Intervento presentato all’incontro Le lettere del mio nome. In ricordo di Grazia Livi del 29 marzo 2025 al Circolo della rosa-Libreria delle donne di Milano, promosso da Elena Petrassi.

Nel 2012 Graziella Bernabò mi fece conoscere personalmente Grazia Livi. Provavo per lei una grande riconoscenza per avermi introdotto con mano esperta e leggera alla lettura di tantissime autrici del Novecento con le sue brevi e dense biografie di grandi scrittrici dove si intrecciavano vita e opere, dove lei stessa si metteva in gioco e, con una scrittura limpida e precisa, tersa e tesa, come diceva Marisa Bulgheroni, riusciva a mostrare il rapporto tra una donna e la creazione letteraria, partendo da piccoli particolari per andare al centro della vita. Ha saputo mostrare scacchi e scatti di resistenza, lacci e invenzioni di libertà delle donne e questo ha permesso a tante di noi di conoscersi meglio, di sentire che un’altra capiva le nostre emozioni e le rappresentava.

Desiderai subito creare una serata al Circolo della rosa sul suo lavoro. Scelsi con lei di costruire un dialogo con Laura Lepetit, che era diventata sua editrice dal 1991, dopo la pubblicazione nel 1984 da Garzanti del libro Da una stanza all’altra. Finalmente, dopo alcuni spostamenti di data in attesa della bella stagione per suoi problemi di salute, il 13 maggio 2013 vi riuscimmo. Con grande disponibilità, ironia e acutezza percorremmo diverse tappe della sua vita. Qui accennerò a episodi e riflessioni sulla sua presa di coscienza come donna e il suo femminismo.

Grazia proveniva da una colta famiglia fiorentina che le aveva permesso di laurearsi ma che rispetto alle donne aveva una visione patriarcale. A questo proposto ci raccontò di come suo padre, professore universitario, figlio e nipote di professori universitari, rivolgendosi ai due figli maschi, che divennero economisti, dicesse “Voi seguirete la mia strada” come difatti fecero. E poi guardando le figlie con leggero compatimento: “E voi farete le mie segretarie”. Infatti le fece studiare anche stenografia, cosa peraltro utile quando diventerà giornalista.

La madre, donna bella, spiritosa e salottiera era “Tutta una lode del padre”, diceva continuamente “L’ha detto il babbo” e proponeva per le figlie l’unico modello femminile che aveva conosciuto. Grazia però aggiunse: “Le madri vanno perdonate perché i tempi erano davvero brutti”. Con questo commento sottolineava la necessità di non incolpare le madri dei danni patriarcali. Oggi noi diremmo che è necessario redimere la relazione con la madre, non tanto perdonarla considerando le tremende difficoltà ad agire diversamente da come fecero. Già qui possiamo cogliere un aspetto del suo femminismo: guardare con curiosità e comprensione le donne e con ironia gli uomini, osservando i loro comportamenti e soprattutto sapere riconciliarsi con la madre.

Appena sposata visse a Londra dove si descrisse come “ragazza inconsapevole del vivere, che era stata una brava studentessa e una brava fanciulla nel pieno del patriarcato”. Fu una delle primissime a leggere Simone de Beauvoir, non ancora tradotto in italiano. “Leggevo per un feeling per le cose interessanti ma il mondo delle donne non esisteva. Esistevano le solitarie appassionate della parola scritta, come me.”

Su richiesta della Società delle letterate scrisse per la serie Parole pensate come era giunta alla pubblicazione del suo primo libro Gli scapoli di Londra.1

«Fui colpita dalle abitudini riservate alle persone colte, dalla cautela delle conversazioni, dal ritmo ordinato della grande città, dove si intrecciavano i riti e le solitudini. Ero pronta a colorare quel che vedevo con descrizioni umoristiche. Osservavo tutto e ridevo di tutto. Un amico giornalista mi disse: “Capisci così bene questo mondo… perché non provi a scriverne?” E mi dette l’indirizzo del suo settimanale prestigioso. La mia istintività allora era spontanea, non ancora appesantita dalla consapevolezza. Tutto pareva possibile. Scrissi, come giocando, e poco dopo vidi l’articolo pubblicato, persino con rilievo. Il sottotitolo era Vita di Londra. Mi furono chiesti altri articoli, ero piena di incredulo stupore. Tuttavia li mandai, ed ebbero una piccola eco, pari all’allegra naturalezza con cui erano stati scritti.

Quando tornai in Italia ero già una ragazza diversa. Il problema, molto grosso allora per una donna, era quello di una identità in fieri in un mondo quasi privo di uscite: il mondo patriarcale. Pianificai di diventare indipendente facendo la giornalista. Era scomparsa l’allegria. La responsabilità piena di conflitti si era insinuata nella vivace incoscienza della ragazza che voleva diventare una persona, secondo se stessa. Avrei potuto mantenermi scrivendo per i giornali.» Infatti divenne inviata per importanti riviste di quel periodo come Il mondo, L’europeo, Epoca, La nazione per cui fece anche diverse interviste di cui ricordò in particolare quelle a Rubinstein e a Giacometti.

L’editore Sansoni – nella persona del suo nuovo proprietario, Federico Gentile – iniziò una collana di libri d’esperienza vissuta, e le chiese di pubblicare i suoi articoli inglesi e nel 1958 uscì Gli Scapoli di Londra, recensito da Montale e che vinse il Bagutta Tre Signore, l’anno in cui vinse Italo Calvino.

Credo si capisca come lo scrivere diventasse allora il suo lavoro per emanciparsi ma la passione per lo scrivere prese corpo nella scrittura dei racconti. Ci disse: “Il racconto mi incanta. Ho scoperto Katherine Mansfield, grande maestra, stupenda esaltatrice della vita minima, della vita del sentire, delle emozioni, con una stupenda sensibilità femminea”. E poi aggiunse: “Scrivo tutto quello che si annida dentro il non detto di una persona. Nella mia grande famiglia nessuno si interessava a sapere la verità, fin da bambina credevo importante capire la verità e dirla, non solo i fatti”.

E poi continuò: “Scrivevo in modo narrativo ancora tradizionale. Ero stata spinta a scrivere da Anna Banti, grande figura di donna, ma non obbedivo a degli incitamenti. Quello che sentivo è ben detto da Carla Lonzi nel Secondo Manifesto di Rivolta femminile Io dico io del 1977”. Nell’incontro lo citò leggendolo direttamente: “Chi ha detto che l’ideologia è anche la mia avventura? / Avventura e ideologia sono incompatibili / La mia avventura sono io”. E aggiunse: “È l’indicazione più bella della singolarità, della potenzialità che una deve riconoscersi, tirar fuori, amare, è il percorso di una persona se è fedele alla propria singolarità per tutta la vita”.

Del femminismo temeva diventasse un’ideologia e invece valorizzò l’importanza della singolarità a partire da se stessa per poi valorizzarla anche rispetto alle scrittrici da lei scelte.

L’incontro con Virginia Woolf nacque grazie ad Anna Banti che dirigeva la parte letteraria della rivista Paragone, dove Livi pubblicava qualche recensione.

Grazia ci raccontò: “Banti mi telefonò dicendomi che sentiva che ero sulla stessa lunghezza d’onda di Virginia Woolf e mi chiese di scrivere un saggio su di lei entro un mese. Non sapevo le regole per scrivere un saggio e gli uomini a cui mi rivolgevo erano sbrigativi, ma scrivere questo saggio mi ha fatto scoprire, uso una parola femminista, la sorellanza perché via via che leggevo la Woolf capivo benissimo, non tanto la lingua ma chi era e che anch’io provavo quello che lei scriveva, sentivo la gioia di ritrovarmi. Ho letto tutto e ho scritto il saggio. Ho provato grande soddisfazione perché Banti mi disse Bellissimo e lo mise in apertura della rivista. Era una cosa incoraggiante ma io percepivo con forza come noi eravamo intrappolate nella subordinazione come donne agli uomini”.

Dal saggio su Woolf successivamente le venne in mente di collocare nella stanza di lavoro altre scrittrici per scrivere della loro vita. La stanza metafora per dire il bisogno di entrare all’interno di una vita, per dare un tocco di empatia. Era incantata da tutte le scrittrici scelte: Woolf per la vicinanza interiore straordinaria; Austen assoluta per non aver bisogno d’altro dentro la sua routine; Dickinson monaca dell’assoluto; Percoto, sua scoperta ridotta in una cartella polverosa nell’archivio di Udine, con una vita quotidiana molto difficile ma donna molto forte; di Mansfield abbiamo già detto, Anaïs Nin donna che giocava col suo aspetto e sapeva giocare con l’amore, cosa che Grazia non sapeva fare ma che l’affascinava. Ci disse: “Ho sentito per tutte latente fiducia, tenerezza, partecipazione per i destini”.

Con Da una stanza all’altra del 1984 inizia un percorso, che continuerà soprattutto con Le lettere del mio nome e Narrare è un destino, di presa di coscienza femminista, o meglio, come precisò, di sviluppo di “una piega della sensibilità che andava verso la condizione reale delle donne e che mi faceva bramare per una chiarezza di rapporti. […] Sono donna, mi riconosco in loro, ho l’istinto di scavare in loro, ne sento la dolorosità che poi ho sentito anche negli uomini”.

Grazia Livi con queste parole ci mostra come ci si possa aprire empaticamente alla differenza maschile quando e perché, partendo da sé, si resta fedeli al proprio essere donna.

1 https://www.societadelleletterate.it/2015/01/6926/

(www.libreriadelledonne.it, 2 aprile 2025)

Pratiche politiche contro la guerra”, incontro tenuto alla Libreria delle donne il 1° marzo 2025 con Clelia Pallotta e Daniela Dioguardi, prendendo spunto dal libro “Corpi e parole di donne per la pace” a cura di Mariella Pasinati, Navarra editore, 2024.

Ai primi di aprile del 2022, qualche settimana dopo l’inizio delle “operazioni speciali” russe in Ucraina, su uno spunto venuto dall’Unione Donne in Italia, la Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UdiPalermo dava inizio ad un Presidio permanente per la pace a cui si unirono altri gruppi di donne palermitane (Le Rose Bianche, Donne CGIL, Coordinamento Donne ANPI, Emily, Donne Caffè filosofico Bonetti, Fidapa Palermo Felicissima, Il femminile è politico. Governo di lei, Donne no Muos no War, CIF, Le Onde, Arcilesbica). Nel primo anno il presidio si è tenuto tutte le settimane, poi dal febbraio 2023 una volta al mese, il 24. Gli incontri avvengono alla Statua, cioè davanti al monumento dei caduti che come in ogni città celebra i morti nelle guerre, il loro eroismo e il sacrificio per la Patria. Un luogo simbolico dunque, da cui mostrare l’assurdità della guerra e la necessità di espellerla dalla storia umana: «Fuori la guerra dalla storia». Questa frase, ripresa da Bertha von Suttner e adottata dal presidio, è una parola d’ordine fatta propria da tutto il movimento femminista, in tutte le sue declinazioni; e poi «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» lo dice l’articolo 11 della Costituzione, per salvare «le future generazioni dal flagello della guerra» ammonisce il preambolo della Carta costitutiva delle Nazioni Unite. E nel loro pezzo, in questo libro, che ha titolo Un cambio di sguardo per rendere impensabile la guerra, Daniela Dioguardi e Anna Marrone raccontano di uno striscione portato alla grande manifestazione a Palermo del 24 febbraio 2023, a un anno dall’inizio della guerra, da un gruppo di studenti arrivate/i numerosissimi, grazie anche all’intenso lavoro fatto con le scuole di Palermo dalle promotrici del presidio: «Per favore non fate più guerre, non vogliamo studiarle più», con ironia hanno affermato una verità condivisa da gran parte dell’umanità più giovane, almeno in quella parte del mondo in cui ci sono scuole e condizioni per frequentarle.

Questo libro, curato da Mariella Pasinati, testimonia dunque l’esperienza del presidio permanente per la pace di Palermo. Oltre all’introduzione della curatrice, raccoglie dieci testi prodotti da dodici autrici per seminari e incontri organizzati nella Biblioteca delle donne o come articoli. Quattro sono stati pubblicati sulla rivista Il Segno nei primi mesi, per informare e riflettere sulla guerra e sulla pace, anche richiamando il pensiero e le opere di pensatrici, filosofe, donne che hanno cercato di trovare parole e pratiche per dare forma e contenuto a «un rifiuto sessuato della guerra».

E nei saggi di queste pagine entriamo in contatto, attraverso le autrici, con Svetlana Aleksiević, Judith Butler, Agnes Heller, Vandana Shiva e con Maria Luisa Boccia presente ad un seminario con il suo libro Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista. La seconda parte del volume ospita i cinquantacinque volantini prodotti per ogni appuntamento del presidio, fino al 24 febbraio 2024, quando i testi sono stati chiusi per la composizione e la stampa del libro. Nei volantini si parla via via degli avvenimenti che si susseguono nel tempo, riflessioni in tempo reale e a caldo sugli scenari vecchi e nuovi delle guerre. Anche di quelle guerre che le donne si trovano a vivere nella loro vita quotidiana (Giulia Cecchettin).     

Le guerre comunque nella storia umana non sono mai cessate, nemmeno dopo Auschwitz e Hiroshima, i due nomi che hanno simboleggiato e dovrebbero simboleggiare ancora l’orrore e l’impossibilità di altre guerre, in teoria, perché in pratica secondo Oxfam dopo la seconda guerra mondiale, anche se nel mondo il numero totale dei morti per cause belliche è diminuito, il numero dei conflitti armati non è mai sceso sotto il centinaio. Anche adesso ci sono almeno un centinaio di conflitti armati in giro per il globo, di alcuni non sappiamo quasi niente, altri sono più o meno documentati e segnalati dai media nazionali o internazionali, altri soprattutto se coinvolgono in qualche modo i paesi occidentali hanno l’onore quotidiano delle cronache e portano scompiglio e lutto nelle nostre giornate e nei nostri cuori.

Certo non tutte le guerre sono della stessa entità e dello stesso tipo, ce n’è di grandi e di piccole, agite da eserciti o da gruppi irregolari, ad alta e a bassa intensità, endemiche e lampo, mondiali, regionali o    locali, simmetriche e asimmetriche, convenzionali, e poi le devastanti e famigerate guerre non convenzionali; ci sono poi le definizioni retoriche legate alle occasioni imperiali che a seconda del bisogno comunicativo e didattico nominano la guerra giusta o la guerra preventiva, la guerra umanitaria (che porta libertà, democrazia e progresso, cioè consumo) o la guerra per le donne; la guerra etica o la guerra per la pace. Esiste tutto un universo verbale, gerarchico, classificatorio, tipologico che distingue e sistema secondo una logica ordinatrice questa passione maschile organizzata per l’assassinio e per la distruzione, motivata nella maggior parte dei casi con argomenti umanitari e altruistici, ma che nella stragrande maggioranza dei casi è prodotta da progetti di espansione territoriale, di predominio commerciale, di accaparramento di risorse preziose e limitate, come il petrolio, il gas, l’ acqua, le terre fertili e le terre rare, minerali preziosi e indispensabili per la produzione di tecnologia avanzata. Da intenti predatori, in sostanza.

