16 marzo 2013 –  L’Associazione Culturale Lucrezia Marinelli presenta il documentario 211: Anna (90’, Italia, 2008), sulla figura di Anna Politkòvskaja. Introduce e commenta il filmato Laura Minguzzi

Resoconto della serata a cura di Silvana Ferrari e Laura Minguzzi

211: Anna, film italiano di Giovanna Massimetti e Paolo Serbandini nominato Miglior documentario al David di Donatello 2009 e selezionato al Sundance Festival 2009. Il film ripercorre tutta la carriera di Anna Politkovskaja, dagli inizi accanto al marito, giornalista e conduttore di uno dei primi programmi “liberi” dell’era Gorbaciov, dedicato alla perestrojka, fino alla svolta radicale della sua vita quando comincia a collaborare alla Novaja Gazeta e divorza dal marito.
Il documentario  contiene immagini inedite e rare della giovinezza di Anna e propone sue testimonianze filmate nei mesi precedenti il suo omicidio. Negli ultimi tempi stava conducendo un’inchiesta sull’esercito russo di stanza in Cecenia, sulle torture e sulle violazioni commesse nei villaggi ceceni e ripeteva spesso: “E’ un miracolo se sono ancora viva”.
211: Anna non è solo la storia di una vita appassionante ma è anche la chiave per cercare di capire la Russia di Putin. Un numero e un nome danno il titolo del documentario. 211 sono stati i giornalisti e le giornaliste assassinati dalla caduta dell’Unione sovietica. E la duecentundicesima vittima è proprio Anna Politkòvskaja.
Cosa ha motivato la regista e il regista a fare questo fim-documentario?
Giovanna Massimetti così scrive: “Ho conosciuto Anna P. attraverso i suoi scritti e attraverso la lettura tradotta “in simultanea” dal russo da Paolo Serbandini. Mi sono appassionata a quanto leggevo e ascoltavo. Ma più di ogni altra cosa mi ha spinta la lettura, ascoltata dalla voce di Paolo dell’articolo di Anna “Cronaca della felicità del colonnello Mirinov” apparso sulla Novaja Gazeta nell’ottobre 2001. Il film comincia con la lettura di questo articolo di Anna P. e continua con materiale che Paolo aveva raccolto per altri reportage e documentari, nel ’91 e nel ’93, due interviste ad Anna nel 2003 e nel 2004, i sopralluoghi e i contatti con Aleksandr Politkòvkij, i figli Larisa e Ilya nel 2007 e finalmente le riprese a Mosca nel 2008. Nella storia che regge la costruzione del documentario resta un segno fortemente cinematografico: una donna e un uomo, entrambi giornalisti, si incontrano, si amano e si sposano giovanissimi. Quando l’astro di lui, protagonista del giornalismo televisivo della perestrojka, comincia a declinare, lei prende il volo e non si ferma più, diventando la voce di denuncia più forte contro la politica criminale di Putin, fino alle estreme conseguenze. Attraverso la loro vita abbiamo cercato di raccontare 25 anni di storia dell’Urss e della Russia di oggi”.
Nel Diario russo di Anna Politkòvskaja uscito nel 2007, a cura di Adelphi, tradotto dall’inglese, la giornalista registra giorno dopo giorno  come Putin riuscì a farsi rinnovare il mandato per altri cinque anni. Come, con quali mezzi, uomini, strumenti e luoghi è riuscito a restare al potere. A mantenere l’appoggio del popolo, nonostante le promesse del primo mandato non fossero state mantenute. In primo luogo aveva promesso di porre fine alla guerra in Cecenia e al terrorismo in città. Condizioni di vita migliori per la gente comune e invece …
15 gennaio 2005 ..:”E’ iniziata la protesta  delle “restituenti”. Le madri dei soldati caduti in Cecenia, private dei sussidi, hanno rispedito a Putin i 150 rubli (4,50 euro) della compensazione in denaro di alcuni sussidi: l’equivalente di venti biglietti dell’autobus. Perché la verità è che, per combattere in Cecenia, lo Stato usa le carni di chi proviene da famiglie indigenti. Il controvalore di 150 rubli è un’umiliazione e un’offesa, una presa in giro e un insulto alle madri a cui hanno tolto i figli”.
Anna Politkòvskaja, giornalista della Novaja Gazeta, corpo estraneo, voce libera della Russia putiniana è di origine ucraina, il suo cognome è Mazepa. Non è un dettaglio insignificante per la storia russa. Mazepa è stato un famoso atamano, cioè un capo rivoluzionario ucraino che ha combattuto contro l’impero zarista nel ‘700. Nata a N.Y. il 16 settembre 1958 da diplomatici sovietici, muore nell’ascensore del proprio appartamento, uccisa da killer. I mandanti sono ancora impuniti. Sapeva, come tutti coloro che sono mossi da un amore estremo, radicale e senza compromessi per la verità, di rischiare la vita per il suo lavoro di giornalista. La sua tesi di laurea su Marina Cvetaeva ci parla del suo spirito aspro, nemico dei compromessi col potere, amante della verità, cercata sempre in prima persona. Non era una moderata. Una donna affascinante, anche se tragica; aveva due figli, che testimoniano anche oggi del suo coraggio estremo.
“Lo faccio per i miei figli, di lottare per un paese migliore”. “Non bisogna fare i funghi”. Non accettava la posizione del fungo che tenta di nascondersi sotto una foglia, “ma lo vedranno comunque, lo raccoglieranno e se lo mangeranno”.
Nel film  vediamo le immagini di Anna che va in Cecenia e parla con la gente comune, con le donne, con i civili oggetto dei soprusi e delle torture dell’esercito, a caccia di terroristi nei villaggi. Intervista Ramzàn Kadyrov, figlio del presidente assassinato Achmèt, attuale presidente-rappresentante-fantoccio del governo russo in Cecenia, pupillo di Putin e da come lo descrive pare di essere in un harem fortificato. Un uomo feroce, incompetente circondato da guardie del corpo armate fino ai denti e pieno di paura.  Deve combattere il terrorismo e vive nel terrore di essere scovato dai guerriglieri ceceni. Vediamo Anna a Mosca al teatro Dubròvka nel 2003, quando cerca di dialogare con le giovani terroriste, che la conoscono, nel sequestro che diventò una strage di innocenti. Nessuno conosce ancora oggi il numero delle vittime gasate da Putin in quel teatro. Nel 2004  ecco le immagini di Anna quando parte per Beslàn e tenta di porsi come mediatrice ma subisce un tentativo di avvelenamento durante il viaggio e non riesce a raggiungere la scuola. Ha denunciato le collusioni fra governo, esercito e magistratura. Ha collaborato con Memoriàl, una associazione non governativa, di informazione e di sostegno alle donne in Cecenia. Nel 2009 scompare una sua amica giornalista, Natàlja Estemìrova, una delle/dei 211, che stava  indagando sulla sparizione di giovani donne cecene dai villaggi. Vengono rapite quando si sospetta che qualche familiare appartenga alla resistenza armata, di solito uccise dopo aver subito violenze. Lei stessa fu rapita nel luglio del 2009 da quattro  sconosciuti che l’hanno prelevata alle otto e trenta del mattino, caricata su una Lada bianca. L’hanno ritrovata nel pomeriggio in un bosco a 100 metri dalla strada federale Caucaso, giustiziata con parecchi colpi di pistola alla testa. Aveva 51 anni ed era per parte materna di origini cecene. Lavorava a Grosnyj come insegnante, prima di dedicarsi alle inchieste giornalistiche per Memoriàl.
Nel film durante un’intervista Anna pronuncia una frase molto significativa. Dopo un lungo silenzio di profonda concentrazione interiore dice: “Il mio lavoro e il mio impegno in Cecenia mi hanno cambiata, non sono più quella di prima e non posso più farne a meno. Mi hanno migliorata”.
Anna Politkòvskaja con le sue inchieste colpiva al cuore e metteva a nudo la cosiddetta verticale del potere di Putin, così lui definì l’abolizione delle libere elezioni dei governatori delle regioni russe che oggi sono decisi dall’alto, cooptati in nome della stabilità e della sicurezza..  E questo il regime non lo sopporta.  Il 10 ottobre 2006 al suo funerale accorsero più di mille persone.. Aveva solo 48 anni.
Alla fine di febbraio di quest’anno è terminato il processo dopo sei anni di rinvii e lungaggini ed il primo colpevole, l’ex-ufficiale di polizia Dimitry Pavluchenkov, è stato condannato a undici anni di carcere per il suo attivo coinvolgimento nell’omicidio su commissione della giornalista, uccisa il 7 dicembre 2006. Gli altri cinque indagati fra cui i tre fratelli ceceni Makhmudov (Rustam, Ibrahim, e Dzhabrail), Lom-Ali Gaitukayev, zio dei tre fratelli e boss di una banda cecena e l’ex-dirigente della polizia moscovita Sergej Khadzikurbanov sono nuovamente sotto processo. Gli esecutori materiali del delitto sono stati accertati. Resta da scoprire chi sono i mandanti dell’omicidio di Anna Politkòvkaja.


Milano, mercoledì
6 marzo 2013 ore 18.30, Circolo della rosa – Libreria delle donne

 

Nonviolente non arrese è il titolo che apre il nuovo numero di Leggendaria (97-98, gennaio 2013). Firmano la presentazione Mariella Gramaglia, Matilde Passa e Bia Sarasini. Il numero è una serrata discussione sul tema della violenza per estrarre la nonviolenza da usi strumentali e rappresentazioni diminuite. E ripresentarla nella forma autentica di azione politica. Con una intervista alle famose Pussy Riot. E all’autrice di Dio è violent, Luisa Muraro.

 

(Trascrizione a cura di Serena Fuart delle parti registrate degli interventi, non riviste dalle intervenute)

 

Luisa Muraro presenta le ospiti e il numero:

C’è Bia Sarasini, non è la prima volta che viene qui ed è conosciuta. Qualcuna di noi conosce anche Silvia Neonato ed è anche lei della redazione di Leggendaria. Sono entrambe giornaliste. Io sono della Libreria delle donne, sono qui come parte in causa, adesso introduco il numero di Leggendaria e faccio un’interrogazione-provocazione a loro due.

Il numero, come tutti i numeri ma più degli altri, è doppio e ricco, ci sono tantissime questioni. C’è un bel ricordo di Ivana Ceresa: donne di Bologna parlano di Ivana Ceresa, ne dicono cose toccanti. Un’altra parte che mi ha colpito è stata la recensione che Luciana Tavernini fa alla biografia di Graziella Bernabò di Elsa Morante. Ci sono più articoli che la riguardano, abbiamo festeggiato il centenario della nascita. Ancora, mi ha interessato una serie di articoli del Brasile e tra questi c’è una firma che ricorre, che non conosco, che ha scritto anche un bel pezzo su Clarice Lispector. Poi ci sono tantissime recensioni, per noi libraie è una miniera. C’è un articolo di Bianca Tarozzi dedicato al Giulia Niccolai che è stata ospite qui e ci ha parlato delle poesie di Bibi Tomasi con un’insolita severità. Ha attirato la mia attenzione un articolo dedicato all’associazione Terre Mutate di donne dell’Aquila che io ho incontrato politicamente per una questione che ho affrontato su Dio è violent e che poi ho incontrato amicalmente a Modena con una promessa reciproca di nuovi incontri.

Vengo alla parte di apertura di Leggendaria: Non violente non arrese. Vorrei leggere una mail che è arrivata ieri da Vicenza da una donna dell’associazione Donne in rete per la pace. Lei fa riferimento al movimento No Dal Molin, è una delle tante associazioni impegnate contro la base militare: ci sono oltre le donne del presidio, altre che si sono staccate dal presidio e si sono messe nell’associazione Femminile plurale che comprende medici, vari cittadini, donne e uomini associati a questa lunghissima lotta che non è più per impedire la base perché è in costruzione ma per combattere contro la politica di guerra.

«Buongiorno a tutte e grazie per le vostre segnalazioni! Peccato che siate lontane… Questo incontro mi interesserebbe moltissimo (sono sette anni che lottiamo in modo nonviolento contro la nuova base militare statunitense Dal Molin) ma purtroppo non ci posso venire. Per caso farete un verbale, una trascrizione di questo incontro? In cambio potrei trovare il modo di condividere un power point che ho preparato per la serata che faremo al presidio No Dal Molin la sera del 9 marzo (lo abbiamo chiamato The day after). Nel file abbiamo raccolto dai vari spezzoni di gruppi donne che hanno agito in questi anni in resistenza alla base 300 diapositive in ordine cronologico che ricostruiscono la ricchezza e varietà di iniziative che abbiamo messo in atto. L’intento non è certo autocelebrativo (specie vedendo i risultati che ci offendono la vista ogni giorno) ma atto a rafforzarci per continuare a esprimere la nostra profonda opposizione a questo spreco di paesaggio, risorse economiche, ambiente, umanità… Anche noi nonviolente non arrese!»

Una cosa che viene detta in questa prima parte di Leggendaria è vera: ci sono donne e uomini che si impegnano politicamente assumendo la divisa della non violenza.

Questo viene detto polemizzando con me e vengo a Dio è violent che è motivo, occasione, pretesto per queste pagine dedicate alla non violenza nella politica delle donne. Mi è stato detto una volta: «Se c’è un merito che va riconosciuto al libro di Luisa Muraro Dio è violent, è di aver smosso acque stagnanti dopo le dichiarazioni fin troppo solenni nel passato». Matilde Passa, Stefano Ciccone, Bia Sarasini mi chiamano in causa come un pretesto oppure sono convinte che Dio è violent stia su una posizione politica che non intendono condividere – Ciccone sicuramente – e io stavo quasi per stare in questo schema. Mi ero anche preparata per spiegare punto per punto. Invece ho capito che sono più le recensioni che ha avuto Dio è violent a provocarle a entrare in queste tematiche con questa passione e con questo interesse. Il libro è stato molto ripreso. È vero che ho giocato con il titolo, che non è mio ma ho accettato. Ho accettato di sfiorare il tema della violenza ma non pretestuosamente. Il librino è stato scritto per un’altra questione, non pensando a queste reazioni. Il mio intento era e resta di usare (e la parola, usare, è di Clarice Lispector) la politica delle donne e la crepa che questa ha aperto nella storia della società della democrazia (che puntava sull’emancipazione e che vi punterebbe ancora), di usare la differenza della politica delle donne, la storia delle donne che il pensiero femminista ha messo in luce e in evidenza, per mettere in rilievo la storia di sopraffazione del contratto sessuale, dove ogni tanto comparivano anche uomini che erano furiosi e indignati per il modo in cui lo stato moderno democratico aveva riorganizzato le faccende in senso di subordinazione di sottomissione e di rendere le donne complementari e non libere. Questo materiale è esploso nella cultura e nella società. Tutto questo per scambiarlo contro le politiche di guerra e pacificazione delle masse, di esautoramento di quello che è il vero spirito della democrazia. Siccome il patto sociale – che ora non c’è più mentre c’è stato un tempo in cui era in auge – aveva sempre escluso le donne, resta nella teoria, di fatto accettiamo il monopolio della forza che è nelle mani dello stato. E la politica internazionale che è diventata pura politica di forza secondo la politica economica che è diventato puro affare di dispositivi economici che di democratico non hanno assolutamente nulla. Insomma volevo usare le donne, la loro dirompenza, per attaccare le fondamenta fasulle della politica estera e interna. Questo era il mio intento e sono stata spostata, non da loro, di Leggendaria, ma dall’accoglienza del librino sul tema della violenza. Mentre su questa questione non volevo entrare nel merito. La mia posizione è quella di Simone Weil che dice che la non violenza è buona se è efficace. La condivido, la posso anche discutere, prima di scrivere il librino ho letto tanti teorici della violenza. Non ho letto quelli della non violenza perché io volevo lavorare contro Bertinotti – che aveva fatto dichiarazioni in cui si rinunciava alla violenza – non come uomo ma come simbolo di una cultura politica ormai corrente, antiviolenza: l’ipocrisia della sinistra italiana. Sono stata spostata su quel terreno e Leggendaria vuole fare un discorso sulla forza politica ed efficacia possibile dove le giovani donne affrontano la questione della non violenza e hanno cose da dire. Ci sono anche interviste che fanno vedere un paesaggio di donne e uomini, soprattutto donne, che condividono questa cosa. Ho una critica a Ciccone. Ciccone insiste che la violenza è qualcosa di propriamente patriarcale, ma il femminismo non ha accettato che si pensi che l’essere donna e femminista voglia dire evacuare il fatto della violenza. Questo sminuisce il senso della presenza femminile e pacifica delle donne. Se c’è una presenza pacifica delle donne ma è a priori escluso che possa essere violenta, è sminuito il valore della sua scelta politica. È stato detto e ridetto, e quelle di Leggendaria devono rispondere perché lo pubblicano e gli hanno dato evidenza.

La seconda critica riguarda un problema: secondo me per ragionare su questo argomento non si può mettere le manifestazioni pacifiche sindacali accanto all’azione politica non violenta. I sindacati adottano forme pacifiche perché andare allo scontro fisico sarebbe da sconsiderati. Non hanno fatto la scelta della non violenza, queste persone non escludono che se è necessario useranno anche le armi e la forza bruta: se l’altra parte impianta un regime fascista sono esonerati e io pure dalle forme pacifiche.

 

Silvia Neonato

Il tema scotta, non ho scritto, non avevo tempo di scrivere. Sono grata a Luisa di avermi fatto venire voglia di pensare alla non violenza. Ricordo la volta che ho sentito dire che le donne sono naturalmente non violente, a metà anni Sessanta, credo sia successo nella sede dell’Udi: ho pensato che non ero d’accordo e tra me e me avevo pensato allo sport agonistico che ho praticato. Da ragazza sono stata una combattente sportiva, non mi fa paura vincere mi fa più paura perdere, ho sempre avuto queste categorie in testa. Nella staffetta ci veniva detto: dovete odiare l’avversaria. Io pensavo quanto questo alimentasse spirito di squadra e volontà di vittoria… Volevo essere come loro, portare a casa il risultato, come loro non avere paura ecc. Dico questo perché non credo, non ho mai creduto che le donne non amassero la violenza. Il primo risultato che ha avuto su di me quella frase è stato di andare a intervistare una partigiana che aveva combattuto, intervista finita nel libro di Ida Farè Mara e le altre. Gliel’avevo proposta io perché c’era la questione della donna con le armi che si era trovata a sparare dopo che le avevano ucciso il fratello. Voleva rendere ciò che aveva subito. Credo allora che la non violenza sia una scelta. Quando sono stata a Buenos Aires dove si radunano le Madres mi ha colpito la sacralità… quelle donne sono coraggiose e hanno forza. L’indagine sulla forza mi cattura di più rispetto a quella sulla violenza. È come se ci fosse un buco nero, una forza che attrae chiunque: quelle donne stavano là immobili con una forza sovrumana, in maniera non violenza. Il tema della non violenza mi attrae enormemente e parto da una frase del libro di Luisa: «Chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto nella storia umana». La violenza sembra così scontata, la forza no. La cosa su cui vorrei riflettere è come trovare la forza di gestire i molti conflitti che le donne occidentali hanno davanti.

C’è un percorso. Se penso alle donne dell’Udi impegnate nelle battaglie per la pace contro l’atomica…, ma avendo partecipato io come giornalista di Noi donne a un convegno a Praga di donne che venivano dalla marcia della pace e avendo visto trascinare via dal palco con la forza una banda di Hiroshima perché aveva dissentito… se penso a quella generazione che non ho vissuto, ho solo letto… mi trovo davanti donne che facevano della pace una bandiera e che trascinavano via le altre. Siamo nella guerra fredda. Quel pacifismo non mi aveva convinta. Mi sembrava di parata. Pensavo che era un rituale falso e stantio. Oggi quello che ho ricavato è l’idea che quello su cui ho voglia di lavorare io è come trovare la forza per i conflitti.

 

Bia Sarasini

Avevamo un desiderio stimolante di discutere Dio è violent perché c’era una forte condizione non violenta che volevamo andare a vedere. In questo titolo Non violente non arrese abbiamo colto il problema della passivizzazione. Volevamo vedere quali sono le pratiche. Il titolo dice la polarità nella quale ci siamo trovate. C’è una non violenza che non significa una resa, l’altra polarità era non passive non violente. A me è sembrato che facessi tuo negli esempi il punto di vista di chi fa della non violenza una predicazione come lo stato attuale della non violenza. E quello non è la non violenza.

 

Luisa Muraro. Il paradosso è quando mi si imputa l’esempio di quella giovane donna paralizzata dallo spettacolo della violenza come se io avessi voluto portarla come esempio della non violenza. Sto parlando del problema che hanno donne e uomini della disponibilità della nostra forza, di acquistarla. Lei era indignata e paralizzata. La politica è andare al conflitto.

 

Bia Sarasini. Il pamphlet si presta a dei fraintendimenti. La domanda è: come si fa a combattere? Io inizio con un’immagine di donne armate perché non voglio dire che le donne sono pacifiche per natura e penso che la non violenza è una scelta. La mia opzione è non violenta ma ho molte domande. Non far coincidere la non violenza con la passività è un problema con tutto quello che sta avvenendo. La passivizzazione è reale sia per le donne che per gli uomini.

 

DISCUSSIONE

 

Liliana Rampello. Se c’è un pamphlet che, da vari punti di vista, è così fortemente frainteso qualche domanda te la devi fare, Luisa. Tu, in prima persona, hai permesso un’anticipazione! Non vorrei essere presa per scema per quello che ho pensato, ci sono delle ragioni. L’anticipazione rafforzata da un’intervista ha dato la possibilità fondata di leggere il pamphlet anche in quella direzione. Le posizioni di Non violente non possono essere riassorbite dalla predicazione sulla non violenza.

 

Marisa Guarneri. Do il benvenute alle mie amiche con cui ho trascorso tanto tempo che non era per niente pacifista. Rispetto al libro di Luisa, penso che sia un libro che la violenza la previene. Questa è l’impressione che mi ha fatto. Io vivo da tanti anni dentro la retorica dell’antiviolenza. Credo che poco ha a che fare il libro con il discorso del pacifismo ma molto con il discorso dell’antiviolenza, della retorica dell’aggiustamento, dell’accomodamento che politicamente si è fatto nella violenza… Questo libro non soltanto in me ma anche nelle donne con cui lavoro ha suscitato una grande passione che in qualche modo ci offre una via d’uscita quando accogliamo le donne che arrivano da noi con dentro di sé la convinzione che la passività sia cosa positiva tranne quando la forza di sopravvivenza non le porta a reagire. E anche questa reazione è oggetto di profonda riflessione quando facciamo un progetto con loro. Questo discorso del tenere a disposizione la propria forza mi ha colpito e ci ho visto come una via d’uscita e la possibilità di allargare lo sguardo rispetto a quello che capita alle donne perché in qualche maniera non l’abbiamo mai presa veramente in considerazione, ne abbiamo parlato tanto ma non l’abbiamo mai presa in considerazione. E l’antiviolenza tradizionale viene sostituita dalla forza delle istituzioni anche nelle leggi. Si tratta di sempre di leggi di tutela che ti danno strumenti sostitutivi della tua forza soggettiva. Invece questo passaggio ci fa realizzare come le donne vivono e reagiscono alla violenza da un altro punto di vista. Chi fa accoglienza alla Casa delle donne maltrattate fa proprio questa indagine: quando e come la forza delle donne porta a fare determinate scelte piuttosto di stare alle regole, dove per regole si intende stare nella famiglia, non rovinarla, non uscire da determinate situazioni oppure appoggiarsi alle istituzioni. Per me è stata una grande scoperta perché la fascinazione della violenza io credo noi ce l’abbiamo, eccome! I primi tempi che ero alla Casa delle donne la voglia di pestare gli uomini ce l’avevo da morire perché dai racconti che facevano le donne… Lo racconto sempre: mio marito quando mi veniva a prendere, per un’ora non lo guardavo e non lo baciavo. Dovevo rimettermi in sintonia con il maschile perché quello che sentivo mi allontanava. E naturalmente da qui poi passava tutto il ragionamento della piacevolezza del separatismo femminile ecc.

