di guerra del vincitore di Troia Agamennone, Medea complice preda di Giasone, costretta a tradire il proprio popolo per aiutarlo.
Christa Wolf nei suoi romanzi è partita dall’assunto che il mondo greco, con la cultura patriarcale di cui è intriso, ha riscritto tutti i miti preesistenti a proprio vantaggio. La scrittrice tedesca è andata alla ricerca delle sorgenti antiche di quei miti, riscrivendoli e dandone un’interpretazione nuova, vista con occhi diversi, che tiene in considerazione le ragioni del matriarcato.
Così le sue opere sono un viaggio verso uno sguardo femminile di possibile vita, lontano dalla cultura di morte dell’occidente, carico di domande: Chi erano Cassandra e Medea prima che un greco parlasse di loro? La risposta è in quella parte che ancora riposa in ogni donna.
Cassandra diventa in tal modo la storia della dolorosa scelta di dire la verità quando anche il tuo corpo, per non soffrire, ti chiede di non farlo.
Per Christa Wolf, Medea non è né fratricida, né omicida, né infanticida ma capro espiatorio delle tensioni sociali e vittima sacrificale, come spesso capita alle donne.
I romanzi sono un’indagine, un po’ autobiografica, nata quando la scrittrice, dotata di un indubbio coraggio politico, si trovava nell’allora DDR, e riscriveva il mito dell’intellettuale di fronte alla verità (Cassandra), indagine conclusasi all’epoca della riunificazione tedesca dopo la caduta del muro e delle sue illusioni, con Christa Wolf ormai cittadina dell’occidente e messa sotto tiro all’establishment culturale sotto l’infamante accusa di collaborazionismo con la Stasi. Il viaggio nel mito femminile della più grande scrittrice tedesca del novecento termina con una donna disorientata tra matriarcato e patriarcato – entrambi insostenibilmente basati sulla violenza – sospesa tra oriente e occidente, in fondo poco dissimili come casa della donna – che non sa più quale sia la sua patria. Gira tuttavia per il mondo in quanto non ha perso la speranza di poter trovare qualcuno in grado di dare risposta alle sue domande.
Emozioni in video. Come l’incontro con la sofferenza diventa stimolo a una conoscenza più profonda di sé e a una comunicazione più fine e creativa. Attraverso l’esperienza e i video dell’artista Emilia Rebuglio, realizzati con la collaborazione di Giovanni Parea, vi invitiamo alla scoperta di un modo luminoso di esprimere emozioni.
Introdurranno l’incontro Zina Borgini e Luciana Tavernini. Organizzazione tecnica di Andro Barisone e Roberto Meda.
Ho conosciuto Emilia nel 1995 , amica di un amico comune, Andro.
Abbiamo fatto il viaggio insieme da Milano a Pavia, per andare a tenergli compagnia durante una degenza ospedaliera.
Sono rimasta subito attratta dalla passione dal calore con cui si rapportava a lui, per l’amore e la gioia che trasmetteva in parole raccontando come si erano conosciuti e di quante situazioni aveva poi condiviso nonostante la differenza di età: erano stati compagni di scuola all’Istituto d’arte Beato Angelico, lei, donna già adulta e sposata, lui poco più che un ragazzino. La loro amicizia non si è mai interrotta sino ad oggi.
Durante quel breve ma intenso viaggio Emilia mi raccontò che dopo aver frequentato il Beato Angelico dove si era diplomata come maestra d’arte, aveva frequentato l’Accademia di Brera e la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano dove si era laureata. Che si era cimentata con la scultura e aveva partecipato a parecchie mostre, che aveva insegnato in alcune scuole medie di Milano e che dopo aver frequentato un corso di specializzazione per Handicappati psicofisici aveva deciso di insegnare all’Istituto Don Gnocchi.
Proprio qui per agevolare i suoi allievi che erano soliti mettersi in bocca la creta e le terre che usava per plasmare, aveva inventato un materiale manipolativo non tossico
Mi raccontò che in seguito quando aveva smesso di insegnare aveva aperto con il marito e i figli un negozio di arredamento “La chiave di volta” questo materiale le aveva procurato molto guadagno con le sculture e gli oggetti d’arredamento che plasmava.
Quando ci siamo conosciute Emilia era impegnata in questa attività commerciale sul Naviglio a pochi passi dalla casa di Alda Merini, così mi deliziò con i racconti dei suoi scambi con la poeta, della loro amicizia e delle visite giornaliere di Alda che sempre carente di soldi le vendeva le sue poesie, un fluire di aneddoti singolari che caratterizzavano la sua quotidianità.
E mentre si raccontava, io restavo sempre più affascinata dal modo in cui brillavano i sui occhi, dall’amore con cui disquisiva delle cose che faceva, dall’entusiasmo e dall’ottimismo con cui parlava.
La vita poi ci ha portate per strade diverse e da quella volta ho rivisto Emilia l’anno scorso dopo che Andro mi ha portato in visione dei suoi cd di videoarte e mi ha raccontato che Emilia si era trasferita in una casa di campagna sul Po’ per facilitare la mobilità e la vita al suo compagno di sempre, Giovanni,che è stato colpito da una grave malattia.
Costretta in casa per molta parte del giorno, Emilia si incupisce, si sente isolata, allora si mette in ricerca, non sa bene di cosa. Un suo cugino le mostra le possibilità del video, incomincia ad interessarsi e a lavorare con un programma di immagini. Quello che inizialmente le sembra un gioco schematico e molto tecnico, diventa poco a poco un impegno serio, il pc il suo scrigno dove giorno dopo giorno elabora piccoli gioielli di emozionalità. Da un anno a questa parte ho incontrato parecchie volte Emilia a casa sua e abbiamo passato molto tempo a guardare i suoi video, a discuterne a vederli crescere e trasformare e mi è venuta la voglia di renderli pubblici. Ho dovuto cercare aiuto per fare questo, perché era talmente alta la mia emozionalità quando affrontavo Emilia che avevo il timore di esserne offuscata e di non poter fare una lettura del suo lavoro, ho chiesto a Luciana di accompagnarmi di scavare con me in questo desiderio ed ora siamo qui a proporvelo.
Intervento di Luciana Tavernini
Emozioni in video. Come l’incontro con la sofferenza diventa stimolo a una conoscenza più profonda di sé e a una comunicazione più fine e creativa. Attraverso l’esperienza e i video dell’artista Emilia Rebuglio, realizzati con la collaborazione di Giovanni Parea, vi invitiamo alla scoperta di un modo luminoso di esprimere emozioni.
Introdurranno l’incontro Zina Borgini e Luciana Tavernini. Organizzazione tecnica di Andro Barisone e Roberto Meda.
Ho accettato la proposta di Zina di presentare al Circolo alcune opere di E. R., oltre che per la fiducia nell’intuito di Zina, per il piacere intellettuale e sensoriale in senso ampio che i video di quest’artista mi procurano e per l’interesse per la politica delle donne della sua biografia.
In una biografia di una donna, scritta o raccontata a voce, cerco sempre quegli elementi, quelle relazioni che hanno fatto di lei una donna che ha saputo dirci qualcosa di nuovo, oppure che le hanno impedito il pieno svilupparsi delle sue capacità, come ad esempio abbiamo avuto modo di vedere qui al Circolo in occasione della discussione sulla biografia di Antonia Pozzi, Per troppa vita che ho nel sangue, scritta da Graziella Bernabò (Viennepierre, Milano 2004). Insomma cerco pratiche di libertà perché penso che mi possano aiutare a riconoscerle e a rafforzarle in me e nelle donne che incontro.
Non sono una critica di arte contemporanea ma un’appassionata che visita con regolarità musei europei e mostre e partecipa ad eventi artistici; credo nella capacità di percepire l’originalità e il valore da parte di chi si pone di fronte all’opera artistica col desiderio, anzi sentendo l’urgenza di ricevere stimoli per la comprensione più profonda di sé nel mondo attuale.
Del resto voi stesse potrete giudicare il valore delle opere proposte.
Però soprattutto la Libreria delle donne e il Circolo della Rosa non sono gallerie d’arte, anche se è stato progettato da due artisti poliedrici come Stefania Gianotti e Corrado Levi, molte artiste vi fanno riferimento, alcune, come ad esempio Carla Accardi, Valentina Berardinone, Vittoria Chierici, Monica Carrocci ci hanno regalato le loro opere che potete ammirare alle pareti e la vetrina ospita regolarmente delle installazioni come quella di Chiara Pergola, frutto di una performance, svoltasi proprio qui.
Non è una galleria ma principalmente un luogo di pratica e riflessione politica, oltre che di stimolo culturale e piacevole convivialità, come potranno aver modo di apprezzare quelle e quelli che si fermeranno a cena.
Un’artista che riesce ad esprimere il proprio sentire con profondo radicamento in sé e dialogo con l’altro da sé credo abbia trovato una delle forme della libertà che a noi interessano. Per questo intendo rintracciare e provare a descrivervi alcune pratiche di vita messe in atto da Emilia che possono costituire tracce sicuramente per me ma anche per altre donne e forse anche per gli uomini.
Innanzi tutto lei pratica la gratuità e circolarità del dono contro la contabilità del dare/avere tanto presente nella società d’oggi. Sostiene che è necessario dare quello di cui si è capaci senza aspettarsi il ritorno che comunque verrà inaspettato per altre vie.
Vi cito due soli esempi.
Il suo negozio d’arredamento “La Chiave di volta” era sempre aperto per la poeta Merini, che vi si recava spesso, trovandovi ascolto, ammirazione e aiuto. Ci racconterà poi Emilia stessa il ritorno che, ad anni di distanza, gliene è venuto.
Quando lavorava con ragazzi e ragazze con gravi handicap, non solo fisici, al Don Gnocchi per permettere loro di esprimersi sentiva la necessità di un materiale leggero, atossico, facilmente e piacevolmente modellabile, esteticamente bello. Si è dunque applicata a questa ricerca finché ha inventato la “Pietra leggera”, manipolabile come la cartapesta, dall’apparenza del granito, resistente e leggera che, brevettata, è molto utilizzata in architettura in Italia e all’estero.
E proprio il lavoro con le ragazze e i ragazzi del Don Gnocchi ci permette di aprire il discorso sul rapporto con la sofferenza. Chi soffre è in una posizione di bisogno, si presenta come una delle massime espressioni dell’altro da sé con cui entrare in comunicazione. Emilia non sfugge anzi attinge alla relazione materna per trovare le modalità di invenzione dei modi di rapportarsi. Lei dice: “Nessuno ha zero capacità, si tratta solo di trovare le vie per farle esprimere, tenendo conto di ciò che chi abbiamo di fronte può dare, facendo tentativi…” Lei usava il disegno, in alcuni casi il segno, come ci ha raccontato nel caso di una bambina, dove è partita da alcuni punti che dopo giorni e giorni sono diventati linee. E aggiunge: “Lasciare una traccia di sé significa esistere”. Riandando alla nostra prima infanzia, in cui bisognose di tutto, abbiamo scoperto il mondo, guidate dall’invenzione del sapere materno, possiamo ora affrontare la sofferenza dell’altro. Non mi dilungherò a parlarvi di questa capacità inventiva di gesti e parole che sanno dire oltre e più a fondo perché ci viene descritta con un limpido linguaggio simile a quello di Calvino, da Rebecca Brown, nel suo intenso libro I doni del corpo (Il dito e la luna, Milano 2006). In esso la scrittrice americana racconta l’esperienza di cura con i malati di AIDS senza alcun pietismo e facendoci partecipi della sorpresa che produce il “miracolo” di una comunicazione avvenuta, del “verbo che si fa carne”, osererei dire. Questa capacità di stare il presenza del dolore viene analizzata in modo più teorico nel saggio di Daniela Riboli, Stare a contatto del male senza farsi male nel volume della comunità Filosofica Diotima La magica forza del negativo (Liguori, Napoli 2005), un libro ricco di altri saggi che mostrano come sia possibile usare il negativo come leva per crescere. E’ una modalità che molte donne praticano, arricchendo la propria capacità di sentire, “facendo di necessità libertà”, come ci dice sempre di fare Luisa Muraro.
La capacità di relazionarsi all’altro da sé è quella messa in campo anche nel rapporto col marito. Tra loro c’è quella che abbiamo nominato in Libreria come relazione di differenza, una relazione che libera energie perché dà la gioia della scoperta, spinge ad indagare in sé non dando per scontate le proprie posizioni, mette in luce capacità differenti. Penso a come Giovanni abbia sostenuto il desiderio di Emilia di riprendere gli studi in ambito artistico, anche se appariva strano che “una madre di famiglia” sedesse in banco con compagne e compagni adolescenti; a come insieme i due abbiano frequentato la facoltà di Architettura, ed anche all’aiuto tecnico per le strutture delle grandi sculture e ora dei video. Mi sembra anche calzante il periodo in cui Emilia, riteneva che fosse inutile realizzare le sue sculture e che bastasse descriverle a Giovanni, insomma le creazioni raccontate esistevano nella parola detta a chi poteva comprenderla e questo è stato un momento importante del passaggio ad un’altra forma artistica.
Infatti un altro aspetto, che vorrei sottolineare, è quello che io chiamo della creatività a fisarmonica nella vita delle donne, cioè di quella capacità di tenere sospesa una forma di creatività per esprimerne altre, legate alle urgenze delle relazioni vive. Se Harold Pinter, il drammaturgo inglese premio Nobel, può dire che quando non scrive si sente in esilio da se stesso, così non accade per molte donne che scivolano da una forma di creatività all’altra, senza porre troppe gerarchie. Penso alla grande capacità inventiva che richiedono i quotidiani happening, costituiti dai pranzi familiari, trasfigurati in modo esemplare ne Il pranzo di Babette il famoso racconto lungo di Karen Blixen, trasposto anche nel film omonimo del 1987 di Gabriel Axel, con Stéphane Audran e Bibi Andersson, che vinse l’Oscar come miglior film straniero. Del valore vitale di questa quotidiana cerimonia e a chi vada attribuito il merito dimostrano ad esempio consapevolezza in Finlandia, quando, come ci racconta Elisabeth Jankowski, nel libro curato da Chiara Zamboni Il cuore sacro della lingua (Il poligrafo, Padova 2006), un’acuta e originale riflessione sulla lingua, presentata ieri, “nessuno si alza da tavola senza aver ringraziato la padrona di casa per il pranzo offerto, e questo fanno anche il marito e i figli.”(p.38)
Dunque una creatività a fisarmonica che sa aspettare il tempo e trovare nuove forme di esprimersi. Penso alle grandi statue, create da Emilia Rebuglio nel suo periodo di scultrice: corpi di donna, uova come essenza della generatività, elementi di animali come nella scultura Equinità, per poi passare alle sculture d’arredamendo con l’esperienza dei Parea scultori, per arrivare ai video dove libera la forza del colore e delle forme astratte. Non vi un taglio netto coi temi precedenti ma un passaggio che li rinnova. Sono dunque fasi intervallate da periodi di apparente silenzio, in realtà pause per rincorsa, rubando l’idea al titolo del bel romanzo di Anna Santoro, appunto Pausa per rincorsa (Avagliano, Cava de’ Tirreni 2003), presentato qui due anni fa.
Insomma mi pare che le donne sappiano darsi tempo e aspettare per poi lanciarsi, penso ad esempio all’inglese Penelope Fitzgerald (1916-2000), che iniziò la sua carriera di romanziera a sessant’anni, scrivendo molti romanzi. L’ho scoperta, grazie a un amico che, in occasione dell’inizio della mia pensione mi ha regalato, come buon auspicio, La casa sull’acqua, l’ultimo dei sette pubblicati in Italia da Sellerio (Il fiore azzurro,1998; La libreria,1999; L’inizio della primavera,1999; Il cancello degli angeli, 2000; Il fanciullo d’oro, 2000; Voci umane, 2003; La casa sull’acqua, 2003).
Alla base della creatività di Emilia vi è dunque un contatto profondo con se stessa, una fedeltà al proprio sentire e apertura all’altro. I suoi ultimi lavori, i video che presenteremo, partono a volte da precedenti opere, ma ora si è liberata dalla timidezza che le impediva l’uso del colore. Sceglie di esprimersi creando video perché permettono un’arte relazionale, un dialogo con poesie, musiche, fotografie anche di altre/i, con un lavoro tecnico che richiede un continuo confronto. Essi costituiscono un passo avanti nell’elaborazione dell’idea delle creazioni raccontate: vi era in lei il rifiuto di caricare il mondo di altri oggetti, un bisogno direi ecologico di un’impronta più leggera di sé senza rinunciare alla necessità di mettere in luce i propri aspetti più profondi, le sue emozioni, il suo modo di vedere amorosamente il mondo e di poterlo comunicare con la velocità e ampiezza che i video consentono.
E’ la sua un’esplorazione dove la sincerità e il radicamento, il lavoro serio e intenso, non possono che portarla ad un’arte che sa esprimere il suo essere donna oggi fuori da un canone, potremmo dire che è un’outsider e proprio per questo riusce a mostrarci qualcosa di imprevisto. Ma nel suo impegno trova istintivamente forza nelle parole e nelle immagini di altre donne che l’hanno preceduta, le madri di tutte noi, come si diceva più di vent’anni fa ne Il catalogo giallo della Libreria. Come vedremo infatti ha colto, dapprima in Alda Merini, poi nella Dickinson e ora anche in una foto di Dorothea Lange qualcosa che loro hanno detto per noi prima di noi a cui possiamo, in una catena genealogica, riallacciarci per dire qualcosa di nuovo, perché la nostra singolarità possa parlare in un ambiente dove altre hanno lasciato tracce di sé.