È impressionante consultare Wikipedia con la parola guerra, si apre un territorio sterminato di racconti e approfondimenti che si ramificano in tutte le discipline dello scibile umano, dall’economia alla filosofia, dall’alimentazione alle canzoni, dall’abbigliamento al linguaggio, una bibliografia sterminata, la declinazione dell’argomento ha occupato il tempo e la fatica emotiva e intellettuale di milioni e milioni di persone nel corso dei secoli, con una forte intensificazione a partire dalla metà dell’800. Voci favorevoli, soprattutto di uomini, e voci avverse, soprattutto di donne. Ma l’essenziale rispetto alla guerra nella sostanza non è mutato, anzi le tecnologie applicate alle armi, la globalizzazione del capitalismo liberista, l’enorme potere delle aziende che producono strumenti bellici hanno peggiorato e non di poco le cose. I civili, le donne, i bambini e le bambine, le persone anziane sono direttamente esposte e inermi davanti alla distruzione e alla morte, come vediamo tutti i giorni dai resoconti approssimativi e spesso menzogneri che trapelano dai media.

Come donna pacifista mi schiero con le vittime a prescindere da etnie, religioni, posizioni politiche, lavoro tra me e me e nelle mie relazioni per mantenere una posizione empatica e non polarizzata sulle cose. Ho una storia, ho una visione del mondo maturata nell’esperienza, ho un modo di amare le persone e il mondo. Però sono capace di pensare ai torti e alle ragioni, alla forza e alla debolezza, alla giustizia e all’ingiustizia da cui consegue la crudeltà della guerra. C’è un prima da cui origina l’orribile sequenza della guerra, e voglio pensarlo, indagarlo, giudicarlo secondo la mia visione e la mia esperienza, che compongono un frammento della verità delle cose. Però non mi schiero davanti alla morte e al dolore, al terrore dei bambini e allo scempio delle loro morti. Al dolore delle madri, al peso per le donne, alla distruzione dei luoghi della vita. Le donne perdono anche le guerre che per gli uomini sono vinte. Nelle guerre le donne (che hanno la potenza di dare la vita) patiscono la morte e il lutto, cercano tra le rovine, portano civiltà tra le macerie, lavano e stendono i panni negli accampamenti di fortuna, rassicurano, curano, nutrono. Mantengono in vita la vita, anche in condizioni estreme. Ma come femminista della differenza non posso sopportare l’orribile gerarchia, legalizzata dai media e dalla cultura coloniale e razzista, delle vite e delle morti. Una sorta di decimazione del vivente che non conta e che non viene contato. Cosa muove o cosa lascia indifferenti davanti alla violenza e alla morte? Non so ignorare l’evidenza del razzismo, del suprematismo, del disprezzo per l’altro, anche se è una bambina o un bambino.

C’è una crisi evidente della democrazia, si fa strada da più parti l’ipotesi, credibile, che il capitalismo liberista algoritmico, favorito dai reticoli tribali dei social e dalla così detta intelligenza artificiale, che non è né intelligente né artificiale, non abbia più bisogno della democrazia. Ci troviamo di fronte a poteri arroccati, sordi al dissenso e all’opposizione, incuranti delle norme condivise e delle convenzioni che hanno regolato le relazioni nazionali e internazionali. Che fare?

Trascrivo le ultime frasi dell’intervento di Maria Luisa Boccia (Siamo in guerra e non è una guerra giusta, pag. 64), fanno riferimento al pensiero della differenza, non danno soluzioni ma offrono secondo me spunti utili per continuare a pensare insieme.

«La differenza, proprio perché inquieta nella sua irriducibilità, richiede il lavoro, pratico e simbolico, della relazione. È un lavoro inverso a quello dell’identificazione, perché rinuncia alla pretesa di unire sulla base di un’unica verità – chi sono, chi siamo, in quale mondo viviamo. Un lavoro inverso alla guerra, perché tiene viva e attiva la passione della differenza, non restringendo le relazioni a quelle con il proprio simile – la sola sembianza dell’amico – e non caricando di inimicizia il conflitto, imprescindibile nelle relazioni di differenza, e dunque depotenziandone la distruttività. Per costruire un assetto del mondo basato sulla pace, il pensiero femminista della differenza, costruito sulla critica dei valori dominanti e dell’identità occidentale, offre l’orizzonte teorico-politico più efficace. Invece di proporre un unico modello di società, di valori, di identità, possiamo assumere il rapporto con l’altro/a da sé come reciprocità e interdipendenza, a partire dal riconoscimento della differenza. Possiamo riattraversare la storia e le diverse tradizioni, rinunciando ad assumere la “modernità” occidentale come tappa irrinunciabile di progresso dell’umanità».

Sabato 8 febbraio 2025 abbiamo ospitato alla Libreria delle donne Luciana Castellina, in una giornata che per lei è stata molto intensa visto che la mattina era a Roma al funerale laico di Aldo Tortorella, compagno di tante battaglie. A 95 anni, continua a portare con sé la passione e la voglia di discutere, raccontare, confrontarsi con un’energia meravigliosa.

Aldo Tortorella è stato una figura centrale nella storia della sinistra italiana, dirigente del PCI e intellettuale di primissimo piano. Ma, come ha scritto Luciana Castellina nel suo bel ricordo su “il manifesto”, per chi ha vissuto la politica come una scelta totalizzante, non era solo un compagno di partito: era parte di una comunità in cui la politica e la vita si intrecciavano completamente. “L’impegno politico non era a quei tempi un aspetto della propria vita, era la vita stessa.”

E in fondo, La scoperta del mondo, il libro presentato in Libreria nella sua nuova edizione, è proprio questo: il racconto di una generazione che ha vissuto la politica non come qualcosa di separato dalla vita, ma come una dimensione in cui tutto si mescolava, amicizie, passioni, amori, lotte.

Ci sono libri che raccontano il passato e libri che, pur narrando eventi di un’altra epoca, parlano direttamente al presente e al futuro. La scoperta del mondo di Luciana Castellina è uno di questi. Non è solo un’autobiografia, ma un invito, un racconto che attraversa generazioni, un ponte tra chi ha vissuto il Novecento e chi oggi si interroga su come cambiare il mondo.

Luciana Castellina, nella nota che accompagna questa nuova edizione, ci dice qualcosa di potente: i giovani di oggi non sono spoliticizzati, sono solo in cerca di uno sguardo più lungo, di una visione più ampia di quella che spesso la politica ufficiale offre loro. Castellina guarda avanti, osserva i giovani con curiosità e ottimismo, li riconosce come eredi di una voglia di cambiamento che non si è spenta. E allora questo libro diventa un ponte: tra chi ha vissuto anni di grandi trasformazioni e chi oggi cerca strumenti per affrontare il presente.

Il libro ripercorre i diari giovanili di Luciana Castellina, dal 25 luglio 1943, quando Luciana ha 14 anni e sente la notizia dell’arresto di Mussolini. In quel momento, inizia anche il suo percorso politico, lei che si affaccia al mondo in un contesto fascista e non vede una reale alternativa, il suo ambiente è antifascista e anticonformista ma non attivamente partecipe alla Resistenza e intorno a lei in molti sono presi dalla propria sopravvivenza personale, c’è paura, c’è la guerra. Lentamente, attraverso incontri, letture, esperienze, si apre una breccia oltre la propaganda e la paura. E Castellina descrive questo momento con una frase che colpisce “Finalmente, anziché occuparmi dell’onore perduto della patria, esprimo qualche preoccupazione per chi non può pagare l’olio a 2200 lire il fiasco e le uova a 22 l’una. Qualcuno mi ha detto che ci sarebbero stati persino assalti si forni nei quartieri popolari. E uno sciopero generale dei lavoratori dell’Atac, della Romana Gas, del Poligrafico. La ribellione – era ora! – cominciava a piacermi” (pag. 84).

Con la fine della guerra, l’orizzonte si allarga. C’è entusiasmo, c’è voglia di capire, di agire, di prendere parte alla costruzione di un mondo nuovo.
Ma avvicinarsi alla politica non è immediato. Luciana si sente inadeguata, ha una sete di sapere che non sa dove cominciare a colmare. È un sentimento che io ritrovo nei giovani di oggi, smarriti davanti alla complessità del mondo e privi di strumenti per decifrarlo. Inizia ad appassionarsi alla pittura, ma non in modo astratto: per lei, l’arte è uno strumento politico, un mezzo per leggere e raccontare la realtà. Confrontandosi con altri giovani pittori – quasi tutti comunisti – cresce anche la sua coscienza politica. Capisce che la politica è il contrario di guardarsi l’ombelico, è la scoperta dell’altro e del mondo: “È questa dimensione nuovamente collettiva che mi aiuta a uscire dall’autoreferenzialità, che mi fa persino ritrovare il senso di quella parola – patria – che prima scrivevo con la P maiuscola, poi avevo del tutto cancellata come inganno e retorica. La pietà che comincio a sentire per il mio prossimo più lontano dal mio ghetto sociale, per i senza privilegi, gli sfollati, i disoccupati, i reduci, i martiri, mi ridà una dimensione collettiva, solidale. E che a poco a poco mi apre alla curiosità della politica, che è, appunto, il contrario del proprio ombelico” (pag. 117).

Questi sono anni in cui la felicità e l’angoscia convivono. Da un lato, la sensazione esaltante di avere tutto il mondo davanti e volerlo scoprire, una sensazione di felicità che l’accompagna spesso, come scrive (pag. 121). Dall’altro, la paura di forze enormi e incontrollabili, come la bomba atomica (pag. 120).

Il vero punto di svolta arriva con un professore del liceo, Giuseppe Petronio, che le fa capire quello che non aveva mai compreso prima. Nel libro si trovano piccole perle di curiosità, umanità e intelligenza, disseminate tra le pagine. Per esempio, Luciana annota la fine della guerra il 26 aprile del 1945 e un paio di giorni dopo l’uscita del film di animazione Biancaneve (pagg. 98-99). Oppure nel 1947 registra i lavori dell’Assemblea Costituente, che tratta anche temi come il divorzio o i figli illegittimi, scoprendo che ciò che ha sempre considerato privato è in realtà profondamente politico (pag. 142). La sua vita cambia completamente. Viaggia, partecipa a un’esperienza di lavoro volontario in Jugoslavia, entra in contatto con coetanei da tutto il mondo. Scrive: “Dopo la lunga ghettizzazione del fascismo e della guerra, il mondo ci è letteralmente scoppiato in mano: variopinto, iperplurale, inaspettato” (pag. 177).
Entra nel PCI, dove scopre un rigore morale che non ha mai vissuto nella sua famiglia. Nel 1947, a Praga, capisce che il comunismo non è solo una scelta politica, ma la possibilità di un mondo alternativo. Praga diventerà anche il simbolo di un altro momento cruciale della sua vita: la rottura del 1968, la radiazione dal PCI, la nascita de il manifesto dopo l’invasione sovietica.

Fin dall’inizio, la sua idea di politica è chiara: non è la spartizione del potere, ma un impegno collettivo per il riscatto dell’umanità: “La politica sarebbe arrivata dopo, poco alla volta. Ma per noi, che venivamo dall’università, quella è una straordinaria lezione di politica. Oggi direi di ‘politica vera’, allora non avevo nemmeno idea che potesse essercene una diversa” (pag. 200). E ancora: “Figure umane straordinarie, che regalano ore e ore della loro giornata all’impegno collettivo, senza neppure porsi il problema di un risarcimento che non sia quello ideale del riscatto dell’umanità. Cariche elettive o nomine o prebende sono lontanissime dall’orizzonte. Per anni, credo di non aver incontrato deputati o consiglieri comunali o, se li ho incontrati, non li ho distinti dagli altri militanti” (pag. 201). E questo, oggi più che mai, resta un nodo fondamentale: come si può pensare la politica senza trasformarla in puro individualismo o in gestione di cariche e di potere?

Luciana Castellina, nella sua lunga vita di impegno politico e culturale, non ha mai smesso di interrogarsi sul presente e di dialogare con il futuro. Nel 2024 ha rilasciato un’intervista a un giovane studente del Liceo Manzoni di Milano, Giaime Nisivoccia, dove pone delle domande radicali: Vi piace il mondo così com’è? Vi sembra giusto? Se no, avete pensato a come cambiarlo? In fondo, sono le stesse che si poneva a 14 anni, quando iniziava a scoprire la realtà fuori dalla bolla del fascismo. In questa intervista pubblicata sul giornalino della scuola, Luciana Castellina dice che oggi come allora, molti giovani avvertono l’ingiustizia, il disagio di vivere in una società che non offre spazio e opportunità a tutti allo stesso modo. E aggiunge che il nemico più pericoloso non è solo l’ingiustizia, ma la rassegnazione. Proprio qui il suo libro diventa importante: perché racconta la scoperta della politica non come ideologia astratta, ma come qualcosa che riguarda la vita concreta, le relazioni, le scelte quotidiane. La politica come il contrario del ripiegamento su se stessi, come lo strumento per uscire dal proprio ombelico e scoprire il mondo.

Il passato serve se è capace di parlare al presente. Questo libro lo fa, e lo fa senza retorica, senza nostalgia. È un racconto di formazione che si apre al futuro, perché chi lo legge – giovane o meno giovane – possa farsi le domande giuste. E magari trovare le proprie risposte.

Rielaborazione dell’introduzione all’incontro con Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo, in Libreria sabato 30 novembre 2024.


Il libro Donna si nasce, di Adreana Cavarero e Olivia Guaraldo, recentemente pubblicato da Mondadori è un contributo importante al dibattito contemporaneo nel pensiero femminista. Offre molteplici livelli di lettura e, lasciandomi attraversare dai diversi temi posti, l’ho intrecciato con la mia esperienza di madre e femminista.

Parto dalla mia esperienza di madre di una figlia adolescente che, come tutte le giovani donne della sua età, si confronta con la complessità del proprio essere donna e con la ricerca del suo desiderio. La ricerca di sé, tipica dell’adolescenza, si colloca oggi in un contesto nuovo, segnato dall’avvento della libertà femminile, che ha scompaginato un ordine simbolico apparentemente immutabile, rimasto invariato per millenni. Le femministe hanno messo al mondo libertà, come ben evidenziano Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo in Donna si nasce, complicando ulteriormente le cose, ma soprattutto aprendo nuovi orizzonti.
Quando ero bambina sono stata cresciuta da una madre che, pur avendo l’età per essere femminista, non ha preso parte al movimento delle donne; ho sentito il retaggio di un’educazione che ancora attribuiva ruoli e regole rigidamente differenziati tra bambine e bambini. Per me bambina, queste norme diventavano più stringenti man mano che crescevo. Il desiderio di sfuggire a quel destino si configurava confusamente come desiderio di essere un maschio.
Crescendo ho incontrato il femminismo (ho cercato e trovato ciò di cui avevo bisogno) e ho scoperto la libertà femminile, che Luisa Muraro, in La sapienza di partire da sé, definisce come “la libertà di essere e agire in quanto donne, non secondo modelli maschili o neutri”. Questa libertà ha prodotto una trasformazione profonda nella relazione madre-figlia. Parlo a partire da me, riconoscendo tuttavia tratti comuni nelle relazioni madre figlia che vedo: il femminismo ha permesso alle figlie di vedere la madre come mediatrice di libertà, ovvero la madre è una figura dello scambio che non limita, ma media il rapporto della figlia con il mondo, come emerge nell’Ordine simbolico della madre di Luisa Muraro. È quindi una figura che offre senso e significato all’esperienza, permettendo alla figlia di radicarsi nella propria identità femminile.
Questa trasformazione è qualcosa che vedo incarnata nella relazione con mia figlia: il passaggio da un rapporto gerarchico a uno di riconoscimento reciproco, in cui la madre è un punto di riferimento e una guida verso la libertà. Fin da piccola mia figlia ha vissuto la consapevolezza del suo essere nata di sesso femminile e ne vedeva il valore attraverso i miei occhi. Si è anche scontrata con un contesto sociale che, ancora oggi, nega e omette il femminile. Ricordo, ad esempio, le sue decise proteste quando frequentavamo quella che allora si chiamava “Libreria dei ragazzi”: il maschile sovraesteso le faceva patire un’esclusione che non riusciva a comprendere. Mi piace pensare che la voce di dissenso di tante bambine come lei abbia contribuito a trasformare quel nome in “La libreria delle ragazze e dei ragazzi”, come è ora. È una piccola storia che riflette un cambiamento più grande, quello di una libertà femminile che si radica nella genealogia femminile e si misura con il mondo.
Racconto un altro aneddoto. Durante gli anni delle medie, mia figlia e un gruppo di sue coetanee appassionate di lettura hanno creato un blog in cui narravano le loro esperienze di lettrici. Ricordo una discussione che ebbero in una riunione su Zoom, in pieno periodo pandemico. Una di loro propose di presentarsi sul blog con la frase: “Siamo ragazz* che amano i libri e scriviamo per ragazz* che amano i libri”. Mia figlia fece notare l’incongruenza della formula. La proposta era motivata dalla volontà di non escludere nessuno.
Col passare degli anni, queste ragazzine sono diventate giovani donne attente e impegnate, soprattutto nei movimenti contro la violenza sessista e per i diritti delle persone LGBTQI+. Gli asterischi, che inizialmente erano stati oggetto di discussione, sono riapparsi nel loro linguaggio. Ritengo che non si tratti di un semplice esercizio del politicamente corretto, ma dell’espressione di questioni profonde: da un lato, la ricerca personale e spesso mobile del desiderio sessuale, che in questa fase della vita può essere indefinito o fluttuante; dall’altro, un profondo e personale senso di giustizia che i movimenti per i diritti civili hanno intercettato, essendo capillarmente presenti sui social tanto frequentati dalle giovani generazioni.