 

Intervento. Questo del tenere a disposizione fa guarire dalla passività e impedisce che le donne reagiscano male e stupidamente. Credo che valga per tutti il problema di essere reattivi rispetto alla violenza e non essere riflessivi. Ci sono poi strategie. Sicuramente lavorare sul tenere a disposizione la propria forza vorrà anche dire fare i conti con l’aggressività e vedere quando usarla e quando no perché spesso le donne la usano perché è l’unica arma che si giustificano e finisce male. Tenere a disposizione la propria forza è trovare alternative, ma è trovarle dentro di sé non necessariamente all’esterno.

 

Vita Cosentino. A me questo numero è piaciuto. Mi è piaciuto come è stato trattato il tema nel senso che ho visto delle posizioni non preconcette. Il fatto che ci sia un articolo sulle donne armate rappresenta proprio la capacità di vedere le cose anche che non si condividono. Mi è sembrata una bella discussione. E anche una discussione che ci mette oltre alla questione che le donne sono automaticamente non violente oppure automaticamente passive o salvatrici del mondo e questo già mi pare un tassello importante. E vi parlo di me. Sono una che ha fatto il Sessantotto e non è mai riuscita a tirare una pietra. Poi ho avuto un figlio e non sono mai riuscita a tirargli uno schiaffo. Insomma sono così però mi ritengo una combattente perché sono una che ha combattuto tutta la vita e tutt’ora sto combattendo con questa malattia invalidante che ho. Questo per dire che forse stanno anche strette queste etichette. Prima si è parlato delle Pussy Riot e delle Madres che sono arrivate a quel limite di cui parla Luisa. Le Pussy Riot hanno messo in campo una grande forza però hanno anche fatto vedere come, appunto, ci possa essere una creatività e una vitalità nell’esprimere la propria forza e al limite una violenza: stanno con il passamontagna dentro una chiesa, cioè la loro è una forza molto dura e forse un pochino violenta. Allora forse dobbiamo identificare e sfatare una serie di stereotipi per cui violenza è menare, perché io sono una che non è capace di menare e però ritengo di essere una che usa e ha usato la forza. Mi pare che stiano venendo fuori una serie di punti, tipo la libertà nelle forme di lotta che è anche a misura di quello che una si sente capace di persona di fare.

 

Sandra Bonfiglioli. Ho ascoltato con molto piacere questa riflessione. Dico subito che non mi era piaciuto come è stato trattato il tema nel libro, invece ho molto apprezzato questo “scivolamento” sul processo di forza. Faccio una critica un po’ generale: parlare della violenza come concetto generale che non parte dall’insieme delle esperienze fa entrare nella categoria violenza/non violenza. Secondo me è una concettualizzazione sbagliata che porta in posti sbagliati dove la difficoltà maggiore è quella di oscillare tra un addomesticamento della violenza e… La violenza è potente perché uccide, altrimenti l’addomesticamento del concetto di violenza secondo me non ha senso. Per tutti noi, soprattutto qui in Europa, la violenza è questo, è la guerra, la guerra santa, ci sono anche le guerre giuste. Non sono mai stata pacifista quindi ho molti timori nei confronti della violenza, va usata solo se è strettamente necessaria e non ho mai creduto che le donne non sono violente. Ho avuto una madre violentissima, sono cresciuta in una famiglia violentissima, ho visto noi donne andare in piazza su battaglie, anche per l’aborto è stata un’enorme violenza… Quando abbiamo lottato per obiettivi a noi cari abbiamo esercitato tutta la violenza che abbiamo pensato fosse opportuna. Finire nella logica violenza/non violenza non ci porta a conclusioni, a un ragionamento. Qual è la domanda nei confronti della violenza oggi? La domanda è: stiamo usando come presenza politica qualche cosa che ci permette di capire che diventiamo più efficaci se usiamo la violenza così per il significato che ha? Io credo di no perché tutta l’opera fatta in questi anni è stata una lotta di civilizzazione basata su un conflitto di natura culturale, etico, di senso perché abbiamo portato più che una conquista… Quindi penso che se andiamo a osservare possiamo notare che mille forme diverse ed efficaci di lotta, di combattimento, sono state fatte. Penso che le Femen siano geniali e ho visto la battaglia con la polizia. Questa è stata una forma politica che io metterei nel campo della forza, della violenza necessaria che a mio avviso dice quanto possano essere innovate e anche l’efficacia di queste ragazze non è di essere forti e violente ma di agire in modo sconveniente, scandaloso e in modo innovativo. Questo è il nostro terreno.

 

Luisa Muraro. Io non ho promosso il discorso violenza/non violenza. La cosa che fatto scandalo era il discorso sull’Aquila e anche su questo numero la questione delle sassate viene posta. Mi guardo bene dal giudicare chi tira le pietre o prende le armi per difendere la sua vita e la sua dignità. Il mio discorso era: ma come ce la fate a farvi offendere da quel pagliaccio che usa la vostra città come scenario, com’è che non vi è venuto in mente di prendere un sasso e tirarlo? È una retorica, un linguaggio e questa cosa ha scandalizzato le donne, alcune qui presenti. Questo è il problema. Parlare delle Pussy Riot come non violente è perdere l’essenziale. L’essere o non essere violente non è il punto della loro lotta. Il punto è essere efficaci con i mezzi a loro disposizione senza mettersi nei guai. Si sono messe nei guai ma si erano spinte in là e hanno messo nei guai i loro avversari. Hanno avuto una magnifica tattica. Invece il portare tutto sull’asse violenza/non violenza è ridurre tutto quanto. È la cosa di cui mi sono lamentata riguardo a questo numero, numero che però ha un suo messaggio. Lilli dice: se tu hai dato adito a tanto equivoco ci avrai messo del tuo. No, Lilli, rispondo io, la politica delle donne è fatta in questo modo: finché è per le donne va tutto bene ma quando la sbatti sul tavolo principale non va più bene anzi non capiscono cosa stai facendo. Certo ho fatto degli errori tipo consentire quel titolo e accontentare la mia editrice che lo proponeva appassionatamente. C’erano dieci ragioni per metterlo e una per non metterlo, quindi ho ceduto. Il fatto è che c’era la parola violent dentro che però non è violenza. Io degli sbagli, Lilli, li ho fatti ma non imputarmi di essere stata spostata su un terreno che considero fasullo, violenza e non violenza. A me interessa la politica di guerra, la perdita di forza che i cittadini hanno. Io sfido i sette anni di lotta di No dal Molin dove nessuno ha risposto a quella vasta mobilitazione di popolo. Gli americani sono andati avanti imperterriti con una strafottenza unica e i nostri uomini politici con codardia. Ho visto l’agonia di questa faccenda, ho visto morire la politica da parte di quelli che l’impegno politico lo avevano. Non mi interessa la politica delle donne per le donne, le donne sono una forza dirompente che bisogna giocare, ma vorrei non essere incastrata nella questione violenza/non violenza. Loro [Leggendaria] hanno intervistato dieci giovani donne e di queste la metà dice che lancerebbe i sassi. Quello che ha testimoniato Vita è un’inibizione: una può dire “io a mio figlio non ho mai voluto dare uno schiaffo” ma se dici “non ho potuto” è un altro discorso, è un’inibizione che non fa bene né a te, Vita, né a tuo figlio. I sassi ai poliziotti non andavano tirati ma a Berlusconi sì. Questo è il punto, se non afferriamo questa questione restiamo incastrate nell’asse violenza/non violenza e politicamente nell’auto moderazione.

 

Bia Sarasini. Vorrei dissentire: la non violenza è molto violenta. Ci sono alcuni che caratterizzano la non violenza come forma politica. Innanzitutto è mettere in gioco se stessi, si fa del male a sé stessi. Non colpire l’altro è una funzione di responsabilità. Io che da bambina mi sono trovata a giocare a tirare i sassi con i ragazzi ho scoperto che non solo mi facevo male io ma non sopportavo il male che facevo all’altro. Questa non è auto moderazione, è conoscenza dell’altro, stare con l’altro, questo è il fondamento della non violenza. Se lo riduciamo a una scenetta, un gioco, alla declamazione della non violenza, diventa un’irrisione di pratiche esistenti in cui si mette in gioco sé che richiede forza, consapevolezza di sé, richiede saper sostenere un conflitto. Io non faccio male a un altro e posso rischiare la mia vita: questa è la posta in gioco, non è nella tradizione occidentale delle forme di lotta anche se esistono pratiche di lotta in questo modo. C’è di mezzo l’idea del potere che è il potere che si conquista. Quello che abbiamo cercato di mettere in gioco è che non si può fare un’affermazione di non violenza esterna, occorre un’interiorità che aderisca a questo. È anche una disciplina a cui si può arrivare per diverse vie per cui non credo abbiamo fatto un torto alle Pussy Riot perché la loro pratica per come agiscono è non violenta. Bisogna intendersi.

 

Luisa Muraro. Tu, Bia, parli di tirare i sassi agli amici, lei, Vita, ai poliziotti, io dicevo in un contesto precisissimo. Parlavo di Sarajevo: erano giovani uomini mandati lì e non hanno difeso le vittime che venivano massacrate inermi sotto i loro occhi. Sono stati prima decorati con le medaglie poi processati e condannati a pene lievi perché troppo giovani quindi non avevano capito. Comunque dev’essere innaturale una persona che assiste a un’uccisione di un inerme. Doveva essere innaturale stare a guardare un uomo indecente che viene a fare della tua città distrutta una passerella per le sue passerelle, era naturale invece respingerlo indietro. Bisogna parlare dei contesti, della logica interiore, della disponibilità libera della propria forza. Se tu, Bia, mi dici: faccio male a me stessa, queste sono astrazioni.

 

Bia. Non sono astrazioni ma pratiche.

 

Luisa. Le Pussy Riot non hanno fatto nessuna pratica di non violenza, si trovano in una strettoia dove se sbagli la paghi. Inventano quindi una pratica politica, di quelle che non chiamiamo non violente ma pratiche politiche di parola, di affidamento, di relazione tra donne. Non abbiamo mai detto “scegliamo la non violenza”, abbiamo detto “facciamo pratiche che abbiano un senso, un’efficacia, che non ci mettano nei guai”. Tirare sassi è un gesto significativo come andare a suonare la chitarra sull’altare della Madonna. È un gesto certo che va a segno. Ma se quello se lo merita il sasso – perché quello sfacciato se lo merita – non deve inquietare la coscienza neanche di Gandhi che si preoccupava sempre di chiedere a quelli che stavano con lui se se la sentivano di fare certe azioni. Lui, come le Pussy Riot, faceva in modo di suscitare clamore. Le pratiche di non violenza sono pratiche che, se sono studiate per avere efficacia, sono d’accordissimo a farle, ma non si può giudicare negativamente una persona che per la sua dignità tira un sasso. Invece qui sento che si tende a fare questo. Si dice “non si può, non si deve tirare i sassi a Berlusconi”, invece bisogna ammettere che se uno per difendere la sua dignità si ritrova a tirare un sasso va bene così.

 

Laura Minguzzi. Volevo dire una cosa sull’importanza del contesto, sul collocare gesti e azioni. A proposito delle Pussy Riot, il loro gesto è stato molto studiato, pensato da un paio d’anni e il momento è stato scelto apposta, è il momento delle elezioni, della propaganda politica, quindi hanno colpito nel momento giusto per un preciso intento politico. La loro manifestazione artistica è stato un gesto estremamente politico e sono andate a far coincidere momento artistico, linguaggio, momento storico e luogo simbolico. La violenza non l’hanno fatta loro, è stata invece delle guardie del corpo che presidiavano la chiesa (chiesa che è divisa in due parti, una privata e una dove si fanno manifestazioni profane, riunioni politiche propaganda per le elezioni). La violenza l’hanno fatta le guardie trascinando via una di loro.

 

Bia Sarasini. Io propongo che Luisa ci insegni a tirare i sassi, il materiale ce l’abbiamo.

 

Intervento. Io sono curiosa di sapere perché l’editore voleva il titolo Dio è violent, perché trovo proprio centrata la rievocazione della violenza in quel libro, trovo che il titolo sia adeguato. La cosa che mi viene da dire è questa: lì c’è anche una grande discussione sulla giustizia e non solo sulla forza come sottocategoria della violenza. Mi riattacco a quell’esempio della ragazza che non reagisce per impotenza, chiamiamola così. Devo dire che è una delle poche cose che ricordo bene perché mi ha colpita, come se tutto il libro fosse un’evocazione di quel ragionare singolare, individuale per cui la violenza è eventualmente consegnata a un gesto. Invece la valutazione della giustizia e ingiustizia è qualcosa di definitivamente espropriato, cioè se passa l’idea del buonismo in un certo senso riflette un diffuso senso di impotenza. Comunque il titolo su Dio è come se l’unica libertà vera fosse quella di Dio e guarda caso contempla anche la violenza, mentre la situazione degli individui che vogliano anche pensare politicamente è quella di non sapere a che cosa votarsi per trovare un’azione comune. È vero che le donne hanno messo sul piatto una forza ed è una forza diversa che non ha fatto scuola in quanto forza comune e la situazione di fatto che prevale è il pensiero del buonismo e che il singolo se vuole trovare giustizia si deve appellare a Dio.

 

Giordana Masotto. Dal primo momento che ho visto il libro di Luisa ho pensato che il titolo era bello e quando l’ho letto ho pensato che il titolo era molto adeguato al contenuto. Se vogliamo stare al tema, e io sono d’accordo che le due parole principali del nostro discorso siano l’efficacia e la forza, il problema sta nel capire come si esercita il giudizio dell’efficacia. Perché quello che noi cerchiamo di dire con la nostra politica e che secondo me ha cercato di dire Luisa è che se non siamo in grado di leggere a sufficienza la violenza che viene esercitata in tutti i modi oggi e da chi, tendiamo ad abbassare la necessità della nostra efficacia a situazioni… cioè ci accontentiamo. Il problema è da una parte il riconoscimento della violenza diffusa e di tutti i suoi livelli dall’altra di non abbassare il tiro. Dopo di che ci sono pratiche a livello alto, non violente come dice Bia, o artistiche ecc. Il problema è metterci d’accordo su qual è il livello della posta in gioco su cui misuriamo la nostra efficacia perché altrimenti c’è una sorta di abbassamento delle pretese, della cresta a un livello praticabile. Il problema è di efficacia rispetto alla posta in gioco. Dobbiamo confrontarci su questo, perché che sia violento non violento conta quanta forza ha rispetto all’efficacia.

 

Intervento. Non ho letto nulla però ascoltando il dibattito faccio una riflessione. Ho l’impressione che di fronte alla passività totale, alla rinuncia non solo delle donne ma anche degli uomini rispetto alla posta in gioco della politica c’è l’addomesticamento e un ignorare del tutto quello che è la posta in gioco e il conflitto in oggetto. Se non riusciamo a vedere quali sono i nostri nemici è perché forse la violenza del potere, dell’economia e della politica ha addormentato le coscienze. Ricominciare da dove ci siamo addormentate e riprendere. Perché anche la non violenza non ha oggi il modo per rendersi visibile a meno che non ci siano le cose clamorose che passano attraverso voi.

 

Lia Cigarini. [Non si sente]

 

Silvia Neonato. Noi siamo state un movimento antagonista molto forte. Io negli ultimi due anni ho frequentato le ragazze di Snoq di Genova. Quello che mi colpiva era l’estrema moderazione. La non violenza è una cosa seria e spesso molto violenta contro se stessa. Le Pussy si stanno facendo due anni di carcere. Le Madres argentine sono spesso incarcerate, strattonate, ferite, uccise. Io credo che ci vuole un enorme coraggio. La ragazza che guarda la scena di violenza nel libro di Luisa ha paura, un sentimento di noi umani. Intendo dire che la cosa più difficile nella vita è trovare il coraggio per esercitare la forza sia individualmente che politicamente e su questo sono molto d’accordo su quello che ha detto Lia, è un momento in cui noi non siamo particolarmente efficaci…

 

Bia Sarasini. Non mi piace fare una discussione di etichette. (Tra l’altro, in questo senso abbiamo orientato la discussione sul non parlare di pace, la pace è un’altra cosa.) La violenza nasce dal conflitto. L’efficacia e il contesto sono fondamentali, siamo in un momento in cui le soggettività non hanno la forza di trovare obiettivi, di andare ai tavoli principali. Capita alle donne e ma non solo. Capita di non avere parole, di essere ridotte all’impotenza. È la realtà. L’implosione dei partiti, delle forze politiche, lo stesso Grillo agisce in questo spazio. La riflessione di Lia mi trova d’accordo. Credo che la non violenza sia una scelta, credo che la pratica non violenta permetta di agire nei conflitti, non li nasconde, non li cancella, non pacifica non mette in armonia. Tutto il ragionamento sul patto e contratto sociale e il monopolio della forza da parte dei maschi mi interessa moltissimo, la trovo una parte molto ricca.

La scelta di non volere fare del male a un altro è una scelta, la vedo come una speranza che non sia una scelta… Questo non comporta il giudizio, quando è in gioco la vita ognuno fa quello che può fare e sa fare. Paradossalmente penso che le pratiche non violente siano delle scelte simboliche…

Scegliere mettere in gioco il proprio corpo… Se le Pussy avessero scelto in un certo modo la loro performance diventava spettacolo… quindi è una disponibilità al sacrificio personale.

 

Lia Cigarini. Viene citato Mandela: Mandela è riuscito facendo politica. Se non avesse avuto questa inventiva politica sarebbero scoppiati degli atti violenti. Quindi la violenza nasce quando non c’è la possibilità di fare altro. Credo che Mandela sia l’unico che abbia fatto una grande politica negli ultimi trent’anni. Quello che è successo all’Aquila è che i dirigenti non hanno fatto azioni politiche e forse il sasso doveva essere lanciato perché non c’era proprio politica.

 

Bia Sarasini. Stiamo parlando di politica e di azione politica. Le azioni politiche possono sfociare in forme aperte. Ma dall’invenzione si alimentano anche le pratiche.

Luisa Muraro. Sembra che diciate che le Pussy Riot abbiano scelto la non violenza. Hanno scelto di fare politica in quel modo lì, le Madres in un altro modo. Tu dicevi che la non violenza è violenza efficace. No, è la politica che è efficace.

Bia Sarasini. Sto parlando della forma politica della non violenza che è efficace.

Luisa Muraro. La forma politica esplicitamente della non violenza va tematizzata perché non si può fare che le Pussy Riot o le Madres siano esempi di forme politiche non violente…

Bia Sarasini. C’è chi ritiene che dobbiamo usare la violenza, spaccare le vetrine perché solo così diventiamo soggetti attivi… Ma si può essere attivi usando altre forme politiche.

Luisa Muraro. Dipende dai contesti. Bisogna fare politica. La politica dei grandi movimenti no global… quando quelli di Seattle hanno deciso di metterci la violenza hanno preparato il disastro di Genova perché la violenza l’hanno usata quegli altri che la violenza la sanno usare meglio. Quindi quelli di Seattle hanno sbagliato la scelta politica, non hanno sbagliato perché hanno usato la violenza.

Bia Sarasini. Erano predisposti alla violenza.

Luisa Muraro. Genova era una trappola, era la più grande manifestazione pacifica… Le Pussy Riot hanno attuato una strategia per colpire il bersaglio.

[Fine registrazione]

INCONTRO PRESSO IL CIRCOLO DELLA ROSA DEL 19.01.013

Di Bianca Bottero

 

YES,WE CAN!

 

Sul tema che Laura Minguzzi ci ha proposto di trattare, “La città che vogliamo: l’altra Milano”, questo mio intervento non vuole essere una presuntuosa presa di parola per una questione di cui non ignoro la complessità, ma il tentativo di sottolinearne i significati più importanti, euristici, senza d’altra parte trattarli a sé, in modo autoreferente, come spesso si tende a fare.

 

È mia convinzione – come del resto sempre sottolineato in questo luogo – che sia necessario nell’interpretazione di fatti umani e sociali complessi appoggiarsi a un metodo di ricerca che sostituisca al sistema di saperi verticali, specialistici, peculiari al pensiero occidentale della modernità, una rete olistica orizzontale, consistente in intrecci di soggetti, riflessioni, competenze, pratiche: cioè quel diverso sapere, del quale è peculiare testimone il pensiero femminile.

Ma perché questo diverso sapere acquisti autorevolezza, perché riesca a rompere la crosta di concetti e di comportamenti attraverso i quali la modernità ha agito così prepotentemente, in particolare nell’ambito delle discipline spaziali, mi pare importante in queste occasioni di dibattito fare entrare questo sapere in una dialettica diretta con quanto ancora ci condiziona e soprattutto con quanto il futuro ci prepara.

Tentare un confronto tra questi due mondi, tra un sapere tecnico-scientifico che si dà autonomamente la definizione di “vero e giusto” (e ciò ha permesso che nelle sue forme più scopertamente produttivistiche egemonizzasse il mondo accademico e plasmasse le modalità operative delle istituzioni fino a diventare buon senso diffuso) e una aspirazione all’uguaglianza nella distribuzione dei beni  spaziali, alla valorizzazione delle bellezze naturali, all’etica del consumo è stato sempre per me, che lavoravo su questi temi all’università e dovevo trasmetterne il senso agli studenti, una sorta di necessità ineludibile: da quando individuavo nelle proposte del planner-geografo scozzese Patrick Geddes e nel suo Piano per Indore, in India, basato sulla minuziosa interrogazione dei costumi e bisogni dei luoghi e della popolazione (quanto il tempo impiegato!) l’alternativa radicale alle nuove regole pianificatorie produttivistiche e funzionaliste messe in atto dalla nuova società industriale all’inizio del secolo scorso; o studiavo le “progettazioni partecipate” di Lina Bo Bardi, di Ralph Erskine, di  Giancarlo De Carlo che cercavano modalità di intervento radicalmente contrapposte a quelle che diffusero l’edilizia massificata in tutto l’occidente a partire dal secondo dopoguerra. O quando indicavo nell’Advocacy Planning, cioè  nell’appoggio tecnico fornito gratuitamente da architetti e da planners alla popolazione espulsa dai propri quartieri, la strada per una diversa giustizia sociale nelle politiche di rinnovo urbano negli USA degli anni ’60.

Quelle intuizioni, quelle proposte generose (che, se pur lentamente, hanno avuto fertili sviluppi in diversi paesi europei) sono di mezzo secolo, o addirittura di un secolo fa, ma ben poco hanno modificato le pratiche di intervento urbano in Italia, sia nell’azione tecnico-amministrativa sia, ancora più grave, nelle modalità di insegnamento e di applicazione delle discipline progettuali nei luoghi a ciò deputati.

Non c è dunque da meravigliarsi se quel formicolante protagonismo, quel moltiplicarsi di movimenti civici impegnati nei problemi grandi e piccoli della città che ha interessato negli ultimi anni le popolazioni urbane in tante città italiane, spesso sorretti e guidati da donne,[1] abbia letteralmente spiazzato tanti tecnici dentro e fuori le istituzioni e soprattutto abbia dovuto subire il dileggio di quanti li accusavano di “localismo”, di interesse meschinamente opportunistico, qualificandoli in modo dispregiativo come NIMBI (Not In My Back Yard) perché si permettevano di rifiutare o di voler discutere opere che modificavano radicalmente il loro uso dello spazio, la loro memoria dell’ambiente, il loro piacere di goderne, in definitiva la loro vita; opere che, presentate come “necessarie alla funzionalità e al progresso” coprivano spesso, gratta gratta, solo gigantesche operazioni speculative…

 

Milano, se pure in modo un po’ ancora sommesso – forse per quel manzoniano riserbo che caratterizza la popolazione ambrosiana – si è anch’essa venuta mobilitando, soprattutto di fronte alle mostruose ultime iniziative edilizie varate dalle giunte Albertini/Moratti che, con la prospettiva di una provinciale, tardiva “modernizzazione” hanno sfigurato importanti luoghi storici, inserito parcheggi sotterranei nelle belle piazze alberate ottocentesche, rese ancor più derelitte le periferie.[2]

Ma siamo solo agli inizi: io credo infatti che l’azione dal basso non voglio parlare di partecipazione, un termine che per l’uso burocratico, superficiale e direi anche in malafede che spesso se ne fa, crea delle resistenze e degli equivoci per i suoi contenuti concettuali radicali, rappresenterà, dovrà rappresentare un riferimento fondamentale nella configurazione della città del futuro. Tale azione infatti, nel suo implicito riferirsi alla vita e al benessere degli individui impone un approccio ai problemi complessi della città e della società che scardina e demistifica la apparente neutralità del Piano generale e la sua spesso offensiva sudditanza agli interessi proprietari e alla rendita speculativa sul suolo urbano, riscuotendo il corpo sociale da quella sorta di apatia in cui lo stesso lo ha costretto, per il modo spesso oscuro, attraverso meccanismi tecnici difficilmente controllabili con cui agisce.