Laura Minguzzi
Questa sera siamo qui per incontrare le Vicine di casa di Mestre. Ho voluto invitarle, tutte ospiti del Circolo della Rosa, per un incontro che vorrei fosse politico, di scambio di esperienze. I fili che hanno portato qui le Vicine di casa sono tanti, ma la mia relazione con Sandra De Perini è quello portante. Devo dire che per un certo periodo mi sono sentita anch’io una sua vicina di casa, anche se non alla lettera. Ci legavano lunghe telefonate e mails soprattutto per problemi scolastici, di relazione con giovani maschi adolescenti. In particolare ci legavano, e ancora ci legano, le redazioni di Via Dogana, la domenica mattina a Milano, qui al Circolo della Rosa, gli appuntamenti con la Storia a Milano, in preparazione del convegno “Cambia il mondo, cambia la storia”, i pranzi a casa mia, le cene al Circolo della Rosa. Fa parte della pratica delle Vicine l’indicazione che, quando una ha deciso di parlare, viene sostenuta. Ho praticato anch’io in diverse occasioni il “metodo” delle Vicine di casa, se così vogliamo chiamarlo. Sandra è una buona ascoltatrice e mi ha chiesto di raccontarle la mia storia, intervistandomi in un momento particolare di cambiamento, di passaggio del mio lavoro e della mia vita, che mi aveva trovata indebolita e isolata. Per capire le ragioni della mia solitudine, l’impasse del mio desiderio, l’ascolto attento di Sandra è stato per me un punto essenziale, vitale, generatore di forza e di lucidità intellettuale.
Insieme abbiamo, in seguito, realizzato incontri e momenti di scambio politico. Per esempio ho invitato Sandra al Circolo della Rosa a presentare, con Loredana Aldegheri, “L’oro dell’impresa sociale” (edizioni Mag). In particolare, mi sono fatta mediatrice con iniziative al Circolo della Rosa che hanno consentito di sciogliere un nodo irrisolto di Sandra con alcune amiche delle Città Vicine di Catania. Si sono così aperte nuove possibilità di incontri e scambi per le Vicine di casa, per le Città Vicine a per noi. Infatti alcune di noi (oltre a me, Marirì Martinengo, Marina Santini, Luciana Tavarini, Donatella Massara, Nilde Vinci) siamo state invitate a casa di Sandra, dove da alcuni anni avvengono le “conversazioni” delle Vicine di casa, per discutere di libri, di cinema, di ricerche storiche e artistiche. Il filo che unisce me e Sandra si dipana su due versanti: il primo è l’attivo interesse per la Storia e il secondo è la cura dello spazio pubblico nel contesto in cui siamo. In questo ambito, ho conosciuto Désirée Urizio che mi ha invitata a parlare della mia ricerca sulla badessa russa Eufrosina alla biblioteca del Comune di Meldola, dove all’epoca Desirée lavorava e nella quale l’anno prima Sandra aveva tenuto un ciclo di incontri sulla storia delle donne. Désirée aveva realizzato uno spazio che andava ben oltre una semplice biblioteca.
Passo ora alle domande che voglio porre qui in contesto alle Vicine di casa. Del vostro passato mi interesserebbe capire se e come avete realizzato il passaggio tra la politica delle Vicine di casa con Luana Zanella e dopo, quando lei ha fatto la scelta istituzionale ed è stata eletta in Parlamento. Quale pensiero è scaturito da questa esperienza? C’è stata rottura o continuità? Qual è infine il contesto della vostra pratica oggi? Non vi sembra che si perda mondo, quando ci si concentra solo sulle relazioni?
Alessandra De Perini
Ringrazio Laura Minguzzi che con la sua introduzione nomina la relazione tra noi: abbiamo uno scambio sulle nostre vite, sul senso della politica che facciamo, sulle contraddizioni che viviamo a scuola e sugli ostacoli che incontriamo nell’insegnare a classi di maschi adolescenti. Ringrazio voi che siete qui e che vi disponete ad ascoltarci. Mi trovo sul luogo che ritengo il cuore del pensiero e della politica della differenza.
La nostra storia di Vicine di casa si collega a questo luogo, perché da qui sono venute parole e misure che abbiamo tradotto nel nostro contesto e che ci sono servite soprattutto all’inizio per fare politica nella nostra città. In seguito, abbiamo trovato modalità, misure, parole e forme nostre.
Intanto vi voglio presentare le vicine di casa con cui sono venuta qui a Milano. Innanzitutto Nadia Lucchesi: io e lei siamo amiche da più di quarant’anni, dai tempi del Liceo. Ormai sono vent’anni che prendiamo la parola pubblicamente nella nostra città, in occasione di iniziative, incontri, a scuola o in altri luoghi pubblici. Nadia ha scritto alcuni anni fa un libro sulla Madonna per dire che il Cristianesimo l’ha fondato lei e io l’ho incoraggiata, impegnandomi poi a presentare il suo libro a Mestre, Venezia e in altre città italiane. Daniela Bettella, che in questi anni ha sostenuto il progetto dei corsi di storia delle donne e gli incontri del giovedì nella saletta della biblioteca del Centro-Donna. Una volta andata in pensione, è diventata una bravissima acquerellista. Pensando all’incontro di oggi, Daniela ha disegnato e colorato ad acquerello la “mappa delle Vicine di casa” su un grande foglio che adesso aprirà e attaccherà su una parete del Circolo, in modo che possiate vedere la nostra rete e capire di che stoffa è fatta la città in cui abitiamo. Nella mappa ci sono le nostre case, la rete delle città che ci sono vicine, i luoghi di Mestre che abbiamo segnato con la nostra presenza e dove siamo intervenute in modo significativo; c’è anche la casa di Laura Minguzzi, c’è il Club della Rosa con due grandi rose (penso che le due rose sappiate bene chi siano). Al centro di questa mappa, più grande delle altre, si vede la casa dove abito io dagli anni Settanta, un appartamento molto luminoso, di cento metri quadri, dove da trent’anni si svolgono incontri, riunioni, conversazioni. È stato il primo luogo politico delle Vicine di casa; in seguito abbiamo utilizzato tanti altri spazi della città, però tutto è nato lì, in questa casa, e, vi assicuro, non è stato facile farlo nascere. Voglio adesso dire di Lucia Pitteri, da cui ha avuto origine il primo nucleo delle Vicine di casa, nel quartiere Carpenedo-Bissuola di Mestre, dove quasi tutte abitiamo. Lucia è una donna molto pratica, infatti quando ha deciso di creare una rete di vicine, ha fatto cento telefonate ed è riuscita a convincere molte abitanti del suo rione a mettersi in movimento; è una donna capace di tessere relazioni, gentile, ma determinata, con un fortissimo desiderio di creare luoghi dove le donne, soprattutto quelle che non hanno potuto studiare per vari motivi, economici o per storie di vita, possano accedere alla cultura che per lei è il bene più prezioso. Dal suo desiderio sono nate due realtà nella nostra città: un’associazione di educazione permanente, realizzata negli anni Ottanta da donne che, insieme a Lucia, avevano frequentato le 150 ore e provato il piacere di tornare sui banchi di scuola, perciò volevano continuare a studiare storia dell’arte, filosofia, letteratura (oggi conta 600 iscrizioni e cammina ormai con le sue gambe); e una cooperativa di infermiere professionali che si chiama “Florence Nightingale” (Lucia ne racconta la nascita in uno dei libricini prodotti anni fa dalle Vicine di casa, realizzati a nostre spese col computer, fotocopiati e distribuiti a centinaia di donne). Questa cooperativa ha avuto un inizio felice, un bel successo per Lucia che ha avuto grandi riconoscimenti, ma poi è divenuta a poco a poco per lei fonte di contrasti e di un conflitto irrisolto, una matassa da sbrogliare di cose non dette, scelte non concordate, di errori non chiariti, in cui si mescolano economia non profit ed economia di mercato, rapporto tra donne giovani e donne anziane, tra immigrate e italiane, legami lavorativi mescolati a quelli affettivi e familiari. In questa cooperativa lavora infatti una nuora di Lucia ed è con lei che c’è stato conflitto. Di questo poi, se vuole, parlerà lei stessa. Vi presento poi Marina Canal che ha ritrovato, attraverso il percorso comune di questi anni, la libertà di scrivere; Gabriella Menegaldo che, attraverso i nostri incontri, lo dice lei stessa, si accorge di saper leggere la sua esperienza in modo nuovo; Désirée Urizio che è da poco con le Vicine di casa, trasferita nella nostra città con la precisa intenzione di stare vicina ad una realtà di donne impegnate in una pratica di libere relazioni. Desirée mette in gioco per le Vicine di casa la sua competenza di bibliotecaria e archivista e realizzerà presto il nostro archivio dei documenti, foto, filmati e materiali prodotti in questi anni. Con noi è presente anche la direttrice d’orchestra, maestra di coro, Sandra Perulli che anni fa ha diretto con competenza ed enorme pazienza il coro delle Vicine di casa, in un periodo – erano gli anni Novanta – in cui volevamo renderci visibili non solo attraverso la parola, ma anche con il canto, e contemporaneamente -ero soprattutto io che spingevo in questo senso – volevamo promuovere in città la diffusione della rivista Via Dogana. Sandra Perulli con Nadia Lucchesi, nel liceo dove Nadia insegna, hanno dato vita ad un coro studentesco e adesso da alcuni anni hanno aperto un laboratorio musicale dove le studentesse e gli studenti del Liceo possono cantare, danzare, recitare e, al termine dell’anno scolastico, esibirsi con grande talento in uno spettacolo che è diventato una specie di tradizione cittadina, un appuntamento gioioso.
Alcune vicine che non sono potute venire qui oggi hanno voluto scrivere delle riflessioni che ho messo nella cartellina che consegno a Laura: c’è il testo di Vilma Falco che abita in una grande casa circondata da un bellissimo giardino, dove giocano le due nipotine e dove ogni tanto ci riuniamo; poi ci sono gli scritti di Luciana Talozzi di Chioggia e di Annalisa Busato; c’è la relazione di Piera Moretti, che si firma “Pierina”, scritta anni fa in occasione del corso di formazione “Governante per anziani” curato da Leda Cossu, una vicina di casa infermiera, intervistata anni fa per Via Dogana (l’intervista è stata pubblicata in seguito in “Duemilauna – Donne che cambiano l’Italia”). Piera parla del suo metodo di lavoro, di come lei fa concretamente le pulizie nelle case dove lavora. Mi ha detto anche di dirvi che è diventata nonna e che le piace molto continuare a seguire i figli e le figlie delle donne da cui in passato ha lavorato che ora sono diventati grandi e che lei sente un po’ come figli suoi.
Ho inserito in questa cartellina gialla anche uno scritto di Désirée, uno di Marina Canal e un testo che riposta il discorso di Daniela Bettella, quando nel 2003 abbiamo preso le distanze dalle donne dei gruppi del Centro-Donna.In questo testo Daniela spiega perché non è più possibile per noi continuare uno scambio con loro. L’ultimo testo in cartellina è di Leda Cossu che spiega che cos’è il lavoro di cura e in che modo, secondo lei, la Scuola di Infermieri professionali dell’Ospedale “San Marco” di Mestre potrebbe trasformarsi e, invece di chiudere, diventare un centro di formazione per giovani donne e uomini che vogliono acquisire a livello alto la professione.
Oltre a quelle che ho nominato, ci sono altre vicine di casa che non sono qui. Fra queste innanzitutto Luana Zanella che è stata fondamentale per la storia delle Vicine, una donna di grande valore, senza la quale non ci sarebbero state le Vicine, che ha fatto una carriera velocissima nella politica istituzionale, anche grazie alle Vicine di casa, da presidente del quartiere a presidente del Consiglio Comunale di Venezia, poi assessora alle Politiche Sociali, infine parlamentare per il gruppo dei Verdi e ora di nuovo, oltre a parlamentare, assessora alla Cultura di Venezia. Prima o poi, aspetto che lei metta in parola la sua esperienza di questi anni, ma per il momento è letteralmente travolta dagli impegni e dal lavoro. Con lei – che è così lucida e attenta a quello che accade nel mondo – continua da parte mia un desiderio di relazione e sono sicura anche da parte sua. Nel libretto pubblicato nei Quaderni di Via Dogana “l’Oro delle vicine di casa – Una pratica che rende umana la città” (febbraio 1998), Luana dice che si impegna a governare nel “vincolo delle Vicine”. Vedo un aspetto di questo vincolo che lei dice di sentire ancora molto forte, per esempio, nell’aver curato recentemente un libro sul patrimonio della cristianità serbo-ortodossa, in gran parte distrutto dalla guerra, e che lei propone di da salvare. Questa cura, questa attenzione alle risorse preziose del territorio, Luana la esercitava anche a Mestre, dieci, vent’anni fa: la piccola casa, legata alla tradizione contadina veneta, che doveva essere abbattuta per costruire sopra un condominio, lei la proteggeva, così il giardino da salvaguardare, la strada, la piazza, il parco.
Poi, tra le Vicine di casa nomino Cristina Bergamasco, Paola Nordio che adesso è diventata capo sezione dei vigili urbani di Mestre, Annalisa Paoloni che, quando lavorava al Quartiere Carpendo Bissuola, per due anni ha organizzato gli incontri sulla Storia delle donne del Novecento e, in seguito, “La cura di sé”, un ciclo di incontri sulla salute, chiamando a parlare tutte le persone che in città si occupano di alimentazione naturale, di coltivazione biologica, di benessere del corpo e cure diverse dalla alla medicina ufficiale (questi incontri si concludevano con una grande fiera di prodotti biologici allestita nel parco, frequentata da migliaia di persone). Nomino tra le Vicine di casa, anche se è uno spirito libero che non ha mai voluto vincolarsi ad un impegno politico preciso con noi, Marisa Bettini che ha realizzato la bibliotecaria del Centro – Donna, con migliaia di iscritte, e ora collabora con la Biblioteca civica; poi Michela De Grandi, levatrice e adesso infermiera, che per anni ha restituito alle giovani donne la libertà di partorire in casa, invece che in ospedale; e ancora Laura Frescura (la casetta di Laura è quella in alto a sinistra, vicino alla laguna, dove effettivamente si trova) che, insieme ad altre e altri, ha costruito una comunità di ricerca sugli effetti di riequilibrio delle acque mariane sul nostro organismo (Nadia la cita nel suo libro su Maria). Queste che ho citato sono donne preziose e consapevoli che hanno una storia da raccontare, un legame forte con la città, un’esperienza significativa da trasmettere. Per questo le loro case si trovano nella mappa delle Vicine di casa.
Tra i legami significativi delle Vicine di casa c’è quello con Annarosa Buttarelli di Mantova che dalla fine degli anni ’90, è sempre stata disponibile ad ascoltare, dare consigli e indicazioni di percorso a me e a Luana Zanella. Nella mappa c’è anche la rete delle Città Vicine nata anni fa dal desiderio di Anna Di Salvo di Catania in relazione con Vivien Briante ed altre e sostenuto da Clara Jourdan della redazione di Via Dogana e della Libreria delle donne di Milano. Di questa rete delle Città Vicine fanno parte, oltre a Catania e Milano, altre città: Catanzaro, Foggia, Bologna, Roma, Firenze, Spinea, Chioggia, Verona e Mestre.
C’è un legame particolare tra Mestre e Verona. Nella città di Verona infatti, Loredana Aldegheri, presidente della Mag Servizi (la Mag è una cooperativa a governo femminile che si occupa di economia non profit e di formazione, a cui fanno riferimento più di 200 associazioni e cooperative presenti a Verona e nel territorio veronese) mi ha chiesto anni fa di trasferire lì il sapere delle Vicine di casa. In quella città mi sono così recata per alcuni anni insieme a Daniela e Piera per condurre dei corsi rivolti alle socie di diverse cooperative che fanno capo alla Mag sulla qualità delle relazioni al lavoro. A Verona c’è anche un gruppo di donne, il cui nome è “L’oro delle vicine di casa”, che organizza iniziative pubbliche sullo sguardo delle donne nei confronti della città e ha aperto nel proprio quartiere uno spazio per le famiglie, dove le mamme e i papà o i nonni possono accompagnare i bambini piccoli per farli giocare e stare insieme.
L’anno scorso la Mag ha organizzato un convegno con le Citta Vicine, in cui si è avviato un confronto politico con la rete dei Nuovi Municipi (la trascrizione del convegno è stata pubblicata nel numero di marzo 2006 della rivista trimestrale Autogestione e politica prima con il titolo “La Città del Desiderio”). Presto usciranno gli atti del convegno delle Città Vicine organizzato a Bologna da Donatella Franchi, di cui ho curato la trascrizione e a cui le Vicine di casa hanno partecipato.
In qualche modo ho cercato di illustrare la mappa delle Vicine di casa. Adesso ne racconto brevemente la storia, cercando di sintetizzare il percorso.
Avremmo potuto essere un gruppo di donne che si occupava del quartiere, della qualità di vita del quartiere e la cosa finiva lì, ma c’era un di più, che evidentemente in tutti questi anni ha resistito, perché noi siamo altro e di più, anche se abbiamo sempre dovuto fare i conti con chi non capiva e ci scambiava per un gruppo di femministe, per esempio le donne della sinistra, nostre avversarie fin dall’inizio, giornalisti, architetti, donne o uomini dell’amministrazione che ci scambiavano per un comitato di quartiere.
Per raccontarvi l’inizio io risalirei agli anni Ottanta. Forse è successo anche a voi l’esperienza di percorsi diversi e paralleli confluiti proprio in quegli anni nella presa di coscienza della differenza fra i sessi come nuova categoria per interpretare la realtà. Quello è stato il punto di partenza anche per alcune di noi. Da qui l’apprendimento, attraverso, chiamiamoli pure così, degli “esercizi”, di una pratica di relazione fra donne, e questo “fra donne” è stato per molto tempo il contesto privilegiato della nostra azione politica e trasformazione soggettiva. Le parole chiave di questa pratica erano: desiderio, partire da sé, mettere in gioco l’esperienza soggettiva, riconoscere la disparità, il di più di libertà di un’altra donna, fare leva sull’autorità di origine femminile. La relazione era luogo di scambio e di trasformazione, spazio simbolico dove ognuna riceveva dall’altra un giudizio, una misura di realtà e dove si vivevano e si agivano anche forti conflitti che, nei primi anni si concludevano quasi sempre con abbandoni e rotture, ma in seguito, con la crescita della capacità di ascolto e di mediazione, sono divenuti occasione di riflessione e di rilancio della scommessa comune. Nel corso del tempo alcune di noi hanno scoperto che la competenza guadagnata nei gruppi di lettura e riflessione e nei rapporti fra donne poteva essere messa in gioco per una modificazione radicale dei diversi contesti in cui ci si trovava a vivere e lavorare, non solo fra donne, ma anche con gli uomini. Così altre, altri, nel momento stesso in cui abbiamo reso visibile questa ricchezza, hanno desiderato avere accesso al “sapere della differenza”. Sono nati degli scambi più complessi, si è cominciata ad articolare una rete. Ci è stata chiara molto presto la necessità di parlare in modo chiaro e diretto, legandoci al contesto per farci capire da tutti, per rendere comprensibile e desiderabile il sapere pratico delle relazioni. Mettere al posto di un linguaggio per iniziate quella che oggi viene chiamata “lingua corrente” divenne così un impegno comune.