Tuttavia, come sottolinea Adriana Cavarero in una recente intervista con Jennifer Guerra, le teorie queer sono spesso state assimilate in modo quasi ideologico attraverso slogan, senza un adeguato approfondimento. Quindi il senso di giustizia arriva all’esito paradossale del ritorno al neutro, alla neutralizzazione della differenza sessuale. Quel senso di giustizia rischia di tradursi in un’ingiustizia verso loro stesse, negando la differenza femminile. È una dinamica che il libro di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo affrontano i modo approfondito, essendo il ritorno al neutro non solo un dato linguistico, ma una questione simbolica e politica centrale.

Il libro Donne si nasce offre strumenti preziosi per posizionarsi nel disorientamento contemporaneo, rafforzando una posizione di apertura e ascolto senza rinunciare a ciò che considero fondamentale: il femminismo della differenza. Ed ecco la seconda prospettiva di lettura cui accennavo. Oggi, il femminismo della differenza è sotto un duplice attacco che ne mina la portata politica e simbolica.
Da un lato, i tradizionalisti neocattolici e la destra neofascista si appropriano del linguaggio della differenza per restaurare un ordine morale rigido e gerarchico. In questo utilizzo strumentale e reazionario, la differenza sessuale viene piegata a giustificare ruoli tradizionali per la donna ed eteronormatività, negando così la libertà femminile. Dall’altro lato, una gran parte dei movimenti LGBTQI+ critica il femminismo della differenza accusandolo di complicità con quel tradizionalismo, poiché considera l’esistenza dei due sessi una condizione fondamentale dell’umano, ed è interpretata da loro come una divisione binaria rigida.
Questa duplice pressione è frustrante. Il femminismo della differenza non è né una nostalgia di ruoli tradizionali né un’ideologia escludente: è una risorsa simbolica e incarnata che sta alla base della libertà di donne, uomini e altre soggettività. Non si limita a riconoscere la differenza sessuale, la assume come chiave interpretativa per ripensare le relazioni tra i sessi e costruire un ordine simbolico che offra alle donne senso, radicamento e libertà, una libertà sessuata, non neutrale, pienamente incarnata.
Il libro Donne si nasce ci offre un’importante riflessione su come riconoscere il valore della differenza senza cadere nelle semplificazioni del dibattito contemporaneo. Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo mostrano infatti con grande chiarezza come questa polarizzazione rappresenti una trappola ideologica. Il femminismo della differenza non ha mai difeso la “famiglia tradizionale”; al contrario, ha da sempre lavorato per sovvertire l’ordine patriarcale e costruire un nuovo ordine simbolico che riconosce la differenza sessuale come condizione di relazione e libertà, non di subordinazione.

Il libro si rivolge idealmente alle ragazze, accompagnandole con generosità attraverso la storia e i concetti del femminismo della differenza. Con un linguaggio chiaro e mai semplificatorio, offre strumenti per comprendere e interrogare il presente. Leggendolo, ragazze e ragazzi possono esplorare le molteplici fonti e approfondire i testi citati nei vari capitoli, proseguendo autonomamente il percorso di lettura e riflessione.
Ma Donne si nasce non si limita a parlare alle ragazze: è un testo prezioso anche per madri e padri che vogliono comprendere meglio il presente e trovare strumenti per dialogare con le figlie, imparando ad ascoltare e a pensare insieme a loro. È una lettura fondamentale per insegnanti e per chi è a contatto con i giovani, poiché aiuta a riflettere sulle sfide poste dal presente. È un libro destinato a tutte e tutti, per pensare al significato della differenza sessuale come dato storico, culturale e materiale, sfidando sia il determinismo biologico sia la dissoluzione nelle categorie identitarie. È uno strumento vivo, capace di orientare il pensiero e l’azione nel mondo complesso in cui ci troviamo a vivere.

di Silvia Baratella


Data incontro: sabato 27 gennaio 2024


Alice Basso è autrice di due serie di romanzi gialli, entrambe di cinque volumi, la seconda ancora in corso di pubblicazione, e già ne ha una terza in preparazione. Entrambe le serie sono ambientate nel mondo dell’editoria.

La protagonista della prima serie è Silvana Sarca detta Vani, trentaquattrenne scrittrice fantasma misantropa dallo stile camaleontico e dotata di acutissime capacità deduttive. Coinvolta come testimone in un caso di polizia, grazie alle sue deduzioni fulminanti e alla sua prontezza di spirito diventerà consulente della polizia, nella persona del commissario Romeo Berganza.

La seconda serie è ambientata nel 1935. Anita Bo è la dattilografa ventenne di una rivista letteraria che fa concorrenza a Le Grandi firme di Pitigrilli e pubblica i gialli dei pulp americani (per aggirare la censura, deve accompagnarli con una soporifera serie italiana – il commissario Bonomo – confezionata secondo i dettami del Minculpop). Trascrivendo i racconti, Anita scopre il giallo, la letteratura e la sua stessa creatività. E anche la chiave per risolvere i misteri torinesi.

Alice Basso vive a Torino come le sue eroine, ma è originaria di Sesto San Giovanni, dove ha fatto anche le scuole medie. E sabato 27 gennaio è stata ospite della Libreria delle donne con la sua insegnante di lettere di allora, Candida Canozzi, per parlarci dei suoi libri, dei suoi personaggi e della sua scrittura. Si tratta di gialli umoristici – Alice ci racconta che per lei è importante far divertire chi legge – caratterizzati da una scrittura brillante e da dialoghi fulminanti, scritti con un punto di vista segnato dal femminismo. Le protagoniste infatti non dipendono dal riconoscimento maschile per essere consapevoli del proprio valore, ma sanno apprezzare la stima sincera di un uomo e anzi in amore non si accontentano di niente di meno. Sanno trasformare gli uomini che incontrano ed evolvere nelle relazioni con loro (tanto che, mutatis mutandis, mi ricorda un po’ Jane Austen, anche per la leggerezza e la profonda ironia della scrittura). Ma soprattutto sanno inserirsi in una rete di relazioni tra donne che costituiscono la loro base della loro forza.

Le sottotrame sono ricche, seguono l’evoluzione di una fase della vita dei personaggi snodandosi attraverso tutta la serie. L’autrice ci spiega che ha scelto la formula in cinque volumi proprio per dare uno sviluppo e una conclusione alla crescita delle sue protagoniste: non si rischia di incappare in quei personaggi congelati in caratteristiche stereotipate, replicabili all’infinito in serie ripetitive e interminabili. Le eroine di Alice Basso le si accompagna per un tratto di strada, ci si affeziona, si apprezzano i loro cambiamenti e poi si deve lasciarle partire come amiche che si trasferissero in capo al mondo: rassegnate a sentirne la mancanza, ma contente che realizzino i loro progetti di vita. Questa evoluzione, però, non impedisce di leggere ogni singolo romanzo come una storia a sé, anche grazie al “riassunto delle puntate precedenti” mimetizzato nella narrazione, una delle fatiche peggiori per l’autrice, perché deve fornire tutti gli elementi per inserirsi nelle vicende di Vani o di Anita senza tuttavia lasciarsi sfuggire eccessive rivelazioni né sugli intrighi gialli né sulle sottotrame.

Gli intrighi sono ben costruiti e spesso si estendono su più livelli, ma non sono sanguinari. Alice è una grande conoscitrice di tutte le regole del giallo, dagli anni Trenta a oggi, ci gioca, le ripropone e si vede che le ama, ma si prende anche la libertà femminile di trasgredirle. Nella serie di Vani Sarca ne citerà espressamente una di S.S. Van Dine, creatore di Philo Vance: «Il morto più morto è e meglio è», asserisce il romanziere, perché secondo lui non si può pretendere l’attenzione di un lettore per trecento pagine per niente di meno di un cadavere. Alice ci dimostra il contrario: con la forza di un intrigo avvincente e di un metodo d’indagine sorprendente calamita la nostra attenzione con un minimo di spargimenti di sangue. Qualche omicidio c’è, ma non c’è mai spazio per compiacimenti sadici. Tanto che ne trarrei una nuova regola del giallo “al tempo del femminismo”, che formulerei così: «la miglior detective è quella che sventa l’omicidio prima che abbia luogo» (anche se non sempre è possibile).

Torniamo alle protagoniste e alla loro rete di relazioni amicali femminili. Vani Sarca sa di avere non solo un talento geniale come ghostwriter, ma anche una solidissima cultura letteraria e un’impeccabile professionalità, e le fa valere senza lasciarsi intimidire da nessuno. E malgrado sia una lupa solitaria, ha un rapporto affettuoso e protettivo con la quindicenne del piano di sopra, Morgana, che a sua volta stravede per lei. La donna che vorrebbe diventare da vecchia è invece Irma, cuoca a riposo di una famiglia dell’aristocrazia industriale torinese, libera e senza peli sulla lingua. Alice ci ha descritto la sua amica Antida, che gliel’aveva ispirata. Vani ha per Morgana le cure e le parole che da adolescente avrebbe voluto ricevere lei e l’affetto per lei incrina la sua ermetica autosufficienza. Morgana a sua volta trae forza anche dal rapporto solidale con la sua amica del cuore Laura, ragazza schietta e dal grande senso pratico.

Anita Bo invece è una ragazza solare e vivace, ma non molto istruita. Ha un’ortografia traballante che suscita lo sdegno del suo capo coltissimo, lo scrittore e traduttore Sebastiano Satta Ascona, che non le risparmia commenti acidi. Anita però si appassiona al lavoro e non si fa remore a esprimere le sue spontanee qualità creative e letterarie, perché sa che le sue idee buone, e finirà così per guadagnarsi la stima di Satta Ascona e anche per inventare una sua geniale forma di resistenza. L’amicizia tra donne ha un ruolo ancora più esplicito in questa serie e si sente che la forza di Anita ha le sue radici nel rapporto con l’ex-compagna di scuola, l’intelligentissima Clara, e con l’ex-insegnante Candida, il cui nome è tutt’altro che casuale («Sì, Candida sono io, anche se non fumo più», ci ha detto per prima cosa l’interessata). Insieme formano un terzetto inseparabile e aperto all’occasione a nuove amiche.

Nella serie di Anita Bo l’approfondito lavoro di documentazione ha talvolta orientato le trame grazie a scoperte fatte in corso d’opera. Quando la sua ex “prof” Candida le pone domande in merito, Alice, dopo aver esclamato: «Ed è subito prima media!», ci racconta dell’ONMI, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, che nel Ventennio tra l’altro accoglieva le ragazze madri. Dallo stupore di scoprire che sotto il fascismo c’era questa istituzione all’apparenza così avanzata e da un ulteriore approfondimento che ne rivelerà le intenzioni di fondo nascerà la trama del secondo volume, Il grido della rosa. In questo stesso romanzo viene affrontato il tema dei bordelli: la scrittrice non si è accontentata dell’uniformità rosea e nostalgica dei resoconti degli storici e degli studiosi maschi. Sentiva che qualcosa stonava in quel coro unanime e ha insistito a cercare finché non le è capitata in mano la raccolta di Lettere dalle case chiuse, scritte da centinaia di prostitute alla senatrice Lina Merlin durante i lavori parlamentari per la sua legge (e da lei pubblicate nel 1955) per denunciare le loro terribili condizioni di vita. Nella sua scelta stilistica di leggerezza Alice non ne riporta l’orrore, i toni umoristici rimangono, ma la realtà della prostituzione appare ben chiara e senza sconti, a partire dal dato che non è mai stato vero che “con le case chiuse almeno le prostitute avevano un tetto sulla testa”, come vorrebbe la vulgata.

Con tutte queste premesse, non mi spiegavo proprio i rapporti catastrofici che entrambe le protagoniste hanno con la propria madre. Mi aveva colpita, però, un’evoluzione della figura materna da una serie all’altra.

La madre di Vani è talmente disprezzata che non ha neanche un nome: è indicata solo come “madre Sarca” ed è un concentrato di aspirazioni piccolo-borghesi e perbeniste. Il suo rapporto con la figlia maggiore è pessimo, improntato alla reciproca disistima.

La madre di Anita Bo è sì una virago temutissima da tutta la famiglia, ma ha anche delle doti: è lei l’anima imprenditoriale della piccola tabaccheria del marito, è lei che si destreggia tra le ristrettezze (tra l’altro con le storiche ricette di Petronilla) per assicurare alla famiglia un tenore di vita confortevole, è lei che coglie più lucidamente del marito gli aspetti inquietanti del regime fascista e ha persino il coraggio di parlarne francamente con sua figlia. C’è anche un aspetto di somiglianza tra madre e figlia, che si manifesta quando Anita fa il suo stesso gesto di puntarsi polemicamente le mani sui fianchi. E del resto questa madre un nome e un cognome tutti per sé ce li ha: non è “la signora Bo”, ma “Mariele Gribaudo”. Un paradosso curioso: fino al 1975, infatti, le donne sposandosi perdevano il cognome di nascita, eppure conosciamo quello di Mariele. La madre di Vani, nostra contemporanea, è invece nota solo con quello del marito.

Alice Basso chiarisce subito: «Grazie di avermi dato l’occasione di dichiarare che questi due personaggi non sono mia madre!». Poi ci racconta di come avesse bisogno di un contrappunto a Vani da utilizzare come spalla comica in battibecchi familiari, e poiché “madre Sarca” aveva svolto egregiamente il suo ruolo, ha pensato di ingaggiarla nuovamente per la seconda serie, concedendole però un avanzamento: alcuni vantaggi caratteriali e un nome tutto per lei.

Tutto l’incontro si è svolto in tono frizzante e allegro, tra dialoghi con il pubblico, risate e botte e risposte, per concludersi con un ottimo buffet.

Non resta che invitare chi ancora non l’ha fatto a godersi questi bellissimi romanzi, di cui seguono i titoli in ordine cronologico.


Serie di Vani Sarca

L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, Milano, Garzanti, 2015. ISBN 978-88-11-67163-3.