Esiste oggi una contraddizione fondamentale tra i principi di un Buon Governo dello spazio pubblico e del benessere sociale e gli interessi legati alla proprietà privata del suolo e dei beni urbani: una contraddizione che, pur escludendo ogni patologica connivenza tra proprietari e tecnici, le stesse leggi vigenti non sono in grado di risolvere.[3] Questa contraddizione appare in una prospettiva particolarmente oscura e paurosa a fronte della crisi sociale cui lo strapotere finanziario ci induce: che porta a creare fasce sempre più ristrette di super ricchi – che si chiuderanno in enclaves protette nella città – e la massa di “poveri”o meno-abbienti al loro servizio[4]: con una drammatica trasformazione, quindi, nell’uso libero e democratico del suolo urbano. Come la recente vicenda del gruppo di giovani del Macao[5] ha dimostrato, l’azione dal basso, al contrario, agendo secondo quanto è stato definito una sorta di “situazionismo tattico “[6]  interviene punto per punto in una continua interlocuzione coi cittadini a costituire una sorta di diffuso laboratorio, creativo, suscitatore di risorse, immaginifico, tale da suggerire quale potrebbe diventare la civiltà europea del domani: una civiltà che ha nell’uso libero, fruibile e sicuro della città, nel suo governo consapevole e partecipe da parte di tutti i cittadini, uno dei più forti capisaldi. Queste esperienze e iniziative, sono troppo poche ancora in Italia, ma già tali, secondo me, perché alcune giunte municipali più sensibili, come la nostra attuale, possano guardare ad esse per un appoggio sostanziale alla loro azione.



[1]           Per questo protagonismo rimando al testo Architetture del desiderio (a cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Faré, ed. Liguori, Napoli 2011), uno stupefacente documento sulla maturità del protagonismo femminile nell’interpretare le bellezze e le qualità più sottili delle proprie città e competenza nella organizzazione della loro difesa.

[2]              Così la città ha continuato, fino al recente cambiamento di giunta e di indirizzo, a occupare  gli ultimi posti nella classifica della qualità della vita che in un confronto con le altre città europee la vedevano (dati 2002):

                al 90° posto per il verde accessibile – (15mq. per ab.contro i 96 di Stoccolma );

                al 90° posto per la rete ciclabile ;

                al 94° posto per posti auto di interscambio ecc.:

e, di contro la vedevano (vincente)

                al 2° posto per il consumo annuale di aree naturali e agricole periurbane

                al 4° posto per il consumo annuale di acqua

                al 2° posto per il consumo annuale medio di NO2

[3]               Attorno a questa contraddizione si è spesso interrogato per es. Stefano Rodotà, che ha proposto l’introduzione nel nostro diritto, oltre a quello di “bene pubblico” e di ” bene privato”, il concetto di “bene comune”

[4]               Si vedano su questo le analisi, tra altre, di Saskia Sassen e di Loretta Napoleoni

[5]               Sulla vicenda del Macao si veda V.D. n. 102

[6]               La defiinizione è stata coniata dall’urbanista di Rotterdam Petar Zaklanovic, capo del Progetto europeo “Atelier Architectures Manifesto”, ed. Eterotopia In Folio, 2012

A cura di Laura Minguzzi

Serata 19 gennaio 2013 alla Libreria delle donne – Circolo della rosa

Bianca Bottero nel suo articolo su V. D N° 103 dal titolo Common Ground sulla 13^ Biennale di Architettura di Venezia, scrive che il senso di questa manifestazione è il richiamo, attraverso varie proposte di diversi paesi, al significato primario dell’architettura cioè essere in empatia coi soggetti e i luoghi, in dialogo con i contesti e di conseguenza in  contrasto con la tendenza corrente del sistema degli/delle archistar. Oggi tutti parlano della città come sistema di relazioni, infatti anche a Milano, abbiamo l’Assessorato alla coesione sociale, ma queste affermazioni sono destinate a rimanere generiche e neutre se non si dice apertamente che la città delle relazioni entra in conflitto con l’esibizione della potenza tecnologica-tecnocratica e ingegneristica e con la logica della speculazione immobiliare che a Milano ha prodotto brutti quartieri, risultato appunto di speculazioni brutali e maldestre. Alcuni esempi che abbiamo tutti sotto gli occhi: a Porta Garibaldi, City-life, con il grattacielo dell’Unicredit, un ammasso di edifici, una torre con guglia, stretti in uno spazio angusto, senza respiro, anche se c’è il contrappunto (come dice l’archistar che l’ha progettato, Daniel Libeskind) delle fontane e dell’acqua che scorre nella Piazza Grande. A Santa Giulia col progetto firmato da Norman Foster, bloccato dalla Procura.  A Porta Vittoria, dove era prevista la biblioteca europea, sono spuntati come funghi  blocchi di appartamenti di edilizia residenziale e non si parla più del progetto originale. Nella zona una boccata d’aria diversa è arrivata dall’occupazione di Macao delle palazzine dell’ex-Borsa del macello.  Altre buone notizie: due nuovi luoghi di donne, Apriti cielo! e l’Alveare, sono stati aperti.  Milano è la città che io ho scelto come luogo dove abitare. Fin dagli anni settanta ha esercitato su di me, come su altri, una forte attrazione come luogo dove è potenziata la forza e il pensiero della libertà femminile, dell’agire che produce pensiero in relazione. All’inizio del 2000 esercitò su di me una certa attrazione anche il progetto di Santa Giulia firmato da Norman Foster, che fu pubblicizzato largamente con filmati, manifesti, maquette in tutta la città e che, tuttora, è un’area sotto sequestro, coperta di rovi, arbusti, dove in primavera spiccano il volo coppie di fagiani. Qualche settimana fa finalmente l’assessora Ada Lucia De Cesaris ha portato a termine i lavori di bonifica di una parte del Parco Trapezio (era la terza volta che venivano eseguiti) e così è stato possibile aprire l’asilo che si trova dentro il parco, dopo un’attesa, fatta di promesse non mantenute, di quattro anni. Il parco purtroppo non è ancora agibile e i lavori continuano. L’assessorato si è accollato quindi le spese di un risanamento che avrebbe dovuto essere stato fatto dalla impresa costruttrice: ha rifatto da capo, ha rimediato ad un danno provocato durante la passata amministrazione. La politica al servizio della città, sono parole che sento spesso pronunciare dal sindaco, da varie assessore.  Il Comune al servizio delle cittadine e dei cittadini. Ma dov’è la radicalità se si resta nella logica del rammendo, del mettere toppe? E non si stoppano, non si pongono vincoli rigorosi all’uso e consumo del territorio?

Io non voglio andare via da Milano ma fare vivere l’altra Milano, l’essere altrimenti della città, ciò che abbiamo chiamato l’architettura del desiderio.  L’esistenza di relazioni non strumentali, di luoghi altri forse non possono impedire il consumo del territorio, dell’aria e del corpo ma possono far esistere la Milano altra che ha ispirato il Primum vivere e il convegno di Paestum. Come ha detto Antonella Cunico del movimento No dal Molin di Vicenza e ora di Femminile Plurale: “Non abbiamo potuto impedire l’ampliamento della base militare a Vicenza ma possiamo continuare a coltivare la nostra idea di città, questa forza e questa libertà nessuno ce le può togliere”.

In un certo senso per me la bellezza dei grattacieli non è disgiunta dal significato primario dell’abitare, nel senso che l’arte ha sempre avuto su di me un effetto benefico, salutare, sul mio benessere mentale e fisico, ma quando appunto non è completamente avulsa e indifferente al contesto, al territorio… L’arte, la bellezza sono per me un bisogno primario. Questo l’ho sperimentato negli anni settanta-ottanta quando arte e politica delle donne procedevano insieme. Entrambe aprono conflitti, ampliano i contesti, fanno  crescere soggettivamente e collettivamente. Ho sentito recentemente il direttore del MACRO di Roma fare un intervento di fronte alle e agli studenti dell’Accademia di Brera in cui citava le Guerrilla girls come pioniere dell’arte urbana, la public art come un esempio di arte non monumentale, celebrativa o decorativa, arte che si confronta col contesto, con la storia passata e con la storia vivente, con la vita di chi abita al presente la città, il mondo.

Pensando a questo nesso per me essenziale fra arte, bellezza e salute ho chiesto a Maria Castiglioni, iniziatrice del gruppo delle Giardiniere e attiva al tavolo salute del comune, di parlarci della sua pratica di relazione. Nel volantino relativo all’ultimo incontro di ottobre a Palazzo Marino, Maria citava un verso di Emily Dickinson, “La campagna indossa una gonna scarlatta”, per far riflettere sulla relazione di dipendenza della città dalla campagna, della cultura dalla natura e metteva sul piatto questo interrogativo riguardo all’Expo 2015: da dove arriverà il cibo?

Noi qui alla Libreria e al Circolo della rosa, grazie al lavoro del gruppo di cucina relazionale Estia, abbiamo ragionato spesso sul cibo e sull’alimentazione. Maria ha intrecciato relazioni con alcune sindache e vice-sindache di Comuni virtuosi dell’hinterland milanese e  ci racconterà i frutti e le difficoltà di questa sua pratica relazionale in rapporto alla città.

Sandra Bonfiglioli, insieme ad Ida Farè che ha fondato il gruppo Vanda al Politecnico di Milano negli anni novanta, una pioniera dunque, ha lavorato da lunga data sui tempi della città e in particolare sui tempi delle donne. Inoltre, invitata dal Movimento delle città vicine, ha partecipato a molti incontri in diverse città dove ha dibattuto queste problematiche dopo la pubblicazione del libro collettaneo Architetture del desiderio, resoconto ricco di testi ed esperienze del convegno del 2008 su questo tema qui in Libreria, insieme ad Anna Di Salvo e Bianca Bottero e mi piacerebbe, se vuole, che ci parlasse dei nodi irrisolti più interessanti emersi da questi incontri e dello stato attuale delle sue ricerche.

 

E Vecchi merletti è l’ultimo libro delle avventure della “detective per caso” – come la definì Oreste Del Buono – Alice Carta, creatura letteraria di Fiorella Cagnoni. Le sue precedenti imprese le potete leggere in Questione di Tempo (La Tartaruga Ed., 1985-2002) Incauto Acquisto (Tartaruga Ed., 1992), Arsenico (La Tartaruga Ed., 2001), Alice Carta in Inghilterra (La Chiocciola, Zane Ed., 2007).

Incomincerò questa presentazione prendendo da Dorothy Sayers (Oxford, 1893-1957) – grande scrittrice di gialli, 15 in tutto – una citazione dalla prefazione di un suo libro: “È stato detto che un interesse amoroso è soltanto un’interferenza in una storia poliziesca. Ma se si pensa ai personaggi che vi sono implicati, è l’interesse poliziesco, invece, che potrebbe sembrare un’interferenza esasperante nella loro storia d’amore…”
Il titolo del libro da cui ho tratto la citazione è Un’indagine romantica (Tartaruga ed., 1991), che potrebbe essere anche un altro possibile titolo di questo ultimo libro di Fiorella Cagnoni – edito dalla Casa Editrice Zane di Lecce, nella collana La Chiocciola.
Anche Angela Donahoe, studiosa inglese (Monash University) ha parlato di un focus, negli ultimi scritti di Fiorella, “much more personal and self-reflexive”.
L’intreccio tra storia d’amore e indagine poliziesca è ammesso dalla stessa autrice, a partire dal titolo della prima parte (Tra un delitto e l’altro) nonché in un dialogo tra la protagonista, la detective Alice Carta a Milano e la sua innamorata Giuliana Penna, in Messico, attraverso uno scambio telefonico che avviene, come è ormai usuale di questi tempi, in Skype:

“Abbiamo un elenco di quesiti interminabile.”
“Ti posso dire qualcosa che non c’entra niente?”
“Cioè?”
“Una volta ho visto scritto quesito, e la prima reazione è stata leggerlo come in spagnolo… come un piccolo queso, un formaggino insomma…”
“Interessante.”
“E poi sai cosa penso, tornando al tema ma un po’ a lato?”
“Dimmelo.”
“Tu hai fatto diciamo varie indagini, no?”
“Hm.”
“Dico, hai risolto qualche mistero, legato a delitti, assassini…”
“E allora?”
“Qui non c’è delitto, eppure c’è una ricostruzione. Di ragioni, di cause, di sospetti e tracce, ombre e luci… Questioni più di psicologia che di reato.”
“Mi fai tornare in mente Poirot,” sorrise Alice Carta.
“In che senso?”
“Diceva: la trama è sempre la stessa, è la psicologia che cambia. Ma cosa intendi? Che in mancanza di un delitto analizzo il mutamento improvviso di un amore?”
“Ma non nel senso che siccome non c’è un delitto indaghi sulla crisi di un amore. Piuttosto che indaghi su questo come se. Intanto che non c’è un vero e proprio delitto.”

Quanto c’è di romantico e quanto di poliziesco in questo libro? Sono due aloni/dimensioni che si intersecano continuamente, sia temporalmente che letterariamente. Viene creato dall’autrice un alone poliziesco intorno alla fine di un amore. Alice Carta cerca di indagare su questa fine come fosse un delitto e lo fa con l’animo – che le è congeniale – della detective, anche se sa perfettamente che in questo tipo di ricostruzione non c’è verità possibile, non c’è una precisa consequenzialità, il nesso causa/effetto sfuma e non esiste alcun assassino da scoprire.
E c’è un alone romantico – che uso nella sua definizione da manuale di letteratura come l’affermazione della libertà individuale, lo scavo psicologico e dei sentimenti, l’inclinazione alla dimensione pedagogica – che percorre anche la parte più propriamente poliziesca.
Quindi romanzo che combina più generi, poliziesco, romantico, pedagogico, che vuol intrattenere ma anche trasmettere un messaggio politico e culturale che attiene alla pratica politica delle donne degli ultimi decenni.
Una sfida ardita per l’autrice di cui si coglie la tensione a far sì che i propri personaggi esprimano fino in fondo – se un fondo ci può mai essere – inquietudini, drammi, desideri e speranze che hanno accomunato e accomunano una, e anche più di una, generazioni di donne e femministe.
“Che la letteratura sia dolce e utile” – ammoniva Orazio, e mi pare che Fiorella abbia fatto suo questo invito.
Il romanzo si divide nettamente in due parti di 90 pagine l’una.
La prima narra della fine, lacerante e fondamentalmente inspiegabile (come la nascita di un amore, ma di questa non ci si chiede il perché) di una relazione d’amore tra due donne; la seconda introduce lo scenario in cui avverrà il delitto e vi si addentra progressivamente, anche se, contrariamente al classico plot del romanzo giallo, perché appaia il cadavere occorre aspettare ben 146 pagine!
Che però il delitto sia nell’aria lo si intuisce già nella prima parte dove compare una pagina di diario, scritta dalla mano assassina, – espediente letterario che crea tensione e annuncia la futura entrata in scena della principale protagonista di ogni romanzo giallo: la morte.

Vivere la vita così – normale. Ma preparandosi all’atto FINALE, perché non si può sfuggire due volte al giudizio definitivo. L’unico giudizio DEFINITIVO è la morte. E se i tribunali degli uomini non condannano a morte, sarà la mia mano a castigare L’INFAMIA.
Nemmeno l’ombra… C’era una canzone che diceva… nemmeno l’ombra della perduta felicità… La felicità te la portano via, non la perdi, non è un accendino o una patente. Quelli si perdono, la felicità te la rubano.
Ogni gesto a suo tempo.
Cancellare il DISONORE.
Non farsi scoprire.
Non il delitto perfetto, che anche quello è una chimera. Al contrario – il perfetto delitto che lava l’onta.
Concedere qualche possibilità di ravvedimento? Difficile da pensare.
Intanto c’erano da sistemare tutte quelle fotografie. Anni e anni di fotografie buttate ancora alla rinfusa in scatole verdi di cartone, che neanche riuscivano a contenerle bene.
ORDINE. Fare ordine.

Qualche informazione per orientarsi nella narrazione: l’amore che si sta estinguendo e che assorbe tutte le prime 90 pagine è quello tra Vittoria e Alfonsa sulla cui vicenda si addensano, si diradano per poi raggrumarsi di nuovo in un fittissimo dialogo, i commenti/pensieri delle amiche della coppia, tra cui Alice Carta e Giuliana Penna: la cui storia d’amore sta invece nascendo proprio all’ombra di questa fine, forse ad indicare l’instancabile lavoro di Eros? O l’insopprimibile tenacia del desiderio dell’Altro.
C’è poi la coppia della tragedia, Matilde e Tomaso, vicini di masseria di Alice e Giuliana.
I luoghi sono Milano, la casa di Alice, le case delle amiche, la Libreria delle donne (prima parte) e, nella seconda parte, Lecce, la masseria dove inizia la vita in comune di Alice e Giuliana e i suoi dintorni, compresa la masseria del delitto, luogo per definizione isolato, come in tutti i gialli che si rispettano…
Accennavo a un “fittissimo dialogo”: questa è la forma preminente in cui si snoda la prima parte del romanzo, una scelta stilistica che ho trovato particolarmente felice e totalmente opposta al metodo di indagine poliziesca, che è invece l’esaltazione di un’unica mente, acuta, solitaria e interrogante. È come se per ragionare sulla fine di un amore occorresse una sorta di “detective plurale”. Si tratta di un dialogo serrato, a catenaccio, dove a volte le locutrici sono perfino difficili da riconoscere, così da sembrare le tante articolazioni di un monologo.
Dice Nathalie Sarraute, scrittrice franco russa e studiosa di teoria della letteratura, che “il dialogo è l’estensione funzionale di un monologo, è una sottoconversazione dell’autore con se stesso” ed è probabile che anche qui, come in tutti i romanzi, le molteplici personagge, cane e gatte incluse, incarnino i vari Sé dell’autrice, impegnata in una sorta di simposio con se stessa per capire che cosa porta a conclusione un rapporto d’amore.
Dice Susan Sontag che in un romanzo psicologico “non deve succedere niente”. E in effetti, in questa prima parte, non succede niente. Vale a dire che si sta ragionando su un già accaduto (la fine del legame) e si preannuncia quello che avverrà (un nuovo inizio d’amore, un delitto… e l’accostamento è inquietante). Dal punto di vista degli eventi stiamo galleggiando in un tempo sospeso, ma contemporaneamente il tempo è uno dei grandi oggetti dell’argomentare collettivo. Come in questo dialogo dove l’affastellarsi delle voci, nella concitazione e passione dello scambio del pensiero (chi non conosce questa situazione?) raggiunge anche degli effetti umoristici: “Non è sempre così?” sussurrò Alice a Dolores. “L’amore romantico, quello che contempla e comprende la sessualità, è sempre monogamico, no?”
“Hm. Sì. Ma sei rimasta indietro di un argomento?” rispose Dolores prendendole una Marlboro dal pacchetto appena aperto.
“Dice che gli inciampi con Vittoria l’avevano confusa”, continuava Pilar, “e che la seduzione di Patrizia ha colpito nel segno, e anche lei si era invaghita. Era incantata da quella particolare condizione delle cotte”.
“Spiegazione debole,” sentenziò Stella.
“E quale sarebbe, questa parte mancante nella relazione con Vittoria?” chiese Sylvie. “No, non mancante… appisolata. Che veste ha, questa bella addormentata nella relazione?”
“Ma quale addormentata nel nosco! C’era tutto, per noi!” sbottò Vittoria. “Tutto, avevamo: progetti, realizzazioni, scambi, pensiero, divertimento, allegria, sincerità, sessualità. Vivevamo in un’armonia speciale, insostituibile. E se magari qualcosa per lei non funzionava, perché non dirlo?”
“Hai detto nosco?!” chiesero insieme Stella e Sylvie.
“Vittoria ha ragione,” tagliò corto Dolores. “Anche se magari con qualche problema, la loro relazione meritava un congedo meno traumatico.”
“Cosa vuoi dire?” chiesero insieme Stella, Sylvie e Pilar.
“Vuol dire che Alfonsa ha preteso che Vittoria smettesse di amarla troppo in fretta, avrebbe voluto che in quattro e quattr’otto Vittoria trasformasse la loro relazione in una bella amicizia, così – dall’oggi al domani. Vero, Dolores? Questo volevi dire?” riassunse Alice.
“Cielo ragazze, adesso ho bisogno d’esser tradotta?”
“Ma è stata Vittoria a buttarla fuori di casa! Dopo i tentativi di non far finire tutto! Quale quattro e quattr’otto?” diceva intanto Pilar. E già. Perché esasperata dalla gelosia e dalla rabbia Vittoria aveva intimato ad Alfonsa di andarsene dalla propria casa di Napoli, dove passavano insieme il fine settimana dei “giorni dei tentativi”.
“Va bene. Stiamo calme,” propose Alice Carta. “Dovremmo dirci allora cosa ogni una di noi intenda per meno traumatico, per troppo in fretta, e per quattro e quattr’otto.”
“Un rapporto come il nostro non lo butti via dall’oggi al domani,” disse subito Vittoria.
“Ma questo, Alfonsa non l’ha fatto,” ripeté Pilar. “Tu l’hai mandata via dalla vostra casa, piuttosto!”
“E vorrei anche vedere!” ribatté Vittoria. La sua voce era sempre troppo alta, ma nei suoi occhi era anche sempre pronto un fiotto di lacrime.
“Allora,” riprese Alice, “cominciamo dall’inizio: meno traumatico, come ha detto Dolores, cosa vuol dire? Che Alfonsa… quanto tempo sarebbe dovuta stare con Vittoria come se niente fosse?”

Meno traumatico… quattro e quattr’otto… troppo in fretta: le domande di Alice sono anche le nostre.
C’è un tempo per il delitto e c’è un tempo per la fine di un legame, ma in ambedue avvertiamo un processo di accelerazione. Per non uccidere forse bisogna non avere fretta.
Le questioni, i quesitos direbbe Giuliana, si rincorrono: quanto avrebbe dovuto aspettare chi era stata tradita? e per quanto tempo avrebbe dovuto fare come se niente fosse chi si stava allontanando?
Il tempo è la culla dell’amore, ma anche il suo aguzzino? Di certo l’indugio, come dice Alfonsa a un certo punto, non è concesso perché, nel frattempo, “tutti i non detti si ammassano da qualche parte”, come le ricorda Alice.
E questo tema, la durata di un legame, il due per sempre insito nella promessa iniziale (e che dà il titolo anche alla seconda parte), resta un nodo centrale della tematica del romanzo, quasi un’ossessione, e viene trattato a più riprese. Ecco un altro dialogo via Skype tra Giuliana e Alice (parla Giuliana e poi Alice): “(…) O si pensa che il sogno d’amore sia soltanto l’incanto dei primi tempi, e dunque ad un certo punto lo si ripete cambiando partner, oppure si pensa che il sogno d’amore sia curare un rapporto, una relazione come dite voi, con accanimento terapeutico curare l’amore, prima di arrendersi. E si fatica, a farlo durare.”
“La tua storia più lunga quanto tempo è durata?”
Quella pausa. Per esser certa di dire davvero la verità. “D’amore? Un po’ meno di nove anni. Guarda, io la dico sempre, la verità. Subito.”
“E… già che sai tutto: cosa ti fa disamorare?”
“Non è vero che so tutto. Mi fa disamorare… la non consapevolezza. Sì, direi la non consapevolezza. Anch’io ne patisco, ma piuttosto di rado.”