Nei primi anni Novanta abbiamo percepito tutte chiaramente il limite della politica “fra donne”. All’inizio del percorso, ci riunivamo al Centro Donna, organizzavamo lì incontri pubblici e iniziative, senza tuttavia identificarci con l’istituzione, senza sentirci “del” Centro, come se questo fosse un luogo di appartenenza. Da lì abbiamo visto che era possibile prendere la parola pubblicamente e agire in molti altri luoghi della città e non abbiamo voluto limitare la nostra attività politica al Centro-Donna, sempre più collocato all’interno della politica delle “Pari Opportunità”. Noi volevamo “fare” differenza.
Risale ai primi anni Novanta il forte conflitto con le donne dei gruppi del Centro Donna, molte delle quali impegnate nell’amministrazione e nella politica istituzionale cittadina. Con alcune di loro, alla fine degli anni ’80 avevamo cercato di fare un “patto”, un’alleanza tra amministratrici, donne della sinistra elette al governo della città e donne comuni, vicine di casa, gruppi di donne legate alla politica della differenza. La cosa non ha funzionato, anzi ha prodotto confusione di linguaggi, ambiguità e slittamenti di significato. Noi, per esempio, dicevamo “differenza” e altre parlavano di “uguaglianza”, sostenendo che intendevano dire la stessa cosa, noi dicevamo “disparità” e altre parlavano di “parità”, noi ci sentivamo obbligate a rendere conto alle nostre simili riguardo al senso della nostra azione politica in città e c’era chi invece rendeva conto al partito o istituzione di riferimento, noi parlavamo di “pratiche” e altre, al posto delle pratiche, parlavano di cultura e di diritti. Alla fine siamo uscite dal Centro – Donna per non continuare ad essere confuse con i gruppi del Centro e con una politica in cui non ci riconoscevamo. Nei conflitti fra donne in cui scorre energia negativa, distruttività e la vera ragione del contendere rimane nascosta, si rasenta il rischio di misoginia! Mi sono trovata più volte con questo sentimento negativo addosso, una specie di odio insensato, un disprezzo, un’insofferenza che rendono i rapporti con alcune donne un gioco al ribasso e l’incontro, il contatto con loro molto sgradevole, quasi un fastidio fisico. Penso a quelle donne che sono sempre offese con la differenza, mai entusiaste, mai commosse, mai ammirate, sempre perplesse, dubbiose su ogni cosa che dici, sempre con un “ma” messo davanti; mai una volta che ti cedano il passo, in aperto antagonismo, costantemente in contrapposizione, donne che vogliono occupare tutto lo spazio, sostituirsi a te, perché dove ci sei tu, loro si sentono negate, senza la terra sotto i piedi, donne che non ti guardano negli occhi e con il loro corpo tagliano il contesto in due. Non fu più possibile ad un certo punto per noi continuare a chiarire, a spiegare, a cercare di concordare e mettere ordine. Ci siamo così spostate da un’altra parte e abbiamo preso contatti con altre realtà e contattato altre istituzioni.
Presa distanza dal Centro-Donna come istituzione che pretendeva di includere la differenza nella parità, abbiamo fatto la scommessa che non avevamo bisogno di un luogo né di un’associazione per esistere in città. Se ci siamo chiamate “associazione”, infatti, era per poter accedere ai finanziamenti del Comune, solo per questo motivo. Lucia era l’economa dell’associazione, noi le socie, Luana la presidente, ma quelle cariche non dicevano nulla dei veri rapporti tra noi. Da un certo momento in poi abbiamo fatto a meno del luogo, scoprendo che i finanziamenti si possono chiedere e ottenere comunque, l’importante è la forza di relazione e il valore che si dà al progetto, a quello che si vuole fare insieme, allora, se hai idee e vuoi realizzare delle iniziative, le possibilità in città ci sono, si trovano.
Allontanarci dal Centro Donna ci ha dato molta forza, ci ha reso improvvisamente libere da mediazioni al ribasso e da sterili conflitti, non più soggette alle alterne vicende della politica istituzionale, non più contattate unicamente durante i periodi elettorali come “movimento”. Eravamo ormai in grado di vedere i meccanismi di non libertà che ostacolavano il nostro cammino. Per esempio un grande ostacolo alla politica delle donne è l’immaginazione messa al posto della relazione, l’ideologia al posto delle parole che nascono dall’esperienza. Le donne del gruppi del Centro-Donna hanno detto più volte che il Centro stava per “morire”, che poteva incendiare da un momento all’altro, a causa dell’impianto di illuminazione e del volume degli spazi che non erano a norma. Ogni tanto saltava fuori questa storia, che doveva scoppiare un incendio al Centro Donna. Certo l’edificio non era a norma, ma l’incendio imminente era frutto di paure immaginarie, fatte circolare da quelle che alla forza dei rapporti a cui non credevano contrapponevano il mondo “esterno”.
All’inizio degli anni Novanta, mentre il mondo era sconvolto da enormi cambiamenti, guerre, la caduta del muro di Berlino che rivelava la fine dei regimi comunisti dell’Est, è avvenuto un incontro felice fra tre donne che avevano una storia politica e radici profonde negli anni Ottanta e anche prima: una sono io, che, insieme con Nadia e Daniela, avevo dato vita alla “Rete della differenza” che si riuniva al Centro Donna, un’altra è Lucia, che aveva una intensa vita di associazione e conosceva molto bene il suo quartiere, la terza è Luana Zanella, anche lei molto radicata nella città di Mestre, dove sua madre l’aveva messa al mondo, che conosceva praticamente ogni abitante del quartiere, sapeva la storia di tante persone, “teneva in mano la città”, nel senso che attraverso lei passavano tantissimi fili di relazione e tantissime potenzialità. Tutte tre vedevamo chiaramente i fatti drammatici, guerre, esodi di massa, immigrazione povera, degrado urbano, che accadevano in quegli anni in ogni parte del mondo e volevamo agire in città per un cambiamento radicale.
Da questo incontro nascono le Vicine di casa, da questo mettere insieme delle reti.
All’inizio ci siamo limitate ad una politica nel quartiere. Abbiamo partecipato per esempio a una festa del rione Pertini, vendendo la rivista Via Dogana, mettendola vicina agli oggetti della memoria “domestica”, esposti nei banchetti allestiti dalle e dagli abitanti; abbiamo organizzato una giornata di festa l’8 marzo, utilizzando la sala della Parrocchia, un ciclo di proiezioni di film sull’amicizia tra donne, degli incontri nelle case. Ben presto la stampa e la televisione hanno dato visibilità alle Vicine di casa, per esempio in occasione della lotta del rione Pertini per il mercatino. Le vicine di casa partecipavano alle assemblee pubbliche del quartiere, facevano parte della delegazione degli abitanti, prendevano la parola, protestavano, giravano per gli uffici, imparavano a leggere le carte dei tecnici e degli architetti, ponevano domande agli amministratori, aprivano contraddizioni. Ovunque si è vista la potenzialità delle Vicine, anche il parroco del quartiere ha colto la novità delle Vicine e scritto una lettera sul giornalino della parrocchia in cui, preoccupato, parla della fine del patriarcato e della nuova forza delle donne che vedeva aggirarsi per le vie del quartiere. Evidentemente avevamo toccato qualcosa di profondo. Le Vicine infatti fanno leva su qualcosa che tutti anche oggi riconoscono, donne e uomini, basta che volgano lo sguardo verso la realtà vicino a casa, verso l’economia domestica che nasce e si sviluppa intorno alla figura materna e alle relazioni femminili.
Luisa Muraro, a cui avevo dato nella primavera del ’91 il primo volantino delle Vicine di casa, ha colto subito la novità del progetto e ci ha scritto una lettera in cui ci poneva dieci domande che riguardavano i rapporti tra noi, le contraddizioni, i conflitti, la scommessa politica delle Vicine. Ci siamo riunite a casa di una vicina e abbiamo iniziato a rispondere a quelle domande, registrando la nostra conversazione. Ne è nato così un articolo per Via Dogana, il primo articolo delle Vicine di casa. La nostra era una pratica politica in grado di misurarsi, a partire dal contesto vicino a casa, con i grandi problemi del presente e di dare risposte significative al bisogno diffuso di senso e di radicamento. Da lì sono nati collegamenti, contatti, ricerche. I problemi molto grossi che in quel momento stava affrontando la nostra città erano l’inquinamento chimico causato dalle fabbriche di Porto Marghera, la fine dell’organizzazione fordista del lavoro e le nuove forme di lavoro, la presenza sulle strade di notte di giovanissime prostitute dell’Est, l’arrivo di tantissimi immigrati, molti dei quali nomadi, il degrado urbano. Nella periferia della nostra città nei primi anni Novanta erano stati allestiti due campi nomadi. La gente aveva paura, per cui si erano verificati dei conflitti nelle assemblee di quartiere, dove tanti abitanti accorrevano per gridare contro l’amministrazione che accoglieva il “popolo delle discariche”. Quello è stato un momento molto difficile. In più, un quartiere intero, quello di Via Piave, era insorto perché le prostitute dell’Est o del Sud del mondo circolavano liberamente per le strade, causando disagi alle e agli abitanti, aumento del traffico di veicoli (una vicina di casa di casa aveva fatto il conto che in un’ora erano passate sotto casa sua non so quante macchine!più di cento forse), oltre a problemi di igiene e di decoro. Di notte dentro i piccoli giardini che circondano le case di Via Piave veniva gettato di tutto: fazzoletti sporchi, preservativi, cicche, lattine, pannolini ecc. La gente era come inferocita e chi prendeva la parola cominciava sempre così: “Non sono razzista, però …”. Allora quelle di noi che si trovavano coinvolte in questo genere di problemi, hanno attivato una pratica di ascolto, senza voler avere ragione e dire l’ultima a tutti i costi, perché certi problemi, questo lo abbiamo capito bene, non sono risolvibili, o non lo sono immediatamente, ci vogliono le mediazioni giuste; però la gente si può ascoltare, si può cercare di capire e, invece di dire a quelli che protestano: “vergognatevi, siete razzisti, egoisti, incapaci di solidarietà!” o proporre loro ideali impraticabili, come facevano i partiti della sinistra o i giornali locali che scrivevano a titoli cubitali insulti e parole cariche di disprezzo nei confronti degli abitanti, noi ci siamo collocate dalla parte della comunità ospitante per cercare di capire le cose tenendo conto di questo punto di vista, ma soprattutto per portare il conflitto ad un livello più alto.
Così abbiamo iniziato un’azione che dal locale ci collegava ad un contesto più ampio, perché vedevamo che i problemi che avevamo noi li avevano anche tante altre città in quel momento in Italia e in molte parti del mondo. Iniziava la globalizzazione. Dal momento in cui abbiamo preso la parola pubblica e ci siamo poste come voce autorevole di donne che avevano a cuore la città, siamo state invitate a parlare in molti altri luoghi, nei paesi vicini a Mestre e in altre città, suscitando sempre un vivo interesse e molto riconoscimento. Non eravamo delle docenti universitarie o funzionarie della politica istituzionale che arrivavano con una relazione da esporre, ma parlavamo a partire dall’esperienza, ci ponevamo come “vicine di casa” appunto, come donne che avevano deciso di far fronte al disordine nella propria città e scommesso sulla qualità dei rapporti per restituire senso al vivere quotidiano. Da qui una rete sempre più fitta di relazioni.
Con le Vicine di casa ho potuto sperimentare l’efficacia di una lingua che nominava in termini semplici, concreti, vicini all’esperienza la realtà dei grandi problemi del mondo attuale. Quegli anni di forte esposizione pubblica sono stati molto appassionanti.
La pratica del vicinato si poneva come una politica che andava bene a uomini e donne, un nuovo modo di fare politica che ci consentiva di avvicinarci ai problemi della nostra città, di ascoltare le ragioni diverse di uomini e donne, rendendoci capaci di mediazioni, di risposte positive e concrete anche nelle situazioni più difficili.
Poi nel 1996 – ’97 c’è stato un arresto, un conflitto. Proprio nel momento in cui avevamo raggiunto il massimo di visibilità e la scommessa delle Vicine di casa andava ulteriormente radicalizzata, rilanciata, proprio allora si manifesta in alcune di noi l’esitazione alla vita pubblica, si ripresenta l’estraneità dovuta ad innumerevoli motivi (un non sentirsi all’altezza della situazione, non saper stare alla realtà delle contraddizioni in quel momento) e nascono tra noi incomprensioni profonde: da un lato ci sono quelle che mettono al centro la città con i suoi problemi, puntando sulla parola pubblica e che scommettono sulla trasmissione della pratica di relazione in ambiti sempre più vasti, attraverso iniziative e dibattiti non solo nella propria, ma anche in altre città, dove sempre più spesso sono chiamate a parlare da gruppi, realtà politiche, istituzioni, dall’altra ci sono quelle che si sentono incalzate da un troppo “fare” e sono sempre più a disagio nello spazio pubblico, mentre privilegiano lo spazio dei rapporti e misurano ogni cosa che accade con il criterio dell’autenticità dei percorsi e il grado di consapevolezza raggiunta.
Donne che erano colonne portanti del progetto cominciarono a vacillare e ad avere dubbi sulla forza e l’efficacia della politica che stavamo facendo insieme.
L’esitazione alla vita pubblica, nominata in un articolo su Via Dogana da Lia Cigarini, non è una spiegazione sufficiente, secondo me, di questo impasse in cui ci siamo trovate. Ad un certo punto la vita pubblica sembrò ad alcune slegata a tal punto dal piano dei rapporti da risultare una finzione insopportabile. Ci fu una tacita separazione. Io, Luana, Nadia e altre abbiamo continuato a portare avanti in città una visibilità pubblica della differenza e da quel conflitto andiamo avanti. Oggi ci vediamo nelle case e utilizziamo gli spazi pubblici della città, la sala del quartiere, la casa dell’Ospitalità, la biblioteca del Centro-Donna, il Centro “Maria delle Grazie”, il Liceo Giordano Bruno. Tra noi ci sono quelle che puntano solo sul piacere e il sapere dei liberi rapporti e quelle, poche, che guardano da qui anche alla vita pubblica.
Il vincolo delle Vicine sono i legami fra noi. Io sento ancora molto forte il legame con Luana Zanella, come se ci fosse una promessa, una restituzione di senso che non si è realizzata pienamente, una ricchezza di cose capite e di esperienze fatte da rielaborare e rimettere in gioco.
Per quanto riguarda i problemi che abbiamo affrontato nel nostro percorso e che ancora ci vedono impegnate, ne elencherò alcuni:
Il riconoscimento di autorità e di competenza politica da parte di uomini, istituzioni, università, scuole, giornali, quartieri, enti, realtà del mondo economico. Il problema della giusta posizione da prendere rispetto alle istituzioni: non si può chiedere all’istituzione, sia questa il Comune, il Quartiere, la Scuola, finanziamenti e riconoscimenti pubblici. Spetta all’istituzione, che è fatta di persone, nomi e cognomi, formulare una domanda, promuovere autorità sociale, riconoscere figure sociali positive, capire, attraverso uno sguardo attento, ciò che si muove e genera cambiamenti positivi nel territorio. Chi amministra e governa la città coglie l’oro delle Vicine di casa, se noi sappiamo renderlo visibile e ne abbiamo cura come di un bene prezioso che non può essere posseduto, ma, per brillare e moltiplicarsi, ha necessità di passare di mano in mano. Questa ricchezza non ce l’abbiamo solo noi Vicine di casa, ma molta altra gente che in questi anni abbiamo intervistato, uomini e donne di grande valore, capaci di dare orientamento, di trovare soluzioni pratiche ai problemi. Bisogna che l’istituzione si guardi intorno e sappia valorizzare le competenze di donne e uomini che operano in città con coraggio, intelligenza e generosità.
Il conflitto con lo schema diritti – uguaglianza – democrazia è sempre aperto. I rapporti di differenza con gli uomini: c’è tutto uno stile di relazione che bisogna apprendere ed esercitare per poter intrecciare nuove forme di relazione con gli uomini. Le relazioni di differenza sono necessarie se si vuole costruire un mondo di donne e di uomini.
Un’altra questione ancora sono i rapporti con le donne giovani, per niente facili. Anni fa abbiamo scelto di puntare sulle donne giovani, abbiamo parlato con figlie adolescenti, nipoti, nuore, studentesse, colleghe, ricercatrici universitarie, ragazze impegnate nel volontariato e cercato di trasmettere loro una modalità diversa, più libera di essere donne. Secondo noi valeva la pena lavorare sulle relazioni con le giovani donne: si trattava di un investimento sul futuro. Ci siamo chieste quale fosse il modo migliore di consegnare alle giovani l’eredità delle Vicine, il sapere guadagnato nei rapporti. A volte però è accaduto che la giovane, mossa da risentimento e antagonismo nei confronti delle madre, dell’insegnante, delle donne più anziane, si sia sottratta alla misura femminile e abbia preferito rivolgersi ad una autorità maschile. Alcune giovani hanno tradito improvvisamente la fiducia riposta in loro e, non disposte a fare la fatica di sostenere il proprio desiderio, si sono spostate su un terreno più facile, neutro, rinnegando così le proprie simili.