Scrivere è un mestiere pericoloso, Milano, Garzanti, 2016. ISBN 978-88-11-67088-9.

Non ditelo allo scrittore, Milano, Garzanti, 2017. ISBN 978-88-11-67344-6.

La scrittrice del mistero, Milano, Garzanti, 2018. ISBN 978-88-11-60498-3.

Un caso speciale per la ghostwriter, Milano, Garzanti, 2019. ISBN 978-88-11-60262-0.


Serie di Anita Bo

Il morso della vipera, Milano, Garzanti, 2020. ISBN 978-8811812135.

Il grido della rosa, Milano, Garzanti, 2021. ISBN 978-88-1181-8779.

Una stella senza luce, Milano, Garzanti, 2022. ISBN 978-88-1100-3113.

Le aquile della notte, Milano, Garzanti, 2023. ISBN 978-88-1100-8859.

Il quinto volume della serie di Anita Bo uscirà nelle librerie a fine marzo/inizio aprile 2024.


(www.libreriadelledonne.it, 2 febbraio 2024)

di Arianna Premoli


Sabato 11/11 si è tenuto nella sede della Libreria delle donne di Via Pietro Calvi 29 un altro incontro della serie #LIBERAmente, questa volta a tema social network: quanto li usiamo, perché li usiamo, cosa ci riserva il futuro?

Che i social stiano occupando una posizione sempre più di rilievo nella nostra vita è cosa assodata, ormai.

Ci colpisce come, nella nostra vita lavorativa, una eventuale presenza social possa essere il discrimine di un’assunzione o di un congedo ingessato e goffo: non siamo abbastanza visual, non siamo abbastanza trendy. Non abbiamo curato a sufficienza l’immagine di noi che vendiamo al mondo, a dispetto magari di curricula stellari alle spalle. L’immagine diventa il non plus ultra, il biglietto da visita supremo, che nessuna persona può permettersi di ignorare. E quello che succede a chi non si presta al gioco è presto detto: un completo e totale isolamento.

Non si batte ciglio oggigiorno per come le interazioni umane, in carne e ossa, stiano venendo coattamente rimpiazzate da e-mail e messaggi vocali nelle chat, al fine del ridurre i faccia-a-faccia al minimo indispensabile e, se si riesce, ancor meno di quello. Non ci si meraviglia di una omologazione tout-court delle nostre modalità di socializzazione, che diventano smaterializzate, impalpabili in un etere che appiattisce e ingrigisce tutto ciò che tocca. Le foto delle vacanze non sono più una cosa fine a sé stessa, ma un palcoscenico su cui esibirci in una performance volta a mostrare a tutti quanto siamo rilassati. Le foto di una mostra? Quanto siamo acculturati. Le foto di un campo di girasoli? Quanto siamo connessi alla natura. Un atto dopo l’altro, in una recita che non sembra finire mai. Una recita in cui siamo tutti spettatori e attori al tempo stesso, dove a colpi di like si partecipa a questa allucinazione collettiva dove siamo tutti felici.

Uno dopo l’altro, i social stanno implementando il ricatto più vecchio della Storia umana: se non vuoi essere dato in pasto (i.e. i nostri dati personali) ai lupi (i.e. il mondo delle multinazionali), pagami. La pubblicità domina e scandisce ogni momento della nostra vita, tutto è prodotto.

Davanti a questa avanzata inesorabile ci sentiamo impotenti, spogliate di qualsivoglia arma utile a non farci additare come “retrograde” e “all’antica”, quando il nostro obiettivo è quello di far risuonare dei campanelli di allarme: il fenomeno ci sta sfuggendo di mano, si sta trasformando in un tritacarne da cui non c’è scampo.

Ma un fil rouge c’è, anche se non si vuole vedere: il nostro sistema economico sta fagocitando la nostra umanità, e i social sono la forchetta.

Con un progressivo erodersi di tutti gli spazi di aggregazioni a noi cari nel mondo reale in nome di un fantomatico progresso, ci si è ritrovati spinti a forza in una dimensione neonata, quella digitale, senza regole di alcun tipo. La nostra ingenuità iniziale, la gioia bambinesca di avere tra le mani un mondo tutto nuovo da scoprire, ha fatto sì che diventassimo ciechi ai suoi pericoli nascosti, che l’1% dei Grandi del mondo ha subito ritorto contro di noi a suo vantaggio.

Non siamo persone, siamo potenziali prodotti e potenziali compratori. Anche se la nostra fonte di guadagno non sono direttamente i social, questi ci portano clienti, e per fidelizzare i clienti bisogna implementare strategie di marketing funzionali, e queste strategie di marketing vanno rinnovate ogni mese per non far calare l’interesse. Dobbiamo venderci ed essere felici di farlo, per poi essere gettati via quando abbiamo esaurito il nostro potenziale. Tanto, ci sarà sempre carne fresca, cresciuta a pane e TikTok, pronta a prendere il nostro posto. Uno schema piramidale degno delle peggiori compagnie di truffe.

Ma, in mezzo a tutto questo disfattismo, una speranza c’è, e parte da incontri come questo.

La battaglia frontale è inutile in questo primo tempo, quando la polvere non si è ancora posata, e bisogna lavorare sui fianchi: costruire degli argini per contenere il fiume in piena.

Questi argini si costruiscono con onestà e tanta, tantissima voglia di fare.

L’onestà di vivere la nostra vita e il nostro corpo così come sono, senza infiocchettarli con filtri e correzioni ad hoc, mostrandoci nella nostra forma più naturale. Onestà è rompere il circolo vizioso che ci tiene con le guance sempre tirate in un sorriso posticcio, con il flash sempre pronto.

E la voglia di fare, e la costanza, per cambiare la narrativa dominante dei social oggigiorno. Faticare tutte insieme per costruire basi solide da cui far partire un lento, lentissimo cambiamento sociale che ridefinisca il nostro modo di stare online e lo spazio che noi decidiamo di dedicare alla dimensione digitale, perché non ci annienti.


Arianna Premoli fa parte del collettivo Le Compromesse


(www.libreriadelledonne.it, 6 dicembre 2023)

di Franca Fortunato


Relazioni di differenza e confronti tra donne e uomini è il titolo del convegno nazionale, voluto da Anna Di Salvo delle “Città Vicine” e Adriana Sbrogiò di “Identità e Differenza”, che il 3 e 4 giugno 2023 si è svolto alla Libreria delle donne di Milano. L’intento – come ha detto Anna Di Salvo in apertura – era di «mettere a fuoco, oltre agli aspetti che fanno inciampo alla fiducia nella relazione di differenza, le questioni più importanti del nostro presente: la pace, la guerra e il militarismo, le città e la convivenza tra i sessi, la crisi ambientale, il divario tra economia del desiderio ed economia del profitto, l’esperienza artistica che si esprime con sguardi differenti». Relazioni di differenza, una pratica politica che nel passato ha visto donne e uomini, consapevoli della propria differenza, aprirsi allo scambio e al confronto reciproco come negli incontri annuali di Identità e Differenza, di cui le protagoniste e i protagonisti danno testimonianza nel libro di Teresa Lucente Il luogo accanto. Libro scritto durante la pandemia, come ha ricordato Adriana Sbrogiò nella sua relazione, e che è stato presentato per la prima volta a Spinea nel giorno in cui è stata annunciata la consegna alla Biblioteca e all’Archivio comunale del Fondo archivistico dell’associazione (22 faldoni che testimoniano 50 anni di storia-attività delle donne di Spinea, a partire dai quartieri negli anni ’70). A che punto sono le relazioni di differenza tra donne e uomini?  A che punto è il confronto e lo scambio con gli uomini di “Maschile Plurale”? A «un punto d’arresto», ha risposto Anna Di Salvo, perché «la differenza maschile da qualche tempo si è concentrata maggiormente in un confronto e scambio prevalentemente tra uomini». Vero, ha risposto Alberto Leiss, «gli uomini di Maschile Plurale stanno troppo tra di loro e non è cosa buona anche se è importante che parlino tra di loro. C’è chi vorrebbe creare un’associazione di soli uomini e io non sono d’accordo». Pace, guerra, disperazione, speranza sono le parole da cui è partito il confronto e se le donne si sono dette stanche di parlare di guerra e non ci stanno a farsi schiacciare dalla disperazione, gli uomini si sono mostrati consapevoli di non fare abbastanza contro la violenza maschile, divenuta insopportabile con femminicidi orrendi e con la guerra in Ucraina. «Sarebbe il momento – ha detto Alberto Leiss –, di dire noi uomini “basta con la violenza bellica che, come la violenza maschile sulle donne, ci riguarda come uomini”», questo per rendere gli altri uomini consapevoli che «senza autocoscienza maschile non cambia nulla». Adriana Sbrogiò, come altre, ha espresso il desiderio di non parlare di guerra perché «sono un residuato di guerra – ha detto – e ho paura, fin da quando sono nata ho sentito che ero dalla parte di chi “si arrende” piuttosto di venire uccisa. Se si vive, poi ci si può riprendere. Non intendo scappare, mai, resisto, può anche accadere un miracolo. Provo disperazione e speranza contemporaneamente e mi lascio prendere da altro, scrivo e cucio, intanto. Oggi la mia speranza è ancora nelle relazioni». Donne, relazioni, politica della differenza sono per Giusi Milazzo «una lente attraverso cui guardare il futuro sottraendosi a questo trionfalismo della guerra, della morte». «Testimoniare il male senza cancellare il bene» è la pratica di cui ha parlato Maria Concetta Sala, portata avanti con altre «per non essere intrappolate nella questione guerra-pace» ma parlando «della guerra attraverso alcune scrittrici». Il parlare o scrivere della guerra con parole di donne, di scrittrici, di pensatrici, consente di parlare di pace non in contrapposizione alla guerra, come fanno gli uomini, come ha fatto Giuseppe Russo a cui sembra che «si parli in astratto se non si parla di guerra e di pace senza parlare di armi» o Alfonso Navarro che ha parlato della lotta per la legge sull’obiezione di coscienza come «difesa popolare non violenta», in opposizione alla violenza bellica. «La pace non è l’assenza di guerra ma è un modo di vivere, di abitare il pianeta, un modo di essere esseri umani», ha detto Stefania Tarantino che ha presentato un video girato da “Studi femministi” nel Museo archeologico di Napoli dove con voce di donne, di scrittrici, hanno fatto parlare di pace le statue, «non in contrapposizione alla guerra ma per se stessa, come principio che va da sé». «Pace è una parola bellissima ma è accompagnata dalla parola guerra. Da sempre la si usa a conclusione della guerra ma nessuna guerra si è chiusa con la pace ma con trattati a cui è seguita un’altra guerra. Bisogna eliminare la parola guerra e fare in modo che a poco a poco possa sparire», ha aggiunto Anna Potito. «La pace non si fa tra una guerra e l’altra, ma va costruita a partire da sé, dentro di noi e poi la portiamo fuori», ha detto Adriana Sbrogiò che rispondendo a Dorella Marchi che si augurava «un grande desiderio collettivo alla pace» ha aggiunto che «il desiderio profondo è personale, è quello che ci dà forza, energia e non è mai collettivo». Per Donatella Franchi «dobbiamo dire che non ci importa delle cause della guerra ma noi vogliamo una civiltà in cui i conflitti si risolvano diversamente»; a lei fa eco Paola Mammani che dice di smetterla di parlare «delle cause geopolitiche della guerra». Ad Anna Potito che chiedeva di riflettere di più sulla guerra che «è nei geni maschili», Marco Cazzaniga harispostoche «la guerra e la violenza sono nei geni maschili, anche in me, perciò sto lì a vegliare», mentre per Stefano Sarfati «la violenza è nella cultura maschile. Attiene alla sfera del linguaggio non ai geni maschili dove, invece, c’è il duello, la sfida, e la guerra è un duello». Per Clelia Mori «il linguaggio sta nei corpi, il materno è già presente nei nostri corpi. Non si può parlare di guerra partendo dai geni». Per Donatella Franchi gli uomini dovrebbero dire «basta con l’obbligo di fare la guerra, come lo dicono le donne». D’accordo con lei Leiss che si è chiesto «cosa può sostituire la convinzione maschile che sia giusto andare in guerra?» Da qui la sua proposta di «un servizio di cura obbligatorio per gli uomini» che, forse «aprirebbe alla mediazione materna». Proposta respinta da Stefano Sarfati perché «bisogna insistere sulla presa di coscienza», mentre Gianni Ferronato l’ha definita “una buona cosa” visto che «il cambiamento che vorremmo avviene uno per uno e mi pare che il tempo stia per scadere». Per Laura Colombo «la presa di coscienza è imprescindibile. Cosa si sostituisce alla virilità che poi sfocia nella guerra? Non si sa se il servizio civile di cura obbligatorio sia efficace», mentre per Luisa Muraro «può essere un modo per fare passare negli uomini qualcosa del materno», anche perché per Lia Cigarini, che cita Dino Leon, «qualcosa della madre si può trasferire nel figlio». Sulla “mediazione materna” nelle relazioni di differenza Beppe Pavan di “Uomini in cammino” in una lettera inviata al convegno tramite Anna Di Salvo che l’ha letta, ha detto che, nel suo percorso, quella mediazione a lui è arrivata tramite la moglie, il che per Vita Cosentino è motivo di speranza perché «può darci qualcosa di nuovo nella relazione di differenza». La speranza nel materno che agisce dentro gli uomini, a Katia Ricci viene dalla storia di un fabbricante di mine antiuomo che dopo che il figlio piccolo gli dice “ma tu sei un assassino”, abbandona quel mestiere di morte e diventa un volontario sminatore nei Balcani per salvare vite. «La mediazione materna tra donne e uomini agisce già nella pratica artistica» ha aggiunto Katia nel presentare la mostra di mail art Donna, Vita, Libertà che ha accompagnato il convegno. Mostra alla sua sesta edizione, organizzata dalla Merlettaia di Foggia e dalle Città Vicine e allestita da Katia. «Vedo nella mail art come se il conflitto tra uomini e donne venga meno perché gli artisti parlano in lingua materna. Chi fa pratica artistica sa che c’è una parte che riguarda l’inconscio e nell’inconscio si incontra la mediazione materna, la matrice, la lingua materna, quel tipo di comunicazione affettiva e corporea, molto più che informativa tra madre e figlio/a. Questo porta donne e uomini a ricercare una pratica, un’espressione artistica che non può non essere di origine materna». Concetto ripreso da Donatella Franchi aggiungendo che «la differenza tra artisti e artiste sta nel fatto che per gli uomini il rapporto con la lingua materna rimane chiuso nell’opera e quindi la lingua materna non funziona, diventa strumentale». Per Luciana Talozzi, che da anni fa «arte in relazione con la “Festa della Riconoscenza” a Chioggia che quest’anno avrà come titolo Il giardino fatato», la speranza «è il desiderio, fondamento della nostra politica, e le relazioni sono la mediazione per realizzare il desiderio». Per Antonella Cunico la speranza è «nella buona notizia» della vittoria alle amministrative nella sua città, Vicenza, di un giovane sindaco che ha coinvolto le donne che come lei si sono opposte alla costruzione della base militare americana. Un giovane che sa ascoltare le donne e prendersi cura della città. Lo stesso non si può dire per Milano, che per Bianca Bottero è diventata una città «invivibile, dove tutto è relegato al privato che adesso abbatterà anche lo stadio, un grande polmone verde, per fare spazio alla cementificazione». Il disagio “profondo” che investe le ragazze e i ragazzi, ha continuato Bottero, è stato espresso dall’«azione radicale» di Ilaria, la ragazza che ha dormito in tenda davanti al Politecnico, azione che «superficialmente è stata ridotta al caro affitti». Per Laura Giordano «le cose che gli uomini fanno in positivo vengono esaltate, così a risulta che lui sa prendersi cura ma poi si blocca e non va avanti». La speranza per Loredana Aldegheri è nell’economia a cui lei «è arrivata dal senso di giustizia sociale, che dovrebbe orientare oggi l’economia. Dell’economia non dovrebbero occuparsi gli economisti di mestiere ma chi si prende cura della casa». Speranza e disperazione per Laura Colombo stanno nell’uccisione di Giulia Tramontano da parte del fidanzato: «La disperazione sta nel fatto che quando Giulia è scomparsa sapevamo già cosa fosse successo. La speranza è nella relazione tra donne che non sta dove l’avevano messa gli uomini nel patriarcato. Le due donne, Giulia e l’amante del fidanzato, non sono più rivali, si incontrano, si abbracciano, solidarizzano, e la madre di lui cerca un filo con la madre di lei». Madre che per Vita Cosentino dà speranza nel dire «mio figlio è un mostro, non lo perdonerò mai» spezzando così il copione della madre sempre dalla parte del figlio. Nessuna speranza, invece, nelle donne di potere belliciste che a Adriana Sbrogiò fanno paura quanto gli uomini perché «possono distruggere l’umanità». Questo perché, come ha detto Luisa Muraro, «le donne nella vita pubblica vanno all’insegna dell’uguaglianza con gli uomini. Non è l’uguaglianza che ci porterà avanti ma la differenza da mettere in pratica e rendere pubblica. Bisogna fare azioni eloquenti, convinte, e dire che nella vita pubblica non cerchiamo uguaglianza, parità con gli uomini. Siamo concentrate a ripudiare l’uguaglianza, la parità, per andare nella vita pubblica». Per Simonetta Patané «la lotta per la parità distrugge il desiderio». E per Clara Jourdan, che ha coordinato gli interventi, «nel cambio di civiltà che stiamo attraversando la questione è che non si instauri il fratriarcato, come stanno cercando di fare gli uomini appunto all’insegna dell’uguaglianza».