Ma la consapevolezza di cui parla Giuliana non è tutto. Forse c’è una nota di presunzione (inconsapevole) in lei che non dà conto di un altro fattore, imprescindibile in un giallo, ma anche in un amore – e che è rappresentato da quella che l’autrice più avanti definirà come “la zona di semioscurità”.
Abbiamo sentito varie volte Chiara Zamboni rammentarci che, nel legame madre figlia e per estensione donna donna, esiste un “oscuro” per il fatto di appartenere allo stesso sesso. Non tenerne conto significa presumere una somiglianza che pare illuminare la scena mentre in realtà la oscura, rendendo indistinguibile l’una dall’altra o avvolgendole nella complementarità (Carta, Penna…).
Sintonia, complementarità: è questo il sogno d’amore?
Dal dialogo tra Alice e Alfonsa, pag. 75:

“Sai, per parecchio tempo non ci siamo parlate tu e io,” riprese Alfonsa, “ma ho pensato e detto grandi certezze che mi stanno crollando addosso. Addosso e dentro. Elena è una donna delicata, d’una delicatezza preziosa. L’ho amata con tutto il cuore, l’ho amata convinta di stare con lei nel vero sogno d’amore, con quella aderenza di pensieri che deve – deve – nutrirsi, deve esser guardata, conosciuta. Anche a costo di cancellare tutto. Perché in certi momenti il tutto di prima è niente, di fronte al sogno d’amore che ti regala un di più di essere. Ti sembro pazza?”
“Aderenza di pensieri,” ripeté Alice.
“Così tu hai definito una volta l’essere innamorate.”
“Ah ecco.”

Vorrei richiamare la vostra attenzione sull’aggettivo “vero” anteposto a “sogno d’amore”. Forse qui il desiderio si è impossessato della penna dell’autrice e ha spazzato via ogni logica per continuare a tessere la sua irresistibile trama … se un sogno di per sé non è vero, essendo un sogno, che cosa potrà mai essere un “vero sogno d’amore”? Qualcuno ebbe a dire che “la realizzazione di un sogno è ancora un sogno, più illusorio degli altri”. Ma tant’è…
Quella aderenza di pensieri (di cui al dialogo precedente) sembra essere il fondamento anche della nascita dell’amore tra la coppia Matilde-Tomaso. Si conoscono in carcere facendo gli scrivani per conto di una coppia di detenuti analfabeti. La loro aderenza nasce attraverso gli incipit delle lettere che si scrivono, dove l’uno da il la a quello successivo, del genere O cara moglie a cui è risposto stasera ti prego: un contrappunto amoroso e segreto per inanellamenti successivi che dura svariati anni.
Anche per Alice è fondamentale questo contrappunto, il non trovarlo sempre in Giuliana le provoca delusione.
Attenzione a questo dialogo Alice-Giuliana:

Giuliana non conosceva la canzone di Ivan Della Mea, la O cara moglie che aveva aperto le strade della relazione per Matilde e Tomaso. Alice la suonò al piano, la cantò dopo aver cercato le parole in Internet.
“Be’ adesso la sai,” disse quando l’ebbe conclusa tre volte.
“Sembri seccata,” dichiarò Giuliana.
“Seccata? No. Solo che… Capisco che non è sempre possibile, ma mi piace di più quando conosci quel che conosco io.”
“Capisco anch’io, ma tu devi capire che tutte pretendono che io sappia le canzoni di lotta e i ritornelli di Sanremo, i nomi i cognomi e le correnti dei più insulsi uomini politici, le virgole degli articoli di dieci anni fa su Via Dogana, le barzellette, le poesie di Patrizia Cavalli, le citazioni da Totò e… È umanamente impossibile, per una che ha vissuto in Messico quasi tutta la vita.”
“Be’ la buona notizia è che io non pretendo niente,” disse Alice alzandosi dallo sgabello del pianoforte per rispondere al telefono.
“C’è modo e modo di pretendere. Se una dice: mi piace di più, pretende.”

Marie Magdeleine Chatel, psicanalista francese, ha inventato, per definire questa delusione, una bellissima espressione: “la non somiglianza delle simili”. A voler essere oneste dobbiamo però riconoscere che questa supposta somiglianza non è solo appannaggio delle coppie omo (dove lo scivolone può essere più comprensibile…), bensì è un’aspettativa di tutte le relazioni con una forte carica di affettività: genitori-figli, coppie etero, amiche, amici, maestro/a-discepolo/a, partner in affari. Può dilatarsi, questa non somiglianza, fino a diventare avversione, odio, per l’impossibilità del suo contrario, oppure può incrinarsi lentamente, a partire da cose banali. E qui l’esergo di Agatha Christie, posto nella seconda parte, suona come un magistrale avvertimento: niente è tanto banale da poter essere trascurato.
È riferito alla scena del delitto, ma possiamo trasferirlo anche sulla scena di un amore:

Non le garbavano, le ombre con Giuliana. Quelle parti meno illuminate dello scambio quotidiano, quelle semioscurità che poi si diradano o smettono d’esser guardate. Difficili da evitare. E che questa scontentezza segnalasse la propria tenace dipendenza non le importava affatto: anzi, era felice di dipendere da Giuliana, di ricevere da lei quel di più di sicurezza e fiducia che trasforma una buona vita in una vita speciale. Che il di più di senso della sua vita dipendesse dalla relazione con Giuliana era un esercizio di maturità, non un’involuzione.
Né le piaceva cogliere delusione in Giuliana, quando lei si intestardiva su un dettaglio e scordava l’orizzonte. Delusione indiscutibile: non perché fosse evidente, anzi Giuliana aveva sempre un modo amorevole e delicato d’offrire ad Alice l’occasione per ripartire, – ma perché era lampante a lei stessa che le proprie pur sporadiche bizzarrie potevano suscitare soltanto scoraggiamento. Non pietà, com’è forse ovvio che mai sia in una relazione d’amore: un leggero avvilimento, d’illusione svanita. Il tempo del minuscolo sconforto.

Ecco comparire il tempo del minuscolo sconforto che può diventare slavina, sgretolamento o addirittura, e qui entriamo nel giallo, eliminazione fisica, assassinio dell’altro in quanto mostro da punire per ristabilire un ordine, una giustizia.
Ma quando tutto sarà compiuto non vi sarà giustizia, ma solo dolore che si aggiunge a dolore.
Infatti l’omicidio, dice Vittoria con una frase tanto profonda quanto semplice “non è mai una buona soluzione”.
Ma non c’è rabbia, astio, odio nei confronti dell’omicida, anzi è un sentimento di dolore per quel suo “amore deformato”, per “l’isolamento del suo cuore”.
Qui il romanzo si chiude con una sorta di rimando a se stesso, al suo inizio: l’amore non può mai essere chiusura, ripiegamento su di sé, abbandono del campo.
E così, al terminare dell’indagine poliziesca di Alice, si concluderà anche la sua (e delle amiche) indagine romantica attraverso quella che viene definita “l’unica conclusione certa”:

” (…) Vi ricordate… scusa, Adriana… vi ricordate il periodo del garbuglio Vittoria-Alfonsa?”
“Sì,” dissero Vittoria e Giuliana. Adriana si alzò da tavola per l’improvvisa urgenza di prendere una bottiglia di acqua frizzante dal frigorifero.
“Eravamo arrivate ad una conclusione certa, in quei giorni: che in amore come in ogni altra relazione importante dire il dispiacere, il disagio, la fatica, dirlo subito, aiuta più di ogni altra mossa,” continuò Alice. “Voi, anche voi, avevate dimostrato quanto sia difficile farlo.”

Difficile, impossibile?
Le ultime righe evocano un cielo stellato, un po’ come l’Inferno dantesco (Uscimmo a riveder le stelle), il che fa bene sperare…

Data la mia nota passione per le rime, vorrei terminare con una quartina:
E Alice Carta alla sua quinta investigazione conclude:
il delitto non è mai una buona soluzione.
Che sia di una persona o di un amore,
che cosa non poteva essere messo prima, in parole?

Liliana Rampello

Presento qui di seguito i due interventi centrali, di Caterina Spillari e Chiara Zamboni, della giornata di discussione al Circolo della Rosa di Milano (24 maggio 2011), sul pensiero e il lavoro di Letizia Comba, in occasione dell’uscita del suo libro Tessere. Scritti, 1967-2000, il Saggiatore 2011.

Ho avuto occasione di seguire la costruzione del testo dal punto di vista editoriale e di seguirne la pubblicazione affiancando i quattro curatori, Caterina Spillari, Gabriella Baiguera, Alberto Sacchetto e Manuela Vaccari, imparando molte cose.
Sul valore di questa donna, sulla libertà del suo agire e pensare, sulla traccia profonda che la sua esistenza ha lasciato fra le sue allieve/i, i colleghi e non solo. Di tutto questo dà viva testimonianza questo libro, ricchissimo di spunti di riflessione ancora attuali, e di cui consiglio vivamente la lettura, come forma di nuova conoscenza di lei.

I due testi che ora mettiamo in rete sono molto intensi e belli, come capita quando relazioni significative ci hanno segnato.

Intervento di Chiara Zamboni

Tessere è il libro che presento. Si tratta degli scritti di Letizia Comba pubblicati tra il 1967 e il 2000, editi da il Saggiatore nel 2011. Non sono tutti ma quelli scelti dai curatori e cioè Caterina Spillari, Gabriella Baiguera, Alberto Sacchetto e Manuela Vaccari, allievi di Letizia. Leggerlo è stare vicino ad una donna, Letizia, che ha fatto del suo percorso di studio, di lavoro e di ricerca una via di trasformazione sia di sé che delle donne e gli uomini che le stavano vicino.
È un libro che per me personalmente è stato un dono. Non solo mi ha permesso di stare di nuovo accanto a Letizia, per tutto il tempo che l’ho letto e anche dopo per i pensieri, le immagini che il libro ha suscitato. Mi ha dato la possibilità di ascoltarla, di udirne la voce un po’ bassa e ironica attraverso la pagina scritta, di sentirla presente nella sua figura sottile. Ma anche mi ha permesso di apprendere riflessioni e percorsi di Letizia che mi erano sconosciuti. È stato così un modo di incontrarla per altre vie.
Il libro è diviso in tre parti. La prima parte è introdotta da Renato Rozzi, che è uno psicoanalista e psicologo atipico, per una sua ricerca diversa da quella psicologia che oggettiva l’essere umano, e con la quale è sempre entrato in polemica. È stato vicino a Letizia non solo per questo modo diverso di vivere e pensare la psicologia, ma anche perché ha collaborato con lei a Gorizia nell’équipe di Franco Basaglia e poi l’ha ritrovata come collega all’università di Urbino e di Verona.
Questa sezione è dunque dedicata agli scritti attorno alla psicologia, alla famiglia. Si tratta in genere di scritti nel pieno di esperienze in corso: l’avventura di Basaglia e i suoi collaboratori nel riformare radicalmente gli ospedali psichiatrici, la discussione sul limite tra normalità e follia per una critica alla psichiatria prendendo le misure (e le distanze) dagli scritti di Ronald Laing. Scritti da cui si percepisce il dibattito in corso, le lacerazioni, le scoperte attraverso l’esperienza in prima persona nella continua discussione con gli altri.
Significativo uno dei testi, quello in cui Letizia racconta e interpreta i passaggi per chiudere l’ultimo reparto dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. È un testo pubblicato nel 1968 in L’istituzione negata a cura di Basaglia. Il saggio è intitolato C donne: l’ultimo reparto chiuso. Letizia è attenta alla singolarità delle donne rinchiuse, il rapporto tra sé e sé e lo spazio. La difficile presa di coscienza delle infermiere. I tentennamenti nell’uscire. Il che suggerisce quanto sia difficile essere libere, il desiderio diffuso di sicurezza e di protezione. Racconta una vera e propria storia di donne dal luogo carcerario dell’ospedale ad altre forme di esistenza.
Più in generale in questa prima parte si avverte tutta la ricerca di Letizia rivolta a trovare un modo di stare in rapporto a donne e uomini lavorando sulla relazione con loro e mettendo tra parentesi qualsiasi forma di oggettivazione. Una oggettivazione che riemerge facilmente, quando si è in rapporto con i diversi, con i sofferenti, e semplicemente ci si appoggia alle interpretazioni cliniche che ne fanno dei casi.
Si confronta con Ronald Laing in due testi differenti, che sono introduzioni a rispettivi libri di Laing pubblicati in Italia. Qui lei affina la riflessione sulle modalità di stare nella relazione con gli schizofrenici senza cadere nella trappola facile di oggettivarli.
Eppure il linguaggio che lei adopera negli scritti tra il ’68 e il ’77 è secco, descrittivo, ripulito di ogni elemento emotivo e soggettivante. È un linguaggio che sembra ricalcare nella forma proprio quello stile scientifico, tecnico dal quale sul piano di un pensiero d’esperienza stava prendendo le distanze. Seguendola nel percorso degli anni si nota come lo stile di scrittura di Letizia sia ciò che più si modifica. È chiaramente alla ricerca di una scrittura che metta in scacco le trappole di una certa epistemologia. Non si tratta soltanto di porre al centro la relazione tra lei e le degenti, tra lei e gli handicappati, tra lei e la famiglia che genera persone schizofreniche. Si tratta anche di cambiare il modo di parlare di questa relazione. E allora sempre più si appoggia a domande. A punti interrogativi. A questioni lasciate aperte. E questo per sottrarsi al dispositivo soggetto-oggetto sul quale la nostra lingua si appoggia.
È evidente come lei considerasse il modo, lo stile di parlare di un certo argomento come già la via per far vedere l’essenziale che le stava a cuore. Si prenda in questo senso la seconda parte del libro, intitolata Da bocca a orecchio, introdotta da un colloquio delle curatrici con François Fleury. Fleury è un etnoterapeuta, psicoterapeuta e arteterapeuta svizzero. La sua conoscenza di Letizia risale a quando dirigeva il teatro Onze di Losanna. Ma Fleury la ricorda soprattutto nella sua funzione di docente. Per lei il sapere come la ricerca erano essenziali se in questo coinvolgeva gli studenti. Ora il condividere con loro era possibile se le studentesse e gli studenti si mettevano in gioco, modificando il proprio percorso esistenziale. E questo dipendeva in gran parte da loro. Soltanto una soggettività presa nella sua singolarità possiede la potenzialità di aprirsi ad una trasformazione, se pure sollecitata.
Questa seconda parte porta come titolo Da bocca a orecchio. Si tratta di un’espressione familiare, ricorrente nei discorsi di Letizia Comba. Allude al fatto che un certo genere di sapere trasformativo, in qualche forma iniziatico, può essere comunicato solo da bocca a orecchio. In presenza. La presenza reciproca è la garanzia che la verità di ciò che si dice prenda misura dalla relazione e dal contesto condiviso. È un’idea che ha radici antiche. La troviamo nella Lettera VII di Platone, quando ricordava che i libri, gli scritti possono andare nelle mani di qualsiasi persona, ed essere così travisati, usati per scopi che non sono quelli di chi ha scritto. E che tutto questo può essere evitato ragionando in presenza, ben disposti e attenti agli altri.
È chiaro che Letizia Comba valorizza in questo senso la tradizione delle pratiche sapienziali, nelle quali la trasmissione è orale e implica la trasformazione di entrambe le persone coinvolte nel processo. È molto interessante che in un suo testo interpreti in questo modo la stessa pratica psicoanalitica, dando merito a Freud di aver creato un contesto di questo genere.
Nel far questo – proprio in questa seconda parte – lei incomincia a cambiare lo stile di scrittura e questo per dare spazio ad un sapere che deve preservare e custodire qualcosa di non svelabile del tutto. Un sapere che in parte – anche se solo in parte – ha necessità di restare enigmatico, non tanto per un ossequio sacrale, quanto per poter lasciare spazio a chi legge di compiere un proprio percorso. Volendo cambiare la forma della scrittura, e dunque del pensiero, introduce, come passaggio argomentativo fondamentale, il racconto di miti e leggende, di fiabe. E si guarda bene dal darne una interpretazione. Le lascia piuttosto accanto, ma in posizione centrale, a osservazioni e riflessioni di registro diverso.
Porto un esempio. In diversi testi si interroga sulla figura della madre e del padre. In uno intitolato Tre paia di mani ovvero chi è il padre introduce una leggenda indiana. Il racconto mostra che nel padre i padri sono molti e che un figlio porta già in sé la potenzialità di essere padre e che le genealogie – quella paterne qui, ma si può pensare anche a quelle materne – sono molto più complesse del rapporto con il proprio padre.
Di mio, mi chiedo cosa siano una leggenda, un mito, una fiaba. E mi rispondo: sono come un sogno. Un luogo nel quale è sospeso – non negato – il confine tra realtà e irrealtà, fra razionalità e irrazionalità. E permette perciò che ci apriamo ad una visione che altrimenti non avremmo. Non ci sarebbe possibile concepirla.
È questo ad essere un passaggio molto importante nell’andamento dello stile di pensiero di Letizia Comba. La fiaba, la leggenda, il racconto di un mito sospendono tali confini e perciò fanno vedere di più. È per questo in fondo che all’università di Verona, all’interno degli insegnamenti di Psicologia, aveva preferito scegliere l’insegnamento di Psicologia della letteratura e dell’arte, perché la lasciava molto più libera di dare spazio ad un pensiero immaginativo di questo tipo.
Le radici religiose di Letizia erano valdesi, dunque appartenevano ad una cultura protestante, nella quale le immagini dei santi e di Dio erano sospese, come cancellate. E dunque penso che debba sicuramente aver fatto un percorso notevole di trasformazione interiore per arrivare ad affermare il bisogno che l’anima ha di immagini, di leggende, di narrazioni. Sosteneva che anche il divino ha bisogno di una molteplicità di immagini. Era arrivata a diffidare del monoteismo protestante con il suo amore per il vuoto, per l’ascetismo nei confronti delle immagini. Era il politeismo indiano, la molteplicità di dei della religione indi che le sembrava andare incontro ai bisogni dell’anima.
Arrivo così all’ultima parte del libro, intitolata Relazioni viventi. Sono stata intervistata da Caterina Spillari e da Gabriella Baiguera che hanno poi dato forma alla nostra conversazione in modo che facesse da introduzione a questa parte. Le coordinate di questa sezione sono innanzitutto il rapporto che Letizia Comba è andata creando con le sue allieve e allievi – più donne che uomini -, in secondo luogo il rapporto con Diotima, comunità di filosofia femminile dell’università di Verona.
I testi di questa parte ruotano attorno all’attenzione per la biografia di singole donne, per la loro posizione nel mondo, vista nella prospettiva soggettiva. Si tratta di Paolina Leopardi, della figlia di Cesare Lombroso, di Teresa Noce, e di altre figure femminili ascoltate con grande finezza attraverso le lettere, i diari, che sono un genere di scrittura che dà forma alla soggettività. Si nota in Letizia uno sguardo sulla politicità di tale trasformazione femminile, di come si modifica il rapporto con il sociale.
Devo dire che mi aspettavo, prendendo in mano il libro, che in questa sezione, quella che raccoglie gli scritti di Letizia nel periodo in cui la frequentavo a Verona, ci fosse questa attenzione alle figure femminili viste a partire da ciò che loro stesse dicevano di sé e del mondo che le circondava. Quello che mi ha sorpreso, invece, leggendo l’intera raccolta dei suo scritti, è che l’attenzione per l’esperienza femminile l’ha sempre coinvolta. Non è nata, come io ingenuamente credevo, dallo scambio con le sue allieve e con le donne di Diotima. Ha radici molto più antiche, che coincidono con il ’68 e l’inizio del femminismo. Non a caso, ad esempio, già dai primi testi pubblicati su Quaderni piacentini pone al centro la figura della madre come la questione che il movimento femminista ha bisogno di discutere, chiarire, fare proprio. E sulla madre, le madri, lei come madre, le figure mitiche delle madri torna e ritorna sollecitando una indagine e un ragionamento politici. Naturalmente di una politica che ha a che fare con la polis e che cresce con la consapevolezza simbolica.
Di sé come maestra e del suo rapporto con le allieve e del percorso che questo implica Letizia scrive soprattutto nell’introduzione a La materia dell’anima, che qui ritroviamo. E vorrei attirare l’attenzione sul fatto che, quando parlava di un percorso dell’anima, si teneva alla larga da ogni forma di sentimentalismo, emotivo e superficiale. Lo si vede anche da come parla con grande stima di Diotima, la comunità di filosofe guidata da Luisa Muraro. Scrive che la sua stima va al fatto che si tratta di una comunità che suscita un appello continuo, una continua messa in discussione. E che all’intimismo e alla psicologia contrappone la politica delle donne e la filosofia.
È a questo punto molto interessante per me ritornare sul dissidio che si è aperto tra Letizia e la comunità di Diotima all’interno di uno spazio di grande vicinanza. È stato un dissidio che ha riguardato la possibilità o meno di nominare l’obbedienza come pratica possibile della politica delle donne. Il presupposto che tale pratica sia politica dipende dal fatto che nel rapporto maestra e allieva l’obbedienza è un gesto che rende libere dalla stretta del simbolico dominante. Non solo affidarsi ad una donna, ma obbedire alla misura che ti suggerisce, ti rende libera nei confronti delle regole implicite del contesto sociale già ordinato. È una pratica che deriva dalla mistica, dai percorsi sapienziali, e che lei riteneva dovesse rimanere in quei contesti e non sconfinare nella politica.
Letizia, aprendo la polemica e citando Simone Weil, scrive che esiste un’obbedienza che porta alla schiavitù come anche una che rende liberi. L’obbedienza che rende liberi è tale in quanto implica modificazione, trasformazione personale. A questo punto lei pone – ci pone a Diotima – quella questione che trovo tuttora molto interessante e delicata. Sostanzialmente consiste in questo. La politica delle donne chiede un’obbedienza ad un’altra donna per avere libertà nei confronti del simbolico dominante, va bene, ma se non c’è una trasformazione interiore, un percorso soggettivo verso qualcosa che non sappiamo, verso un movimento infinito, può risultare banalmente una nuova etica, che vincola con nuove norme, diverse da quelle dell’ordine simbolico dato, certo, ma sempre comunque norme che si ammantano della forza dei valori etici. Dei vincoli normativi. Mentre è implicito in questo ragionamento che una pratica, come quella dell’obbedienza nel rapporto maestra allieva, abbia valore in quanto spinge ad una nuova dimensione di sé tutta da scoprire. Altrimenti questa pratica, come tutte le altre pratiche susseguitesi nella politica delle donne, finiscono per essere norme esteriori date all’agire, non implicano un dibattimento tra sé e sé, un divenire altri.
Trovo vera questa questione. Può avvenire che le pratiche politiche delle donne diventino normative, vincolanti solo esteriormente, mentre ciò che caratterizza tale movimento nelle diverse sue forme è la modificazione di sé in un percorso di autocoscienza. C’è una linea sottile che divide un piano dall’altro, una linea a volte difficile da individuare, ma – è questa la mia risposta a Letizia – vale la pena correre il rischio.
E ora è un peccato non poter continuare questa polemica con lei. È doloroso.

Intervento di Caterina Spillari

Vorrei raccontarvi le vicende che riguardano la lavorazione di questo libro di cui, con Manuela Gabriella e Alberto, mi sono presa cura, non solo per non dimenticare, ma anche per il desiderio di ritrovare e di ritrovarsi in una relazione che, almeno per me, ha lasciato un segno profondo, e per il desiderio di rimettere in movimento pezzi importanti del lavoro di ricerca e trasmissione praticato da Letizia.