L’impresa simbolica delle Vicine di casa è stata, ed è ancora per molte di noi, quella dell’educazione di figli, figlie e ora anche di nipoti (alcune di noi sono ormai nonne). Il “ritorno” di questa politica c’è quando la ragazza, ormai inserita nella vita adulta, capisce di essere stata sostenuta da mani, da sguardi e parole femminili e torna a dirlo o scrive una lettera in cui riconosce l’importanza che ha avuto nella sua adolescenza la figura delle vicine riunite intorno a sua madre, oppure quando l’ ex studentessa, divenuta imprenditrice o professionista, ringrazia l’insegnante a cui deve la sua formazione e la presa di coscienza. Ci sono delle tesi di laurea dedicate alle Vicine di casa, innumerevoli lettere scritte da madri a figlie e viceversa, benedizioni di matrimoni, commemorazioni di madri, sorelle o fratelli di alcune di noi che hanno reso meno dolorosa, altamente significativa la cerimonia laica di addio o il funerale religioso.
Serata dedicata alla storia orale russa e alla discussione del libro di Liudmila Kouchera Bosi La “chanson” russa
Nel 1975 in Francia è uscito un disco particolare, Blatnye pesni (canzoni della mala) cantate da Dina Verni. Come mai una baronessa di origine russa, ricchissima padrona di una galleria d’arte, moglie dello scultore francese Mayole, amica di Picasso e di Matisse si è dedicata al folclore della mala russa? La sua famiglia ha emigrato dalla Russia in Francia nel 1926 quando lei aveva sette anni. E’ tornata in Russia nel 1959, quarantenne.
Come era Mosca di fine anni Cinquanta? Dopo la morte di Stalin, nel 1953, sbocciarono i primi germogli della libertà, dai lager staliniani ritornarono detenuti politici. Tempi nuovi, canzoni nuove. Juz Oleshkovskij scrive il Canto a Stalin e Un mozzicone. In breve arrivano le prime registrazioni di Vysotskij, Galich, Okugiava e di altri cantautori. Dina Verni si incontra con pittori d’avanguardia: Kabakov, Bulatov, Rabin nonché con alcuni dissidenti. A ogni incontro si cantano le canzoni che seducono Dina. Ecco cosa scrive nell’annotazione al suo disco Blatnye pesni: “Il fascino della lingua, l’umorismo, la nostalgia e forza brutale insiti in quelle canzoni creano una poesia irripetibile dove la rozzezza confina con la tenerezza… L’io cantando è un detenuto in un posto lontano. La sua canzone vola come una rondine…” Incantata da quelle canzoni, Dina decide di produrne una raccolta. Però c’è un problema: come portare le canzoni fuori dall’Unione Sovietica? Non si poteva né trascrivere i testi, né registrarli su nastro magnetico, perché c’era pericolo delle perquisizioni alla frontiera. E Dina Verni impara a memoria 24 canzoni “registrate” nella sua testa. Così le ha portate in Francia e le ha cantate con la sua bellissima voce, calda e sensuale. Sono passati tanti anni dall’uscita di quel disco, di tanti dischi di vari cantautori e di autori ignoti. Ma rimanevano sempre in un limbo di underground come parte integrante del folclore metrapolitano che non aveva accesso né alla radio, né tanto meno alla televisione. Vivo in Italia da 29 anni e non ho avuto occasione di sentire questo tipo di canzoni russe. Poi, qualche anno fa, casualmente, durante un breve soggiorno a San Pietroburgo ho avuto qualche cassetta di registrazioni delle canzoni presentate come chanson 2 russa. Ne sono rimasta affascinata anch’io. Ricevute in dono da un giovane ex detenuto, ho portato a casa queste cassette, ho sbobinato le più belle e ho deciso di farle conoscere in Italia. Durante il lavoro di traduzione, assai difficile, ma veramente coinvolgente, ho trovato sull’Internet alcuni siti dedicati alle Blatnye pesni, al folclore della mala e ho ampliato la raccolta. Il volume intitolato La Chanson Russa, canzoni di delitto e castigo è stato pubblicato dalla Casa Editrice Polimetrica nel 2004 e include centodieci canzoni, suddivise in “capitoli” che raccontano la vita dei detenuti: Amicizia, Amore, Delitto, Destino, Donne, Evasione, Ingiustizia, Libertà, Malavita, Mamma, Reclusione, Tradotta, Humour. Tutti momenti importanti della vita dei pregiudicati e sentimenti umani universali: dolore e gioia, amore e odio, disperazione e speranza, sensi di colpa, e via cantando. La definizione La Chanson Russa è stata usata, pubblicamente, per la prima volta nel 1998, quando una nuova emittente radio di San Pietroburgo si è data questo nome: Radio Pietroburgo – La Chanson Russa. Un grande successo di ascolti! Due anni dopo, a Mosca, nasce l’emittente radio La Chanson. Così viene trovato il nome per un genere della musica popolare russa, genere che abbraccia vari sottogeneri – dalle canzoni di famosi cantautori alle blatnye pesni (canzoni della mala). Il genere Chanson viene studiato, si cercano le sue origini e le prospettive. In un articolo sul settimanale russo “Argomenti&Fatti”, N°30, 2001, troviamo questa definizione: “Il genere Chanson è la fusione della musica popolare, adattata all’ambiente urbano, cioè è folclore metropolitano”. Jurij Sevastianov, direttore di una compagnia che produce album della Chanson, scrive: “Chanson è la nostra musica nazionale. Prima la suonavano nei portoni, nei cortili con le chitarre acustiche, adesso magari con quelle elettriche”, e, aggiungiamo, alla radio e nei ristoranti. Grazie alla radio le canzoni del detenuto e della mala trovano la loro “visibilità” sonora, ed escono alla luce del sole. Milioni di persone le ascoltano andando col pensiero ai congiunti detenuti in attesa di giudizio o internati nelle colonie penali. Dalla radio, la Chanson approda sull’Internet e letteralmente lo invade. Adesso esistono migliaia di siti dedicati, i più famosi sono Rambler, Chanson russa, Shanson (sic!) russa, Blatnoj folclore, collegati tra di essi con un kolzo sajtov (anello di siti). Questi siti contengono un oceano di materiale biografico, auto3 biografico, bibliografico, articoli sull’argomento, testi e musica delle canzoni, sia quelle dei famosi cantautori che quelle anonime, di autori rimasti ignoti per il rischio di esporsi oppure perché tramandate dal folclore musicale: storie delle “gesta” dei malviventi, storie di delitto e castigo, canzoni di lamento e di denuncia, ma anche di allegria spensierata. Musicalmente, molte canzoni sono alquanto orecchiabili e non per questo prive di struggente lirismo. Sono accompagnate spesso da una chitarra, da un gruppo di pochi elementi o da un’orchestrina. Molte canzoni entrarono nella vita della gente tramite i film, commedie musicali, e diventarono popolari. Se la canzone della mala e la canzone del detenuto convivono con naturalezza e talvolta addirittura si confondono, dobbiamo tener presente che un delinquente e un detenuto non sono necessariamente la stessa persona. Molte canzoni appartenenti a questo genere venivano definite “blatnye” per distinguerle da quelle “ufficiali”, scritte da compositori del “realismo socialista”, che esaltavano in questo modo il lavoro di operai, contadini, minatori, marinai ecc. Il folclore della mala (blatnòj fol’klòr) esiste da sempre, come esiste da sempre il mondo della malavita con la sua storia, la sua sottocultura: il gergo furbesco, i simboli dei tatuaggi, una narrativa orale e, soprattutto, la canzone. Si conoscono le canzoni dei reclusi, degli ergastolani che facevano parte del folclore dell’epoca zarista, del periodo pre e post rivoluzionario, del periodo sovietico e post sovietico. Esistono anche canzonette di cortile cantate perfino da fanciulli. Chi di noi non aveva conosciuto e cantato “Pollastro arrosto, pollastro tosto”? In effetti, fanno parte della Chanson russa anche le cosiddette canzoni degli internati (làgernyje pésni) che non sono per forza canzoni della mala, perché nei lager venivano e vengono internati non solo ladri, assassini, stupratori, furfanti, truffatori, ma anche condannati per reati politici o civili (bancarotta fraudolenta, contrabbando, abuso di potere, teppismo, spaccio di droga, reati ecologici, reati informatici, ecc.). Molte canzoni erano clandestine e si cantavano in modo sommesso perché non venissero ascoltate da qualche delatore. Una canzone poteva costare dieci anni di lager stalinista. La più famosa e la più pericolosa per chi l’aveva scritta o la cantava, tra le 4 canzoni diffuse tramite “samizdat”, è “Canto a Stalin” di Juz Ale.kovskij. Juz Ale.kovskij è nato a Krasnojarsk (in Siberia) nel 1929, in una famiglia ebrea. Aveva fatto vari mestieri, fra cui il marinaio e l’autista, scrisse poesie e libri per bambini. Nel 1947 fu chiamato a fare la leva nella flotta militare. Dal 1950 al 1953 fu internato in un lager. Nel lager Ale.kovskij finì non per motivi politici, ma per furto di un’auto che doveva servire a lui e ai suoi commilitoni per tornare in ora-rio dalla licenza domenicale. Furono fermati da una pattuglia di milizia e condannati. Fu amnistiato nel 1953, dopo la morte di Stalin. Dall’esperienza diretta di recluso di un lager staliniano nacque nel 1959, a Mosca, Canto a Stalin, una coraggiosa denuncia contro il culto della personalità del Grande Capo, Grande Stratega, Grande Studioso. Era una canzone beffa, una satira feroce, una canzone denuncia delle purghe staliniane, dei campi di lavoro del GULAG. Forse è la canzone russa più popolare in assoluto, la conoscevano tutti senza sapere il nome dell’autore. Il Canto a Stalin fu pubblicato soltanto nel 1988, sulla rivista letteraria “Novyj mir”. Il più famoso e il più amato cantautore russo è Vladimir Vysotskij (1938-1980), grande poeta, attore di teatro e di cinema. Ha composto e interpretato con la sua chitarra più di seicento canzoni! Nei suoi testi Vysotskij attingeva alla tradizione della romanza metropolitana russa. Nel ciclo di canzoni della mala Vladimir Vysotskij cambiava con facilità le maschere sociali: ora era un beone o un pregiudicato, ora un picciotto o un detenuto. I fatti narrati erano sempre talmente credibili da dar l’idea di aver realmente subito le angherie dei lager staliniani. Vysotskij è morto giovane, stroncato dalla droga e dall’alcool, ma la sua voce rauca e bellissima, come le sue canzoni geniali rimangono vive, senza perdere il loro fascino, suscitando ancora la commozione e i sentimenti di sempre. Katja Ogonjòk (vero nome Kristina Pojarskaja) è nata a Giugba, una cittadina sul Mar Nero. Cominciò a cantare a 16 anni nei gruppi pop. Poi una disgrazia, un incidente in macchina per cui fu condannata a tre anni di colonia penale. Nel lager continuò a cantare, trovò dei produttori e le sue canzoni ambientate nella zona volarono in tutta la Russia. Lei che ha vissuto l’esperienza della prigionia sulla propria pelle, racconta le storie che girano 5 nelle colonie femminili al cantautore Vja©eslàv Klimenkòv che in seguito scrive per lei testi e musica. Ha una voce calda, sensuale. La registrazione dell’album “Taigà bianca” è stata effettuata in uno studio mobile all’interno del campo penale a regime rigido della città “chiusa” Leninsk-13, in Siberia. Il 6 novembre 1998 Katja Ogonjok è stata liberata anticipatamente dopo aver scontato due anni, nove mesi e diciassette giorni. Katja Ogonjok (“fiammella”) è uno pseudonimo, nel gergo della mala “ogonjok” vuol dire “bisca”, ma anche “pistola” e “accendino”. Adesso la cantante è molto popolare ed amata, riceve un’enorme quantità di lettere da ogni parte della Russia. Attualmente Katja Ogonjok vive a Mosca, dove sta preparando, nell’ambito del movimento “Kalìna kràsnaja” (“Viburno rosso”) una tournée di beneficenza in varie prigioni della Russia. Nella sua prima intervista, rilasciata nel campo di detenzione di Leninsk-13 il 7 ottobre 1998, Katja Ogonjok dice: “Io continuo a cantare canzoni, questo mi dà molta soddisfazione e fiducia nei buoni rapporti tra le persone; mi aiuta a vivere, sperare, credere ed amare. Ascoltatele, in esse c’è la mia anima, il dolore e l’affetto per voi. L’uomo può adattarsi a tutto, tranne che all’ingiustizia. Miei cari, voglio bene a tutti voi. Siate felici, ma soprattutto, siate liberi!” Purtroppo in una breve presentazione è difficile parlare di tanti altri cantautori del genere Chanson russa. Anche se in molti considerano queste canzoni popolari di serie B, fanno parte della cultura russa, sono amate e cantate oggi come anni fa, perché esprimono sentimenti umani universali.
relazione di Serena Fuart
Dal 31 marzo al 2 aprile Il Circolo della Rosa ha ospitato una mostra di artigianato palestinese (ricami e tessuti) organizzata da Adele Manzi, amica di Stefano Sarfati Nahmad, la quale ha trascorso parte della sua vita in Libano fra le palestinesi profughe.
Sabato 1 aprile, Luisa Muraro e Stefano Sarfati Nahmad hanno dialogato con Adele Manzi per parlare e ragionare sui problemi del popolo palestinese, ponendo speciale attenzione alle donne.
Tra gli argomenti trattati, il delicato lavoro di mediazione in situazione di conflitto; le figure mediatrici, protagoniste di questo delicato compito che viene portato avanti valorizzando cultura e memoria. Si è parlato di ricamo naturalmente, una delle vie della mediazione, che favorisce l’incontro tra le donne, lo scambio culturale, il ritorno alle origini.
E’ Luisa Muraro a dare inizio alla discussione introducendo uno dei temi della serata, la figura delle mediatrici, argomento su cui lei, a partire dalla sua esperienza e in relazione alla vita e al lavoro di Adele Manzi, ha riflettuto personalmente arrivando a delle considerazioni che toccano il suo modo di sentire e la politica che fa.
“Ho capito qualcosa che mi riguarda, riguarda il mio modo di sentire e la politica che faccio. Come ho spiegato ad Adele, non sono dedita alla causa palestinese, sono concentrata qui, su noi e l’agire politico. Una delle caratteristiche di queste figure mediatrici è che lavorano spesso nell’ombra, anche se non tutte, come il primo ministro svedese, Olof Palme, ucciso in circostanze poco chiare.
Per arrivare al punto, le mie riflessioni mi hanno portato a pensare che queste persone non abbiano il cuore abitato essenzialmente dalla causa della giustizia, dal proposito di farla. Il loro atteggiamento è diverso, ci hanno rinunciato. Sono rimasta colpita dal linguaggio di Ricamare una vita, la dispensa che Adele mi ha fatto leggere, in cui racconta della catastrofe del 1948, anno in cui il popolo palestinese ha dovuto lasciare traumaticamente le sue terre, i villaggi, i campi. Quello che mi colpisce nel linguaggio usato è la totale assenza di parole di protesta.
Penso a me che sono stata militante politica nel senso classico della parola. Ricordo una serata alla Casa della Cultura, in cui ho pronunciato parole terribili in difesa del popolo palestinese, contro le decisioni, i poteri e tutto quello che era stato fatto loro. Ricordo anche gli applausi degli studenti siriani presenti. Quello che mi muoveva era la volontà che si facesse giustizia, che chi ha subito un torto avesse riparazione”.
“Le figure mediatrici sono differenti – continua Luisa Muraro -. Queste persone mettono d’innanzi qualcos’altro, a costo di mortificare la loro volontà di giustizia. I temi della giustizia sono questioni che sanno e che sentono ma non proclamano, stando in una sorta di mortificazione, anche se non so se mortificazione sia la parola appropriata.
Ritengo che, in questo lavoro di mediazione, un ruolo molto importante lo abbiano le parole. Parole che possono essere non necessariamente di mezzo, cioè dare un po’ ragione all’uno e un po’ all’altro. In questi conflitti estremi e polarizzati è necessario che ambo le parti facciano uno spostamento”
A proposito del lavoro di Adele Manzi e, come del suo, quello di tanti altri, Luisa Muraro continua il suo intervento sostenendo che “si tratta di un impegno accompagnato sempre dalla fedeltà della memoria. Il ricordare, il dire senza accuse, è un atto dovuto a chi ha patito un torto, a chi a sofferto.
Il lavoro di Adele Manzi ha il principale scopo di far conoscere e raccogliere le testimonianze delle donne palestinesi dei campi profughi nel Libano”.
Il suo impegno però è anche culturale con la mediazione della bellezza, continua Luisa facendo riferimento al lavoro del ricamo. “Queste produzioni in sé belle, pacifiche, serene e festose, creano anch’esse una sorta di mediazione, ci fanno vedere la bellezza di un’arte femminile. Questi lavori in mezzo a noi questa sera portano traccia di colori e di festa in un Paese e in un contesto completamente diversi. E’ come spostare il mio, il nostro pensiero, verso momenti, luoghi, sentimenti di festa, gioia, di collaborazione. Questo secondo me è opera di mediazione”.
L’intervento successivo è di Stefano Sarfati Nahmad che racconta d’aver conosciuto Adele durante una manifestazione, rimanendo colpito dal fatto che avesse lavorato per trent’anni accanto alle donne palestinesi.
“Conosco parecchie persone molto impegnate in politica, tuttavia incontrare una donna dall’apparenza così fragile ed esile che, con poche parole, mi ha testimoniato un’intera esistenza a favore di un’idea che in quel momento portava alle persone per strada sfilando, mi ha colpito parecchio. Ho scoperto in seguito che conosceva Luisa Muraro e siamo arrivati all’appuntamento di questa sera”.