Da tutti gli interventi quello che emerge è la ripresa di un percorso delle relazioni di differenza tra donne e uomini, fatte di scambio, di riflessione, di ascolto, di riferimento l’una/o all’altra/o. Percorso che, chiuso il convegno, apre ad altre occasioni di incontro tra donne e uomini consapevoli della propria differenza.  


(AP autogestione e politica prima, a. XXXI, n. 3/4, luglio-dicembre 2023)

di Clara Jourdan


Introduzione all’incontro in Libreria delle donne, Milano 11 febbraio 2023: La guerra incombe più di ieri. Che cosa si può fare oggi? A quasi un anno dall’invasione dell’esercito russo in Ucraina continua ad aumentare il coinvolgimento armato di altri paesi tra cui l’Italia, nonostante sempre più donne e uomini stiano dicendo basta a questa e alle altre guerre che insanguinano il pianeta. Ci troviamo in una situazione molto difficile e pericolosa. Vogliamo parlarne a partire dalla consapevolezza che ogni guerra è scatenata da uomini e colpisce tutte e tutti, cioè che la guerra fa parte della questione maschile, dei gravi problemi causati alla convivenza civile dal sesso maschile come si esprime nella storia, e che ormai è necessario un cambiamento, prima che sia troppo tardi. Ne discutiamo con Marco Deriu, Alberto Leiss, Alfonso Navarra: uomini impegnati nella riflessione e nell’azione contro la guerra. Introduce Clara Jourdan.


La guerra iniziata con l’invasione dell’esercito russo in Ucraina il 24 febbraio 2022 ha riportato all’attenzione di tutte e tutti la realtà della guerra, sempre presente nel mondo ma che tendiamo a mettere da parte, per non esserne schiacciate. A quasi un anno di distanza dall’invasione, la guerra incombe più di ieri, e non sappiamo cosa possiamo fare. Qui vogliamo cercare di ragionare a partire da una considerazione che alcune donne fanno da tempo ma che non è presente nei discorsi pubblici: la guerra è una manifestazione della questione maschile,[1] cioè dell’insieme di problemi che il sesso maschile come si esprime storicamente causa alle donne, alle creature, alla natura, alla convivenza civile, agli uomini stessi. Dei femminicidi e le altre violenze contro le donne si parla ormai spesso. È necessario prendere coscienza che anche la guerra ne è una manifestazione, e terribile, per la devastazione che provoca in morti, vite sconvolte, città distrutte.

Prima di entrare nel merito della guerra come questione maschile, voglio precisare che non intendo escludere le donne dalle responsabilità nel far continuare le guerre, a volte prendendo le armi ma specialmente nutrendo, curando e sostenendo i combattenti e i loro ideali, come sappiamo dalla storia e come vediamo ancora. Eppure molte femministe pensavamo come Letizia Battaglia, la fotografa impegnata morta nel 2022, che nella sua autobiografia scriveva: «Sono sicura che le donne al governo non permetterebbero la guerra».[2] Invece la permettono. Anche per il poco che è in loro potere, come le leader di Finlandia e Svezia che di fronte all’aggressione russa all’Ucraina hanno chiesto l’ingresso dei loro paesi nella Nato, mentre forse potevano ribadirne la storica neutralità, ce lo saremmo aspettate da alcune dichiarazioni “femministe”. Kaja Kallas, presidente dell’Estonia dal gennaio 2021, in una intervista del 29 aprile 2022 si dice «convinta che se ci fosse stata una donna a capo del Cremlino, questa guerra non sarebbe mai scoppiata», perché «se hai dato vita a un essere umano, è così crudele ammazzare il figlio di un’altra donna»[3], ma lei sceglie di stare «dalla parte giusta della cortina di ferro, che è quella della Nato». Cioè al momento di rispondere alla guerra ha prevalso la logica delle alleanze militari. Laura Colombo commenta: «Se le donne arrivano al potere, devono radicarsi ancora più profondamente nella loro differenza per non perderla, e non perdere così la possibilità che davvero la guerra sia messa fuori dalla storia».[4] Purtroppo oggi che “le donne sono ovunque”[5] accade spesso che quando una donna si trova in un posto di potere tenda a stare «all’interno della logica dei rapporti di forza e di potere»[6]. Su questo abbiamo riflettuto in un incontro qui in Libreria il 12 giugno 2022.[7] Stasera chiedo di concentrarci, grazie alla presenza di uomini impegnati contro la guerra – Marco Deriu e Alberto Leiss ne hanno anche discusso recentemente in un incontro dell’associazione Maschile Plurale di cui fanno parte – sulla questione maschile che pone la guerra, prima che sia troppo tardi.[8]

A differenza dei millenni passati, oggi la guerra deve essere giustificata come difesa, difesa di territori, di popolazioni, di valori. Specialmente come resistenza. Questo è effetto della fine del patriarcato, nella cui civiltà era presente la guerra di conquista. Può essere considerato un passo avanti, un cambiamento culturale importante, così come l’aumento delle proteste popolari: quella mondiale del 15 febbraio 2003 non è riuscita a impedire l’attacco degli Usa all’Iraq ma ha mostrato inequivocabilmente che la guerra esterna non è più accettabile. Tuttavia ritenere che una guerra debba essere giusta fa sì che le guerre continuino, e vengano sostenute e alimentate da paesi “amici”.[9] Invece occorre sapere, dice il papa Francesco, che «la guerra non è mai giustificata».[10]

Come scrisse tanti anni fa Gertrude Stein (che guidava ambulanze in Francia nella prima guerra mondiale), «una guerra è sempre perduta, sempre perduta». Da allora la situazione è via via andata peggiorando, muore molto di più la popolazione che i combattenti, e a causa del progresso tecnologico e dell’economia capitalistica la pericolosità è aumentata enormemente. Nel 1945 l’atomica l’avevano solo gli Stati Uniti e l’hanno usata. Adesso che ce l’hanno tutti, come possiamo credere che un Putin o un altro uomo al comando sia più responsabile del presidente Truman che ha fatto sganciare la bomba su Hiroshima e dopo averne visto l’effetto un’altra su Nagasaki?

Una guerra è sempre perduta non solo per la morte e distruzione che ha provocato ma per le sue conseguenze nelle relazioni tra stati. Una cosa che eternizza la pericolosità delle guerre rilanciandole quando sono finite è la “voglia di stravincere”[11] dei vincitori. Tutti sanno che la seconda guerra mondiale è stata il seguito della prima, i cui vincitori con il Trattato di Versailles (1919) hanno voluto umiliare la Germania sconfitta. E non è forse la voglia di stravincere degli Stati Uniti e della Nato che ha portato alla guerra di oggi della Russia all’Ucraina? La fine della Guerra fredda in Europa, con lo scioglimento del Patto di Varsavia (1991) e quindi la vittoria degli Stati Uniti non ha portato, come sarebbe stato sensato volendo davvero la pace, allo scioglimento della alleanza militare Nato (istituita nel 1949), il cui allargamento alla Repubblica Federale Tedesca nel 1954 aveva spinto l’Unione Sovietica a fondare nel 1955 il Patto di Varsavia. Ma nel 1991 almeno c’è stato l’accordo di Bush con Gorbacev che la Nato non si sarebbe allargata verso est. Un impegno di pace a cui molti e molte hanno creduto perché alla base del diritto internazionale per evitare le guerre c’è il principio che i patti vanno rispettati (Pacta sunt servanda). Invece la voglia di stravincere ha dominato i decenni successivi: la Nato si è ampliata più volte dal 1999, l’ultima nel 2020; ben 14 paesi sono entrati, di cui 10 dell’ex Patto di Varsavia, e l’Ucraina è in trattativa. Seguendo Freud, Franco Fornari nel libro La psicoanalisi della guerra, pubblicato nel 1966 in piena guerra fredda e minaccia atomica, aveva definito la guerra come una “elaborazione paranoica del lutto”.[12] Bisognava dunque saperlo che si sarebbe arrivati al punto in cui ci troviamo.

I soggetti che gli psicanalisti avevano in mente erano gli uomini di sesso maschile, ovvio, ma non lo dissero, però oggi possiamo e dobbiamo dirlo. Tornando alla voglia di stravincere, esiste anche nei conflitti interpersonali, anche nelle donne, alla fine dei loro rapporti con uomini, come ha spiegato Lia Cigarini, ma è negli uomini di stato che impedisce la pace al termine delle guerre. C’è una differenza sessuale anche nella voglia di stravincere. La voglia maschile di stravincere credo si agganci a un elemento simbolico che è alla base del perpetuarsi della guerra, il valore virile del guerriero, il suo onore, e su questo potranno dire qualcosa di più preciso gli uomini qui presenti, in particolare Marco Deriu che ha analizzato la differenza sessuale nel suo fondamentale Dizionario critico delle nuove guerre.[13]

Comunque, il cambiamento che riscontriamo in alcuni (o molti?) uomini nelle relazioni con le donne sembra venir meno quando si tratta della guerra, che resta una attività onorevole per gli uomini. Dai “caduti per la patria” della prima guerra mondiale (in realtà milioni di giovani uomini massacrati per spostare i confini degli stati) a tutt’oggi, un secolo dopo, la fine del patriarcato non ha intaccato l’immaginario e il sentimento di reverenza e gratitudine per il soldato. Lo possiamo vedere chiaramente per esempio nelle serie televisive americane progressiste, il grande onore che viene tributato ai militari caduti all’estero non ha l’eguale per nessuna attività maschile. Io sono sempre colpita di fronte a queste espressioni, che sembrano autentiche, sentite, e mi viene in mente per contrasto l’indifferenza per i caduti sul lavoro, che pure sono morti per il “paese”.

Forse è questo il punto chiave della questione maschile riguardo alla guerra, che resta un’attività onorevole per gli uomini. Ottant’anni fa Virginia Woolf aveva capito che è su questo che bisogna agire, creare attività più onorevoli per gli uomini onesti.[14] Gran parte degli uomini in realtà non vuole la guerra, ci vanno solo se obbligati, ma sono ben pochi quelli che trasgrediscono disertando oppure opponendosi al patriottismo ancora dominante nella cultura. Poco prima della pandemia mi è capitato di assistere a un concerto di una banda di paese, nel mio paese di nascita: quando hanno suonato l’inno nazionale italiano e io non mi sono alzata in piedi, il mio vicino di sedia si è indignato e con grande agitazione mi ha chiesto da dove diavolo venivo.

Guerra e patria sono strettamente legati, negli uomini, lo spiega bene Marco Deriu nella voce “Differenza sessuale” del libro citato, un libro che «nasce da una precisa consapevolezza: la guerra materiale trova un suo fondamento nella dimensione dell’immaginario. Si afferma, in primo luogo, come una possibilità che si installa nel nostro orizzonte di pensiero, nella nostra visione delle cose». Fino a rendere la guerra un «fatto sociale totale» nella normalità delle nostre vite, a cominciare dal linguaggio.[15] Da qui comprendo come mai il “diritto alla resistenza” sia sempre invocato e indiscusso. Un diritto che in realtà suona come un obbligo, se pensiamo all’Ucraina che appena invasa avrebbe potuto arrendersi ma il suo governo ha deciso di resistere. Milioni di profughi, centinaia di migliaia di morti, città completamente distrutte… un’enorme catastrofe di cui non si scorge la fine. Non si poteva cercare di evitarla valutando con buon senso cosa fosse opportuno fare? invece di ubbidire all’ineluttabilità di un diritto maschile, e all’orgoglio degli uomini al comando. Tante donne, come me, pensano che dovremmo arrenderci se la nostra città, Milano, venisse assediata, piuttosto che morire o dover scappare in massa e lasciarla distruggere. Non siamo più ai tempi delle guerre di indipendenza (guerre ricordate dalla toponomastica in questa zona di Milano: l’insurrezione del 1848 in piazza Cinque Giornate, corso XXII Marzo …). Oggi occorre prendere atto che il principio ottocentesco dell’autodeterminazione dei popoli – “popoli” al plurale, cioè distinti su base etnica, linguistica, storica, religiosa… – è diventato pericolosissimo, quanto sedimentato nel nostro immaginario; nel Novecento abbiamo assistito alla distruzione della convivenza di intere popolazioni (penso alla ex Iugoslavia) per creare nuovi stati per ciascun “popolo”, e sarà sempre peggio dato che con la globalizzazione i cosiddetti popoli si mescolano ovunque.


(www.libreriadelledonne.it, 15 febbraio 2023)


[1] Laura Colombo ha dedicato alla questione maschile la sua lezione all’ultimo Grande seminario di Diotima, in dialogo con Marco Deriu (Verona, 21 ottobre 2022): https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-questione-maschile-3/

[2] Letizia Battaglia e Sabrina Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia, Feltrinelli 2020, p. 115.

[3] Intervista di The Times UK, https://www.thetimes.co.uk/article/if-a-woman-was-running-russia-thered-be-no-war-in-ukraine-h9w99b087

[4] Commento di Laura Colombo all’intervista a Kaja Kallas, Se le donne arrivano al potere, 29 aprile 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/se-le-donne-arrivano-al-potere/

[5] Le donne sono ovunque è il titolo di “Via Dogana” 111/2014, l’ultimo numero cartaceo della rivista di pratica politica della Libreria delle donne di Milano.