Direi che non si poteva non fare: Letizia aveva lavorato negli ultimi 10 anni sulla trasmissione nelle genealogie femminili – con una progressione continua di pensiero e di oggetti di ricerca, ma la questione della trasmissione rimaneva il nodo, sia che ci si occupasse di donne più o meno note sia che ci si occupasse delle “grandi Signore” del mito come Kali o Inanna-.
Si era occupata di come avvicinare queste “antenate” (come le chiamava lei), le interessava incontrarle per cogliere in questo incontro “i movimenti nostri e loro”, per vedere, nei rapidi movimenti delle diverse epoche, vicinanze e distanze, trasformazioni e scostamenti, per nutrire e articolare il nostro sguardo su di noi e la nostra storia.
Le loro parole erano il luogo del nostro incontro, lo spazio possibile per pensare e sentire la relazione che volevamo aprire e nutrire.
Di parole dense e autorevoli Letizia ce ne ha lasciate molte, scritte, registrate, appuntate da lei o da chi la ascoltava, parole pubbliche e parole private.
Ci ha lasciato una “materia dell’anima” (è il titolo del suo ultimo libro e mi sembra una metafora appropriata per nominare la qualità delle parole ci ha lasciato) per continuare la relazione con lei e offrire ad altre/altri la possibilità di incontrarla
Non si poteva non fare perché, almeno per me, c’era un desiderio forte di vivificare quella qualità di pensiero che Letizia offriva e che chiedeva di praticare.
Riprendere in mano i suoi scritti, riorganizzarli, contestualizzarli, mi ha consentito di ritrovarla nei grandi temi sui quali lavorava e soprattutto nel suo metodo di ricerca rigoroso rispetto all’andamento del pensiero e attento al proprio sentire.
Mi ha consentito di ritrovarmi in una relazione magistrale fortemente autorevole, che mi ha lasciato, tra le molte cose importanti (e impegnative), la possibilità di avvicinarmi al sapere con uno sguardo nuovo, uno sguardo che consente di allargare il contesto della conoscenza anche verso territori interiori, senza l’urgenza di chiudere, senza la necessità di definire, ma rimanendo aperta e disponibile a nuove evocazioni. Diceva che è molto più interessante una buona domanda che una risposta risolutiva.

Questi i perché che hanno mosso il libro
Vi racconto il come

Nel 2002, un anno dopo la pubblicazione postuma della “Materia dell’Anima” con il gruppo che si era dedicato alla lavorazione di questo libro, ci eravamo dette di voler pubblicare alcuni lavori di Letizia. Ci era chiaro che lo volevamo fare, ma non sapevamo il come né esattamente il cosa.
Con Manuela avevamo iniziato a trascrivere gli appunti dell’ultimo corso di Letizia all’Università (corso sulla discesa agli inferi di Inanna) e a sbobinare le lezioni che erano state registrate.
Ci sembrava logico partire da lì, perché Letizia era riuscita a portare in aula temi che ci riguardavano profondamente, ed era riuscita a toccarci non solo intellettualmente – questa era una delle doti di Letizia – elaborandoli con un rigore e un’attenzione che ci liberava da ogni “sbigottimento e autobiografismo”, per avvicinarci al senso degli archetipi che si mostravano nel mito, alle loro rappresentazioni, facendoli risuonare in ognuno di noi.
Questa era la caratteristica della sua trasmissione in presenza, che però nella riscrittura degli appunti si diluiva togliendo spessore al nostro progetto di pubblicazione che fu accantonato.

Tra le carte dell’Università di Letizia io avevo una lista (stilata da lei qualche mese prima di morire) di tutte le sue pubblicazioni, ma ci sembrava improbabile recuperarle tutte per pensare di ri/pubblicarle in un unico volume: alcuni erano scritti pubblicati molti anni fa da amministrazioni comunali, altri erano atti di convegni pubblicati da case editrici che non esistono più.
L’occasione ci si è ripresentata 4 anni fa, quando Anna Valeria mi ha telefonato per dirmi che le avrebbe fatto piacere affidarmi i faldoni dei lavori di Letizia.
Manuela è andata a prenderli: nei faldoni c’era una copia di tutte le pubblicazioni; Alberto fece una serie di lavori di controllo e verifica rispetto alla bibliografia che avevo io e alle case editrici che potevano essere interessate alla ri/pubblicazione di questi scritti, poi è arrivato l’intervento di Gabriella che ci ha aperto il ponte con il Saggiatore
E’ iniziata così la lavorazione del volume, che non ci ha implicate solo su un fare.
E’ stato un lavoro complesso e non sempre fluido sia dal punto di vista della costruzione del libro che dal punto di vista delle relazioni tra le persone coinvolte.
Il primo problema che si è posto è stato come organizzare gli scritti di Letizia: affrontare la questione dell’organizzazione significava confrontarci sul senso di questo libro.
Un ordine cronologico degli scritti ci sembrava banale e compilativo, toglieva spessore alla complessità del pensiero, un ordine tematico rischiava di non restituire i legami e la coerenza che teneva insieme studi apparentemente molto distanti tra loro. Ha messo ordine l’aiuto di Lilli, e si è scelto di lavorare per costellazioni: un tema centrale che si articola, si apre mostrando legami, tracciando l’andamento dei pensieri, mostrando le evoluzioni e le trasformazioni degli oggetti di ricerca.
Tre sono state le costellazioni individuate, che sono diventate le tre parti del libro, dentro le quali andava ora scelto cosa mettere e con che ordine. Un punto di svolta è stato il suggerimento di Francoise Fleury di incontrare persone legate a Letizia per intervistarle rispetto ad una delle tre costellazioni. Le interviste nel libro sono poi diventate racconti: i racconti degli incontri che ci hanno orientati nell’organizzazione delle costellazioni e le introducono accompagnando il lettore nella lettura.
Chi nominava Letizia rispetto a quei temi? Chi era disponibile in termini di pensiero e di tempo per farsi coinvolgere?
Per la prima costellazione – Gettare lontano le chiavi – che raccoglie gli scritti su antipsichiatria e studi sulla famiglia abbiamo coinvolto Renato Rozzi.
Per motivi organizzativi l’incontro con Renato è avvenuto solo “per telefono”: gli abbiamo raccontato il progetto, gli abbiamo chiesto che ci parlasse di Letizia nell’equipe di Basaglia. Ci ha risposto con un lungo fax che non abbiamo rielaborato per la densità e la bellezza con cui tratteggia il ritratto di una giovane Letizia, unica donna, non medico, in un’equipe di medici. Renato ci racconta come lei stava in quel contesto, e come il suo modo di stare vi incidesse significativamente
Per la seconda costellazione – Da bocca a orecchio – che raccoglie gli scritti del periodo di Urbino e i testi sulla relazione maestro allievo, abbiamo incontrato Francoise Fleury che cha lavorato con Letizia all’università di Urbino ed è stato testimone del suo modo particolare di stare con gli allievi, con lei ha portato avanti sperimentazioni relative a nuove tecniche di trasmissione del sapere e l’ha accompagnata nelle riflessioni sulla trasmissione del sapere tradizionale.
Per la terza costellazione – Relazioni viventi – abbiamo incontrato Chiara Zamboni che ci ha parlato di Letizia rispetto al lavoro con Diotima e all’originalità con cui abitava il contesto universitario di Verona. Contesto non facile per Letizia, all’interno di un dipartimento (allora era l'”Istituto di Psicologia”) spesso lontano e dissonante rispetto ai suoi oggetti e alle modalità di ricerca. Letizia a volte si arrabbiava, ma le arrabbiature erano però spesso accompagnate da un grande senso dell’ironia rispetto a ciò che accadeva, ironia che segnava la sua distanza dalle posizioni intellettuali dei colleghi.
Il racconto di questi testimoni ha orientato la configurazione delle tre costellazioni in termini di scelta dei tesi e della loro organizzazione.

La relazione tra noi curatori, proprio perché la cura del volume consisteva nel selezionare e mettere ordine, non è stata sempre in discesa. Eravamo legati da un lavoro comune, ma sul quale ognuno investiva desideri e fantasie proprie, ricordi ed emozioni a volte distanti tra loro: del resto selezionare (non tutte le pubblicazioni potevano entrare nel volume) e ri/organizzare significava attribuire significati e a volte i nostri sguardi erano diversi a seconda di come gli scritti di Letizia risuonavano in noi, ma soprattutto per come erano state diverse le nostre relazioni con lei: erano relazioni viventi, perché mai giocate sull’oggetto del sapere ma su come questo risuonava in noi, e così ognuno aveva tessuto con lei un proprio incontro.
Sottolineo con un sorriso questo aspetto: la presenza di Letizia ha spesso portato scompiglio, nelle storie personali e nei contesti di lavoro, perché spostava qualcosa dentro, perché mostrava possibilità altre (a volte scomode), perché rompeva gli andamenti lineari e ci costringeva a uscire dai luoghi comuni, che sono sempre molto rassicuranti.
Ha portato scompiglio anche tra noi coinvolti nel libro: ci eravamo illuse che bastasse essere mosse da un grande affetto verso Letizia e da un compito in comune che la riguardava per tenerci insieme.Viceversa, proprio perché stavamo facendo qualcosa che ci riguardava profondamente, non è stato facile trovare e stare nelle mediazioni.

Il libro è uscito e mi sono domandata come sono riuscita a stare nel lavoro che ci eravamo date.
Condivido con voi la risposta possibile, perché questo mi permette di toccare un altro aspetto che caratterizzava la modalità di lavoro di Letizia
Durante la revisione delle bozze del libro ho fatto un sogno: Letizia tornava da un lungo viaggio e mi portava in dono due fustini di detersivo.
Per me, un aiuto significativo nel lavoro di cura del volume, è stato il ri/sintonizzarmi su uno degli insegnamenti forti di Letizia, quello che riguarda il fare pulizia, il liberarsi dall’inutile, il ripulirsi del troppo (pensieri e emozioni): lo sforzo che lei richiedeva non era quello di aggiungere, ma di togliere tutto quello che non ti consente di…
Il rigore di Letizia, nominato anche nel libro e che si sente nei suoi scritti, consisteva proprio in questo esercizio di pulizia; ho ritrovato nei miei appunti queste parole sue che mi sembrano molto pertinenti: “liberarsi dalle associazione meccaniche e dalle fantasie riempitive per mantenersi lucidi e attenti, e continuare così quella collana iniziata prima di me e destinata a proseguire oltre me, di cui siamo semplici anelli, indispensabili come ogni altro per la trasmissione di sangue e di parola”

Liliana Rampello
Patrizia Zappa Mulas, che leggerà per noi oggi San Siro, il primo dei 4 racconti della raccolta Purché una luce sia accesa nella notte (et-al edizioni, 2011) non è un’esordiente. E’ nata come scrittrice in una scuderia raffinata come La Tartaruga di Laura Lepetit alla fine degli anni Novanta, con due libri, L’orgogliosa (1998) e Rosa furia (2000) e ha di recente pubblicato per Nottetempo un piccolissimo racconto Tigre adorata (2006), una trentina di pagine sulla seduzione tra donne, fulminante per la precisione dei dettagli e del gioco dei sentimenti.
PZM è un’attrice di teatro, i molti ruoli che ha interpretato e incarnato sono ricordati nell’aletta del libro, così come mi piace ricordare il suo lavoro con Franca Valeri, che di questo stesso libro ci indica la preziosità pari a “un concerto”. Un’attrice che scrive.
Quattro racconti, dicevo, a formare un romanzo nascosto, in una scrittura che ha una misura perfetta. La misura ha a che fare con l’equilibrio spaziale e temporale del racconto (molto diversa da quella del romanzo, basti pensare che il romanzo ha tutto il tempo che vuole per sviluppare, ad esempio, la psicologia di un personaggio) e il racconto è quanto la letteratura offre di più vicino alla pittura: un nucleo centrale prospettico che divide tutte le parti, dà loro funzione e posto nella composizione. E infatti PZM vede (ha cominciato da piccola a vedere, indubbiamente attraverso sua madre, Maria, fotografa eccellente) e vede in scena, cosa questa che le viene appunto dal suo lavoro in teatro. Lo sguardo così affiso, le permette di essere intensa ma concisa, mai prolissa, con parole- emozioni in cui non c’è mai parola di troppo.
Il secondo elemento che voglio sottolineare, dopo la misura stilistica, è l’invenzione del personaggio che abita queste pagine: un io che non è un io (io è un altro, diceva Rimbaud), perché l’io che scrive non è l’io che vive, né l’io protagonista. Chi scrive “io” non sta necessariamente scrivendo un’autobiografia, ha detto la massima autorità in questo campo, Proust, che così ha infatti scritto più di mille pagine, rivendicando proprio questo scarto (e sapendo i pericoli che correva, tanto da dire più o meno, vado a memoria, “certo, se avessi iniziato il mio romanzo con la frase ‘Roger Mauclair abitava in un villino” sarei stato considerato ‘oggettivo'”).
Dunque qui vediamo una bambina-adolescente-ragazza-adulta di cui si racconta l’esperienza (non la crescita), precisamente l’esperienza di essere consapevoli di ciò che succede e ci succede. Si tratta di saperi parziali che si accumulano non in un “soggetto” ma in un corpo. Tutto è filtrato dal corpo e nel corpo, ad essere in scena è il corpo con muscoli, tendini, sudore, fatica, energia…. fino a farsi coscienza di sé. Il corpo in un minuto di infanzia (lo sentiremo in San Siro); il corpo dell’adolescenza spiazzato e spezzato tra storia individuale e storia politica e sociale in Piazza Fontana, il tempo della “tenebra precoce”, la storia e la Storia, la tragedia e il silenzio (racconto magistrale per tripla scena: la scena-cornice del racconto, la scena del palcoscenico della Scala e la scena della piazza); il corpo in ascesa e ascesi di Stromboli, la salita al vulcano; infine il corpo di Via Solferino, ultima apparizione del fantasma del già avvenuto. Eccoli i mutamenti di un corpo intelligente di sé nel suo cortocircuito. Chi racconta lo fa con un organo speciale, l’occhio, ma un occhio con una temporalità sapientemente catturata, quella del volo o della coda dell’occhio, lo sguardo come rovesciato (di nuovo la madre, ricordo dei negativi delle sue fotografie?).
Il terzo elemento che mi ha colpito è la città, Milano, che non è mai un semplice sfondo, ma è anzi una vera co-protagonista; l’apertura orizzontale della sua mappa è attraversata da una temporalità che non è verticale, non richiama la profondità dei suoi strati, ma la superficie, dove il tempo non si sviluppa, ma si svolge: lo spazio dunque. Una città nuova anche per chi la conosce, secondo una regola aurea dell’arte: la capacità di farci vedere come cosa mai vista quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
L’ultima osservazione la voglio dedicare agli oggetti. Se ci sarà mai in futuro un grande lettore di “oggetti desueti nelle immagini della letteratura” come è stato Francesco Orlando, non potrà che innamorarsi (a me è capitato) della “scatola di pece” e della “sbarra”, a garanzia del loro essere assolutamente indimenticabili.

20 Marzo 2010

 

E’ stato presentato il 17 marzo ‘Pink Noir. Delitti per signora’ a cura di Daniela Rossi, alla libreria delle donne nel corso di un incontro che ha previsto la discussione sul testo e uno spettacolo a cura delle attrici di Riso Rosa (Associazione che promuove la comicità scritta e interpretata da donne): Luisa Sax e Lorenza Franzoni. Era presente anche Francesca Avanzini, che ha scritto un bellissimo testo nell’introduzione ‘Le madri del noir’

Ha introdotto la discussione Serena Fuart:

 

“Un testo che a me è piaciuto tantissimo, l’ho letto più di una volta.

Si tratta di una raccolta di racconti noir scritti in occasione del concorso Pink Ink Noir e poi pubblicati in questo testo. Come scrive nell’introduzione Daniela Rossi “Noir, giallo, rosa sono tutte le sfumature dei delitti per signora che si è proposto di scoprire Pink Ink Noir, concorso di racconti solo per donne: umorismo nero, gotico, thriller, poliziesco e horror. Tutto è permesso”
Sempre Daniela Rossi scrive che la giuria di questo concorso “è composta dall’autrice di fumetti Pat Carra, dalla giornalista e scrittrice Geraldina Colotti, dall’agente di polizia e curatrice del premio di noir “Fedeli” Simona Mammano, dallo scrittore di gialli Valerio Varesi e dall’autore/scrittore Giuseppe Cederna…”

Io l’ho letto più di una volta senza per questo perdere la suspence, i brividi e l’ironia che questo libro ha in sé.

Scrive Daniela Rossi quant’è interessante scoprire come scrivono le donne. E questo un punto che ho trovato importante e su cui vorrei magari discutere. Esiste una specificità femminile nel scrivere testi noir?
In questo libro le autrici sembrano perfettamente a loro agio nel padroneggiare il genere, lo fanno con talento e ironia: scene agghiaccianti, delitti e intrighi non impediscono di sorridere. Si, perché le storie raccontano una realtà agghiacciante e divertente allo stesso tempo.

Si inzia con i fumetti straordinari di Pat Carra, quattro fumetti dalle sfumature noir, poi si prosegue con le novelle.
Per quanto riguarda il genere noir ho trovato una definizione di noir su Wilkipedia: “Solitamente si considera il noir differente dal giallo perché lo scopo del libro non è soltanto di raccontare e risolvere un crimine. Alla fine del romanzo il lettore deve riflettere, rispetto a ciò che ha letto, sulla realtà che gli sta intorno, deve analizzare il mondo che lo circonda in base alle informazioni che riesce a raccogliere dalla storia. La soluzione del crimine passa quasi in secondo piano. Se parliamo del giallo classico all’inglese che dava per scontata l’esistenza di una certa società, il noir tende ad avere più un antieroe come protagonista, invece dell’eroe consolatorio del giallo. Schematizzando, questo e la differenza tra i finali li rende due generi diversi tra loro per quanto facilmente miscibili. Il finale del giallo classico è consolatorio, la soluzione del giallo riporta allo status quo, al ristabilimento dell’ordine. Il finale di un noir è poco consolatorio, a volte capita addirittura che non esista un finale o che non ci sia soluzione al romanzo. Il punto di vista della storia è l’altra differenza importante: il giallo è la storia raccontata dai buoni. Il noir è la storia raccontata dal punto di vista criminale. Il tutto con le debite eccezioni e articolazioni”.
Le autrici se la sbrogliano molto bene con il genere, non risparmiando nessuna scena cruenta, non avendo nulla da invidiare agli scrittori maschi, anzi!. E lo fanno con ironia. Se leggendo vengono i brividi, si sorride anche.
Sanno perfettamente tenere il fiato in sospeso e cimentarsi a produrre scene grottesche e raccapriccianti senza tralasciare i particolari.

Ma quello che mi è piaciuto è che in questi scritti le donne non sono vittime o esserini indifesi da proteggere. Al contrario sono quasi tutte volitive, furbe, vincenti anche se magari dopo aver ucciso vengono arrestate. Sono vincenti comunque perché hanno portato a termine una missione che si erano prefisse. Sono gli uomini nella maggior parte dei casi ad essere vittime o raggirati senza troppi ripensamenti. Le protagoniste sanno dove vogliono arrivare e lo fanno con astuzia senza sensi di colpa.
Ecco anche un punto che mi ha colpito. La maggior parte delle protagoniste non ha sensi di colpa, al contrario, come detto hanno il loro obiettivo e sanno dove vogliono arrivare lucidamente. E questo mi ha sollevato.
In poche novelle sono gli uomini a uccidere come ‘La cosa buia’ di Beatrice Massaini.
Si parte inoltre sempre da una realtà femminile concreta. Una realtà che riguarda le donne ovviamente che sono le indiscusse protagoniste Si vedono i contesti di tutti i giorni, ognuno può immedesimarvisi pienamente. Niente astrattismi, o realtà parallele, i racconti si radicano nel presente della nostra società mettendone in risalto tutte le sfaccettature.
Si parla del marito violento per esempio in Fatalità di Giulia Maraccini, oppure del playboy che ha ferito i sentimenti di una ragazza a tal punto da farla diventare anoressica in ‘Assassionio sul Po’ di Rosanna Figna, oppure si parla di una madre gelosa della figlia in’La serial killer’ di Caterina Casini e Giovanna Ciorciolini e via dicendo”.

Insieme a Daniela Rossi si è trattato poi del tema che esiste una specificità femminile nel scrivere noir: ad esempio questo partire da questioni molto concrete che si radicano nella quotidianità della vita, il fatto che il finale, a differenza dei noir maschili, sia, a volte consolotario. Come ha detto poi Daniela Rossi, le donne parlano molto di sentimenti e molto anche di cibo. In certe novelle ci sono addirittura delle ricette.

Poesie noir di Luisa Sax recitate nella serata

Una poesia trovata nel cassetto
Della serial killer
Lola Fagòla

Col delitto mi diletto
Qual è il calibro perfetto?

 

La pistola mi consola
Ed il taglio della gola

 

Io ti scanno per benino
E ti brucio nel camino

 

Io ti strappo il cuoricino
E lo getto al cagnolino

 

Ti taglio in più pezzetti
E ti porto ai cassonetti

 

Non mi sentirò mai sola

 

Se starai sotto la mia

Aiuola.

 

 

Un fatto di cronaca rosa

Una sposina tailandese
Subì per un mese
Le folli pretese
Di un marito scortese

Poi, nottetempo, una decisione prese:
recise

Quindi lego’ l’oggetto
Del marito scorretto
Ad un palloncino
Che il vicino di casa
Vide volare nel cielo infinito

Povero marito:
chissa’ quanto

penera’….

 

 

OMAGGIO AI NOMI FEMMINILI

 


MANOLA TI ANELA…

LIDIA TI INSIDIA…

ROSA TI SPOSA…

MAFALDA TI SCALDA…

GIOVANNA T’INGANNA…

MARTA TI SCARTA….

ELVIRA TI EVIRA

E PIU’ NON TI TIRA

 

 

I versi assassini

 

In Versilia,
verso sera,
Una poetessa versatile

 

Amante dei di-versi

 

Versò dei versi
In un taccuino
Poi tergiversò
(Versandosi del gin)

 

Al mattino

 

La trovarono riversa…
e… che la testa si era persa…

 

per terra raccolsero
un anonimo foglietto che recitava:

 

,…eravamo i suoi versi……
ci voleva perversi……..

 

ma quella sera, il terzo capoverso,
un introverso,
con un versaccio la stese riversa
ed ora imperversa su tutte le versioni

 

Aiutateci versiamo in cattivo stato!!

 

P:S:
Tutti i suoi versi giudicati controversi
Dal prosaico Professor Roversi
Furono ridotti a striscioline
Nel tritacarte.

 

A titolo cautelativo aggiungiamo
Che una manciata di iperversi
Immessa clandestinamente nella rete
Da una segreta amica di penna della poetessa
Vaga per il web seminando versacci
nei i migliori siti di poesia on line.
Attenti a ciò che scaricate!.

 

 

In Memoria
(dalla cronaca nera
del Corriere della Sera)

 

Trovarono una donna
seminuda
impiccata alla canna del cesso
di un bar di Milano

 

Portava due anelli nei seni
Le mutandine nere di pelle
E i tacchi a spillo

 

Scrissero che
fu il sadico gioco
di una deviata:
raggiunto l’orgasmo,
in piedi sul water,
con il cappio al collo,
mise un piede in fallo,
scivolò sul tacco a spillo

 

e rimase impiccata.

 

Morale:
non usate i tacchi a spillo
se indossate il cappio al collo.

 

Biografia artistica di Luisa Sax

Negli anni 80 sassofonista delle Clito, il primo gruppo punk-rock di “rrragazze” italiano, ha abitato per molti anni nella casa occupata di sole donne di via Lanzone a Milano.
Si è esibita in varie performances anche nello storico locale femminista Cicip e Ciciap , in seguito si è dedicata principalmente alla poesia e canzone comica, in molte occasioni col gruppo di Riso Rosa e anche in vincenti esibizioni di slam poetry.
Ha frequentato la misconosciuta poesia sonora col gruppo di poeti sperimentali Baobab, attualmente è soprattutto videomaker con una notevole produzione di videopoesie e videoaforismi comici selezionati a molti film festival italiani e stranieri.
E’ stata invitata varie volte a rassegne di teatro, cinema e cultura LGBT
Ha pubblicato poesie su varie riviste, tra cui Linus, e Towanda! racconti comici su “Noi Donne” e alcuni suoi testi sono presenti su libri collettivi di poesia, teatro aforismi e Haiku al femminile.