Riguardo quanto detto da Luisa Muraro sulla figura della mediazione, Stefano cita un’altra donna: “per me – dice – , una persona di un certo calibro per quanto riguarda la sua capacità di mediazione: Manuela Dviri Norsa. Si tratta di una figura di una certa, direi, anche forse ambiguità: è contestata infatti da molti per il lavoro che fa. Il suo progetto è aiutare i bambini palestinesi che hanno subito dei traumi fisici tramite un istituto ospedaliero israeliano. Il suo scopo è quindi convogliare soldi per questa causa, cosa contestata da molti genitori palestinesi, i quali sostengono che i soldi non dovrebbero andare agli israeliani i quali, ‘prima gli ammazzano e dopo gli aggiustano’ accusa che io non le muovo ma che ho sentito farle. Personalmente leggevo i suoi articoli sul Corriere della Sera finché non ho smesso di accettarli a causa della sua moderazione, sembrava non prendesse posizione”
Stefano racconta poi d’averla conosciuta personalmente e intervistata. “Un’esperienza molto interessante. In quell’occasione ha preso posizioni nettissime, posizioni che ebrei e italiani considererebbero radicali, addirittura antisemiti. Tra i suoi progetti quello di far ricamare camicie fatte in Israele da donne palestinesi. Il suo scopo era mettere in contatto le due genti, perché secondo lei, l’unica soluzione è mettere in contatto i popoli, favorire l’incontro. L’ho ricordata perché, anche lei, sul tema del ricamo ha creato una mediazione.
Io sono qui oggi in quanto ebreo che ha a cuore la causa dei palestinesi. Questa dei palestinesi è una questione che urla vendetta. Mi è capitato una sera di vedere la trasmissione di Giuliano Ferrara durante la quale è intervenuto un ebreo dalla Svizzera. Questo sosteneva che: “in fondo le guerre israeliane sono state delle guerre costruttive. Alla televisione passano invece notizie di fatti inaccettabili, indicibili. Quelle parole però hanno un percorso: la vita in Palestina è invivibile e inaccettabile, è una diaspora, nemesi storica per mano ebraica, ma in tv è strumentalizzata in maniera indegna. Questo si ritorcerà contro Israele”.
Quello che io vorrei raccontare questa sera è qual è il percorso umano di un ebreo che appoggia i palestinesi, quando la triste realtà è che la maggior parte degli ebrei si identifica con Israele, nello Stato di Israele difendendo l’indifendibile. Un paragone che viene spesso fatto a proposito di questa questione è quello di una madre che difende il figlio stupratore. Il mio percorso è stato quello di uscire dalla mera identità ebraica e dedicare semplice buon senso. Partecipando poi alla vita della Libreria delle donne, parallelamente, ho fatto un altro percorso che mi porta a giocare un po’ fuori casa, ovvero quello di uomo che si interessa alle cause delle donne. Concludo ritornando sulla figura delle medianti. Questi percorsi si possono fare in presenza di alcune particolare persone che di solito sono donne”.
La parola passa poi ad Adele Manzi.
Adele è una delle fondatrici di Najdeh (termine che significa ‘soccorso’), un’associazione non governativa nata dopo la caduta di Tell el-Zatar, campo di rifugiati palestinesi che si trovava nella zona del Libano cristiana (l’altra è musulmana). L’associazione opera in questi campi in Libano per contribuire a soddisfare i bisogni più urgenti: scuole materne, centri di formazione professionale, alfabetizzazione e sostegno scolastico, assistenza alle famiglie, creazione di possibilità di lavoro. All’interno di questa sono nati laboratori di ricamo che non soltanto hanno un ruolo economico ma consentono alle generazioni nate in esilio di riappropriarsi di uno degli aspetti della cultura di origine. I loro prodotti sono recentemente entrati nel circuito del Commercio Equo e Solidale con l’etichetta Al Badia.
Adele Manzi inizia il suo intervento raccontando di quando nel 1975 ha preso la decisione di lavorare con donne palestinesi rifugiate in Libano. “Lo volevo da molto tempo ma l’ho deciso in quell’anno quando c’è stata la caduta di Tell el-Zatar. In quell’occasione la gente è stata decimata, si è trattato di un massacro. Molti uomini sono stati trucidati e portati via mentre sono state lasciate partire le donne e i bambini”.
Adele Manzi spiega come si proceda in questo tipo di progetti “Per creare un gruppo che lavora nei campi palestinesi bisogna avere la protezione di un partito palestinese. Noi siamo stati appoggiati da una fazione palestinese che però non ha mai approvato gli attacchi al di fuori delle terre conquistate”
Per dare l’idea della situazione, Adele Manzi fa due esempi.
“Per le attività di ricamo ci siamo appoggiati a dei cataloghi di ricami palestinese conservati nei vari musei del mondo, il primo è stato, paradossalmente, in America.
Una amica belga che lavorava a Betlemme ci ha mandato un piccolo album stampato in Israele. Si trattava di una raccolta di differenti motivi che cerchiamo di fare anche noi, creando un album che ha circolato e che è stato copiato dal suo. Ad un certo punto questo album è scomparso. Forse in quanto proveniente da Israele e in cui la parola Palestina non compare. L’unica scritta che c’era era arabesque, anche se non si trattava di questo”.
Adele parla poi della responsabile generale di Najdeh, che, in Francia, ha visitato due associazioni francesi, una protestante e una cattolica. Queste due realtà l’hanno messa davanti una scelta, che lei ha accettato, ovvero incontrare due israeliani. Il primo è Eitan Bronstein, fondatore di un’associazione israeliana che si chiama Zochrot (di cui si parla in seguito,ndr). Una delle condizioni di questo incontro era indagare la sofferenza e i torti subiti da parte del popolo palestinese. Questa associazione, tra le ultime nate dei numerosi movimenti pacifisti israeliani, ha, tra gli scopi, quello di dare al pubblico israeliano una conoscenza storica di quello che è successo nel ’48. Il loro impegno è visitare i luoghi quali ad esempio, un kibbutz (villaggio israeliano costruito sulle rovine di un villaggio palestinese, ndr) e mettere delle lapidi che ricordino cosa c’era in quel luogo prima del ’48.
Eitan Bronstein è sostenitore dell’idea di non paragonare il ritorno degli ebrei in Palestina con quello dei palestinesi in quanto il ritorno degli ebrei è stato realizzato con l’espulsione di una gran parte dei palestinesi. La pace non è possibile se gli israeliani non riconoscono questa immensa ingiustizia.
L’altro israeliano, membro di Peace Now, su questo non era d’accordo. Si è discusso e la giovane palestinese, responsabile dell’Associazione ha accettato di dialogare.
Ritornando al tema del ricamo, Luisa Muraro interviene chiedendo ad Adele se nei ricami sia possibile identificare una sorta di linguaggio “Hai parlato di questi ricami e di persone che hanno prodotto cataloghi e raccolte, anche in America ed Europa. E’ possibile che, in questi ricami, figure e motivi, ci sia un linguaggio? E’ possibile che chi ha la cultura di questi riconosca le figure?”
Adele risponde che è difficile parlare di linguaggio. Racconta che a Damasco, una signora tedesca, abile ricamatrice che fa lavorare le donne palestinesi, ha scritto un articolo sull’origine dei questi ricami. “C’è una quantità grossa di ricami – dice – e la loro origine è molto controversa. Una figura ricorrente comunque sono i cipressi”.
Dal nord al sud della Palestina ci sono caratteristiche diverse, ha detto poi. “Bisogna immaginare che la Palestina era un paese moderno: c’era una ferrovia che lo attraversava interamente, era aperto all’occidente, e prima ancora con i paesi arabi e con la Siria. C’è stata una contaminazione con l’occidente. Quando qualcuno mi porta un modello di un certo ricamo, a volte riconosco che è stato copiato. Il fatto di copiare è avvenuto quando si è cominciato a ricevere dall’estero, assieme ai fili da ricamo, anche i cataloghi”.
“Quindi quella palestinese è una cultura viva – continua Luisa Muraro: “tutte le culture – dice – hanno una continua capacità di contaminarsi anche se è vero che esiste parallelamente un lavoro di conservazione. Nonostante questo però le persone sono liberamente esposte a sollecitazioni da altre parti. Una cultura è vera quando si apre ad acquisire”.
Adele Manzi racconta allora a Luisa quanto sia interessante vedere sugli antichi modelli da loro usati delle tracce di altre culture. “La Palestina – dice – è stata una paese di passaggio, di scambi culturali. Ci sono forme di cipressi che sembrano copiati dalle maioliche iraniane. Ci sarebbe tutto uno studio da fare…”
La parola passa poi ai numerosi partecipanti intervenuti.
Laura Minguzzi pone una questione sul linguaggio del ricamo “I ricami sono tutti fatti con la tecnica del punto croce: c’è un particolare significato simbolico legato all’uso di questa tecnica?”
Adele Manzi risponde che il punto e croce non è la sola tecnica usata anche se comunque molto diffusa. “Il punto e croce non ha nessun significato simbolico, è però la tecnica più facile da eseguire”.
Adele parla anche di un altro punto, quello con il cordoncino fissato per fare dei geroglifici. Questo punto permette di realizzare figure tonde e di crearne molte altre.
Vita Cosentino chiede ulteriori informazioni sull’attività delle donne nell’associazione. In particolare, in che modo si ritrovano insieme, se discutono, come decidono le cose.
Adele risponde che l’associazione è stata fondata con lo scopo di occuparsi delle donne.
“Abbiamo chiesto alla popolazione interessata cosa desiderasse venisse fatto. C’era bisogno in primo luogo delle scuole materne, luogo che protegga i bambini dalla vita delle strade. Ed è la prima cosa che abbiamo fatto, occupandoci poi anche della formazione professionale delle adolescenti per permetter loro di entrare successivamente nel mercato del lavoro.
Abbiamo poi pensato di favorire la socialità di queste donne facendole lavorare insieme. Abbiamo quindi creato dei piccoli laboratori in cui loro possono lavorare: c’è una donna che distribuisce le consegne e insegna il lavoro. Il fatto che le donne si raggruppino rende possibile l’emergere dei problemi che possono così essere discussi tra loro. Questo ha reso possibile il crearsi di una socialità tra loro. L’associazione si occupa inoltre di dare una formazione culturale e anche politica”.
Lucia, una delle partecipanti, racconta di aver conosciuto Adele in Libano durante un viaggio in cui il loro scopo era cercare di capire la realtà dei campi profughi palestinesi.
“Quello che mi è sembrato di capire delle donne palestinesi e anche degli uomini – dice Lucia – è il fatto che vivano con il sogno del ritorno, ritorno alla loro casa, terra, campi. Il ricamo è anche un modo che hanno per capire, prima di tutto, chi sono, qual è la loro identità, da dove vengono.
Quasi tutti i ricami richiamano abiti di donne, diversi a seconda dei villaggi. Nei ricami ricostruiscono il luogo d’origine, trasmettendolo così anche alle giovani che non sono mai state in Palestina. Giovani che non la conoscono e che la sognano secondo quello che vien loro trasmesso dalle generazioni precedenti. La funzione del ricamo per loro non è soltanto di riunirle, ma anche di far conservare la propria identità. E’ importante mantenere le tradizioni, capire da dove si viene. I ricami hanno questa funzione indispensabile, ovvero mantenere la tradizione, cosa fondamentale soprattutto per chi è sradicato dalla sua terra e vive in un altro posto, in condizioni dei campi profughi. Condizioni che comportano tutta una serie di problemi, tra cui il fatto di non poter esercitare la propria professione pur essendo pienamente qualificati, questione in cui il problema dello sradicamento diviene particolarmente evidente.
“Quindi possiamo dire che il ricamo sia diventato un linguaggio del ritorno, del radicamento in certi posti – conclude Luisa Muraro – . Si tratta quindi di un richiamo, una forma poetica di collegamento di origini, ai luoghi di provenienza, un modo di spostare il patimento dello sradicamento in qualcosa che lo raffigura.”
L’associazione Zochrot
Nell’intervento del prof. Federico Lastaria si è parlato più dettagliatamente dell’associazione Zochrot
“Si tratta di un’associazione di israeliani che pone come prioritorario il tema del ricordo. Ricordo della Nakba, cioè dell’espulsione dei palestinesi nel ’48. La scelta del nome, Zochrot, ha anche un suo significato. Si tratta di una parola ebraica che significa coloro che si ricordano, ed è una parola declinata al femminile. La scelta di un nome femminile, anche se l’associazione è composta sia da uomini che da donne, ha lo scopo di colorare al femminile il ricordo della Nnakba, dargli un senso non militaristico, valorizzando aspetti quali l’accoglienza, caratteri questi, più tipici dell’animo femminile che di quello maschile.
L’associazione ha quattro anni, è sorta nel 2002. Ad esempio nella città di Ashkalòn che oggi si chiama Mischendorf/Pinkamiske, l’associazione si impegna a giustapporre, non sostituire – precisa – i nomi delle vie attuali con la denominazione araba che c’era prima del ’48, oppure, sulle rovine di villaggio arabo distrutto si mettono delle targhe indicanti quello che c’era prima. Il tema della memoria è importante perché se non comprende la questione dell’espulsione nel 1948, non si capisce molto dei palestinesi. L’altro punto su cui si impegna l’associazione è di ricordare in lingua ebraica. Non è la stessa cosa ricordare il dramma dei palestinese in inglese o in ebraico, bisogna parlare al femminile e in ebraico perché è la lingua che gli ebrei prediligono per riflettere”.
In uno degli ultimi interventi Annamaria di Ciommo racconta come i temi della serata le abbiano fatto ricordare la sua infanzia. “Mia mamma – racconta – mi mandava dalle zie a ricamare e imparare il punto e croce. Era il momento in cui tutte le zie giovani mi insegnavano la storia della famiglia e insieme ai ricami imparavo l’arte della pazienza: scucire, ricucire e fare le cose nel migliore dei modi. Attraverso le nostre conversazioni e i loro racconti ho imparato la storia di tutti i miei parenti. Si trattava di momenti ricchi, ero circondata da zie molto giovani. Questo fatto comunque non credo fosse proprio solo della mia famiglia. Vivevo ad Avello in provincia di Potenza. Queste esperienze sono forse tipiche della cultura mediterranea”
Luisa Muraro conclude la serata con la considerazione che la pazienza è la virtù principe delle figure mediatrici che lavorano nell’ombra. “In tutti i grandi conflitti ci sono queste figure di persone che, tra le virtù, sommano tenacia e pazienza”.
Luisa Muraro ringrazia Laura Minguzzi per la cura e l’amore con cui ha accolto al Circolo della Rosa la manifestazione e la mostra di Adele Manzi e dell’associazione Najdeh.
Per chi fosse interessata-o è disponibile in visione un CD-ROM della mostra “Ricamare una vita”, realizzato da un’amica di Adele Manzi durante l’esposizione dei tessuti ricamati.
Mercoledì 8 marzo 2006 al Circolo della rosa di Milano si è discusso di questi temi a partire dal libro di Anna Santoro certincantamenti (Marsilio 2005).
La poesia cosa aggiunge alla politica e all’economia?
Si può farne una pratica politica?
Che misura porta al consumo (-ismo) culturale?
Come riesce ad afferrare la materialità pulsante della vita?
La discussione è stata avviata da Luciana Tavernini, di cui riproduciamo l’intervento introduttivo. Clelia Pallotta ha letto le poesie citate e Anna Santoro ha interloquito con le presenti.
di Luciana Tavernini
Le riflessioni di oggi sono frutto di una pratica di lettura dei testi che pone in relazione le risonanze che essi provocano in me. Io mi colloco nel “tra testi”, testi che risuonano come voce viva di chi li ha scritti. Questa pratica di mettere in contatto è quella che seguo anche con le persone che conosco, fa nascere del nuovo che poi percorre strade a me ignote, pone in movimento.
Più che con la critica letteraria ha somiglianze con l’alchimia, tanto cara a María Zambrano, o più modestamente col mio modo di cucinare. Utilizzo ciò che ho a disposizione, compreso il tempo e come mi sento e sento in quel momento, e le centinaia di ricette che ho in mente e qualche nuova che cerco al momento, e poi unisco il tutto per creare qualcosa che, a giudicare dal modo con cui i miei annusano e scoperchiano le pentole, se non è già in tavola, risulta gradita. Non si tratta di proporre interpretazioni univoche quanto di accostarsi e di accostare, dicendo le ragioni della vicinanza scoperta perché altri e altre siano spinti a dire le loro.
Le poesie di Anna Santoro mi hanno accompagnato in questi mesi, facendo balenare domande e contatti con quello che udivo negli incontri qui in Libreria e spingendomi a leggere fino in fondo e più a fondo alcuni testi . Mi riferisco a Filosofia e poesia di María Zambrano, a Pro e contro la bomba atomica della sua amica Elsa Morante, a Una filosofa innamorata di Annarosa Buttarelli, a La diferencia sexual en la historia della mia amica e maestra Milagros Rivera y Garretas, a L’aspetto orale della poesia di Ida Travi e al più bel testo che io abbia letto sulla depressione, o meglio malinconia femminile e le sue cause individuate attraverso l’incontro con figure letterarie, e cioè La scrittura del deserto di Wanda Tommasi.
Proprio per la mia passione per la storia vorrei partire da una riflessione sulla memoria che Pina De Luca , nell’introduzione a Filosofia e poesia, trae da Zambrano. “All’origine della memoria c’ è la ricerca di qualcosa di perduto e irrinunciabile […] qualcosa che esige di essere nuovamente guardato.” Guardare di nuovo ha il senso del far rinascere, del restituire pienezza di vita a ciò che si è lasciato passare e si è visto solo a metà. Ridare tempo, far sì che ciò che “fu a malapena vissuto, riacquisti il tempo che gli fu sottratto”.
La memoria produce “una lentezza capace di assecondare la fatica di nascere di cose e pensieri rimasti inespressi o incompiuti per misconoscimento di un tempo che è in sé plurale e diversificato”, perché vi è la necessità di un presente ampio, capace di contenere quel che è stato accantonato nel tempo accelerato di oggi. “Compito del pensiero deve essere accogliere nel proprio presente i tempi disparati che profondamente gli appartengono.”
Anna nella poesia Ti sminuzzo memoria (p. 9) mette in luce il bisogno di nutrirsi di quella parte del passato, quella che non si impone, “mai dominante”, per dare un senso al presente; e il doloroso lavoro del scegliere, l’esitazione tra la memoria dominante, consolatoria direi io, e la migliore, la più cruda e dolorosa, difficile da agghindare, quella che può davvero lenire “il frastuono dei pianti e dei silenzi” .