[6] La forza delle donne. Introduzione di Laura Colombo all’incontro del 12 giugno 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-forza-delle-donne-introduzione/

[7] Vedi Lia Cigarini, Le contraddizioni spingono avanti il pensiero, #VD3, 19 luglio 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/le-contraddizioni-spingono-avanti-il-pensiero/

[8] «Oggi assistiamo a una terza guerra mondiale a pezzi, – ha scritto il papa Francesco – che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale» (Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza, Piemme 2022, p. 60; gran parte del capitolo “In nome di Dio chiedo che si arresti la follia della guerra”: https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/papa-francesco-in-nome-di-dio-fermate-la-guerra/. Sulla disumanizzazione di questa guerra vedi Domenico Quirico su La Stampa, 4 Febbraio 2023.

[9] «Mi piace la strada su cui ci troviamo: con armi e denaro dall’America, l’Ucraina combatterà la Russia fino all’ultimo uomo». A parlare è stato il senatore repubblicano Usa Linsdey Graham, il quale ha poi ha precisato che la vittoria ucraina sulla Russia è «un reset dell’ordine mondiale che va nel senso giusto» (Francesco Strazzari, Il commento della settimana, il manifesto, Lunedì rosso del 9 gennaio 2023).

[10] Vi chiedo in nome di Dio, cit., p. 60.

[11] Prendo questa espressione dal titolo di un articolo di Lia Cigarini, che anni fa scriveva: «quando come avvocata mi trovo a difendere le donne nelle cause di separazione, le vedo agire un forte senso di rivincita nei confronti dell’uomo con cui hanno vissuto» (Voglia di stravincere, Via Dogana n. 68, 2004). Sia chiaro che la voglia di stravincere femminile può essere un problema, ma certo non ha a che vedere con le guerre tra stati.

[12] S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, 1915; Franco Fornari, La psicoanalisi della guerra, 1966 (ultima ed. 2023). Citati da Massimo Recalcati nell’articolo L’allucinazione della guerra, Doppiozero, 4 aprile 2022.

[13] Editrice Missionaria Italiana, 2005, pp. 136-144.

[14] Thoughts on Peace in an Air Raid, 1940; trad. it. Pensieri di pace durante un’incursione aerea, in Per le strade di Londra, Il Saggiatore, 1963.

[15] Dizionario critico, cit., Introduzione, p. 11 ss.

di Maria Castiglioni


Il libro di Silvia Di Francia, “La medicina delle differenze”, Neos edizioni 2020, è un testo molto ricco e articolato, organizzato in diverse sezioni tematiche:

La sezione storica (a cura di Cinzia Ballesio)

La medicina di genere, le sue declinazioni nella farmacologia e nelle diverse patologie (S.de Francia)e la sua applicazione nel servizio pubblico (Sergio Foà).

* Di grande interesse gli atti del Workshop internazionale di Medicina di Genere tenutosi a Ferrara il 6/7 dicembre 2019, così come la rassegna, a cura dell’autrice e di Cinzia Ballesio, delle donne protagoniste della storia della medicina, della sua applicazione e dei diritti ad essa connessi.

* Il testo si chiude con una bella e significativa galleria di immagini dal mito alla storia, dalla maga Circe e da Trotula a Tina Anselmi, Barbara McClintock, Rita Levi Montalcini, fino alle premio Nobel e a tutte le altre donne che, superando stereotipi, condizionamenti e ostacoli di ogni genere hanno dimostrato, contrariamente a quanto si è sempre pensato e affermato, che la medicina è anche “cosa da donne e per le donne”.

Mi soffermerò in particolare su due di queste sezioni: quella storica e quella della Medicina di genere, che dà il titolo al testo.

Il testo si apre con una utilissima introduzione di Cinzia Ballesio (anche curatrice del testo) che compie un excursus storico, dalle civiltà preromane fino ai nostri giorni, per illustrare il ruolo della donna nel campo della cura e della salute con tutti i relativi pregiudizi, esclusioni, persecuzioni. Per darvi solo un’idea di questa esclusione della donna dal mondo medico basti pensare che il termine latino medicus aveva la declinazione femminile, medica, termine che ancor oggi si fa fatica a pronunciare (forse più ancora di ministra o sindaca). La trattazione parte da una considerazione tanto elementare quanto rimossa dalla nostra cultura patriarcale: la prima creatrice/curatrice è la Terra/Natura, rappresentata da Gea, la dea madre nell’area mediterranea, simbolo del ciclo eterno morte/rinascita. Vengono ricordate (e non possiamo qui citarle tutte- si trovano nella sezione Protagoniste) le donne che sono state appunto protagoniste della storia della medicina e i cui apporti sono stati per lo più censurati e misconosciuti. Le nobili romane Fabiola e Metrodora, la prima fondatrice del primo ospedale (nosocomio), la seconda autrice del primo trattato sulla salute e la cosmesi delle donne, la scuola di Salerno, del IX sec. con la famosa Trotula de Ruggiero, autrice dell’opera Sulle malattie delle donne, Dorotea Bocchi, la prima docente di Medicina all’Università di Bologna, Costanza Calenda, la prima dottora in Medicina nel 1422. Questi primi successi delle donne, come sappiamo, vengono stroncati dalla caccia alle streghe (fine 1400 con il Malleus Maleficarum, il martello delle malefiche dei domenicani Sprenger e Kramer– sotto il papato di Innocenzo VIII), identificate soprattutto nelle levatrici e guaritrici (spesso donne singole, vedove o prostitute).

La classe medica che si costituisce, dopo il Concilio di Trento (1545-1546), escluderà le donne e gli ebrei: la parola “medico” venne sempre più declinata al maschile e come “modello anatomico” si afferma il corpo maschile. Andrea Vesalio, celebre anatomista, nel 1543 pubblica De humanis corporis fabrica (come è fatto il corpo umano) fortemente innovativo, per un lato, ma altrettanto esemplificativo della mentalità dell’epoca: «È sufficiente studiare, a eccezion fatta per l’apparato riproduttivo, il corpo maschile, forma neutra universale, per capire anche il corpo femminile».

Dopo un paio di secoli, pur espropriate dell’arte medica, le donne vengono riammesse ad occuparsi di medicina, ma solo di madre e neonato (ostetricia, pediatria, puericultura), e qui svolgeranno un importantissimo ruolo di mediazione tra il popolo e l’istituzione (io sono nata in casa grazie alla sciura Carolina della Ripa Ticinese).

È del 1757 la fondazione a Bologna della prima Scuola di Ostetricia italiana e del 1804 quella per levatrici. Ma di diventare medici non se ne parla proprio: emblematico e paradossale il caso del dr. James, medico militare britannico, in realtà una donna, costretta al camuffamento, la cui identità fu scoperta solo da morta, ricomponendone il corpo per le esequie (solo la tenacia di una storica portò alla luce la sua vera storia solo negli anni ’50!).

Negli USA la situazione fu un po’ più favorevole alle donne: già nel 1847 vi è la prima donna laureata in Medicina, Elisabeth Blackwell.

E come dimenticare la mitica Florence Nightingale, la fondatrice dell’infermieristica moderna a metà Ottocento?

Ma neppure gli avanzamenti culturali più arditi (pensiamo al clima dell’avanguardia culturale dei primi del ’900) riescono a spostare la mentalità corrente circa la supposta inadeguatezza femminile a ricoprire certe professioni. Cesare Lombroso, medico esponente di spicco del positivismo scientifico, alla fine dell’800, dichiarava che la donna era «meno coraggiosa e meno vigorosa dell’uomo, sia a livello fisico che di intelligenza». Peccato che pochi anni dopo, nel 1913, Maria Montessori, laureata in Medicina e Pedagogia, viene presentata dal New York Tribune come la donna più interessante d’Europa!

E dobbiamo a Margaret Sander, infermiera americana, la divulgazione di pratiche contraccettive, per cui fu più volte arrestata e condannata.

Nel 1947 abbiamo il primo Nobel per la Medicina assegnato ad una donna, Gerty Theresa Radnitz Cori a cui seguiranno altre undici, tra cui Rita Levi Montalcini.

E una per tutte quelle scienziate oscurate dagli uomini, che delle loro scoperte si sono appropriati, menzioniamo Rosalind Franklin, la prima a fotografare ai raggi X la struttura del DNA, scoperta scippatale da Watson, Crick e Wilkins che ottennero nel 1962 il premio Nobel per la Medicina, me che mai la nominarono.

Nei decenni successivi il Movimento femminista porta alla ribalta i temi della salute, del controllo delle nascite, della sessualità, insieme a quelli della disparità, delle diseguaglianze, delle discriminazioni culturali.

È del 1970 il testo rivoluzionario Noi e il nostro corpo del Boston Women’s Health Book Collective e da lì è un susseguirsi di testi scritti da donne per le donne e un generale svilupparsi della sensibilità su questi temi.

Nel 1985 il NIH (National Institutes of Health) statunitense rende pubblico il primo rapporto sulla salute delle donne: ci si accorge che fino a quel momento la medicina aveva fatto riferimento a un soggetto giovane, adulto, maschio, bianco (Vesalio ancora vivo dopo oltre quattro secoli!) che condizionava non solo la cura e la diagnosi delle patologie, ma anche la sperimentazione di nuovi farmaci. Va anche citato il forte condizionamento, specie in Italia, esercitato dalla cultura cattolica in materia di sessualità, contraccezione ed aborto.

Perfino nella legge 40/2004 che regolamenta le tecniche di procreazione medica assistita (di cui si occupa Tullia Penna nel suo articolo) ha agito questa cultura. Nella sua formulazione originale, infatti, prevaleva l’interesse dell’embrione rispetto a quello della donna, con conseguenti parti plurigemellari (legge fortunatamente modificata grazie al prevalere del concetto di “tutela della salute della donna”, che ha superato l’obbligo dell’impianto di tutti gli embrioni fecondati a favore del congelamento degli embrioni “in eccesso”).

Nel 1991, grazie anche a questa nuova sensibilità, Bernadine P. Healy, primaria dell’unità coronarica dell’Ospedale John Hopkins di Baltimora, pubblica un articolo che riporta le sue puntuali osservazioni circa le differenze di trattamento e di cura tra pazienti uomini e pazienti donne.

Gli anni Novanta registrano il sorpasso, in Italia, delle iscrizioni femminili rispetto a quelle maschili, nelle facoltà di Medicina.

Nel 1997 la UE pubblica Lo stato di salute delle donne e nel 1998 l’OMS inserisce la medicina di genere nel suo Equity Act. Le iniziative in questo ambito si moltiplicano ed in Italia con la legge del 2019 viene istituito il “Piano per la diffusione della Medicina di genere sul territorio nazionale” (art. di Sergio Foà).

Nel corso dei secoli la storia della medicina ha quindi visto la presenza femminile passare dalla sua iniziale centralità, nelle società matriarcali del Mediterraneo, alla sua progressiva emarginazione, anche con la terrificante caccia alle streghe (50.000 morte/i in tre secoli, circa 170 femminicidi all’anno in Europa 1421, 4 al giorno) e fino alla sua riammissione in ambito clinico, sia come presenza che come questione teorica che interroga il carattere androcentrico della scienza medica.

Ed è proprio da questa constatazione, la medicina a misura d’uomo (letteralmente!), che si sviluppa la parte centrale del testo dedicata alla Medicina di genere, che dà conto sia della cornice normativa attuale, sia degli approfondimenti fin qui avvenuti a livello di patologie e di farmacoterapia.

E qui mi piace ricordare un’affermazione di Ipazia, il collettivo femminista che si occupò a lungo di scienza negli anni ’80-’90, secondo cui una medicina modulata sul corpo di metà dell’umanità presenta quantomeno un “difetto di scientificità”, soprattutto dal momento che il suo oggetto d’indagine è proprio lo studio dei corpi in carne e ossa. Il che dà conto dei livelli di estraneità/astrazione dai corpi sessuati raggiunti dalla cultura patriarcale, che considera l’uomo il soggetto unico, e come tale neutro e universale, misura di tutti i fenomeni fisici, nonché possessore del logos, vale a dire del linguaggio e dei grandi sistemi di interpretazione della realtà. Sul concetto di “neutralità scientifica” e i suoi risvolti, soprattutto rispetto alla pandemia, si soffermerà l’intervento di Sara Gandini.

Il testo chiarisce lo svilupparsi storico del termine (e della specialità) “Medicina di genere” che, storicamente, è nata sulla considerazione del sesso femminile, mentre la medicina sessuospecifica o medicina delle differenze o generespecifica si riferisce ad ambedue i sessi, ed è conseguenza della presa d’atto, anche in medicina, che ci sono due sessi (sembra paradossale!).

Giustamente il testo si sofferma ad esplicitare la differenza tra sesso e genere (pag. 29). Infatti attorno a questa terminologia sussiste una grossa questione di carattere culturale, scientifico, politico (come ha dimostrato l’acceso dibattito sul ddl Zan, approvato alla Camera e poi arenatosi al Senato). Il genere non è un modo meno “diretto”, più elegante di evocare il sesso.

Sesso indica la condizione biologica dell’uomo e della donna, genere indica invece la percezione interiore della propria identità, ossia come ci si sente in rapporto al sesso di nascita e ai condizionamenti culturali legati ai ruoli sessuali. Non è da confondere con l’orientamento sessuale, vale a dire con l’oggetto del proprio desiderio sessuale: si può desiderare una persona del proprio sesso pur continuando a sentirsi del sesso originario. Il sesso indica come siamo, il cosiddetto genotipo, il genere ciò che diventiamo, il cosiddetto fenotipo (dal gr. phainein, apparire e typos, impronta, cioè l’insieme delle caratteristiche manifestate da un essere vivente: morfologia, sviluppo, proprietà biochimiche e fisiologiche, comportamento).

Come è facilmente intuibile, risulta impossibile separare, nell’essere umano, il sesso dal genere, la biologia dalla cultura: si tratta della stessa coperta. E come tutte le coperte c’è chi la tira da una parte e chi dall’altra. C’è chi sta dalla parte della natura e afferma la prevalenza del sesso sul genere (determinismo biologico), chi dalla parte della cultura e ribadisce quella del genere sul sesso (costruzionismo sociale).

E qui faccio un primo appunto: se questo è il significato che viene attribuito ai termini genere sesso ho rilevato nel testo un sovrautilizzo, quasi inflazionistico, del termine genere, anche laddove il discorso è prettamente fisiologico. Ad es.(pag.59) «Il farmaco Zolpidem è ora in commercio con una dose massima consigliata per genere: 1,75 mg per la donna, 3,5 mg per l’uomo», oppure «È del 1993 il documento della FDA che indica di reclutare entrambi i generi nelle fasi di sviluppo dei farmaci» (pag. 61). E ancora si afferma: «La conoscenza delle influenze correlate al sesso e al genere consente di confezionare su misura le terapie per ciascun paziente» (pag. 59). E qui oltre al sovrautilizzo c’è anche l’intercambiabilità dei due termini, o la loro sommatoria… E tornando alla medicina di genere, qual è il suo scopo?

Dal Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di genere (2019) si evince che: «il suo obiettivo è comprendere i meccanismi attraverso i quali le differenze legate al genere agiscono sullo stato di salute e sull’insorgenza e il decorso di molte malattie» (p. 26 ).

Infatti, come viene ampiamente evidenziato in più punti del testo, le donne e gli uomini differiscono per peso, percentuale di tessuto adiposo, enzimi epatici, ormoni sessuali. Le donne hanno polmoni più piccoli, minore velocità di filtrazione a livello renale, tossicità, maggiore esposizione alle malattie autoimmuni, maggiore risposta immunitaria ai vaccini. Quindi le dosi dovrebbero essere modulate secondo tutti questi fattori che differenziano un corpo femminile da uno maschile.

Il discorso è dunque prettamente fisiologico: la variabile in campo è quella legata al sesso (maschi, femmine).