Si considera, suo malgrado, una donna di lettere a 360 gradi, infatti oltre ad essere una poetessa è anche una portalettere di mestiere.

Il sarcasmo e l’humor nero sono le sue più apprezzate doti artistiche (non a caso, per chi si intende di astrologia, ha tre pianeti in casa ottava, mercurio in gemelli e l’ascendente scorpione).

Circolo della Rosa

 

A partire dal romanzo di Valentina Francolino, Il ventre della terra (Gingko edizioni), la sociologa Antonella Nappi ha discusso con l’autrice sui mutamenti operati dalla società occidentale negli equilibri naturali e sulle conseguenze che comportano per la vita sul pianeta. La pratica politica delle donne ha molto da dirci nell’affrontare i problemi ambientali con le nostre azioni quotidiane.

 

Si è parlato di ambiente, del rapporto delle persone con questo, rapporto carattarizzato da un atteggiamento di indifferenza soprattutto negli uomini, storicamente abituati a spadroneggiare.
Si è affrontato anche il tema del rapporto tra macrocosmo e microcosmo. La discussione è partita dal libro ‘Il ventre della Terra’ di Valentina Francolino. Ha introdotto la discussione Antonella Nappi.

 

Antonella Nappi: “Valentina Francolino ha scritto un romanzo che mi è piaciuto e mi ha colpito, io in genere non leggo romanzi. Si tratta di un romanzo di cultura giovanile anche un po’ fantascientifico. Mi ha colpito perché narra di come abbiamo lasciato che le cose finissero in catastrofe sul pianeta e come si vive durante una catastrofe ormai accertata, ancora facendo finta di niente. Questa è una grande invenzione, secondo me, è molto responsabilizzante. La cosa più grave che ho notato io in quello che lei descrive, pur divertendo e ben raccontando, è che si vive coperti di mantelline per non prendere mai il sole, cosa che ad alcuni di noi succede già adesso. Uno delle realtà più gravi da qualche anno è che il sole è diventato nocivo, seriamente nocivo. In Australia da dieci anni i bambini hanno il vestito con le maniche lunghe per fare il bagno e la mezza gamba. Valentina poi farà un intervento dove racconterà perché si è interessata a questi argomenti e com’è il suo libro. Invece io vorrei affrontare alcune contraddizioni. In genere parlo sempre di politica delle donne e poi di ambiente invece oggi voglio proprio parlare del nostro atteggiamento verso l’ambiente perché si tende comunqe a far finta di niente. Come dice Giorgio Rufolo, catastrofismi sono i fatti. L’uso delle risorse naturali per il formidabile profitto di pochi in questi decenni è stato intenso e ha portato alla rottura di equilibri naturali. Queste cose sono vere e sono terribili: se ci si interessa a leggerle si scopre l’impoverimento del pianeta per il profitto di alcune multinazionali di pochi, ci si appassiona nel vedere come le cose funzionavano e anche come vengono rovinate, perché è una descrizione di realtà fantasmagorica. Ci si arrabbia e anche si capisce un po’ meglio che siamo turlopinati da modi di dire. Leggete la Shiva: i suoi libri sono bellissimi e raccontano queste cose. Volevo anche citare un po’ di libri. Peccei ha scritto ‘Limiti dello sviluppo’, ricerca internazionale del ’72 e che ora Mondadori ha a disposizione che è straordinario. Laura Conti la si trova nelle biblioteche e nel suo libro ‘Questo pianeta’ raccontava già vent’anni fa questioni fondamentali che oggi si cominciano a sapere. Ci sono molte ‘balle’ che circolano, che trasmettiamo noi stessi perché ci hanno dato delle interpretazioni della realtà talmente ribadite che ci viene comodo ripetere. Ad esempio si dice che la scienza ci ha salvato, ci salva, ci salverà. La scienza da qualche decennio crea solamente oggetti nocivi, molto nocivi, come cellulari, campi elettromagnetici, hi fi ecc. Queste cose sono da sapere. E’ cambiata la situazione. Ad esempio in una puntata di Report, che trovate anche in Internet e su Youtube, Milena Gabanelli ha mostrato come l’antenna per cui Internet si può prendere dal cortile dell’università o della scuola è stata addirittura tolta dalle scuole in alcuni paesi perché crea dei campi elettromagnetici che permettono il diffondersi dell’elettrosensibilità come malattia riconosciuta e mutuata da due paesi europei credo siano Svezia e Norvegia. Ci sentiamo poi come appagate da un po’ di libertà come donne e però anche oppresse da un’organizzazione sociale che però ci appare immutabile, l’unica possibile. C’è questo atteggiamento nelle donne e negli uomini, un atteggiamento che infondo tutto sommato è questa la società in cui si vive. La Shiva lo dice bene che è un problema di ignoranza. Non sapendo di altre economie, di altri sistemi, non conoscendo i problemi profondamente perché sono difficili, i problemi che toccano gli equilibri ecosistemici, problemi da sapere soprattutto se tendono a censurarli, si finisce col pensare che tutto sommato bisogna accontentarsi di questa libertà e che la nostra società è l’unica. La Shiva dice bene: non è assolutamente vero che non si può progettare e pensare diversamente. Siamo infatti abituate a vivere con qualche comfort tecnologico non dobbiamo però pensare che l’alternativa sarebbe l’essere sperdute nelle campagne gelate, nella povertà. L’alternativa può essere invece l’organizzazione che vogliamo collettivamente creare che è più attenta alla nostra vita fisica, in un ambiente più sano con tempi che ci permettano la manutenzione di tutte le cose senza essere emarginate economicamente come oggi ci pare. Sono contenta che ci sia qui Silvia Motta che mi aveva fatto una battuta: si dice che gli ambientalisti o i verdi rispondano sempre no. Non è vero che si dice sempre no oppure è vero come per il femminismo. Si dice che le femministe dicono di no a tutto, certo se ci propongono solo l’omologazione alla cultura maschile è difficile non dire no. Gli ambientalisti hanno molte cose alternative, radicalmente alternative da proporre. Non ce le dicono, ce le nascondono dicendo soltanto no. Io credo che bisogna rivendicare e valorizzare di studiare, reimpostare le cose con sentimento e ragione, pensando di avere molto più potere di quello che continuiamo a pensare di non avere. Per reimpostare tutto in un altro modo ci sono piccole migliorie che sono utili e sono geniali perché sono strategiche. Ad esempio la possibilità di creare energia dal sole e organizzarsi per usarla sia personalmente che collettivamente. Molti comuni, molte scuole d’Italia oggi hanno una produzione di energia che serve il comune intero.Questa battaglia vinta per cui l’Enel deve acquistare energia prodotta dal sole, ma ancora di più, organizzarsi per produrre energia che non inquina, sono cose che risvegliano anche le capacità dei singoli di riorganizzarsi e di reagire alle imposizioni. Certo bisogna tener presente che la cosa importante è usare meno energia produrre meno inquinanti.
Lia Cigarini ha ben detto a me, che leggo poco i romanzi, che invece sono molto più efficaci dei saggi o dei discorsi politici. Allora ascoltiamo Valentina che ci racconta come ha fatto lei a pensare queste cose fondamentali con un’esperienza di gioventù e farne un bel libro.

 

Valentina

 

“Il ventre della Terra” è ambientato nel 2181 – e quindi nel futuro – e lo sfondo su cui si svolge la vicenda è un po’ apocalittico, nel senso che quello che ho ipotizzato è uno dei peggiori futuri possibili (anche se – lo riconosco – per molti versi inverosimile) a cui potremmo andare incontro.
I protagonisti del racconto vivono, infatti, negli anni che seguono la “Grande Crisi”, un periodo in cui si è verificata una crisi ambientale di enorme portata, che ha totalmente stravolto il mondo che noi conosciamo: ad eccezione dell’uomo, animali e piante si sono completamente estinti; l’ossigeno dell’aria e gli alimenti sono prodotti artificialmente e la popolazione mondiale è stata decimata da carestie e malattie. In seguito alla Crisi, soprattutto nei paesi più ricchi, con il tempo la situazione si è stabilizzata, anche se la qualità della vita è notevolmente peggiorata e le prospettive future sono cupe.
Ed è su questo scenario che si dipana la storia o, meglio, il viaggio della protagonista del libro, Mira, una ragazza inglese di 20 anni. È una ragazza molto simile a tante altre sue coetanee, e all’inizio del racconto la incontriamo, infatti, all’università, dove si annoia alle lezioni e vagheggia sul suo ragazzo, su cosa indosserà per il prossimo appuntamento con lui, su quello che si diranno…poco importa che viva in un mondo devastato e pieno di problemi; un mondo che si trova in un equilibrio precario e che questo equilibrio stia per spezzarsi.
Poi accade un fatto traumatico e la protagonista, che fino a quel momento ha vissuto in una sorta di bambagia rassicurante, per la prima volta in vita sua si ritrova a dover prendere decisioni importanti ed ad affrontare la vita da sola, con le sue sole forze.
È costretta a partire ed è proprio questo suo lungo viaggio che stravolgerà il suo modo di concepire la vita e il mondo che la circonda, costringendola a mettere in discussione i suoi valori e le sue false sicurezze e facendole acquisire una nuova consapevolezza di se stessa in rapporto al “tutto” di cui è parte integrante.
L’inizio del libro forse è un po’ autobiografico nel senso che io stessa, in questi ultimi anni, entrando nell’età adulta, ho iniziato a liberarmi da quel sano egoismo che caratterizza un po’ la fase adolescenziale della vita, quando si vede il mondo un po’ come se fossimo in una grande bolla trasparente che contiene la famiglia, i nostri amici, le nostre certezze, e tutto ciò che sta nella bolla è importante, ciò che sta fuori non lo è, non ci riguarda.
Me ne liberavo e al tempo stesso iniziavo per la prima volta a interessarmi a problemi di grossa portata ma anche a quelli più modesti, come il trovarmi un lavoro o il confrontarmi con persone diverse da me. Iniziavo ad aprirmi, ad essere meno superficiale.
Subito dopo la maturità mi ero iscritta alla Facoltà di Scienze Politiche, ma per quanto trovassi interessanti le materie che studiavo, mi sentivo insoddisfatta: la sensazione era di avere a che fare con materie troppo astratte e teoriche, mentre io, forse perché ho sempre vissuto in campagna e sono sempre stata in mezzo al verde e a contatto con gli animali, sentivo il bisogno di qualcosa di diverso, di studiare i meccanismi della “vita”.
Fu per caso che scoprii che a Milano tenevano un corso di Naturopatia, corso in cui si affrontano le tematiche relative alle diverse “terapie alternative”, a cui mi iscrissi subito. In seguito, per approfondire gli argomenti che mi stavano più a cuore, lasciai Scienze Politiche per la Facoltà di Tecniche Erboristiche.
Gli studi che ho seguito hanno modificato in modo radicale la mia visione del mondo e di me stessa, introducendomi ad una visione olistica dell’esistenza, una visione – cioè – in cui non c’è una separazione netta tra mente e corpo, tra l’uomo e il mondo che lo circonda, tra microcosmo e macrocosmo.
Il libro è, in un certo senso, il frutto di questo mio piccolo percorso.
I temi conduttori del romanzo fondamentalmente sono due e su questi oggi vorrei porre maggiore attenzione, perché credo che aiutino meglio a comprendere il senso di questo libro.
Il primo è il tema del viaggio e il secondo è quello del rapporto uomo-ambiente. Si tratta certo di argomenti che, all’apparenza, possono sembrare diversi ed estranei l’uno all’altro, ma io trovo che siano indissolubilmente legati tra di loro.
Come dicevo all’inizio, la protagonista, Mira, è costretta a mettersi in viaggio e dopo essersi recata prima in Francia e poi in Grecia, arriva in India.
Eppure non è tanto il viaggio materiale di cui qui mi interessa parlare (certamente anche quel tipo di viaggio è importante, perché vedere e toccare con mano realtà diverse dalla nostra ci rende più obiettivi e ridimensiona la nostra visione delle cose).
Quello che più conta, sono le esperienze cui va incontro durante il suo percorso. Mira, infatti, incontra diversi personaggi che la guidano e la fanno depositaria della loro saggezza e si ritrova in situazioni che mai avrebbe pensato di affrontare. E, via via che muta lo scenario esterno, anche lei si trasforma.
Quando parlo di “viaggio”, quindi, mi riferisco ad un percorso interiore, psichico e spirituale ad un tempo. È un viaggio lungo, faticoso e spesso doloroso quello che lei compie dentro di sè, ma è anche un viaggio che la trasforma, la rende migliore, più consapevole e attenta a ciò che la circonda.
La protagonista del racconto si trova, naturalmente, a fare i conti con la paura e l’ansia, i dubbi, e spesso anche con lo scetticismo e l’incredulità, ma si tratta di emozioni che inevitabilmente accompagnano un processo di crescita e una più ampia visione delle cose.
E quindi, sarebbe più corretto dire che nel libro ho affrontato, più che il tema del viaggio, quello del cambiamento, della trasformazione, ma mi piace di più pensare al viaggio perché è correlato all’idea di movimento, del “panta rei”, ovvero del “tutto scorre”. Usare il termine “cambiamento” mi dà l’idea di qualcosa di statico, che poi, tutto a un tratto, muta. Invece la vita per me è sempre dinamica, non si ferma mai, va sempre avanti, è sempre in trasformazione.
Certo, se ci fermiamo ad osservare le nostre azioni esteriori, abbiamo l’impressione che tutto sia fermo, ripetitivo, ci sembra, alla fine, di fare sempre le stesse cose: ci svegliamo, andiamo a lavorare oppure studiamo, mangiamo, dormiamo…, ma in realtà pian piano, dentro di noi, qualcosa si muove sempre, è in eterno movimento, è, appunto, in “viaggio”, e ci sono avvenimenti, stili di vita, modi di pensare, che ne possono rallentare o accelerare il processo.
Per cui, tornando al libro, Mira compie un lungo viaggio che la trasforma completamente: parte cercando qualcosa e poi, pur continuando a cercarla, capisce che c’è altro da cercare, forse anche di più importante. Qualcosa da cui potrebbe dipendere il futuro dell’umanità intera.
Impara che ci sono delle volte in cui bisogna mettere il bene comune davanti a tutto, e delle altre in cui bisogna lasciarsi andare e seguire il flusso della vita anche se ci porta lontano da quelli che ci sembrano dei bisogni irrinunciabili.
Penso che il percorso di Mira è quello che poi dovremmo fare tutti crescendo, diventando adulti, maturando: ampliare la mente, andare alla ricerca del nostro vero io, cercare di vedere anche nei problemi un’opportunità di crescita. Nel suo caso lei, attraverso questa grande avventura che si trova a vivere, riesce a comprendere per la prima volta, e non più con gli occhi di una ragazzina ma con quelli di una donna, il periodo storico che si trova a vivere, gli errori e le grandi responsabilità umane nei confronti, in questo caso, dell’ambiente, della natura.
E qui mi riallaccio al secondo grande tema di cui vorrei parlare: il rapporto tra l’uomo e la natura. Credo che il rapporto che ognuno di noi ha con il mondo naturale rispecchi fondamentalmente il nostro rapporto con quella parte di noi stessi più profonda, più istintiva, più selvaggia, e non plasmata che abbiamo.
Jung, uno psicanalista che si è occupato molto e a lungo dei simboli, ha detto: ” Il bosco perché oscuro e impenetrabile è, come le acque profonde e il mare, ricettacolo dell’inconscio e del misterioso: gli alberi come i pesci nell’acqua, sono i contenuti vivi dell’inconscio.”
Non a caso si usa l’espressione “linfa vitale” ad indicare quella forza creatrice e generatrice che tutti abbiamo dentro e che ci dà la vita. Il fatto che l’uomo si curi poco, o non si curi affatto, di coltivare, di proteggere, di sviluppare ciò che c’è nel suo profondo, e che, anzi, si dia da fare in senso opposto soffocando e distruggendo la sua natura autentica, si riflette all’esterno con i nostri comportamenti verso il mondo vegetale e animale.
Stiamo facendo uno scempio delle risorse del pianeta e gli appelli degli scienziati e degli ecologisti sono allarmanti, ma per quanto questi possano generare in ciascuno di noi sgomento e angoscia, finisce col prevalere l’indifferenza, preferiamo pensare ad altro come se tutto questo non riguardasse personalmente ciascuno di noi.
Il nostro atteggiamento mentale nei confronti dei problemi ambientali è identico a quello che assumiamo nei confronti della nostra interiorità: preferiamo pensare ad altro. Tutte le nostre energie sono utilizzate per raggiungere obiettivi esterni a noi ed è anche giusto, in parte, visto che viviamo in una società in cui la soddisfazione di certi bisogni è indispensabile, tuttavia ritengo che non dovremmo mai perdere di vista che comunque l’uomo è pur sempre un animale e, come tale, è strettamente dipendente dall’ambiente in cui vive. L’organismo umano è un sistema aperto. Un sistema chiuso è un sistema che non scambia energia con l’esterno come, ad esempio, un sasso. Intorno al sasso, faccio per dire, potrebbe accadere qualsiasi cosa, potrebbe esplodere una bomba atomica, potrebbe esserci un’inondazione, potrebbe sparire l’ossigeno dall’atmosfera, ma lui resterà sempre lì, indifferente a tutto ciò. Una persona invece, così come un animale o un vegetale, effettua degli scambi con l’esterno: ha bisogno di assumere energia da fuori, sottoforma di calore, di cibo, di acqua, la elabora; in parte la usa per tutte le sue funzioni e in parte la conserva, e produce sostanze di scarto che riversa nell’ambiente, come ad esempio l’anidride carbonica, che poi viene utilizzata da altri organismi, e così via. Gli esseri viventi fanno tutti parte di questo enorme ciclo che è l’ecosistema, che andrebbe immaginato come un essere vivente esso stesso, un essere vivente molto resistente perché è capace di adattarsi parecchio ai cambiamenti (ad esempio quando una specie si estingue), ma al tempo stesso fragile perché oltre un certo punto rischia il collasso, e se collassa c’è pericolo per tutte le creature che ne fanno parte. L’uomo forse non si rende abbastanza conto che fa parte di questo ecosistema esattamente come gli altri esseri di questo pianeta.
L’avidità di potere, di denaro, di “benessere” materiale si accompagnano ad una sorta di arroganza, di senso di superiorità, che fa pensare all’uomo di essere padrone del mondo, che gli fa credere di aver domato la natura, di poter disporre di tutto e di tutti in modo indiscriminato e distruttivo. Anche se forse ora si inizia ad intravedere un cambiamento in questo senso, per lo meno ora si iniziano a capire quali siano i nostri limiti. Paradossalmente, in questo sistema, anche l’uomo viene sfruttato, violentato, “modificato” da questa logica dell’usa e getta. Siamo bombardati continuamente da messaggi mediatici che invitano all’avere, al possedere sempre più cose, e ci convincono che il significato delle nostre esistenze si possa misurare dai beni accumulati, piuttosto che da quello che siamo veramente. E la vita che conduciamo, un po’ tutti in modo nevrotico, non fa che amplificare questo stato di cose, questo distacco uomo-ambiente. Le nostre vite sono diventate asettiche, anche noi siamo asettici nel senso letterale del termine, cioè disinfettati.
A volte mi capita di andare in un parco e di vedere magari un bambino che mette le mani nella terra. Generalmente arriva subito la madre che lo sgrida perché sporca i pantaloni da settanta euro…tutto questo per dire che quasi rifiutiamo il contatto con la natura perché è “sporca”. Produciamo spazzatura a tonnellate, inquiniamo l’acqua e l’aria con scarichi e veleni di ogni tipo, ma paradossalmente – o forse proprio per questo – siamo ossessionati dalla sporcizia: facciamo docce in continuazione, copriamo l’odore naturale del nostro corpo con profumi e deodoranti, usiamo disinfettanti sempre più potenti. Facciamo di tutto per inseguire un ideale irraggiungibile, per cui dobbiamo essere asettici; dobbiamo essere perfetti; dobbiamo dare il massimo, senza mai mostrare le nostre debolezze e i nostri difetti, anzi, sarebbe preferibile non averne proprio. La società ci impone di essere puliti, in tutti i sensi del termine, compreso il “senza peccati”, e per peccato intendo anche solo mangiare un dolce di troppo, avere un chilo di troppo. E proprio perché questo ideale ci impone di essere a tutti i costi in un certo modo, e dal nostro mondo interiore ci arrivano tutt’altri segnali, siamo in lotta perenne con noi stessi, e siccome di solito quello che facciamo vincere è l’esterno, ecco che allora si crea il distacco. Distacco con noi stessi, che si riflette poi con un distacco anche all’esterno. Gli animali fanno paura, la natura è qualcosa da dominare. Ma questo modo di vivere sta mostrando sempre maggiori pecche. La gente, soprattutto in Occidente, nonostante tutti i nostri bisogni primari siano soddisfatti, non è felice. Le persone, povere o ricche, sane o malate, belle o brutte che siano, avvertono un profondo vuoto dentro di sè e sentono la mancanza di qualcosa che a volte neanche la fede riesce a colmare. E, sempre di più, si rivolgono alle antiche saggezze dell’Oriente: al Buddismo: il cui fine è il “Risveglio”, l’illuminazione, il Nirvana, uno stato in cui non esiste più un sé separato da tutto il resto, che è un’illusione. Allo Yoga: vocabolo che in sanscrito significa Unione, l’unione di mente, corpo e spirito, l’unione degli opposti, dell’individuo con ciò che lo circonda. Non ci sono limiti, non c’è separazione, tutto è unito. Insomma si rivolge alla cultura di Paesi – da notare – cosiddetti “sottosviluppati” e che – guarda caso – basano la loro visione del mondo sull’integralità dell’essere umano quale parte del Tutto, e ridimensionano l’Uomo a un ruolo non di padrone della Terra ma di un essere soggetto alle stesse leggi che governano tutto l’universo. Per questo ritengo che il “viaggio” nel profondo di noi stessi sia fondamentale per ritrovare il contatto con la natura e rispettarne il delicato equilibrio. Ritrovare un rapporto con la nostra parte più antica e autentica, ritrovare e seguire i nostri cicli, ritrovare la sacralità in ognuno di noi sono tutte condizioni necessarie per ritrovare la sacralità nel mondo che ci circonda. Alla fine è tutto qui il senso del libro, proviamo a scoprire davvero come siamo fatti, cosa ci rende davvero felici e cosa invece è solo un’illusione, di cosa abbiamo realmente bisogno. E, a questo proposito vorrei concludere con un’ultima citazione in cui ho cercato di racchiudere in poche righe questo grande concetto. È un breve passo, in cui uno dei personaggi del libro sta spiegando alla protagonista come bisognerebbe “rapportarsi” con noi stessi:
“E si fermò riconquistando il fiato. Mi prese per mano e io pensai che ormai poco importava il modo in cui sarebbe finita quella notte. Stavo assistendo a qualcosa di miracoloso, dovevo essere grata a quell’uomo che mi stava portando a conoscere il luogo più sacro sulla Terra. Quante cose avevo imparato da lui! Eppure chi era realmente? Le mie gambe erano molto stanche. Riprendemmo a camminare. Disse: – il modo giusto di vivere, di utilizzare la nostra anima senza mortificarla, esaltandola, donandole beneficio, non esercitando su di essa alcuna coercizione, è quello di cercare incessantemente il luogo silenzioso dentro di noi che è permeato di conoscenza, e che è lì per farci capire qual’è il nostro posto al mondo. Così facendo, Mira, riusciremo a liberarci delle gabbie che la vita ci impone, ad insegnarci la compassione verso le creature che insieme a noi si trovano in questa spirale di infinito che è la creazione.”
Intervento: “Io avevo letto la presentazione e mi era piaciuta molto. Viaggio e costruzione di sé sono cose che abbiamo conosciuto un po’ tutti”.
Valentina: “Riguardo la mia generazione credo che ci sia un po’ di indifferenza riguardo certi temi. Vedo più attenzione in quelli più giovani.”
Luisa Muraro: “Nelle cose che hai detto, Valentina, ho trovato troppo poco la tua soggettività. C’è a grandi linee, parzialmente il tuo intervento è autobiografico ed è la parte che mi interessa. Infatti hai sempre parlato al maschile. Le cose che hai detto sono di una verità così generale che il nostro tempo non è capace di farla sua. Abbiamo rifiutato le grandi religioni, si sono disfatte le grandi visioni e adesso si ha la necessità di trovare dei percorsi molto legati alla nostra soggettività e singolarità con tutto quello che ha di contraddittorio. Mi sono ricordata che Benedetto XVI ha parlato contro gli scienziati dicendo che per brama di ricchezza fanno un sacco di sbagli e mi sono chiesta se Antonella si trovasse d’accordo con Benedetto XVI. Sono queste questioni che irrompono nei paesaggi già confezionati cioè che Antonella Nappi si trovi d’accordo con Benedetto XVI. Bisogna camminare per quello che io ho chiamato ‘il territorio del diavolo’ e invito anche te, Valentina, a camminarci. Non aver paura di andare fuori dal seminato. Se no, non abbiamo scampo, Le questioni le abbiamo sentite tutte, le sappiamo ma c’è quella dell’indifferenza: a sedici anni ci credono, dieci anni dopo già c’è l’indifferenza. Questo incombe e ci minaccia. Antonella aveva anticipato che avrebbe detto che cosa non la convinceva riguardo politica delle donne e ambientalismo. Lei dice che le due cose possono anche urtarsi e in lei c’è la voglia di farlo vedere. Volevo ricordare che nel numero di Via Dogana che accoglie questo tipo di posizione (Questo femminismo non ci basta) c’è anche un articolo di Antonella Nappi che espone molto bene alcune sue idee che prima aveva detto cioè: questo femminismo non ci basta. In questo senso di dirompenza. Dirompenza è lei che va d’accordo con Benedetto XVI.
Valentina: “Non si tratta magari di un’indifferenza generale. Io penso che chiunque di noi, a qualsiasi età, sente il problema ambientale ma poi l’indifferenza nasce, appena si ha un problema più grande che poi non è un problema più grande in assoluto ma più grande nel senso che riguarda la nostra vita. Allora tutto il resto passa in secondo piano. Siamo talmente presi da noi stessi, dalla nostra quotidianità che non riusciamo a vedere quali sono i reali problemi che esistono nel mondo perché li mettiamo in secondo piano. Posso interessarmi al discorso ambientale ma se ho tra pochi giorni l’esame, tutto passa dopo, alla fine la quotidianità porta a non pensare più a determinate cose e a occuparsi dei propri piccoli problemi quotidiani. Non penso che sia un’indifferenza nel senso che non siamo capaci di cogliere qual è la realtà, è proprio dovuto al fatto che mettiamo tutto in secondo piano perché alla fine la cosa che ci interessa di più è il nostro orticello.
Antonella Nappi: “Secondo me l’orticello è importante. Il problema è come si pensa a questo orticello, con cultura, profondità e relazioni oppure nell’isolamento e nella fretta”.
Donatella (ospite): “Mi sono occupata di scienza tutta la vita, sono una chimica, mi sono occupata di chimica che vista come il fumo negli occhi dalla maggior parte delle persone. Mi ricollego alle ultime cose che avete detto. Io mi occupo delle cose grandi, veramente grandi, che passano in seconda linea rispetto ai problemi quotidiani. Tu hai citato l’esame che prende un giorno o due, ma ci sono i problemi un po’ più terra a terra che riguardano cose sempre terra a terra ma un pochino più costose: l’energia solare a cui si accennava è una legge ora. Quando si ristruttura una casa bisogna mettere il cappotto, le celle solari, i pannelli solari cioè le fotovoltaiche e isolare. Quando in un’assemblea condominiale viene posto questo problema vorrei sapere quanti ambientalisti si scoprono un po’ più egoisti. I pannelli solari, le celle solari per il momento non sono in grado di far circolare i tram i trasporti pubblici. Io mi sono occupata di chimica applicata all’ambiente. C’è uno scontro tra quello che vorremmo raggiungere e quello che vogliamo. Quanti rinunciano al telefonino che è veramente inquinante? Le celle fotovoltaiche sono fatte di materiali tossici, nel momento di smaltirli c’è un problema. Quindi sull’ambiente ci sono molte cose molto belle dal punto di vista teorico ma dal punto di vista pratico sono difficili da conciliare”.
Luisa Muraro: “Aggiungo solo che ho molto molto apprezzato, Valentina, nella tua esposizione quell’accostamento che fai per due o tre volte tra l’interiorità e il pianeta. Vedo che lì c’è un punto forte di pensiero.
Laura Minguzzi: “Anch’io ho sentito molto forte questa questione nominata da Luisa.L’ho sentita forte perché quando c’è questo passaggio, quando si comincia ad amare la ricerca di sé, a volere sentire e sentirsi in modo profondo, c’è un occhio, uno sguardo più acuto, un’empatia un amore anche per quello che è l’altro, che è l’essere umano diverso, il corpo diverso, la pianta, il mondo, tutto quello che è altro. Questa cosa però è molto difficile perché c’è questo essere come trascinati da una forza magnetica verso gli obiettivi esterni, verso tutto ciò che è esterno e che è solido, materializzabile e che si vede, che è visibile. E l’interiorità è invisibile, quindi l’amore per l’invisibile è l’amore per la vita perché ci sia una vita migliore. Questa cosa io la sento molto spesso insegnando quando discuto con i miei studenti sul valore delle cose, su quello che stiamo facendo. Sono le discussioni più forti, conflitti più profondi perché cerco di andare oltre l’obiettivo, oltre il presente, oltre il quotidiano e su questo c’è la fatica più grande: far vedere qualcosa al di là di quello che si sta facendo.
Antonella Nappi: Io volevo dire qualche cosa a proposito del mio rapporto con il Papa. La scienza la si trova nei siti di Wwf, di Legambiente e di Greenpeace. I più grandi studiosi dei problemi ambientali io li ho conosciuti da queste organizzazioni e dai loro convegni. Diffondevano gli studi sulle verifiche di cosa producono le biotecnologie alimentari. Ecco dunque che usare la scienza per capire e sapere l’hanno fatto anche le popolazioni in passato con i loro strumenti e oggi, lo sottoscrivo, è divertente saperne di più, capire meglio. Il fatto è che la scienza, da alcuni decenni, viene finanziata soltanto da chi vuole trarne dei beni, vuole venderli e vuole nascondere gli effetti negativi, non vuole cercarli, vuole prima guadagnare. Tomatis, ormai morto, ha scritto dei libri su questo. Si tratta di un fatto accertato e i cittadini e le persone non lo pensano automaticamente, perché per pensare alle crudeltà mentali bisogna essere dei crudeli mentali, siamo più portati a pensare che tutto sommato non ci sia tanto odio in giro.