Perché il dolore è anche ciò che ci fa percepire il reale, come segnalava Artaud, che abbiamo riscoperto nell’emozionante mostra al PAC , appena conclusasi. E di nuovo Anna in A volte è un fruscio lieve (p. 34) lo ha ben presente. Il dolore “un fruscio lieve/ un battito d’ali di farfalla nelle tempie/” mentre lei vive, “badando a scostare dalla testa/ lampi di pensieri/”, le rende presente il corpo e l’intelligenza del reale che comporta. Porta all’ accettazione “dell’essenzialità della vita, colta nelle sue componenti più semplici”, quella che la Bachmann chiama “l’omelia del deserto”. Come ci racconta Wanda Tommasi, quello che salva la protagonista del Libro del deserto è il lasciar affiorare l’elementarità del bisogno, “il mistico congiungersi di inspirare ed espirare, camminare e riposare, l’alleluia della sopravvivenza nel nulla”.10 Così, più gioiosamente, Santoro, consapevole del pericolo di cadere nell’ elegia della sofferenza come se essa fosse l’unica possibilità per arrivare alla conoscenza, in Nulla ci è dato intendere (p. 11) ci presenta l’elementarità della vita nell’erba viva che “ha tepore di polpastrelli/ lungo il corpo”, nell’aria azzurra alle tue spalle. Tutto è sì breve, ma il tempo è lungo dentro di noi.
Con l’ultima poesia si presenta un’ulteriore riflessione sul tempo, vicina a quella di Zambrano, un senso del tempo che potremmo dire “estasi del presente”. Come dice Annarosa Buttarelli, mutuandolo da Zambrano, “estasi intesa come stato di continua e necessaria relazione con ciò che è qui e ora così da rendere il tempo incessantemente presente […] verso cui ci si può disporre in una relazione vivente che ricerca senso mentre le cose accadono e mentre le cose parlano: una relazione di ascolto in compresenza.”11 Quello che noi chiamiamo politica del simbolico e che consente di “svolgere uno speciale servizio all’umanità: offrirsi – offrire le proprie letture di ciò che accade”.12
Presente quindi non come “sinonimo di attualità, perché se tutto fosse attualizzato, esaurito nella potenzialità di essere, non ci sarebbe lo spazio per portare alla luce l’invisibile del presente, invisibile che spesso si offre come una possibilità non percepita dal senso comune. Inoltre, nel presente restano e resistono frammenti di altri tempi e tutto si gioca nella capacità di saperli leggere, slittando su un piano non aderente al presente stesso. Questo tipo di slittamento senza sradicamento e senza fuga è ciò che sembrano fare più donne che uomini […]”.13 E’ ciò che ci permette di tenere vivo il rapporto con le giovani e i giovani. Come dice Anna in Alla tua età – amore mio – (p. 78), dedicata a suo figlio e che io, a mia volta, ho inviato al mio, occorre “farsi trafiggere il cuore” nel riconoscere in loro ciò che è rimasto vivo del nostro passato e renderlo perciò ancora vivo.
Infatti, come dice Elsa Morante in Pro e contro la bomba atomica, e come ci ha ricordato in modo appassionato Francesca Comencini14 quando ci ha presentato il suo documentario sulla scrittrice, allo scrittore, al poeta “sta a cuore tutto quanto accade”, e aggiunge “fuorché la letteratura”.15 Interessa il reale.
“Il realismo è uno sguardo ammirato sul mondo che vi si depone senza pretesa di ridurlo a qualcos’altro.”16 Tale ammirazione disinteressata è un essere innamorati del mondo, è un legame amoroso senza che vi sia la violenza del possesso, è cura e attenzione. Questo sguardo innamorato, che a volte ci riempie di felicità perché anche la grazia e l’allegria ci aprono strade di conoscenza, lo ritrovo in Essere felice da parlottare da sola (p. 28) dove “/nulla c’è di nuovo eppure…/forse il sole la luce dietro gli alberi/ quel cane/.
Significa dunque entrare in relazione con la materia “ardosa y creadora”.17 Questa materia che, come ci insegna la medievista María-Milagros Rivera y Garretas18, nella cosmogonia feudale era intesa come materia prima, principio creatore femminile accanto a quello maschile. Questa dottrina, nei secoli XII e XIII, venne chiamata dei due infiniti19. Pur condannata come eresia, essa continuò a vivere nei secoli ad esempio tra le beghine, nel movimento del Libero spirito, in Juan Huss, in Giordano Bruno fino, come sottolinea Milagros, a Clarice Lispector. In Vicino al cuore selvaggio nel 1944 scrive:
“Ma dov’era in fondo dei conti la loro divinità? Persino nelle più deboli c’era l’ombra di quella conoscenza che non si acquisisce con l’intelligenza. L’intelligenza delle cose cieche. La forza della pietra che, cadendo, ne spinge un’altra che finisce per cadere nel mare e ammazzare un pesce. A volte quella stessa forza la si trovava nelle donne che erano semplicemente madri e mogli, timide femmine del maschio, come la zia, come Armanda. Eppure quella forza, quell’unità nella debolezza… Oh, forse stava esagerando, forse la divinità delle donne non era specifica, consisteva solo nel fatto che esistevano. Sì, sì, ecco la verità: loro esistevano più degli altri, erano il simbolo della cosa nella cosa stessa. E la donna era proprio il mistero, scoprì. C’era in tutte loro, una qualità da materia prima, qualcosa che poteva anche definirsi ma che non si realizzava mai perché la sua essenza stessa era quella di <<diventare>>. Non era forse attraverso di lei che si univa il passato al futuro e a tutti i tempi?”20
Dal XIV secolo con l’Umanesimo e più intensamente nel XVI secolo con i tribunali dell’ Inquisizione, il principio femminile, materia prima, venne sottomesso a quello maschile, fino a sparire, non nella vita né nella strada perché il mondo non può sussistere. I due infiniti furono ridotti a uno solo. Tale annientamento giunse al suo culmine nel XX secolo con i totalitarismi, che cercarono di sradicare o rendere insignificanti tutte le differenze. Il nazismo fu un esempio estremo del “regime o politica dell’uno”.
Fu nel XVI secolo che si inaugurò una linea storica e politica che concentrava l’energia umana nell’agire attivamente, che valorizzava l’autonomia, il non dipendere da nulla, mentre disprezzava la passività, la ricettività, il lasciarsi dare.
Invece l’adesione innamorata alla realtà trasforma il poeta nello spazio vuoto in cui le cose si depongono nel loro essere materia, in cui l’altro da sé può manifestarsi.
“Si tratta di tornare alla realtà sommersa da tutto ciò che viene costruito a colpi di “io” e di “voler essere”, istanze che si sono tradotte nella storia in modo da renderla catastrofica quando non sanguinaria.”21
Penso qui a una poesia di Anna Avanza piedi di piombo (p. 60) che mostra come la decisione della volontà fa avanzare e massacrare, senza sapersi fermare, senza pensiero.
Compito di chi fa poesia è lottare contro l’irrealtà (uso un termine di Elsa Morante), testimoniando la realtà, “perennemente viva, accesa, attuale”,22 in cui anche la morte è un movimento della vita. E’ l’elementare paura dell’esistenza che porta all’evasione da se stessi, all’assuefazione all’irrealtà, alla disintegrazione della coscienza umana. Le bombe e i campi di sterminio sono dunque la manifestazione del disastro avvenuto prima nella coscienza.
Proprio perché partecipa alla vicenda angosciosa dei suoi contemporanei e ne ha condiviso rischi e paure, il poeta (e qui uso il neutro maschile per rispetto a Morante e Zambrano) può mostrare i comportamenti di chi è assuefatto all’irrealtà e fissare in faccia i mostri da essi generati.
Penso qui alla poesia Aleggia una cupezza intorno alle persone intelligenti (p. 18) che ci presenta tre tipi di persone immerse nell’irrealtà del cinismo, del benessere, della stupidità che ignora. Una poesia a me particolarmente cara perché mi ha aiutato a capire la verità delle osservazioni di mia figlia sui suoi compagni e compagne di scuola e sul pericolo che lei stessa correva.
Credo che per Anna la condizione di chi vive nel cosiddetto Sud del mondo, in particolare dei bambine e bambine, sia quello che per Elsa furono la bomba atomica e i campi di sterminio.
Mi riferisco a Piccola figlia di mio figlio (p. 58), dove l’amore per una bimba non ancora pensata diviene veicolo per la non accettazione di bambini con altri destini che non siano amorosi.
Non si tratta, per preservare i buoni sentimenti o piacere alle anime bennate, di travisare la tragedia reale della vita. Si commetterebbe – dice Morante – quello che il Vangelo dichiara il peggior delitto, il peccato contro lo spirito. “Il movimento reale della vita è segnato dagli incontri e dalle opposizioni, dagli accoppiamenti e dalle stragi.”23
“Per quanto, lungo il corso della sua esistenza, possa accadere al poeta, come ad ogni uomo, di essere ridotto dalla sventura alla nuda misura dell’orrore, fino alla certezza che questo orrore resterà ormai legge della sua mente, non è detto che questa sarà l’ultima risposta del suo destino. Se la sua coscienza non sarà discesa nell’irrealtà, ma anzi l’orrore stesso gli diventerà una risposta reale (poesia), nel punto in cui segnerà le sue parole sulla carta, lui compirà un atto di ottimismo.” 24 Qui Morante racconta la storia di Miklós Radnóti, un giovane poeta ebreo ungherese, grazioso e allegro, che piaceva alle ragazze. Portato in un campo di sterminio, ha continuato a scrivere poesie, fino all’ultima quando, sull’orlo della fossa dove è stato ucciso, dice: Ora la morte è un fiore di pazienza. Lì l’hanno trovata insieme ai suoi resti. “E così ci è rimasta, miracolosamente, la prova, che pure dentro la macchina “perfetta” della disintegrazione, che lo annientava fisicamente, la sua coscienza reale rimaneva integra. E’ morto nel 1944. Ma io, – confessa Morante – solo da poco tempo ho saputo che era esistito. E la scoperta che questo ragazzo ha potuto esistere sulla Terra, per me è stata una notizia piena di allegria. L’avventura di questo ragazzo assassinato è uno scandalo inaudito per la burocrazia organizzata dei lager, e delle bombe atomiche. Scandalo non per l’assassinio, che è nel loro sistema. Ma per la testimonianza postuma di realtà (l’allegria della notizia) che è contro il loro sistema.”25
Questo bisogno di testimoniare l’aspetto tragico della realtà lo sento in poesie come Un po’ mi annienta (p. 31), dove da un lato viene mostrato è il senso di annientamento di fronte alla cattiveria dilagante, che ha occhi freddi, mani rattrappite su corpi luccicanti di monete, e dall’altro l’accoramento e il disgusto per aver superato la soglia della vivibilità con distacco. Insomma Santoro sa cogliere il sentire che ci permette di non assuefarci. In Ci sono bambine e bambini (p. 68), questi vengono descritti per ciò che non hanno mai potuto fare. Piccole cose che dovrebbero appartenere ad ogni infanzia: sputare la pappa in faccia a mamma e papà, avere qualcuno che li vezzeggi e pensi ai mostri che li spaventano, e che invece abbiamo condannati. E in contrapposizione pone signori che brindano in coppe d’oro e fanno il broncio, lasciandosi cadere in lenzuola di miele. “Questa è la verità”, ripete due volte: vi è dunque una connessione che ci coinvolge.
Infatti chi fa poesia – dice Morante – “è destinato a smascherare gli imbrogli.” E continua: “E una poesia, una volta partita, non si ferma più, ma corre e si moltiplica, arrivando da tutte le parti, fin dove il poeta stesso non se lo sarebbe aspettato”. Il poeta, infatti, “per sua natura ha bisogno degli altri, specie dei diversi da lui. Senza gli altri è un uomo disgraziato”.26 Credo che questo abbia spinto Anna a farsi promotrice della carovana dei poeti contro la guerra.27
Fare politica significa anche confliggere, un conflitto sì relazionale, che non distrugge l’altro, ma un conflitto che fa paura a molte di noi. Nell’ultimo incontro con Chiara Zamboni,28 si è messa in luce una motivazione di questa paura: l’evocazione della potenza materna e il corrispondente senso di annichilimento provato da neonate, quando la madre non rispondeva ai nostri bisogni. Da qui la rabbia come sentimento che esprime la ribellione alla paura dell’annichilimento, come se chi è in conflitto con noi potesse negarci totalmente. Si diceva dell’ “eccesso dell’eccesso”, di certe reazioni femminili che portano alla pietrificazione o alla fuga. Io in quell’occasione ho segnalato una pratica che mi consente di tenerla a bada e cioè il mettere in poesia ciò che si muove dentro di me.
In molte poesie di Anna ho ritrovato la capacità di fare i conti con la rabbia, perché non la si inchioda in un’ univoca interpretazione e neppure si lascia al non detto il potere di ampliarsi fino a schiacciare e scacciare l’altro.
Per esempio in Vivono – a volte vorremmo farne a meno (p. 14) dall’antagonismo così forte “che le dita si spezzano di ghiaccio/ con crepitii secchi e netti/” si passa alla confusione nel ventre “tra chicchi di grano semi di passiflora/ azzurrata mattoni roventi di dolore/” fino alla pietas che strazia.
Infine vorrei aggiungere qualcosa sul mio modo di leggere poesia. Contrariamente a quello che succede con molti libri che spesso vengono letti e accumulati, oppure di cui si vuole sapere solo quel tanto che basta per parlarne fin che se ne parla, insomma dei libri oggetto di un’industria culturale che li vuole quasi subito obsoleti, un libro di poesia si rivela grazie al suo ripetuto uso.
Si legge adagio, poco per volta, ci si ritorna, non si consuma. Ogni lettura ce ne rivela aspetti nuovi. All’inizio ci colpisce, come ricorda Ida Travi, la musicalità, che ci riporta alla lingua della madre, della nutrice, “lingua peculiare, presimbolica, viva di contatti interni tra corpo e voce”;29 quella che porta con sé il massimo di informazione, proprio dove la parola non è compresa nel suo significato, ma ascoltata nel suo fluire; quella che ci ricorda il piacere immenso del legame col corpovoce materno a cui è impossibile tornare, ma che può riaffiorare proprio con l’ascolto della poesia.
Poi, pian piano, giunge il lampo della rivelazione, quella luce sul reale che non rinuncia all’ombra, luce aurorale appunto. Infatti la poesia è scrittura di trasformazione che accompagna il cambiamento di chi scrive e che intende coinvolgere in un processo analogo chi legge. “Chi scrive e chi legge, nella proposta di María Zambrano, si lega – anzi, è già legato – in un patto di necessità: ‘Quel che si pubblica serve perché qualcuno, uno o tanti, viva tenendo presente ciò che è venuto a conoscere, perché viva in modo diverso dopo averlo conosciuto’. […] Uno o una bastano perché il patto regga e si crei una discontinuità nel procedere, altrimenti lineare, dei pensieri presenti nel mondo.”30
La poesia, permettetemi questo paragone in onore delle nostre cuoche di cui Clelia è un’esimia rappresentante, la poesia è come quelle vecchie padelle nere di ferro per i fritti, quelle che il lungo uso rende insostituibili quando in cucina si vuol fare in modo
A partire dall’ultimo libro di Daniela Padoan Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo (Bompiani, Milano 2005), martedì 22 novembre alla Libreria delle donne ha avuto luogo una discussione di riflessione sulla pratica politica dagli effetti inimmaginabili ‘inventata’ da queste donne straordinarie. Il testo è uno sguardo amorevole e acuto sulle Madres, dà loro parola e pone a noi interessanti quesiti e riflessioni sulla nostra pratica politica. Come possiamo, oggi e nel nostro contesto, assumere la responsabilità di ereditare una pratica politica e allo stesso tempo fare nuove invenzioni per agire e lottare nel presente?
Presente l’autrice che ha ampiamente discusso del suo lavoro e delle sue relazioni.
Hanno introdotto la discussione Liliana Rampello e Laura Colombo.
“Si tratta di un libro che ho letto con grande attenzione, mi piaciuto, lo considero bello intelligente e importante”. Liliana Rampello introduce così la serata e avvia la discussione.
“Bello perché scritto bene, capace di rimanere vicino all’esperienza delle emozioni che Daniela ha vissuto, emozioni che ci vengono restituite con chiarezza. Un libro che tiene con sé il caldo che questa scrittura riesce a trasmettere.
Intelligente per l’intreccio dei piani discorsivi: la storia dell’Argentina e le vicende che, insieme a ai fatti storici, Daniela ci racconta.
Importante perché va oltre quello che si pensa di sapere già. Le Madres sono state in Italia, le abbiamo conosciute e abbiamo discusso, il loro lavoro è noto. Questo libro va oltre perché, quello che almeno a me è capitato, è stata la possibilità di conoscere altre Madres (oltre la ‘famosa’ Hebe).
Importante inoltre perché ci fa riflettere anche sulle pratiche politiche che queste donne hanno inventato e soprattutto perché Daniela è stata in grado di restituirci il momento sorgivo, il modo in cui queste pratiche sono state inventate e quando. A me ha detto molto su una sorta di stanchezza dell’Occidente rispetto alla vivace esistenza che queste popolazioni sono in grado di restituirci. Per me questo libro è già politica, nel senso che, in questo luogo, abbiamo spesso affermato che narrare è assolutamente importante, che c’è necessità di racconto femminile. L’agire delle Madres e il modo in cui Daniela ce lo racconta sono esattamente questo: parlare, scrivere, scambiare. Significa aver capito che il linguaggio (parole, gesti e corpi) non è una forma inerte ma possibilità di modificazione, lettura, interpretazione della realtà che ci capita. Quando ho detto la parola ‘scambiare’ la riprendo perché Daniela, in questo libro, agisce uno scambio profondissimo con loro, pieno di rispetto e di amore. Questo scambio si presenta a noi nella forma del dialogo. Daniela ripropone le conversazioni e fa vedere da vicino come la domanda sia importante perché il dialogo si sviluppi davvero. Questa dev’essere consapevole, nuova, in qualche misura capace di guidare sotterraneamente l’altra a dire, nel modo più aperto possibile, la sua esperienza.