E qui faccio un secondo appunto, a partire da una considerazione generale. Abbiamo visto che negli ultimi anni si sta dando sempre più importanza a questa variabile, che però non è l’unica che influenza malattie e processi di cura. Ad esempio vi sono quelle culturali, quelle legate all’età, al contesto, all’ambiente, alla condizione economica, alle ragioni del mercato (anche il DSM 5, Manuale diagnostico delle malattie mentali – 2013 – ne tiene ampiamente in conto, salvo quelle del mercato…).

Capisco che questo non era il focus del libro, ma neppure vi ho ritrovato un accenno, specie al mercato dei farmaci, che sappiamo quanto condizioni le linee guida terapeutiche e conseguentemente anche i trattamenti, vale a dire i protocolli proposti.

Il vaccino anticovid ne è stato l’esempio più eclatante: abbiamo constatato che, con la motivazione dell’urgenza, sono entrati in commercio farmaci senza una adeguata sperimentazione, alcuni dei quali prontamente ritirati dopo qualche mese per via dei pesanti effetti collaterali (Astra Zeneca, Johnson and Johnson ad es.). Valga per tutti il discorso della giovane eurodeputata Manon Aubry, pronunciato nel febbraio 2021 a proposito della totale mancanza di chiarezza dei contratti stipulati dalla UE con le case farmaceutiche (riportato in Il dio vaccino di Tiziana Alterio, 2021), per non parlare della totale mancanza di vigilanza dell’AIFA sugli effetti avversi dei vaccini)…

Qui faccio un terzo appunto che nei testi di Metis, il gruppo di lavoro di donne sui temi della salute di cui faccio parte, viene ampiamente dibattuta.

Sappiamo tutti che i cosiddetti protocolli esistono per cautelarci dalla sperimentazione e garantirci un’adeguata sicurezza nell’uso del farmaco e della metodica terapeutica. Ma sappiamo anche che un eventuale scostamento soggettivo dai protocolli produce nei curanti, fortunatamente non sempre, ma molto spesso, una reazione che va dall’incredulità, al fastidio, all’intolleranza, addirittura censura e riprovazione, con effetti di emarginazione verso il/la paziente. Il risultato è che questo/a paziente, uscendo dai protocolli, non porterà nuove conoscenze che nascono dalla sua esperienza personale (più o meno fortunata, in ogni caso, originale) e alla scienza medica verrà a mancare questo contributo “eterodosso”, ma pur sempre fondamentale per una scienza che si vuole aperta, empirica e libera da pregiudizi. A questo proposito Ipazia sottolineava che la medicina «ha la possibilità di essere veramente una scienza perché entrano in campo due competenze, quella di chi cura e quella di chi chiede di essere curato» (Due per sapere, due per guarire, Quaderni di via Dogana, 1997)

Mi chiedo quindi se la medicina di genere, coi suoi nuovi approcci declinati su uomini e donne, non corra il rischio di essere tradotta in un nuovo “protocollo”, certamente preciso e puntuale, ma sempre all’interno di una concezione della medicina e della clinica che non tiene conto dell’esperienza e dei vissuti del/la paziente, con tutte le altre variabili che ho prima citato.

Il dimezzare le dosi di un farmaco significa considerare la soggettività del paziente? Se vengono dosati meglio farmaci chemioterapici e vaccini sono certamente più contenta, ma se io non volessi fare né chemioterapici né vaccini? In che considerazione viene presa questa mia posizione soggettiva? Va allora portata al centro, prosegue il testo di Ipazia, «la relazione terapeutica, che è il momento e il luogo in cui avviene la mediazione tra le conoscenze disciplinari, basate sui grandi numeri (anche legati al sesso) e la persona particolare, con il suo corpo e la sua storia, unica e irripetibile, tenendo sempre presente che questa mediazione non avviene in un rapporto asettico tra teoria e pratica, ma in un rapporto diretto e dispari tra persone» .

Nel gruppo di Metis abbiamo definito questa pratica di mediazione “protocollo sensibile”, in quanto tiene conto della soggettività di entrambi – curante e paziente – e prevede una contrattazione ragionata (Metis: Corpi sensibili nelle relazioni di cura, 2019).

Sensibilizzare i protocolli è importante affinché, come afferma Gemma Martino, la medicina diventi “relativa e relazionale” e fuoriesca dalle dimensione di “universalità e neutralità” che presenta un grosso difetto di scientificità nell’orientarsi sempre di più al tecnicismo, alla standardizzazione, omogeneizzazione e ripetibilità. L’unica vera misura scientifica, ricordava il gruppo di Ipazia, altro non può essere che “la misura del vivente”.


(www.libreriadelledonne.it, 4 febbraio 2023)

Introduzione di Laura Minguzzi della Comunità di storia vivente di Milano


Controra di Katia Ricci è una storia senza aggettivi. La storia è tempo, narrazione del tempo e voglio attirare l’attenzione sul titolo per me molto significativo perché ci dà il là, il punto di vista soggettivo: Controra è il tempo proprio della madre di Katia, quello che lei, Anna, si prende tutto per sé nel paese di Rignano, dove è andata a vivere. Un tempo che tutti sapevano di dovere rispettare. Un intero capitolo porta questo titolo. La storia della madre è già stata scritta da Katia in un libro collettaneo, La Spirale del tempoStoria vivente dentro di noi. Moretti&Vitali,2018, nel racconto Per amore della vita.

In Controra il focus si sposta sul padre, sulla sua “metamorfosi”. Le immagini della copertina rimandano a un dettaglio di un luogo domestico, uno spazio/tempo del secolo scorso. Come prima impressione, un tempo/spazio patriarcale. Il focolare acceso, in primo piano una damigiana per conservare il vino eccetera. Ma non lasciamoci ingannare. Subito come reazione immediata, io ho pensato alla mia infanzia in una casa di contadini, piccoli proprietari, dove c’era il medesimo focolare, il camino dove mia madre cucinava.

La mia relazione con Katia è di lunga data e confesso che la prima volta che l’ho incontrata, mi ha colpito la malinconia del suo sguardo, i suoi occhi verdi e misteriosi. Un enigma che ho sempre desiderato indagare. In questo libro continua l’opera di svelamento. Leggendo il capitolo Il rumore del grano ho rivissuto sentimenti comuni, legati agli eventi della campagna (la trebbiatura nell’aia per esempio) e ai tempi stagionali dell’agricoltura con le incertezze, i timori per il raccolto, le ansie, le sofferenze, a volte le tragedie in un’epoca di mutazioni per la storia italiana, nel dopoguerra.

Voltando pagina e procedendo nella lettura scopriamo che l’autrice ha messo in atto uno dei presupposti teorici della pratica della storia vivente, cioè rompere il silenzio, non è più da parte ma si fa parte, svelando le origini di una relazione tormentata col padre Pasqualino, e l’io narrante si apre a un altro sguardo. È un passo in più. Il libro ci fa fare esperienza del tempo, un’esperienza materiale. La porosità dei differenti linguaggi agiti, immagini incluse, di cui ci parlerà l’artista e amica Donatella Franchi (il libro è corredato da alcune sue immagini), comunicano in modo non nettamente separato i diversi piani del racconto.

Il racconto di una trasformazione interiore

Ne risulta nell’insieme una grande libertà nel narrare una trasformazione dell’autrice rispetto allo scontro col padre, muro contro muro anche su complesse questioni politiche ed economiche che attraversavano l’Italia in quel periodo. Lei, femminista e comunista, vista dal padre come nemica.  Solo dopo avere affrontato le asperità e le contraddizioni nel ripercorrere ed elaborare la relazione con la madre, le è stato possibile andare al nodo col padre: con lo sguardo amorevole della madre, conquistato, adottato, cambiato. Infatti a monte di Controra sta un addestramento, un esercizio per decifrare il sentire proprio con le amiche della Comunità di storia vivente di Foggia.

Senza questo processo di presa di parola e ascolto intimo, questo libro non sarebbe stato scritto, non avrebbe preso forma. Una storia che attraversa luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, rivista, ripercorsa attraverso ricordi scambiati, relazioni con zie, e zii, lettere, fotografie, poesie, in cui l’autrice ci porge tutti gli elementi per approfondire e comprendere le origini del conflitto in un piccolo paese della Puglia, Rignano, dove la madre Anna va a vivere col “principe azzurro”. Un amore reciproco ma contrastato dalla famiglia. Mi ha colpito la lettura delle pagine in cui Katia descrive la felicità del padre, giovane ufficiale a Potenza, quando viene accolto nel cerchio amoroso della famiglia di Anna, la giovane maestra dagli occhi verde smeraldo che portano luce nella sua vita arida di sentimenti, quasi un grembo materno. Trovò nell’amore di Anna, il calore e l’allegria che nella casa paterna non esisteva.

Per amore di lei

Emerge un padre che si ribella per amore di lei alle regole dei matrimoni combinati, un costume diffuso all’epoca fra i proprietari di latifondi nel mondo agropastorale, per accumulare e non disperdere i patrimoni. In famiglia nascono ostilità e contrasti per la disubbidienza di Pasqualino alle regole patriarcali. Una sofferenza causata dalla sua non accettazione del ruolo impostogli dal padre, in quanto unico figlio maschio dopo la morte del fratello maggiore, a cui toccava il compito di portare avanti e incrementare il patrimonio. Scrive Katia: «Mio padre in quella circostanza si rivelò forte e coraggioso. Il soggiorno a Milano gli aveva aperto nuovi orizzonti. Ho sempre apprezzato questo gesto di mio padre, una scelta esistenziale che aveva rotto con l’antica consuetudine. Anche nonna Lucietta aveva fatto lo stesso, un matrimonio di interesse così come la zia, la sorella del padre, causando altre sofferenze e ingiustizie per via della dote. In una lettera Pasqualino scrive dell’ingiustizia subita e accusa il padre, don Pietro, donnaiolo e ignavo, contrario ad ogni iniziativa del figlio, un vero padre/padrone, di averlo trattato come un servo della gleba, per averlo costretto a restare nel latifondo legato a lui da un rapporto di schiavitù […]» 

Un gesto di autonomia, così Katia è in grado di leggere oggi la scelta del padre, intraprendendo con libertà e coraggio la scrittura di Controra. È la verità delle donne. Può farlo, penso io, perché si sente inserita in un orizzonte più grande; in un percorso in cui sono impegnate altre comunità di storia vivente e non solo, una pratica che sfida con qualsiasi strumento, linguistico, fotografico o altro, la storia oggettiva e si assume la scommessa di narrare la storia a partire da sé, dalla esperienza femminile dando voce alla storia annidata in ciascuna/o di noi. Un evento memorabile da collocare nell’orizzonte simbolico della madre.

Katia Ricci, da sempre femminista, ha insegnato a lungo Storia dell’Arte, è cofondatrice dell’Associazione culturale La Merlettaia di Foggia e della Comunità di storia vivente. Ha curato mostre e cataloghi di artisti contemporanei. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La lezione delle tessitrici del Bauhaus, in “Lingua bene comune”, a cura di Vita Cosentino (Città Aperta Edizione, 2006); Charlotte Salomon, i colori della vita (Palomar, 2006); Séraphine de Senlis. Artista senza rivali (Luciana Tufani, 2015); Per amore della vita in “La Spirale del tempo” a cura della Comunità di storia vivente di Milano, (Moretti e Vitali, 2018); Lupini violetti dietro il filo spinato. Artiste e poete a Ravensbrück (Luciana Tufani, 2020)

Donatella Franchi dagli anni ’80 crea libri d’artista e installazioni che ha esposto in Italia e all’estero (Istituto Italiano di Cultura di Washington 2001, Università di Barcellona 2004). Alcuni suoi libri d’artista sono presenti in collezioni come il National Museum of Women in the Arts di Washington, e alla Rhode Island School of Design (Providence, USA). Parallelamente al lavoro visivo svolge un’attività di ricerca e insegnamento sul cambiamento che il femminismo ha portato nel mondo dell’arte contemporanea e nel pensiero sull’arte. Ha pubblicato nei Quaderni della Libreria delle donne Matrice, sull’arte relazionale. È docente al Master di politica delle donne all’Università di Barcellona al centro di ricerca delle donne Duoda. Il suo corso di ricerca attuale si intitola La novità fertile. Esperienza femminile e pratiche artistiche.


(www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2022)

a cura di Laura Minguzzi


Pubblichiamo l’introduzione all’incontro del 26 marzo 2022 tenutosi presso la Libreria delle donne per la presentazione del libro di Vittoria Longoni Madre Natura. La Dea, i conflitti e le epidemie nel mondo greco (2021) edito da Enciclopediadelledonne.it


L’autrice, grecista e femminista, esplora nei testi classici antichi le tracce di una diversa concezione della divinità cosmica e di un orizzonte di valori alternativo al dominio patriarcale. La sua è una voce che come recita il titolo di questo incontro rappresenta una forza che si oppone alle guerre. Ci lega una relazione più che decennale, nata nella scuola, eravamo e siamo insegnanti, basata sull’amore per le lingue antiche e moderne. Quando ho proposto il suo libro non mi/ci aspettava/mo certo di trovarmi/ci in questa situazione di doppia emergenza, la pandemia e la guerra in Ucraina e in questo pericoloso tornante epocale, causato dalla pulsione, soprattutto maschile, a fare schieramenti armati. Noto nell’arena pubblica una profonda difficoltà a fare ricorso al discernimento, qualità umana che fa leva sul primun vivere di radice femminile e materna. Sento una grande responsabilità per il momento storico che stiamo vivendo. La scrittura di Vittoria è ispirata dalla fiducia nella relazione, nella parola e nella mantica.

L’anno scorso alla fine di novembre ho visto uno spettacolo multimediale Resurrexit Cassandra, un monologo di Sonia Bergamasco. Stavamo riprendendo a respirare pur con la mascherina e mi sentivo molto speranzosa. Cassandra risorge e parla: richiamata dalle tenebre, dal buio cui la sua giusta e veritiera profezia l’aveva condannata. È un buon segno mi sono detta: la profezia come provocazione al cambiamento. Costretta oggi a resuscitare per portare un messaggio, pronunciare un ulteriore avvertimento: quello della scomparsa della vita sul pianeta se non ci sarà un autentico e radicale cambio di civiltà. Come recita il titolo di questo incontro La forza che si oppone alle guerre, abbiamo visto una giovane donna di origine russo/ucraina, Marina Ovsyànnikova, giornalista del primo canale della TV di Stato russa che come Antigone, contro il re Creonte, si è esposta con un cartello e una frase che non era uno slogan, ma un grido di denuncia, contro la guerra fratricida in corso e le menzogne di Stato. Ha rotto il silenzio sulla narrazione bugiarda del potere e con la sua forza soggettiva, singolare, ha deciso di risvegliare dal sonno della ragione il popolo russo ed è immediatamente suonato il gong in tutto il pianeta. Il suo gesto di rottura ha fatto il giro del mondo. Una forza simbolica, un altro genere di forza. Non poteva più tacere, ha gridato la verità con grave rischio della vita per sé e per i figli, oltre al licenziamento immediato.

Vittoria Longoni dà alla sapienza femminile dei miti ancestrali una seconda chance. Se sapremo ascoltare e approfittarne. La sapienza arcaica e la manifestazione della libertà femminile possono congiungere ciò che i muri separano, ristabilire l’ascolto dal dentro al fuori. È un’altra forma di forza che si oppone alla Legge brutale dei rapporti di forza, quella distruttiva delle guerre fratricide. La nostra generazione che ha messo al mondo la libertà femminile, fa parlare l’esperienza soggettiva del rapporto con la natura vivente che rifugge da un principio universale astratto ed essenzialista. In quanto pensiero dell’esperienza ci differenzia da, esprime differenza sessuata, non nascondendo la propria origine. Parliamo di un sentire proprio che si annida in ciascuna/o di noi che produce parole sapienti e veritiere, una postura interiore da decifrare e comunicare collettivamente per scrivere un’altra storia. Ciò che scrive Vittoria è sia nuovo che antichissimo.