 

Donatella Massara: “anch’io ringrazio Valentina, Luisa e Laura che hanno messo in evidenza questo rapporto tra il sé e il microcosmo e il macrocosmo, tra il sé interiore e la natura perché mi spiega il mio entusiasmo nel cercare di essere in un buon rapporto con la natura. Io sono vegetariana da tanti anni, seguo un’alimentazione macrobiotica e anche per una questione di cura cerco di seguire i dettami ecologici: mi lavo con pochissima acqua ecc. Però è come se questo microcosmo, che poi è il mio orticello, mi bastasse, non riesco a entusiasmarmi per le teorie, mentre mi hanno entusiasmato altre teorie ecologiche forse perché mi spaventano. E’ come se l’idea che ci siano dei problemi che vanno molto oltre la mia situazione personale mi mette poi in uno stato di grande passività e di ansia per non poter modificare nulla. Questo nodo, che è così interessante, mette in parola l’entusiasmo che ha probabilmente ognuna di noi e c’è da chiedersi come mai non ce l’abbiano tutti, questo è quello che stupisce, questa maledizione che imperversa nella maggioranza dell’umanità o, forse no, è una minoranza. Qual è il legame allora tra il piccolo e il grande. Io non riesco ad entusiasmarmi per le teorie neanche per l’ecofemminismo, seguo molto volentieri Antonella ogni volta che fa un’uscita pubblica perché mi permette di mettermi in relazione con qualcosa che mi manca probabilmente, che desidero, mi permette di avere un’informazione più generale. Però bisogna dire che questa informazione più generale arriva come un fulmine a ciel sereno. Io mi aspettavo che voi parlaste della questione del clima che mi ha veramente annichilita cioè scoprire che siamo tornati ai tempi della Democrazia Cristiana, mi sembra di essere negli anni Cinquanta. Io ho semplicemente letto i giornali su questa questione che l’Italia è l’unico paese in tutta Europa che non riesce a capire che ci possono essere delle grosse modificazioni adeguandosi a questi dettami della Comunità Europea. Forse non ho capito bene, forse non è poi così semplice magari lei che è una scienziata ha visto qualcosa che io semplicemente non sono riuscita a vedere. Però mi è arrivato come un fulmine a ciel sereno ridandomi la sensazione di non essere adeguata con le mie piccole pratiche se non appunto perché tutto ciò mi entusiasma mi fa sentire meglio, essere così più attenta, avere un rapporto più attento con la natura rispettandola, andando alla ricerca del cibo meno inquinato ad esempio o tante altre piccole cose”.

 

Intervento: “Io volevo parlare per le ragazze della mia generazione: ho trent’anni e sono egoista, ho il cellulare, le scarpe di pelle, ho la macchina, motorino, non me ne è mai importato niente di queste cose. Però quando ho conosciuto Valentina, lei mi ha un po’ sensibilizzato su questi temi, ho iniziato un po’ a interessarmi di più di queste cose magari in piccoli gesti quotidiani, ad esempio quando mi lavo i denti non lascio l’acqua aperta, spengo la luce se non serve, o non compro scarpe di pelle o borse di pelle, acquisto prodotti cosmetici naturali. Non è una cosa così grandiosa però è comunque qualcosa. Mi sento meno egoista in tutto, non è che tutto mi è dovuto, che posso sprecare l’acqua perché comunque prima o poi finirà e questo mi ha dato un po’ di consapevolezza magari poi è vero che quando i problemi arrivano le cose passano in secondo piano però almeno qualcosina si cerca di fare.”

 

Pinuccia Barbieri: “A me è interessato molto questo discorso sull’indifferenza anche perché io sono una che ama aggregare, fare le cose insieme. Dal pensiero mi piace estrapolare e trovare qualcosa da far insieme alle altre. Vivo spesso delle esperienze non gratificanti e abbastanza depressive. Nel mio quartiere, andando in giro e vedendo i parchi tutti rovinati, ho cercato di mettere insieme donne del mio caseggiato per portare alla luce queste cose. Io mi accorgo che fintanto che io ho questa ‘passione di trascinare’ la cosa funziona. Nel momento in cui sono attratta da altre cose da fare mi accorgo che anche l’aggregazione fatta non va più avanti da sola, cade tutto è come pensare che sempre ci sia bisogno di qualcuno che mandi avanti. Allora mi dico non si è creata abbastanza coscienza perché altrimenti…”

 

Intervento: “Se in piazzale Maciachini ci sono gli alberi modestamente è merito mio. Sono io che per sette anni ho scritto, mandato fotografie e continuato a ‘rompere l’anima’ a tutti quanti. Tante volte lavoro individualmente perché non ho chi mi segue. Certe volte sono riuscita a tirarmi dietro le persone e a fare la raccolta firme che fa perdere sempre un sacco di tempo, perchè mentre raccogli le firme bisogna spiegare, far capire il motivo e cercare di coinvolgere. Quando le persone firmano però hanno come l’idea di aver fatto un grande sforzo per cui si fermano lì.
Nel parco, creato dagli abitanti, è stato chiesto al Comune di fare un’azione quasi evangelica. Ho cercato di far capire alla gente che devono partecipare, che devono aiutarci, ho persino detto siamo vecchi noi che abbiamo tanto lavorato per questo parco perché c’è da trent’anni e abbiamo bisogno di giovani. Mi sono rivolta a coloro che hanno figli o che portano i cani, chiedendo di dare una mano anche finanziaria perché abbiamo speso tanti soldi per i ricorsi. Una volta ho fatto una predica che non finiva più alla fine è venuto un tizio a darmi il suo indirizzo di posta elettronica che poi è risultato inesistente. Questo perché si vede che si sentiva in obbligo di farsi vedere a venire lì e prometterci che ci aiutava a portare in giro i volantini. E’ un lavoro faticosissimo solo se uno ha una forza da leone può portarlo avanti perché vedo che anche le persone che sono vicino a me non sono mai riuscita a coinvolgerle. Nel mio caseggiato, pur vedendo che mi do da fare da trent’anni a questa parte, non si sono coinvolti. E’una cosa che disarma anche le persone più piene di volontà. Poi volevo dire una cosa sull’inquinamento dei telefonini: in una casa del nostro quartiere abbiamo messo un’antenna. L’istallazione di quest’antenna andava a beneficio di chi abitava nel caseggiato perché non pagavano più le spese di amministrazione o ne pagavano poche, c’era infatti un contributo da parte di quello che ha messo l’antenna. Quelli del caseggiato hanno protestato dicendo che avrebbero subito le conseguenze. E’ stato risposto loro che potevano stare tranquilli in quanto erano sotto l’effetto fungo. La scuola che era lì a due passi ha protestato ma è stato risposto che non doveva temere nulla perché era in basso. Allora noi che siamo alti che siamo tutti intorno? Io avrei potuto mettermi di nuovo a raccogliere le firme, ma se poi continuano a venir fuori cose nuove uno non può continuare tutta la vita a raccogliere firme. Sembra che le persone anche se il proprio orticello verrà bruciato dall’inquinamento sono contente di stare lì col telefonino col televisore ecc.

 

Valentina: Il fatto è che si pensa ‘tanto faranno gli altri’ o qualcuno risolverà il problema. Mi viene in mente mio fratello perché lui è una persona che spreca molto. I miei genitori hanno un bar e lui la raccolta differenziata non sa neanche cosa sia. Ha 24 anni, addirittura anche quando proviamo a spiegargli la cosa non gliene importa niente. Tanto prima o poi, dice, inventeranno qualcosa, la scienza risolverà tutto. Come lui tante persone la pensano così e secondo me con questo atteggiamento si rischia di anticipare il momento in cui non si potrà più tornare indietro.

 

Vita Cosentino: Mi ha colpito che hai citato tuo fratello. Bisogna tirare fuori questa questione e farla uscire in grande: il fatto che siano più i maschi che hanno l’atteggiamento di dominio sul mondo. L’hanno avuto storicamente e tutto ciò le scienziate lo hanno detto. Essere donne, generare la vita, mette in un’altra posizione. E poi c’è la questione che c’è una competenza femminile sul mondo che però non viene mai giocata davvero. Ed è uno degli inciampi. Il conflitto non è aperto sempre e dovunque anche in questi termini per cui continuaiamo a raccogliere firme, cerchiamo di risparmiare un po’ di acqua, però tutto ciò viene vanificato da questo spadroneggiare. Il problema è di fare un conflitto anche a quel livello. Gli uomini non possono più pensarla in questo modo che ha portato le cose ad andare malissimo, siamo a questo punto sull’orlo del baratro. Forse dobbiamo prendere più coraggio di mettere in questi termini lì la questione.

 

Antonella Nappi: Ora c’è di nuovo un cambiamento di educazione: il riposo non c’è più, gli orari non ci sono più, i cantieri possono aprire alle sette, cosa che fino dieci anni fa non era possibile, si poteva aprire non prima delle nove. Tutta la cultura è improntata sul concetto:l’individuo non esiste, le sue necessità non contano niente, conta solo il far soldi, far girare soldi, comprare merce, far spendere soldi. Ora di nuovo per forza tutto cambia e tra l’altro anche è una bella dimostrazione che erano tutte ‘balle’ il fatto che si debba tornare indietro sull’educazione, una vittoria della riflessione a dire che l’ideologia dello sviluppo era una cavolata.

 

Intervento: “Hai ragione a dire che è un fatto di comunicazione. La comunicazione è cambiata per cui tu dici ‘è pigro non legge magari neanche il cartello’. Proviamo a mettere sopra i contenitori un video secondo me funziona. A questo punto bisogna poi trovare un sistema per comunicare. Se si mette un cartello è chiaro che non viene letto. In questo fatto c’è proprio l’incoltura, bisogna trovare il modo di comunicare la cosa, perchè la comunicazione più semplice e antica non funziona.

 

Antonella Nappi: “Anche l’università è diventata più facile almento quella che vedo io, Scienze Politiche. Ritornare a fare fatica, io la trovo anche così bella la fatica del capirsi, di spiegarsi, riempie più di senso la vita e le azioni fare fatica”

 

Silvia Motta: “Io volevo solo aggiungere che trovo molto bello avere scelto la forma del romanzo per comunicare questo argomento.”

Circolo della Rosa

 

 

Nell’introduzione al documentario non vi dirò nulla della trama per lasciarvi intatta la sorpresa della visione, ma voglio indicarvi quello che, secondo me, ha permesso alla regista di realizzarlo, quelle pratiche che ne hanno determinato l’originalità e vi indicherò, dato che ci troviamo in una libreria, anche i libri che hanno contribuito a queste riflessioni.
Innanzi tutto ho sentito una forte consonanza con il lavoro che come Comunità di storia stiamo facendo sulla STORIA VIVENTE, dove la storia della storica, anzi la parte più oscura, quella che costituisce un nodo non ancora messo in parole non solo è il punto di partenza, ma, indagata, può portare a un nuovo simbolico, cioè a parole che possono illuminare il nostro presente. E’ una pratica usata e mostrata da Marirì Martinengo nel suo libro “La voce del silenzio” , ripresa da María Milagros Rivera Garretas sia qui che a Roma nel Convegno delle filosofe, i cui atti sono pubblicati nel volume “Il pensiero dell’esperienza” che presenteremo al Circolo il 7 febbraio.
E’ una storia dove si supera la separazione tra soggetto, chi è attivo e indaga nel passato, e oggetto passivo che si fa descrivere e definire, dove l’esperienza umana vissuta da chi scrive, e nel caso di Lorena Giachino Torréns fa un documentario e usa il linguaggio cinematografico, non è separata dalla storia che presenta. L’oggettività, che non va confusa con la fedeltà alle fonti e la loro valutazione critica, fa perdere il legame tra ciò che avviene e le donne e gli uomini che vivono e riferiscono quegli avvenimenti, un legame che invece nella vita è inscindibile. Fa sì che la storia ci appaia come qualcosa di morto e mortifero. In questo documentario, invece, autobiografia, biografia e storia collettiva sono in continuo vivificante dialogo.
Inoltre nessuno viene trasformato in personaggio, in icona conclusa, ma entrando nelle viscere del tempo, del suo tempo, la regista le apre di nuovo alla vita e al suo scorrere, smuovendo anche noi.
Qui il tempo non è una linea retta dal passato al futuro, non è neppure il tempo immobile di tutti gli assolutismi che ci vogliono inchiodare in un eterno presente, quello del sogno di potere del dittatore che non ne ammette altri, ma è un tempo curvilineo e molteplice, che si sposta in avanti per poi ritornare indietro in continui movimenti che si aprono all’essenza della vita che è continua apertura, trascendenza, eccedenza. Anche la nostra vita individuale diventa un inferno se dimentichiamo di rinnovarci ogni giorno “in un doppio movimento che, per Zambrano, costituisce la trama ultima della storia: voltarsi indietro per recuperare il proprio passato “sciogliere le amarezze trattenute nella memoria, mettere allo scoperto le piaghe nascoste” per poi protendersi verso il futuro, verso l’aurora di una nuova crescita” .
Quale capacità umana Lorena Giachino Torréns mette in gioco per costruire le relazioni che le hanno permesso questo suo lavoro. Mi affido di nuovo al pensiero di María Zambrano come ci è stato presentato da Annarosa Buttarelli . Usa la Pietà, cioè “il saper trattare adeguatamente l’altro” , senza schematizzarlo in un’astrazione. Oppure, con Edith Stein, possiamo parlare di empatia, una capacità complessa, ben analizzata da Laura Boella , che possiamo consapevolmente sviluppare. In parole semplici l’empatia è il sapersi mettere nei panni dell’altro, senza credere di diventare o sovrapporsi all’altro. Oggi sappiamo, grazie alla scoperta dei neuroni a specchio, che vi è una base neurologica ma non basta, richiede che sviluppiamo l’immaginazione non per immedesimarci ma per leggere più in profondità ciò che accade nell’incontro, per modificarci in modo imprevisto e libero, per salvarci dall’indifferenza e scoprire la nostra comune umanità.
Infine voglio sottolineare la modalità con cui la regista porta alla luce esperienza che ci mostra. E’ molto simile alla pratica politica delle donne di “raccontare l’esperienza”. Si tratta di narrare ad altre e con altre la propria esperienza con la fiducia di poterla interpretare. L’atto del narrare qui ed ora fa’ in modo che l’esperienza narrata possa prendere una nuova forma, uscire dalle modalità di interpretazione già date e costruire un nuovo simbolico, cioè contribuire a dare un senso diverso a quello che è capitato e ci sta capitando.
Come dice Luisa Muraro, la narrazione ha caratteristiche particolari: è un “evento di cui i partecipanti (le partecipanti, nel caso che ci interessa) fanno esperienza insieme, per cui all’esperienza vissuta, nell’atto di diventare esperienza raccontata subentra, insieme all’attività di ricordare, raccontare, ascoltare, anche l’esperienza vissuta, qui ed ora, dai partecipanti all’atto della narrazione”. Riferendosi all’esperienza femminista, Muraro fa presente che con questa pratica si è dato “libero corso al significarsi di un’esperienza altrimenti taciuta, ignorata o malintesa”. Anche qui vi è un’esperienza che viene significata in modo nuovo.
Vi invito a guardare questo documentario proprio per vedere se anche per voi modifica il senso di quegli avvenimenti, se vi apre nuove domande sull’oggi

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Un’accurata recensione del film, redatta da Donatella Massara, si trova sul sito http://www.donneconoscenzastorica.it

 

Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005

 

Del libro di Marirì Martinengo si è discusso anche con María Milagros Rivera Garretas a Milano al Circolo della Rosa – Libreria delle Donne il 17 giugno 2006 nell’incontro dal titolo Come raccontare ‘ vite infinitamente oscure ‘? i cui atti si possono leggere in http://www.donneconoscenzastorica.it/incontri/incontrogiugno06.htm

 

María Milagros Rivera Garretas, “Riscattare e redimere il presente” in Annarosa Buttarelli e Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini e Castoldi Dalai, Milano 2008, pp.343-357

 

María Zambrano, Delirio e destino, Raffaello Cortina, Milano 2000, p.65

 

Federica Dragoni, María Zambrano: la donna e la Storia, in DWF/ Femminismi d’Europa, 2008,2 (78),p. 61.

 

Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata. María Zambrano e i suoi insegnamenti, Bruno Mondatori, Milano 2004.

 

María Zambiano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p.185.

 

Laura Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Cortina, Milano 2006.

 

Luisa Muraro, “In realtà” in in Annarosa Buttarelli e Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini e Castoldi Dalai, Milano 2008, p.24.

 

Appunti tratti dalla sbobinatura dell’incontro presentato da Sara Gandini con ospite François Fleury.

 


Sara Gandini: “Questo e’ il quarto incontro del ciclo “Il posto del padre”, che Laura Colombo, Elisabetta Marano ed io, abbiamo proposto e curato. Con questo ciclo ci chiediamo che posto vogliamo dare al padre. Perche’ pensiamo che le nostre domande sul padre abbiano a che fare con il nostro desiderio di relazione con gli uomini. Oggi ne discutiamo con Francois Fleury etnoterapeuta di Losanna.
Inizio mettendo un po’ di carne sul fuoco e poi facendo a Fleury alcune domande, frutto principalmente degli incontri scorsi e dello scambio con Laura ed Elisabetta.
Un film negli ultimi tempi mi ha molto colpito: “Non e’ un paese per vecchi” dei fratelli Coen.