Nel fare questo difficilissimo lavoro dell’intervista, la sua presenza non è mai invadente, piuttosto è tenace perché sa porgere questo filo, sa spostare il problema, sa riaprire una questione, insistere su un ragionamento. Da un lato conduce, da un altro si lascia condurre, sapendo che tutto quanto tornerà a esser comune e si slargherà ulteriormente nella lettura di chi il libro leggerà. Un’operazione complicata che passa tra due, tra una e tante, che leggeranno il libro.
La postfazione è molto densa e intensa. Daniela convoca i suoi amici e le sue amiche. Incontriamo quindi Kakfa, Rielke, Harendt, Muraro, Kierkergaard, e altri che le sono stati a fianco mentre lavorava.
Quando l’ho letta, ho pensato che poteva essere l’introduzione. Ma non è così perché è una postfazione vera e propria non è un commento, né un riassunto, ma si tratta di prendere la parola in prima persona dopo un viaggio, nel suo caso, uno reale, quello che lei ha fatto in Argentina e quello interiore che l’Argentina ha fatto fare a lei e a me ha detto tanto”.
Cos’è cambiato per Daniela prima e dopo il viaggio? Questa la prima domanda di Liliana all’autrice.
“Poi ho guardato l’indice – continua ancora la relatrice- attento e perspicuo, nel senso che annoda ogni capitolo intorno a un elemento che può essere una frase, un simbolo oppure un evento o una questione. Ognuno di questi capitoli è introdotto con una riflessione storica e puntale, esauriente che rinvia a una quantità rilevante di fonti che lei ha letto. E’ seguita da più racconti con un loro titoletto specifico che, a sua volta di nuovo, riabbraccia in forma più particolare il tema generale. L’indice dice esattamente il movimento del testo, fa vedere i nuclei principali d’interesse ed espone la sua stessa disposizione.
I capitoli sono molto ricchi, indicano le tante scelte che Daniela ha dovuto fare, perché la scelta immagino fosse molto ampia”.
“Mi ha colpito l’insieme del testo. Ma ho comunque raggiunto un esito politico. All’inizio mi sono commossa perché c’è dolore, tragedia, la dittatura. Il libro però, continuando a leggerlo, mi ha aiutato a passare da questa commozione sim-patetica a una forma diversa che era la consapevolezza e la comprensione di quello che là era successo. E’ come passare dalla simpatia all’empatia. In questa ultima c’è uno spazio di conoscenza. Pur sollecitando l’emozione non la raffredda ma la colloca e questo è stato il lavoro primo delle Madres e di Daniela nel restituirci questo.
Il libro inizia con la presentazione di una famiglia. Si parla quindi della provenienza di queste donne, chi erano, la semplicità di vite comuni e, per questo, molto interessanti. Vite oneste povere in cui la dittatura sia imbatte con la sparizione di figli e figlie. Questo succede in modo incalzante.
L’orizzonte, all’inizio, è quello individuale, nero e vuoto. La violenza è segreta taciuta e negata.
Però mancano i figli, i corpi. La loro morte sembra irreale anche nella sua ripetizione (il sempre uguale che ritorna).
Nessuno ne risponde, a nessuno si può chiedere, si bussa alle porte di tutti che sono sempre gli assassini.
La complicità è ovunque soprattutto tra Stato e Chiesa. Quando noi parliamo della Chiesa dimentichiamo sempre il potere temporale di questa, ciò che ha fatto e che continua a fare. In complicità con le dittature. E ciò è avvenuto fino a qualche anno fa. Sembra, nei giornali italiani, che la Chiesa sia l’unico referente morale.
Anche questa è una strada di riflessione.
Questa complicità è stata anche internazionale e viene ben raccontata. Viene raccontato quando il mondo non vuole sapere e non vuole capire, quanto questo pesi nella situazione politica interna di un paese, i pesi su chi deve resistere una dittatura.
Il punto che emerge è questo: come fa un singolo ad affrontare un muro mille volte più alto di lui? Il racconto ci fa vedere la trasformazione di donne semplici, casalinghe, in donne che, fidandosi pian piano l’una dell’altra, hanno inventato un’arma potentissima contro il male, contro la morte. Daniela ci fa vedere come il silenzio si rompa attraverso parole, gesti semplici e invenzioni inaudite, quelle che nascono da un’inaudita risposta alla morte: camminare tutti i giorni, mettersi un fazzoletto bianco, rimettere al mondo i figli insepolti perché non si accetta che la loro morte coincida con la loro fine. Anche qui il ragionamento di Daniela è molto raffinato. Morte e fine possono non coincidere. Questa è una grande riflessione delle Madres. In Occidente si tende sempre a vedere la morte come il termine ultimo. Queste donne hanno capito che anche la morte può diventare, nel suo essere estrema, l’origine di una nuova vita. Si sono messe insieme contro chi le arrestava, distruggeva le loro case. Queste donne hanno lavorato e si possono dire rimesse al mondo dai loro figli. Tenere in vita loro il loro ricordo trasforma il lutto in una lotta”.
Cita una frase del testo: “non abbiamo letto Il capitale, abbiamo letto cose più semplici. Leggiamo dalla vita e apprendiamo dalle strade e dai nostri compagni, abbiamo interpretato la lotta dei nostri figli dalle cose piccole non dalle cose filosofiche…
…si, noi non abbiamo nulla a che fare con la morte. La vita è il significato profondo di tutto quello che facciamo, tutto ciò che è creativo ha a che fare con la vita e non con la morte…
Siamo così tranquille e così felici e guarda che contraddizione, perché stiamo facendo quello che loro stavano facendo, è per questo che sono dentro di noi e ci danno alla luce tutti giorni. ”
Le Madres rifiutano qualsiasi tipo di monumento e di memoriale – dice ancora Liliana -, molto diversamente dall’Olocausto. Rifiutano questo tipo di memoria, sostenendo il concetto di memoria fertile, cioè una memoria che non possa essere rinchiusa in nessun luogo, ma rimanga come si è sviluppata nei propri pensieri.
Quello che hanno costruito è la loro stessa vita, hanno costruito per altri e altre quello che i loro figli volevano per sé e tutti. Le Madres hanno operato un’invenzione di rapporti internazionali con altre donne e altri uomini con un rigore che ha qualcosa di ingenuo, rifiutando qualsiasi forma di turismo. Loro volevano viversi in una logica della visibilità e presenzialismo. Hanno intrecciato legami con altri movimenti di lotta dei loro Paesi.
E in questo intreccio c’è una riflessione implicita, non sempre detta, ma che vive nelle parole che loro dicono sul potere. Sono sempre riuscite a fuggire a tutte le sue trappole. Lo hanno guardato in faccia e ne hanno riso. ”
Liliana fa una precisazione: ridere non è una cosa semplice. “Perché in questo caso il riso viene dalla verità del dolore ed è una risata assoluta.
Nella postfazione Daniela sposta in avanti anche il famoso brano delle Tre Ghinee di Virginia Woolf. Questa parlava della derisione, del riso su tutto i paludamenti del potere maschile così come le si presentava dalla giustizia e dal comando militare. Ma Daniela, proprio su questo aspetto, dice: “quella delle madri è però una risata assoluta perché fatta di fronte al plotone che punta le armi al quale gridano: fuoco”.
Ora, di fronte a questo genere di cose, è ovvio che l’ordine è infranto ed è infranto perché si è dinnanzi alla morte che qui è una sorta di potenza di conoscenza.
Daniela rovescia un’altra grande eroina che è Antigone: “ne hanno rovesciato la lettura, saranno loro a non accettare che la polis ne accolga le spoglie, che dia loro una copertura simbolica, perché per loro non si dà polis che non accordi cittadinanza immanente agli scomparsi vivi per sempre”.
Improvvisamente c’è una lettura nuova di questi elementi: viene strappato all’ordine patriarcale l’ultimo velo. Questo ragionamento mette in questione un importantissimo lavoro di Foucault sul potere: l’autore passa dal potere tirannico al bio potere diffuso.
Qui il potere di vita è solo dalla parte delle Madres.
L’ultima questione è che queste donne sono donne che non perdonano. L’Occidente, con i suoi perdonismi, fa in modo che la conciliazione venga intesa nel modo più basso e compromissorio, per cui tutto sembra uguale. Posizionarsi è la più bella lezione”.
Laura Colombo interviene ponendo alcune questioni politiche a partire dalla lettura del libro: “Intanto qualcosa sul libro: molto bello, scritto bene e con una caratteristica che spicca, la polifonia. Che si gioca su differenti livelli, uno più manifesto che è quello che le madres dicono in prima persona, con la forza che riescono a trasmettere, e un livello più nascosto ma non meno importante, che è la relazione viva tra l’autrice e le madres, che rende possibile la loro espressione libera e autentica. La modalità che Daniela ha scelto, quella dell’intervista, è solo apparentemente neutra. Infatti lei sceglie attivamente di stare dalla parte delle Madri, senza tuttavia tesserne aprioristicamente le lodi.
Permette che la progettualità delle Madri si esprima, e mette in evidenza in che modo la loro rappresentazione del possibile o del desiderio ha fatto germogliare semi di libertà nel cuore della necessità più cruda.
Ma il punto che vorrei porre qui è un altro. E’ collegato a un accenno presente nel libro quando Daniela intervista una donna attiva nel movimento dei piqueteros. Vi leggo anche un frammento che può essere utile per capire.
Come saprete i piqueteros sono un movimento nato a seguito della fortissima crisi economica argentina, ed è un movimento di fatto nato dalle donne, i cui mariti avevano perso il lavoro.
C’è qui un rilancio del sapere delle madres, il tentare di ricercare un proprio modo di far politica mantenendo una relazione forte e feconda con le madres. Daniela chiede a Mariana Cruz: “Credi che in questo protagonismo femminile abbia contato il fatto che durante la dittatura fossero state le donne a scendere in piazza per manifestare?”. E lei risponde: “Certamente. Fin dagli inizi del nostro movimento abbiamo avuto rapporti con le Madri di Plaza de Mayo. Ci siamo rispecchiati molto nella loro lotta e abbiamo imparato da loro”.
Soprattutto mi ha colpita e coinvolta il tema della responsabilità. Dice infatti Mariana “Quando Hebe ci chiama figli o figlie, ci dà una grande forza, ci riempie di orgoglio, e allo stesso tempo ci carica di grandi responsabilità. Siamo le loro figlie e i loro figli, come lo erano i rivoluzionari desaparecidos. E poi è meraviglioso vedere Cota o Juanita con i loro novanta e passa anni, sempre così decise, cos’ attive. Per me che ho ventinove anni, significa che abbiamo scelto il cammino giusto”.
Mi ha fatto tornare alla memoria un incontro con le madres qui in libreria. Io chiesi a Hebe de Bonafini se ci fossero donne più giovani nel loro movimento, e come trasmettessero il loro sapere e le loro pratiche, e lei mi rispose “siamo solo madres”. Non c’è cooptazione, proselitismo etc. precisamente questo si ritrova nella risposta di Mariana: quelle che loro chiamano figlie devono fare la loro strada, si devono assumere la responsabilità della politica in prima persona. Anche facendo cose che non stanno nello stesso solco, anche se le strade sono differenti.
Mi è parso interessante ovviamente perché mette bene in evidenza la mia esigenza di ereditare delle pratiche senza emulare, il che implica la scommessa di assumersi la responsabilità dell’arrivare dopo…
Questa assunzione di responsabilità per me si traduce in alcune cose:
– innanzitutto nell’avere a cuore un luogo (che non è solo uno spazio fisico ma insieme di relazioni, di pratiche ecc) che per me è questo, la libreria, standoci però portando – tentando di portare – la mia differenza, insieme ad altre. E mi riferisco al sito, per esempio. Assumersi la responsabilità significa metterci energia, impegno, voglia di esserci, anche se non è sempre facile. Soprattutto stare in un luogo così segnato da una storia importante, insieme alle donne che l’hanno fatto nascere a partire dall’ascolto dei loro bisogni e che continuano a ricercare, esserci, lottare. Il rischio che vedo in questa prossimità è l’opposto dell’assunzione di responsabilità, cioè un lasciarsi prendere e avviluppare da tanta forza, senza esserci davvero. È anche una cosa molto umana questa. Trovi donne capaci che sanno cosa si deve fare e ti dicono chiaramente la strada da percorrere, cosa che da un lato è pacificatoria, ma dall’altro crea un malessere sordo, se non lo interroghi a fondo e con coraggio. E su questo punto il vecchio numero di via dogana “le ereditiere” – nell’articolo di Tonia de Vita in particolare – poneva il problema di come trovare una misura tra il distacco e l’eccessiva prossimità.
– Ecco che allora l’assunzione di responsabilità ha significato per me creare insieme ad altre uno spazio di riflessione, non in contrapposizione ma dove fosse possibile tentare di entrare in contatto coi nostri bisogni, le nostre verità, la nostra voglia di fare politica, la ricerca di senso, un’autenticità che vogliamo ricercare in proprio, lo scambio in libertà, la libertà di portare avanti una cosa che sentiamo vitale e libertà di tralasciare anche cose che sono state importanti per chi ci ha preceduto, o di dire quello che non ci torna, di rimettere in discussione qualcosa che sembrava già dato, acquisito. La difficoltà che abbiamo riscontrato, ma sulla quale stiamo lavorando e continua lo scambio e continuano i conflitti, è trovare un filo comune, che non vuol dire annullare la differenza, ma scegliere da che parte stare, dare un taglio e dire la cosa che preme, senza farsi affascinare dalla sirena di un pluralismo che ti taglia le gambe. C’è difficoltà a nominare una cosa comune. Il problema è che se dici una cosa non sei qualcos’altro, crei spiazzamenti, separazioni. Non è che non abbiamo, ciascuna, una priorità, la cosa da dire, ma è come se ci facessimo fregare dal mito della democrazia paritaria, per cui ogni cosa ha diritto di essere nominata, e per ogni diritto bisogna fare battaglia, e non si ha la capacità di scegliere il taglio che più ci preme ma che inevitabilmente lascerebbe fuori altro.
Quindi questo punto dell’assumersi in prima persona la responsabilità di un’azione politica, con la forza e il coraggio di dare una propria lettura e fare i propri passi, pur riconoscendo e dando valore all’origine mi pare un elemento importantissimo di questo libro, uno spunto di riflessione essenziale anche per noi.
Chiedo a Daniela se ha verificato questa cosa nelle interviste che ha fatto alla ragazza del movimento dei piqueteros.
Daniela Padoan inizia il suo intervento spiegando cosa sia cambiato dopo il suo viaggio.
“Sono andata in Argentina perché avevo deciso di scrivere questo libro, anche se credevo di essere in grado di scriverlo comunque: avevo intervistato le Madres per cinque anni, letto tutto di loro. Le ho ospitate a Milano facendo un’intervista televisiva anche se non è andata in onda. Questo perché le Madres, erano già intervistate una volta da Gianni Minà. Questo però era stato denunciato insieme alla Rai sia dal Governo argentino che dal Vaticano per i contenuti dell’intervista che riguardavano alcuni fatti della chiesa (di cui sarà detto più avanti, ndr).
Quando ho incontrato le Madres ho cominciato a capire da loro alcune cose a mio avviso dirompenti, che avevano bisogno di ragionamento. Questioni che all’inizio avevo cominciato a leggere secondo criteri della politica che fino ad allora avevo conosciuto. Forse le cose più importanti, le novità che avevano prodotto, rimanevano per me stupore, non qualcosa che arrivasse a produrre pensiero. E in questo modo mi sono rivolta a Luisa Muraro. L’incontro con Luisa e la Libreria per me è stato molto importante nello sviluppare poi quello che è stato il mio percorso di apprendimento del mio incontro con le Madres. Avevo cartelle piene di appunti, note che mi ero presa con ragionando e interagendo con la Libreria, avevo una griglia teorica. Però non potevo non verificare tutto ciò con le dirette interessate.
Tutti i materiali di cui disponevo più di tanto non mi sono serviti. Certo alcune domande provengono dalle discussioni fatte, ma quello che mi è capitato in conseguenza a questo viaggio è stato come rimanere denudata. Le Madres mettono nella posizione di chi sta vedendo qualcosa di straordinario e non può che rimanere a osservare, domandare e ascoltare. Se qualcosa riesci a prendere sono le loro testimonianze. Loro testimoniano esistenze, vivono giorno per giorno una loro scelta fatta in anni e anni, dopo aver vissuto profonde gioie e sofferenze. Non si può imitare e far proprie le loro pratiche ma guardarle con stupore.
Per loro le parole sono importanti, le parole sono politica.
Ad esempio le Madres non chiamiamo i bambini nelle strade che vivono tra spazzatura e prostituendosi ‘bambini di strada’. In questo modo li connotiamo in un certo modo non assumendocene la responsabilità. Sono i nostri figli, vanno chiamati come tali quindi la parola diventa politica.
La scelta di ogni parola è una scelta politica. Questo non significa che io sono in grado di farlo, ho avuto il grande dono di vederlo fare, di veder qualcuno che riesce. Ci sono delle critiche alle Madres, ma l’importante è vedere le conquiste.
In questo viaggio sono andata a cercare cosa volevo scrivere e in che modo. Inoltre è stato un percorso di conoscenza, seguendo i passi che loro hanno fatto. Ho sentito la necessità di abbandonare tutti i preconcetti, idee comuni, cercando di immaginarmi, di sentire quelle donne di quaranta, cinquant’anni che non avevano altro che la propria famiglia.
Dico ‘non avere altro’ intendendo non sia poco, al contrario. Quello che si erano date è un importante progetto di vita, con grande amore dei figli che loro hanno visto riunirsi con altri amici prima del Golpe. Dicevano: “le nostre case erano come un vespaio”.
All’improvviso questi figli scompaiono. Parlando con loro ho compreso come tutte provenissero da situazioni diverse, per estrazione, cultura, esperienze di vita. Tuttavia poi, in seguito a questa scomparsa, vite e racconti diventano in qualche modo simili.
E’ difficile capire fino in fondo l’idea della desaparetion. Ho cercato di immaginare cosa sia quando un figlio non torna a casa, non capire perché sia stato sequestrato, tanto meno essere consapevole che finirà per essere ucciso.
Ho cominciato a fare tutti i passi, passi che la propria esistenza ha insegnato essere sensati, mettere alla prova quella che è la propria idea del mondo. Le Madres vanno dai parroci che hanno cresciuto i loro figli a chiedere aiuto senza rendersi conto che molti di questi erano alleati con il regime. Le Madres hanno infranto un ordine, a partite da uno stupore e dalla necessità di capire l’incomprensibile. I parroci che avevano fatto giocare a pallone i bambini, chiedevano chi i loro figli avessero visto nell’ultima settimana. Le Madres dicevano i nomi dei ragazzi. Poi misteriosamente scomparivano anche questi ultimi. Le Madres hanno anche provato l’Abeus Corpus (ordine di avvocati per i familiari che, secondo la legge, hanno diritto in ogni momento di sapere dove corporalmente si trovano i loro figli, ndr). Anche questa si era rivelata un’illusione.
La realtà non era più riconoscibile e il fatto di provare a immaginare che cosa significhi la non riconoscibilità di una realtà che è la tua, per una donna, forse è una questione di apprendimento politico, forse molto più radicale che non dire gli ‘Stati Uniti sono imperialisti’.
Tutte le questioni che maneggiamo con concetti piuttosto astratti, loro le hanno smontate pezzo per pezzo e hanno usato nomi che per loro sono ricchi di storia e di dolore.
Andavano per commissariati e carceri ogni giorno, portando con sé, uno spazzolino da denti e una maglietta in caso avessero trovato i figli. Tutti i giorni lasciavano il tavolo apparecchiato con il posto vuoto. Tutti questi sono piccoli enormi gesti che, poco per volta, vengono raccontati nel corso delle interviste, nei tempi lunghi in cui c’è un ascolto e disponibilità a parlare dell’altro. Tutto ciò costruisce la possibilità di intuire cosa davvero dev’essere stato rimanere per uno o due anni in bilico tra l’idea di un figlio morto o ancora vivo, sentendo di strane voci di tortura, di campi clandestini nelle città. Mi hanno portato nel loro archivio dove conservano un documento straordinario, la prima lettera che hanno scritto quando si sono trovate in 12 madri, il documento di nascita delle Madres. Era una lettera di Dela, il generale a capo del della giunta golpista. Lo chiamavano buon padre cristiano e gli chiedevano di aiutarle a trovare i figli perché convinte che fosse la polizia di Buones Aires. Rileggendolo riconoscevano la loro ingenuità. Andavano poi a bussare alle porte dell’Ambasciata degli Stati Uniti, convinte quello fosse il paese della democrazia. Questi le accoglievano, solo dopo hanno capito dell’operazione Condor.
Tutto ciò fa si che ora vedano con una straordinaria lucidità e senza ideologia quello che accade nel mondo. Sostengono inoltre che la solidarietà non vada fatta a parole ma con la presenza fisica. E loro hanno agito così nei paesi di guerra.
Il percorso politico, durato trent’anni (ora hanno ottanta novant’anni, ndr), ha prodotto delle donne che straordinariamente capaci di un’affettività, di un’allegria, di una coesione tra di loro che è un continuo scambiarsi, anche litigare. Hanno inventato qualcosa che è anche una pratica comune, un racconto della propria vita e capacità di farne scelta comune.
Il discorso della pazzia e ridere di una risata assoluta di fronte al potere.
INTERVENTI
Silvia: Le Madres hanno avviato la possibilità di un processo più o meno democratico in Argentina. Mentre in Italia iniziano a esserci più ombre che luci, in Argentina continuano a esserci sempre molte ombre. La vicenda delle Madres mi ha ricordato l’episodio di Rosenstrasse nella Germania nazista. E ho pensato a questo: quando tutte le voci politiche tacciono, avendo sterminato coloro che avevano alternative politiche da proporre, è come se la ragione politica si fosse arresa all’evidenza. Allora qualcosa di non politico, ma profondo, umano, delle persone, delle donne, emerge, ottenendo, come nel caso di Rosenstrasse l’obiettivo immediato (la liberazione di mariti e compagni). L’evento di Rosenstrasse non ha influito sull’andamento generale della guerra, mentre per le Madres è stato il contrario: non hanno riavuto i loro figli ma hanno praticamente messo in moto un meccanismo che ha portato al crollo dei regimi, dei generali. In qualche modo mi colpisce questa capacità di ripartire da loro. Chiunque, in quelle situazioni, avesse detto qualcosa di politico sarebbe stato massacrato immediatamente, mi chiedo cos’è stato che ha impedito di sparare con il mitra sulle signore in Rosenstrasse e far sparire le Madres? Cosa in questa pratica è riuscito a fermare la violentissima repressione?
Sulla questione dell’eredità delle pratiche. Se i Piquesteros hanno potuto riconoscere le Madres come madri penso sia stato anche perché sono partiti da una pratica collettiva che hanno messo in moto in un altro momento cruciale della storia argentina: il crollo economico totale. Come loro, le Madres avevano agito in un momento cruciale precedente e credo che forse il problema dell’eredità nelle pratiche tra donne, qui nel nostro paese, nelle nostre generazioni, quello che vivo anch’io insieme al gruppo politico che frequento, dipenda dal fatto che la nostra generazione non ha ancora preso una posizione sulle cose, quindi resta in bilico tra un’eredità ripetitiva e una presa di distanza, una ricerca di sé che non riesce a sperimentare. Le donne di trent’anni fa invece hanno preso la parola autonomamente, spezzando un silenzio delle donne in un altro grande momento di cambiamento storico che non le avrebbe rappresentate se non parlavano per loro e se non facevano altro. A noi forse manca questo per essere figlie, per farci riconoscere dalle madri. Quello che ci tiene in ostaggio delle madri è la difficoltà di assunzione della responsabilità. Oltre la relazione e alla pratica c’è una collettività e una storia con cui dobbiamo fare i conti per assumere la responsabilità fino in fondo.
Nell’intervento successivo si riprende il discorso gratitudine delle madri.
“C’è una forte gratitudine delle Madres ma anche la loro nei confronti dei propri figli. La disgrazia di averli persi è stato un dolore insuperabile ma nel tempo stesso è come se si fossero appropriate della possibilità di uscire dalle proprie case e rendersi conto di come era fatto il mondo. Ora tu (Silvia, ndr) parli del fatto che sono donne anziane e le poni come grandi sagge. Quello che è curioso è che questa loro saggezza viene dall’aver assorbito qualcosa di molto forte da una generazione giovane. Una cosa che mi riporta al cambiamento che il ’68 per noi ha determinato, magari non con questo effetti o contraccolpi”.
Daniela Padoan: “Le Madres fanno l’invenzione molto spiazzante dicendo di essere state partorite dai loro figli e al tempo stesso li tengono sempre al riparo, dentro una gestazione infinita. Arrivano a queste frasi spiazzanti tramite esperienze molto concrete e molto pratiche, trovandosi di fronte a militari che hanno tolto la vita ai loro figli. Questo, a poco a poco, hanno dovuto capirlo come hanno dovuto capire che potrebbero togliere la vita anche a loro. Come diceva Liliana prima: il potere non è potere di dare vita o di dare morte, è potere di dare morte perché la vita l’hanno data le Madres. Questa capacità d’aver dato una volta, irrevocabilmente, la vita non se la fanno togliere da nessuno. La cosa straordinaria è sfidare il potere nella disparità più assoluta dicendo: “tu non mi fai paura. Mi puoi solo ammazzare. Fin quando avrò vita sarò insieme me e tutte le persone che hai cercato di strapparmi”. Questo diventa assolutamente simbolico. I figli non ci sono più e il non ammettere la morte del figlio coinvolge capacità ed energie. Questo diventa violentissimo quando cade la dittatura, paradossalmente quando inizia l’era della democrazia formale.
Inizialmente i governi avevano creato questa figura dei desaparecidios, apparentemente geniale perché, a differenza di quello che aveva fatto Pinochet riempiendo gli stadi di prigionieri politici e uccidendo la gente per strada, non c’erano corpi e si creava un’equazione ben precisa: se non c’era il corpo non c’era reato, se non c’era reato non c’era colpevole. Questa immunità a priori però, a un certo punto, si è trasformata però in un boomerang. Questo esercito di fantasmi, 30.000, cominciava a gravare su una società che non poteva trovare pacificazione finita la dittatura. La cosa importante da capire è che non c’è stata una resistenza in Argentina, una lotta di popolo. Il golpe ha perso ogni solidarietà internazionale, c’è stata un’implosione, per altro hanno ridotto il Paese a uno sfascio economico.
Quando le Madres si trovano di fronte alla cosiddetta democrazia vengono invitate a riconoscere morti i propri figli. Per questo vengono offerti risarcimenti economici. Da prima quasi tutti rifiutano essendo ricompense molto esigue. Poco per volta i risarcimenti diventano molto più allettanti. Alcune persone li accettano. Spesso si trattava di uomini e donne anziane che avevano perso persone che portavano redditi e avevano bambini piccoli che in qualche modo dovevano essere cresciuti.
Ma le Madres non hanno accettato: nessuno, dicevano, potrà dare un prezzo alla vita dei nostri figli. Così i governi hanno cominciato a mandar loro a casa delle cassette con le ossa dicendo essere dei loro figli. Decine di medici forensi andavano scavando nelle infinite fosse comuni, che ancora adesso continuano a essere scoperte. Due anni fa mentre ero in Argentina stavano estendendo l’autostrada intorno a Buenos Aires. Quando ero in Argentina, hanno trovato, scavando sotto un pilone, dei corpi. Nel momento in cui le Madres ricevevano le cassette con le ossa, si è aperta una questione molto difficile, un bilico sul quale si è giocata lì fino in fondo la loro radicalità. Rinunciando a consumare un lutto, hanno tenuto questa sfida estrema al potere, non riconoscendoli. “Noi non ti diremo mai che ce li hai ammazzati”
Riguardo il discorso della Chiesa, le accuse che fanno le Madres sono serie e molto gravi. L’unica persona che ha provato a intervistarle in Rai è stata denunciata. Dicono che i vertici della Chiesa in Argentina parteciparono alle discussioni su fino a che punto la tortura fosse peccato. La decisione fu che fino a otto ore non era peccato.
Monsignor Tortolo, vescovo di Buenos Aires, ricevette il giorno prima del Golpe come gesto inaugurale della dittatura, il comandante dell’esercito della Marina dell’aviazione. Gli diede la sua benedizione. Tre mesi dopo il Golpe militare, il Nunzio Apostolico, in un’Omelia, affermò che quando qualcuno impone in un Paese idee diverse ed estranee alla tradizione, la Nazione giustamente reagisce come fa un organismo con anticorpi di fronte ai germi. I soldati, con i loro interventi contro i dissidenti, adempiono il loro dovere primario di amare Dio e la Patria quando questa è in pericolo. Questo provoca una situazione d’emergenza cui si può applicare il pensiero di San Tommaso d’Acquino che insegna in casi del genere l’amore per la Patria si equipara all’amore per Dio.
Il testo integrale di questa Omelia è stato presentato dalle madri al Ministero Italiano di Grazia e Giustizia perché venisse avanzata una procedura legale, cosa che non ha mai avuto corso. Ci sono molte altre questioni, come i voli della morte: i prigionieri venivano gettati in mare perché c’era il problema dell’eliminazione dei corpi. A bordo degli aerei che ‘smaltivano i corpi’ o nella base erano presenti dei capellani che confortavano i militari dicendo che l’avevano fatto per la Patria.
La Chiesa del terzo mondo ha denunciato come anche due vescovi che sono stati assassinati.
Luisa Muraro interviene per precisare che “tutto questo odio non si spiega se non all’interno di un’ideologia anticomunista. L’ideologia non giustifica niente e nessuno ma fa comprendere e inserire queste ferocie in un quadro. Questi generali e uomini di Chiesa erano convinti, in buona o cattiva fede, che il comunismo stava per prendere l’Argentina. I figli delle Madres erano comunisti, sono dei veri comunisti. Bisogna inoltre ricordare che ci sono stati tanti altri morti non solo in Argentina causati da questa ideologia”.
Daniela Padoan aggiunge che però non tutti i desaparecidos erano comunisti. Quello che è accaduto è stata una criminalizzazione di chiunque potesse essere un oppositore, prima ancora del governo di Isabelita Peron. Veniva criminalizzato chiunque facesse attività politica contro un piano economico voluto dagli Stati Uniti. Le Madres pongono sempre questo punto come centrale perché dicono: “tutto quello che ci è capitato lo dobbiamo capire fino in fondo perché ancora adesso quello che ci vogliono far capitare è uscito dal fatto che qualcuno, in modo sopranazionale, ha deciso che in questo paese si sarebbe dovuto attuare un piano economico preciso. Questo accadeva già prima del Golpe del ’76 e c’erano varie forze: comunisti, socialisti, chiesa del terzo mondo, anarchici, ragazzi che appartenevano genericamente a movimenti studenteschi contro il governo di Isabelita Peron. Ad un certo punto si formò la tripla A voluta da Lopez Rega, strano personaggio legato alla Loggia Massonica p2. Questa tripla a, Alleanza Anticomunista Argentina, aveva già cominciato a spargere morti e far scomparire persone. Successivamente è stato solo l’accentuarsi di qualcosa che già esisteva. Quello che sono riusciti a fare è stato creare una categoria del tutto astratta di ‘sovversivo comunista terrorista’. In questa categoria c’era una condensazione di tutto questo, che fa in modo che non ci siano più principi di realtà, ma una sorte di paranoia, per cui tutto si trasformava nel nemico interno che la società tentava di espellere ed eliminare. C’era inoltre la colpevolizzazione violenta delle stesse famiglie. L’Argentina era disseminata di cartelli dove compariva un dito accusatore, ‘Sai che cosa sta facendo in questo momento tuo figlio?’ oppure ‘come è allevato tuo figlio?’ A chi spariva il figlio capitava quindi di non poterne parlare né al lavoro per paura di perderlo, né in famiglia per paura che venissero sequestrati anche altri parenti”.
In un intervento di risposta a quello di Silvia si sottolinea che l’agire delle Madres onestamente proiettate in un discorso fuori da tutte le ideologie politiche è una lezione di politica fuori dalle ideologie.
Daniela Padoan interviene ancora sul cosa ha impedito il massacro delle madri
“Ero partita pensando che il loro essere donne e donne di una certa età in un paese in cui, ancora adesso, il giorno della festa della madre è un giorno importante, potesse averle aiutate. Ma loro sostengono che si tratta di assassini che avrebbero ammazzato anche le loro madri. Quello che le ha salvate è stata la solidarietà nazionale. Le prime tre madri che fondano questo gruppo vengono rapite, in un modo romanzesco. Un giovane, chiamato l’angelo biondo, dagli occhi azzurri e l’aria mite, si unisce a loro dicendo che suo fratello era stato rapito e che era orfano. Comincia ad andare in piazza tutti i giovedì con loro, le madres si fidano e addirittura lo accompagnano alla fermata dell’autobus pensando sia troppo esposto. Un giorno in cui, davanti a una chiesa, si faceva una raccolta di denaro per pubblicare la lista dei figli scomparsi che nessun giornale voleva pubblicare, il ragazzo va con loro e le bacia. Da quattro macchine, in borghese, escono persone con abiti civili le trascinano nelle vetture insieme ad altre persone tra cui due suore. Le portano all’ESMA dove verranno torturate e uccise.
Le Madres sono state picchiate, torturate, messe in cella con dei morti. Veniva loro detto che poteva essere loro figlio e al buio non potevano vederlo. Quando però nel ’78 la dittatura divenne più feroce, si decise di fare il Mondiale per far credere al mondo che nel Paese c’era una democrazia che riusciva a tenere il rispetto dei cosiddetti diritti umani e si era semplicemente instaurato un argine contro il comunismo. Organizzano quindi il Mondiale, comprano il fatto di vincerlo, ma il giorno dell’inaugurazione una troupe formata da due operatori della televisione olandese, invece di andare all’inaugurazione va a Plaza de Majo e vede 20 donne con un fazzoletto bianco in testa e militari che puntavano loro addosso le armi. Le Madres per attirare disperatamente l’attenzione, sapendo fosse l’unico momento possibile per infilarsi in un varco era questo del Mondiale, ai fucili puntati gridano ‘fuoco’. I giornalisti si incuriosiscon, i militari non poterono più arrestarle e in Olanda cominciarono a circolare quelle immagini che si diffusero poi nel mondo. Le olandesi, nel giorno della festa della mamma, raccolsero una cospicua somma di denaro da mandare in Argentina per comprare una sede alle Madres dove poi hanno cominciato a riunirsi”.
Laura Colombo riprende l’intervento di Silvia.
“E’ curioso il dire che non siamo nella dimensione politica. Silvia parla di politico e impolitico come se dire qualcosa di politico implicasse fare un comunicato, o comunque un discorso strutturato. Secondo me il fatto che le Madres fossero in piazza e, cogliendo l’occasione della troupe televisiva, dicano ‘fuoco’ è stato altamente politico.
Zina: interviene sul perché le Madres non sono state uccise come anche le donne di Rosenstrasse e le donne siciliane nel 1921 che durante i moti alzarono le sottane davanti alla cavalleria.
“Secondo me le madri si uccidono o in una stanza per una perversione o in genocidio in quanto fatto diffuso. In una situazione in cui si ha una madre di fronte, torna il simbolico della madre, torna la propria madre. E’ difficile farlo dove puoi essere riconosciuto additato da altri.
Beatrice chiede all’autrice come mai i film di Marco Bechis (arrestato durante il Golpe e salvato perché figlio di un italiano molto ricco) Garage olimpo e Hijos entrambi riconosciuti con dei premi abbiano registrato bassissime presenze nelle sale, anche nulle.
Daniela risponde che in Argentina c’è una grande quantità di film nelle sale su questo argomento. Le Madres però sono contrarie ai lavori di Pechis in quanto indulge sulle torture, cosa che le Madres non vogliono vengano toccate. Dicono “noi sappiamo quello che è stato fatto ai nostri figli ma riteniamo che parlarne significhi continuare a violarli”.