 

Un uomo solo domina tutto il film, portando violenza e distruzione ovunque. Uccide senza alcuno scrupolo con uno strumento che non lascia nulla di se’ nell’altro. Anche il simbolo fallico della pistola, che lascia la pallottola, o del coltello, che penetra, sono sostituiti con uno strumento sterile che spara aria compressa, e permette di evitare il contatto con l’altro.

 

In questo film c’e’ solo il caso e l’individuo, nella sua solitudine. Lui, il cattivo per eccellenza, e’ il vincente. Si affida alla sorte, al lancio di una monetina, e il caso lo favorisce sempre. Anche gli anziani poliziotti rimangono senza parole e non comprendono cosa origini una violenza cosi’ insensata. Non rispetta nessuna legge ne’ sistema di poteri. Non c’e’ piu’ un simbolico patriarcale che faccia ordine, e tanto meno relazioni possibili tra uomo e donna che possano orientare in modo differente.
Il film, nonostante il clima da Western, finisce stranamente con il racconto di due sogni da parte di un anziano poliziotto che va in pensione. Il racconto viene fatto ad una donna a cui si chiede di ascoltare e di accogliere le parole, senza commentare.
Nel primo sogno il vecchio si danna per avere perso i soldi che il padre gli lascia, rappresentando l’inquietudine degli uomini in crisi perche’ non piu’ in grado di raccogliere cio’ che i padri potevano lasciare in eredita’.

 

Nel secondo sogno lui segue il padre a cavallo in una valle fredda, tempestosa. Il padre ha una lanterna, va veloce e lo supera. Ma lui sa che piu’ avanti lo ritrovera’ in un luogo al caldo.
Il poliziotto si stupisce di rappresentarsi, anche da anziano, come figlio. Un figlio alla ricerca del padre. Nel sogno emerge chiaramente il desiderio del ritorno di un padre che porti luce, chiarezza, sicurezza, che sappia la strada. E’ il sogno di un anziano che va in pensione senza essere riuscito nella sua impresa, e che si sente inutile, disorientato, senza uno scopo.

 

Si tratta di un film di due registi, due fratelli americani, che ci raccontano un mondo di uomini soli. Ci raccontano le loro paure: un mondo in cui gli uomini sentono la mancanza dei padri, ma non c’e’ desiderio di divenire padri (l’arma sterile, l’anziano che si vede solo come figlio); e si chiedono se questo puo’ portare solo a disordine e sofferenza. Se il simbolico patriarcale non e’ piu’ ereditabile e gli uomini non vogliono diventare padri, se non ci sono relazioni tra uomini e donne che sappiano orientare, c’e’ il rischio di una violenza cieca incomprensibile?

 

Lia Cigarini in un articolo dal titolo “ma cos’e’ questa crisi”, pubblicato sul Via dogana scorso, commenta un altro film: “La valle di Elah” di Paul Haggins. Scrive: “Un padre, ex combattente del Vietnam con la certezza dell’onore dell’esercito, scopre che il figlio in licenza dall’Irak e’ un soldato sbandato, drogato e irresponsabile. L’interesse del film sta nel fatto che man mano che il padre scopre di non avere trasmesso niente di se’ al figlio, neppure un po’ di onore, la sua identita’ di soldato e cittadino si sgretola, insieme a quella degli Stati Uniti. Lia parla di una irrisolta questione maschile e si chiede perche’ le donne non si fanno avanti.
Io invece mi chiedo dove sono finite le relazioni fra i sessi. Certo e’ difficile anche solo pensare a relazioni di differenza, relazioni in cui sia possibile un conflitto fecondo fra i sessi, se gli uomini sono cosi’ svantaggiati, cosi’ disorientati. E mi chiedo se questi film non siano un appello disperato dato dal desiderio di ricostruire una genealogia maschile, costruire relazioni sensate fra uomini, necessarie per poter pensare a uno scambio fecondo anche con le donne.

 

Francesco ragazzi, nel secondo incontro su “Il posto del padre”, diceva che per riuscire a stare qui con noi, alla Libreria delle donne di Milano, in una relazione che definiva un po’ scomoda, aveva bisogno di un padre, di suo padre. Diceva che il padre è costruito dal desiderio. E’ il desiderio del figlio di avere un padre che lo crea, in un certo senso fonda il padre anche se questo latita. Lui raccontava che nella relazione con suo padre e di suo padre con il nonno, vedeva scorrere un desiderio che ha, pian piano, creato una realtà diversa.

 

Nel quaderno di Via Dogana “E cosi’ via in un circolo di potenza illimitata”, viene riportato un tuo intervento, Francois, che hai fatto all’incontro dedicato al numero di Via Dogana “Parla con lui”. In quell’occasione fai cenno all’importanza di aver incontrato tuo padre, in un certo momento della tua e della sua vita, e della possibilita’ di ripartire da li’.

 

Cosi’ ti chiediamo che posto tu, Francois, dài al padre?

 

Come anche Marco Deriu nel primo incontro sottolineava, la riflessione sul padre non puo’ che partire dal forte cambiamento in atto, ossia la crisi di un ordine simbolico – il patriarcato – in cui la figura del padre era molto forte. L’ordine patriarcale è stato messo in discussione dai movimenti antiautoritari degli anni sessanta e settanta ma il “colpo di grazia” è stato dato dalle donne, che hanno saputo mettere al mondo la libertà femminile. La liberta’ femminile e’ solo un elemento che puo’ mettere in crisi o puo’ essere anche leva di liberta’ per gli uomini? Questa liberta’ maschile nasce sulle ceneri del padre o si puo’ fare a meno del parricidio per fondare una nuova liberta’?

 

Marina Terragni nel Via Dogana intitolato “Lo svantaggio maschile” affermava che lo svantaggio maschile non corrisponde affatto ad un vantaggio femminile.
In un sogno di qualche tempo fa, dormivo nel letto con mio padre e ad un certo punto scoppia una bottiglia ed esce un fumo bianco irrespirabile. Io devo alzarmi dal letto e precipitarmi ad una finestra per riuscire a riprendere fiato. Mio padre continua a dormire e non si accorge di nulla. Io ai piedi del letto, sempre nel sogno, mi chiedo come puo’ acccadere tutto cio’ e mi dico che questo accade quando le donne corrono piu’ veloci degli uomini. In una situazione di svantaggio maschile, se io, l’unica che si sveglia, non so stare al passo rischio anch’io di soffocare.
Nelle danze del sud, le tammurriate e le pizziche, diversamente da molte altre danze del nord Italia e nord Europa, le donne ballano prendendo l’iniziativa, cambiando il ritmo della danza, determinando le distanze dal ballerino… pero’ devono sempre tenere d’occhio dove sta il loro compagno di ballo. Non si balla da sole, la danza acquista in bellezza quando si sa dove sta l’altro e ci si muove di conseguenza. Ma soprattutto quando si sa comunicare dove si desidera l’altro che stia.
Secondo te Francois, cosa ha a che fare il posto che diamo al padre con le relazioni di differenza fra uomini e donne?

 

Annamaria Rigoni, una formatrice che per lavoro è contatto con giovani donne e uomini, ci raccontava che i giovani senza una figura paterna, nell’immaginare il proprio futuro lavorativo, sembra facciano fatica a trovare un equilibro tra onnipotenza e impotenza, cioè passano da una posizione in cui pare possibile fare tutto alla posizione opposta. Chi invece può contare su una figura paterna equilibrata sembra possedere un senso del limite. Marco Deriu, un sociologo che ha svolto diversi lavori di ricerca con adolescenti e giovani padri, ipotizzava che le difficoltà dei giovani uomini siano dovute a una comunicazione interrotta tra generazioni diverse di uomini, al fatto che i giovani uomini non hanno un’autorevole figura paterna cui fare riferimento.
Cosa ci puoi dire tu, Francois, a partire dalla tua esperienza?
Partendo dalla tua esperienza con gli adolescenti maschi immigrati che incontri col tuo lavoro, pensi che lo svantaggio maschile degli uomini possa dipendere dalla mancanza di nuovi padri?”

 

Francois fleury: “Per me è stato importante ripensare l’incontro con mio padre quando lui è morto. In quel momento ho capito la questione della figura dell’orfano, che di solito è una figura della letteratura dei bambini. Mi sono chiesto perchè non si parla mai di questa figura. Partendo da questo rievoco l’immagine dei bambini orfani che vivono nella strada, per esempio a Instanbul, che chiedono la carità e io, come signore di potenza che viene dall’occidente, mi sento in colpa quando non do nulla. Questi bambini rimangono soli. Sparisce con i genitori la sicurezza, sicurezza molto profonda che è quella che ho vissuto come bambino rispetto mio padre. Questo sentimento legato al padre riguarda il film citato: la figura centrale è un uomo che è di una potenza tale da decidere che cos’è la vita e la morte. Mi sono chiesto come mai i Coen hanno deciso di presentare la morte nella figura del maschile. Di solito, nel mondo occidentale la morte è femminile. Quello che mi ha toccato in questo film è che la morte è completamente legata al maschile. Questo film mi ha toccato perchè mi sono chiesto se dobbiamo andare a cercare all’inizio dell’uccisione. Cos’è questa figura dell’uccisione? Che cos’è la capacità di mettere a morte, che cos’è la capacità di decostruire il destino? Nella figura maschile c’è il cacciatore e questa immagine è importante perchè se guardiamo la storia umana, i cacciatori nel ciclo del cibo sono quelli che ammazzano e credo che in questo film, questa figura centrale è quello che ammazza. Ma perchè? Dall’inizio della vita ammazziamo per mangiare, per sopravvivere e questo è il grande ciclo del cibo dove l’uomo ha l’importanza maggiore. L’uomo è quello che fa la caccia. Invece in questo film c’è uno che ammazza senza scrupolo e c’è l’altro, che è la figura più vicino all’uomo, in sè maschile, che gli dà la caccia. C’è una storia di cadaveri e di mafia, di soldi e di droga. Il centro di questo film sono i soldi sporchi. Per far mangiare una famiglia bisogna avere soldi. Siamo usciti dal ciclo naturale dei cibi che si mangiano, che si controllano, adesso siamo in un ciclo pazzo che si costruisce e si disfa, siamo sotto un controllo fatto da attività maschile.
Bisognerebbe capire il cambiamento di questi ultimi secoli partendo dalle società che cercano di controllare la realtà ideologica contro quelle società che stanno cercando di modificare la realtà come decidono. Bisogna capire la differenza tra un indios dell’Ammazzonia che controlla il numero di puma uccisi perchè altrimenti la specie di estingue e un bancario svizzero che investe soldi in case. Il padre porta in sè l’immagine della sicurezza ma come mai stiamo arrivando in una situazione di perdita di sicurezza? Nel film quello che mi ha toccato è che si vede il protagonista che decide con la moneta quello da fare nella vita. Il destino è molto più complesso e non si può controllare. Il nucleo fondamentale di questo film alla fine ci porta davanti a questi due sogni che sono quelli di un vecchio poliziotto. In questo film non è chiaro neanche se lui abbia sognato tutto questo. Mi sembra importante che i Coen abbiano preso questa figura maschile che attraversa la famosa figura eroica e forse questo ha a che fare con l’immagine del padre. L’immagine eroica è l’immagine del cacciatore contro l’immagine del vincitore, ovvero quello che si procura il cibo e fa la guerra per averne prendendolo dal territorio altrui. Dobbiamo sofferemarci sull’immagine dell’eroe. Da molti anni sto cercando il perchè parlo di me attraverso quest’immagine, questo immaginario eroico che è un immaginario che costruisce il narrativo perchè nel narrativo, quando si parla di sè, si usano delle favole che sono il racconto della mia storia. Questo racconto attraversa tutta una serie di immagini abbastanza fedeli, descritte da Cambell, filosofo francesce che sostiene che attraverso questo ciclo dell’eroe si parla di nascita speciale. L’eroe è sempre una nascita speciale. La parola padre non può essere usata senza che ci sia un figlio o una figlia. Il nome padre viene fatta dai bambini non da altri. La nascita del bambino dà il nome del padre altrimenti non esiste questa figura. Un eroe, parliamo di maschi, nasce da una circostanza, da una serie di causalità. Il ragazzo porta in sè tutto il valore eroico dell’uomo: quello che andrà a difendere la città, la madre, contro il nemico e questa posizione sarà quella di portare del cibo o difendere la città dal nemico. E’ una figura molto complessa e non si può scappare da questa costruzione.
Come mai una donna che soffre questa posizione patriarcale di potere dà a suo figlio in questo ciclo dell’eroe? Come mai attribuisce a questo bambino delle risorse per affrontare qualsiasi causalità? Il ciclo dell’eroe continua quando è nato in maniera spettacolare: il bambino porta in sè il futuro di questa vita di eroe che dovrà attraversare delle prove. Nell’immaginario c’è la figura del militare: il passaggio a un uomo che è capace di difendere la comunità in sè oppure di divenire un uomo nel senso che passa dalla natura di bambino alla natura di uomo attraverso delle prove che sono molto potenti e molto forti. La comunità costruisce dei sistemi per attraversare queste prove che sono legate alla cultura di dove è nato il bambino. Si tratta di un momento molto profondo dove il bimbo viene affiliato a suo padre. Finchè non ha fatto queste prova non è affiliato e questa affiliazione è un’affiliazione complessa perchè di solito questo ciclo di prove porta in sè gente che ripresenta la cultura. Queste persone sono altri padri che cercano di dominare il bambino, la sua capacità di essere attento alla realtà.
Una prova che riguarda gli adolescenti è l’esame di maturità: l’esercitazione alla maturità è una prova per diventare un uomo ma la maniera di svolgerla è una grande menzogna perchè di fatto se questo ragazzo è stato seguito a scuola sappiamo se può attraversare o no questa prova. Invece il gioco di portarlo davanti al consiglio di professori è una maniera di affrontare la paura del ragazzo e di portarlo a fare delle prove che sono potenti. In pratica è un addomesticamento per diventare un uomo. Questo addomesticamento porta all’interno il futuro padre. Nelle altre civiltà, per esempio in Africa, questi riti di passaggio si affrontano anche con una sofferenza costruita dove il bambino si trova in situazioni di aver paura della morte. Questo è importantissimo: per attraversare questa prova bisogna attraversare la morte simbolica costruita dagli anziani. E’ la morte della libertà di pensiero. Il pensiero non è più libero: bisogna pensare come gli antenati. Si tratta di un’acculturazione del bambino in modo di costruire una capacità di accogliere l’autorità di gente più potenti di lui, che decidono per lui e lo portano a fare delle cose che non rientrano nella sua volontà. Trovo interessante l’immaginario dell’eroe del film western. L’uomo eroico del film che può essere quello che manda la moglie con il bambino fuori dicendo che il progetto sarà un paradiso. Manda poi il figlio alle prove dato che lui sta morendo. Lui non è capace di sfuggire alla realtà. Ai maschi si chiede di affrontare la morte attraverso diversi momenti di realtà.
Da un po’ di tempo le donne stanno pensando che stiamo andando verso la fine della capacità di costruire la famiglia. Per costruire la famiglia bisogna avere un po’ di sicurezza e la capacità di sopravvivenza. Se muore la famiglia il primo che muore è il padre e oggi come oggi si può sopravvivere anche senza padre. Ma questa figura della sicurezza, è un po’ complessa. La figura della sicurezza oggi è nelle mani di un vecchio poliziotto. Oggi c’è sempre più paura, la paura è aumentata. Oggi chi dà la sicurezza? Si parla di polizia privata, militari, aiutare la guerra in Iraq con dei militari che io sono capace di pagare. Si tratta di una guerra costruita dai soldi. Ogni giorno sono si vive in questa insicurezza: si esce di casa e si pensa “forse mi salta la macchina”. Per quanto riguarda l’Iraq attraverso lo schermo della televisione vedo solo morte. In Italia del resto si discute tanto di questi poveri rumeni che generernao insicurezza. A Ginevra è stata fatta una grande discussione su cosa fare dei rumeni. Abbiamo accettato la Romania nell’Europa e dobbiamo essere precisi. Quando si accetta un paese si deveno vedere le carte. Io sono andato in Romania, a Bucarest e ho visto metà che della città è di origine rom. Ci si chiede, dove sono i politici? Sembra che siamo persi in un’insicurezza fortissima che si manipola ed è manipolazione. Si crea la paura per mantenere il potere: ho paura allora voto e non ho più un’immagine politica.
Non so più cosa io sono. Cerco di essere sottomesso e questa sottomissione mi sembra importante perchè quello che stiamo dicendo in questi ultimi tempi che siamo sottomessi a tutto quello che dicono…e molte volte dicono cose sbagliate.
Con gli immigrati lavoro da anni: abbiamo raccolto gente dai balcani abbiamo, bambini che sono arrivati in Svizzera. Ci abbiamo messo tre o quattro anni per avere dei corsi in lingua materna, dopo otto anni questi bambini devono tornare a casa loro. Per fare un programma di accoglienza bisogna essere capaci di capire quali sono le cose più importanti. Questi bambini sono arrivati trauamitizzati e di loro non se ne è occupato nessuno. Quando parlavano i genitori dicevano di averli protetti. I bambini vivono la loro vita che non è quella dei genitori. Nessuno si è messo a lavorare con questi bambini. Ora hanno sedici anni e hanno problemi grossi. Li abbiamo lasciati con il loro trauma. In questo caso è il fallimento del padre, della sicurezza, della realtà sicura. Si chiede agli esperti se il trauma che è sempre più grande, in caso non venga curato se, porta per i prossimi vent’anni a chi lo ha subito sempre più paura e incapacità di gestire la realtà. Dietro il trauma c’è la paura della morte e la mancanza di sicurezza. Questi bambini di 16-18 anni stanno vivendo la loro rabbia contro i sistemi che li hanno portati a diventare adulti perchè manca l’infanzia, manca un pezzo enorme dell’infanzia ed è chiaro che quando questi giovani hanno problematiche chiedono ancora aiuto. Non siamo stati capaci di aiutarli perchè non si tratta di un trauma diretto, ma della difficoltà di integrarsi in una civiltà che non ha mai accettato stranieri. Questi ragazzi in Svizzera hanno fatto le scuole medie, sono ragazzi che non hanno prospettive. Questo porta a un sentimento di insicurezza. A fare la guerra sono i padri, i maschi. Si tratta di una costruzione che dobbiamo decostruire.

Di Francesca Avanzini e Daniela Rossi

 

Abbiamo pensato chi potevano essere le madri del noir in tutte le sue forme, se nel noir vogliamo far rientrare, come pare questo concorso voglia, racconto horror, thriller con sfumature psicologiche, splatter, fantasy a tinte forti o anche umorismo nero. Assodato il debito di questa forma alla letteratura inglese, abbiamo cercato le scrittrici che fin dal remoto passato l’hanno trattata, facendo scoperto interessanti, che dimostrano, ce ne fosse bisogno, come le donne siano particolarmente adatte a trattare il lato oscuro dell’animo umano, quello dove si annidano i mostri. Sarebbe una forzatura far risalire il genere addirittura a una scrittrice del ‘600, Aphra Behn, che a scopi umanitari e antischivistici ante litteram descrive con particolare realismo nel suo romanzo Orooonoko il crudele trattamento degli schiavi africani.
Ma la prima nella quale si possono rintracciare elementi davvero horror è Ann Radcliffe, che nel 1794 pubblica “”The Mysteries of Udolpho”, una novella gotica che è un po’ l’equivalente dello splatter odierno. Molto sangue, teste mozzate, gente che ritorna dall’oltretomba, apparizioni e sparizioni, vecchi manieri e chiese abbandonate: gli elementi di certi film B di oggi ci sono tutti. Naturalmente non sono solo le donne a scrivere Gothic novel, la voga è venuta sull’onda del concetto del sublime che è tipicamente preromantico e anticipa la sensibilità romantica.
La grande Jane Austen si è cimentata con la parodia del genere. In Northanger Abbey (1818) si fa gioco degli eccessi gotici nella persona dell’ipersuggestionabile Catherine Morland, che immagina ovunque orrori alla Radcliffe mentre probabilmente il vero orrore è la routine quotidiana con la sua ripetizione. Ma poco prima di Jane Austen, nel 1816, Mary Shelley aveva scritto Frankenstein. Non c’è bisogno di ricordare la vicenda, ma anche qui si vedrà come a buon diritto le donne possano rientrare tra le inventrici del genere horror. Sono note le circostanze da cui ebbe origine il libro. Dopo una notte passata sul lago di Ginevra coi poeti Byron, Shelley il loro amico Polidori, ognuno doveva scrivere qualcosa di soprannaturale. Polidori scrisse “Il Vampiro” che fissa un’altra figura del genere horror e dà origine a tutte le storie di vampiri inglesi.
Quest’elenco non è ovviamente esaustivo né ha la minima pretesa di esserlo. Erano molte le scrittrici inglesi che si occupavano del genere, e alcune di esse che ebbero successo ai loro tempi sono ora completamente scordate.
Moltissimi elementi soprannaturali si ritrovano nelle sorelle Brontë. Basti pensare a “Jane Eyre” di Charlotte Brontë, con la moglie pazza di Rochester chiusa nella soffitta, l’incendio, le spettrali case nobiliari. “Wuthering Heights”, di Emily Brontë con i fantasmi di Catherine e Heathcliff che vagano nella brughiera, e quello di Catherine che bussa alla finestra sono il trionfo del soprannaturale. Alta letteratura, ovviamente, non banali storie, ma pur sempre di fantasmi si tratta.
La novella vittoriana riprende temi soprannaturali. Tra le scrittrici che li trattano Elizabeth Gaskell, che situa nella campagna inglese storie di fantasmi. Una bellissima edizione di racconti soprannaturali è rintracciabile nella Giunti col titolo “Storie, di donne, di bimbe, di streghe”, non ricordo in quale ordine. La detective story, che ha origine in America con Allan Poe, trova una delle sue espressioni più alte in Wilkie Collins . La detective story riprende il motivo vittoriano del segreto nascosto nel passato-e allora ne ritroviamo elementi anche in Middlemarch di George Eliot-ma scioglie il mistero nel presente. Le novelle di Wilkie Collins, “The Moonstone” e “La signora in bianco” consacrano la figura del detective così come la conosciamo e ci è stata tramandata. Figura che, manco a dirlo, è ripresa nel ‘900 da Agatha Christie col suo Hercule Poirot e Miss Marple e anche qui è inutile citare tanto note sono le opere di Agatha Christie. Le moderniste hanno espresso elementi propri del noir Leonora Carrington, Djuna Barnes e Jean Rhys, pur non trattando propriamente l’horror, nel Grande Mar dei Sargassi rinarra la storia dal punto di vista della moglie di Rochester riprendendo Jane Eyre.
Tra le moderne l’elenco è lunghissimo: dalle corrosive novelle di Ivy Compton-Burnett, che rivelano l’anima nera della società tardo vittoriana ed edoardiana, allo humour nero di Muriel Spark, ad Antonia Byatt con “Possession” e il suo elemento soprannaturale, a Fay Weldon con le sue diavolesse e l’irrompere dell’irrazionale e dell’elemento sessuale. E poi Hilary Mantel, Ruth Rendell/Barbara Vine, P.D James con la sua detective in gonnella, e questo naturalmente solo per limitarsi alle inglesi. Fra le contemporanee sono note Joyce Carol Oates, la grande Patricia Highsmith, la Cornwell , la russa Alexandra Marinina, e le bravissime Fred Vargas, Anne Holt, Natsuo Kirino. Grazia Verasani , Danila Comastri Montanari fra le italiane e chi più ne ha più ne metta. Tutto questo per dire che abbiamo più che il diritto di occuparci di noir. La progenitura è gloriosa.