Nel capitolo La Legge brutale dei rapporti di forza, Vittoria Longoni scrive che non a caso i due termini greci loimòs e limòs (peste e carestia) sono riportati da Erodoto nelle sue Storie a proposito di Creta, quasi come sinonimi. “Poiché i Cretesi avevano partecipato alla guerra di Troia accanto a Menelao, al loro ritorno per punizione divina, furono colpiti da carestia e da un’epidemia. Nel mondo greco anche le epidemie e la peste sono attribuite alla ubris e all’arroganza degli uomini che ricorrono alle guerre per risolvere i conflitti e imporre le leggi e il potere a discapito della Madre Natura o della Dea Madre1 (pag.169).

A proposito di Diotima, i discorsi della “straniera di Mantinea”, nel Simposio, scrive Vittoria, sono un amalgama complesso e lei prova a tradurre dall’originale alcuni passi che trova vicini alla sua sensibilità e consiglia di non interpretarli secondo le teorie platoniche, accostandosi alle espressioni ricorrenti “sia secondo il corpo che secondo l’anima”, in modo che i due ambiti siano connessi e non separati né considerati l’uno superiore all’altro. “L’Amore è un grande demone, daimon in greco, qualcosa di intermedio tra divino e mortale. La sua funzione è di essere messaggero e interprete tra persone umane e divinità. Dato che l’amore è questo, desiderio e tensione […] La sua attività consiste in un partorire nella bellezza, sia secondo il corpo sia secondo l’anima. Tutti gli esseri umani concepiscono, sia nel corpo sia nell’anima. L’amore non è amore del bello, come credi tu. È desiderio di generare e partorire nel bello…”.2

Il ragionamento platonico procede poi per successive astrazioni sempre più lontane dai corpi sessuati. Si propone il raggiungimento di un “termine ultimo” e a questo punto, scrive Vittoria Longoni, non si parla più di Amore come dàimon, come ricerca, che non consente mai del tutto il possesso del bene. Nel suo libro Vittoria Longoni scrive che l’oracolo di Delfi in origine era la sede di una divinità femminile. Lo stesso afferma la storica medievale Maria Milagros Rivera-Garretas in La verità assente della filosofia: la storia vivente3, “…Il tempio greco più celebrato per la conoscenza maschile (il “Conosci te stesso” ndr), quello di Apollo a Delfi, fu un tempio violentemente usurpato, nel secolo VIII a.C. dal patriarcato, alla Grande Dea della Terra, la dea preclassica di Delfi…Era fin dal Neolitico un importantissimo luogo di culto della Dea Madre e di oracolo delle pitonesse, indovine e sibille, dalle cui viscere sgorgavano le risposte profetiche……

A proposito della profezia nel mondo greco, a Femonoe, prima profetessa di Apollo, inventrice dell’esametro, viene attribuita l’invenzione del motto delfico “conosci te stesso”: possiamo quindi supporre un’origine femminile e oracolare anche per la filosofia. Troviamo un testo di Femonoe nel Libro dei sogni di Artemidoro che la descrive intenta a discutere questioni filosofiche. Femonoe si dedicò anche a studi sugli uccelli e all’interpretazione del loro volo, citata da Plinio ne La Storia naturale. Nell’epica e nel teatro antico ha grande rilievo la figura di Cassandra, la figlia di Priamo, desiderata da Apollo, che non volle ricambiare l’amore del dio: ne ricevette il dono della profezia ma anche la sciagura di non essere creduta. 

In sintesi, con le parole di Virginia Woolf accenno al motivo per cui ho ripreso lo studio della lingua greca, ho seguito i corsi di Vittoria per dodici anni e ho potuto leggere i testi in originale: il desiderio della lingua madre, della verità piena corporea, profumata della lingua materna… 

Dal Lettore Comune di Virginia Woolf, un breve saggio dal titolo “Sul fatto di non sapere il greco” Virginia analizza i personaggi di alcune tragedie per esempio il mito di Elettra di Sofocle e il loro linguaggio. Frasi laconiche, semplici esclamazioni di gioia, di disperazione, di odio e le paragona per esempio a Jane Austen che con una frase sostiene tutto il romanzo in Emma: “Io ballerò con lui”.

Si chiede Virginia non sarà forse che leggiamo nei greci ciò che essi non si sognavano mai di scrivere? Non è che scopriamo nella poesia greca non proprio quello che c’è ma quello che ci manca? Dietro ogni riga a volte ci sembra ammassata l’intera Grecia? Una terra non ancora depredata, un mare non ancora inquinato… Ogni parola è rinforzata da un rigore che sembra traboccare dall’ulivo, dal tempio, dai corpi.  La causa di questo splendore è la lingua… perciò è inutile leggere il greco tradotto… Ci mancano i suoni, gli accenti, il ritmo della lingua madre… Con il rumore del mare nell’orecchio (nell’Odissea) attorniati dai vigneti, dai prati, dai ruscelli avvertono meglio di noi la presenza di un fato implacabile e proprio ai greci noi ci rivolgiamo quando siamo saturi di imprecisione e di confusione, saturi di cristianesimo e delle consolazioni, saturi della nostra epoca…


(www.libreriadelledonne.it, 26 marzo 2022)

di Clelia Mori


C’è un momento in cui l’arte diventa politica o invece l’arte è sempre politica? Una difficoltà invisibile nell’inquadrare politicamente l’immagine spunta fuori quasi automaticamente quando si parla d’arte e Katia Ricci mi ha chiesto di scrivere cosa intendo quando dico che “fare arte è politica”.

È un’affermazione che ho fatto nell’incontro su Zoom “Raccontarsi con l’arte e la politica” in cui si discuteva di due libri: “Lupini violetti dietro al filo spinato” e “Le immagini che restano”, che è anche un’esposizione di disegni nella Quarta Vetrina della Libreria delle donne di Milano e riguarda il valore politico dell’opera.

In queste discussioni emerge spesso una spinta emotiva, tutta da indagare: la “difficoltà invisibile” di cui parlavo, a contenere, per condividerlo, il valore simbolico di un’opera. È una spinta che tende a esulare dal linguaggio artistico e a delimitarlo. Ma questo linguaggio non è facilmente delimitabile perché è propulsivo dell’origine di ogni discorso artistico. Il suo alfabeto è posseduto solamente dall’artista. Sta nella sapienza linguistica artistica il potere simbolico di definire da subito l’opera nel suo essere insieme fatto estetico e atto politico.

“Lupini violetti dietro al filo spinato”, scritto da Katia Ricci, contiene i disegni delle artiste deportate del campo di concentramento tedesco di Ravensbrück che sono stati messi nella conferenza, forse con troppo entusiasmo se ragioniamo sulle diverse violenze e non parliamo del valore politico dell’immagine, in relazione con quelli di “Le immagini che restano”, realizzati da Paola Gaggiotti, che rappresentano una violenza subita nell’infanzia. Come filo rosso tra loro, la conoscenza del disegno espressa in modi singolari per la varietà delle artiste. Disegni dal passato insieme a disegni del presente. Un passato e un presente violenti che inquietano nel decifrarli. Entrambe le autrici, una scrittrice e l’altra disegnatrice, erano presenti e hanno raccontato il loro legame con le immagini, ma una sola di loro era anche autrice di una parte delle immagini proposte.

E qui il discorso su arte e politica si è ingarbugliato soprattutto rispetto alla possibilità di determinare se l’arte, oltre ad aiutare a raccontarsi, sia anche politica. Non si è riuscite ad affermarlo se non parzialmente. Per Francesca Pasini, curatrice della Quarta Vetrina, pare occorrano precise condizioni di tempo, presenza e luogo perché si possa “probabilmente” definire politica l’arte: «non sempre» ritiene lo sia perché «arte e politica non è una ricetta, va costruita», ma da chi se non dall’artista? È qui, per me, che il discorso si è ingarbugliato: quando lei ha parlato della relazione sul tempo presente e su quello passato e ormai lontano, sulla presenza di una sola artista (ma le altre non potevano), sull’esposizione in un luogo preciso (ma i luoghi e i tempi sono tanti e l’estetica e la politica passano anche da lì), sulla politica delle relazioni e la relazione dell’artista con la sua opera e il mondo, sulla violenza nelle sue varie espressioni maschili sapendo che, però, Ravensbrück la delegava alle Kapò. (Video Zoom di “Raccontarsi con l’arte e la politica” 22 maggio 2021: sito Libreria delle donne di Milano o su You Tube).

Raccontarsi con l’arte e la politica è un gesto che avviene in presenza, ma avviene, ed è importante affermarlo, quando le opere sono già state fatte. Le opere, nuove o vecchie che siano, sono sempre contemporanee a chi le guarda e anche l’artista lo è, se lo si sa vedere, perché parla coi suoi segni. Se se ne parla è perché i lavori sono lì, presenti, esposti davanti a noi e ci stimolano. Se poi c’è l’autore o l’autrice è un dono in più dell’arte, che ci ha fatto ri-conoscere l’artista nel momento in cui propone la sua opera.

Raccontarsi con l’arte e con l’aiuto della politica può accadere solo perché qualcuno o qualcuna si è già espressa con le sue “pratiche artistiche”, come le chiama Donatella Franchi. Le pratiche artistiche sono il linguaggio che un artista sceglie per rappresentare con segni non alfabetici una forma visiva. E, quando pratica, l’artista è solo o sola a fare. Nessun altro o altra può fare per lei. Nessun altro può rendere visibile un’immagine che esiste solo nel desiderio personale. Si tratta di sentire. Sentire dentro l’immagine che vuole andare a vivere fuori. Si sente ancora prima di immaginare, pensare, dire o raccontare. E questo sentire si scava piano piano il suo varco per venire alla luce.

Non è detto che le pratiche artistiche/politiche una volta decodificate siano subito riconosciute, ma non è importante perché i segni le hanno già scritte, sintetizzate in luci e ombre nello spazio per parlare alla sensibilità di chi le guarderà.

L’artista parte sempre da sé e dalle sue relazioni col mondo e il suo esprimersi è interpretato in modo variabile col passare del tempo e di chi l’osserva, come ha ben dimostrato Katia Ricci nel suo libro che, partendo dai disegni delle artiste di Ravensbrück, è arrivata alla vita della sua famiglia e delle sue donne, in Puglia, rompendo l’abitudine ormai istituzionale a un solo tipo di racconto sui campi di concentramento. Katia ha reso, come è normale, le autrici e i loro disegni contemporanei a lei, ai lavori di Paola Gaggiotti e a noi che ne stavamo parlando e ha dato un’altra impostazione politica ai disegni di Ravensbrück: li ha resi più duttili alla realtà del mondo esterna al campo.

Un artista, nella sua solitudine, sintetizza un mondo di parole in segni che contengono un prima, un durante e presuppongono un dopo. Il prima e il durante sono le sue relazioni di vita. L’artista non si stacca mai da sé, è impossibile volerlo e le sue relazioni lo inseguono. Se si desidera condividere il suo lavoro esecutivo perché si è fatto parte delle sue relazioni si toglie all’artista parte del valore politico della sua produzione, lo si attribuisce ad altro, esterno, e si rende incerta la sua arte e il suo linguaggio. La relazione con l’artista è sempre un elemento esterno all’opera che lavora invece come input al dialogo politico. Sono momenti politici differenti il “fare” e il “parlare del già fatto”: uno è interno all’opera, l’altro è esterno e l’esposizione e il dibattito vengono sempre dopo. Non si può parlare di un disegno che non c’è.

Un’opera non nasce mai nel vuoto del bianco della tela o della pagina. È già nella testa dell’artista, anche senza forma, e man mano nella sua testa si costruisce e Paola Gaggiotti ci ha raccontato come ha scelto di disegnare, di far nascere le sue immagini partendo da quelle che le erano rimaste più chiare in testa. A un certo punto l’artista sa che deve affrontare il vuoto della tela, del foglio o di un altro supporto e lo trasforma perché è arrivato il momento di dire quella cosa, comprensibile o incomprensibile che sia agli altri e alle altre. Quanto l’opera sarà capita lo dirà il tempo, la sensibilità di chi vede e questo forse non è neppure importante quando nasce l’urgenza di dire… Diventa importante dopo. Lo stesso recupero storico dell’arte femminile e la costruzione ancora faticosa e incompleta di una genealogia artistica femminile – Tomaso Binga, ormai novantenne, una delle poche grandi artiste ancora viventi, non è presente nella mostra “Io dico Io – I say I” alla GNAM di Roma – ci dicono del bisogno di sensibilità e di cura intorno all’arte in genere e in particolare a quella delle donne. Matrice, il libro di Donatella Franchi, ha cercato di dircelo.

Alla luce di tutto questo, non possiamo essere noi, di fronte all’opera, ad affermare che se non ci sono certe condizioni di tempo, presenza e luogo quell’opera non è politica e, se invece ci sono, allora diventa politica.

Se lo affermiamo, nella convinzione che sia necessario un raffinato ragionamento che aiuti una certa pratica artistica ad emergere, automaticamente, lavoriamo per togliere dignità politica ai linguaggi artistici, compreso quello dell’autore o dell’autrice a cui ci riferiamo. Il motivo è semplice: viene a mancare la possibilità del riconoscimento della dignità della parola/segno che sta alla base del fare artistico. Si sposta all’esterno dell’opera parte della sapienza artistica e questo non può accadere perché essa sta sempre e solo dentro. Ovviamente stiamo parlando di «immagini che si possano definire tali» perché affermano «una parte della verità della realtà», il loro “montaggio” è poi il compito della critica (Francesco Ferrari, Un certo modo di sentire qualcosa, Antinomie 2021).

Le immagini e le situazioni si sentono. E se non si sentono bisogna mettersi in attesa ad aspettare di sentirle, non occorre sovrapporvisi. Di questa postura del sentire parla María-Milagros Rivera Garretas nel video della Libreria delle donne sul suo libro Emily Dickinson, vita d’amore e di poesia. E ne scrive Didi Huberman in Sentire il grisou a proposito delle immagini. Sentire è il termine che ci serve per capire e fare l’arte.

Una volta che l’opera è terminata ed è pronta a camminare in mezzo alla gente, nel tempo di ogni luogo che la ospita, allora lì nasce l’altra politica: la pratica politica di chi osserva più o meno magistralmente.

La forza dell’arte, e soprattutto quella delle artiste, sta nel riconoscere la loro sapienza linguistica indipendentemente da tutto quello che le circonda, perché un luogo in cui sono nate le loro opere c’è: è nella loro testa ed è una sintesi di sensibilità, desiderio, piacere, paura, felicità, dolore e tutto quello che l’umano sentire femminile permette di esperire nel piacere del possesso di un altro linguaggio espressivo che va oltre la parola, arriva sempre prima di lei e la contiene già.

Lo sappiamo guardando la funzione dell’arte nell’uso che ne ha fatto e ne fa qualsiasi potere e lo sappiamo la mattina quando ci svegliamo e ci guardiamo intorno per capire dalle immagini che ci circondano chi, cosa e dove siamo, per rimetterci in piedi, continuare quello che abbiamo lasciato in sospeso il giorno prima e andare avanti nei nostri progetti. Oggi che ci siamo date, da molto, il potere di decidere quello che vogliamo rappresentare e come farlo, firmandolo, non possiamo tornare indietro per nessun motivo esterno a noi. Ne va della nostra verità dell’arte come artiste.


(www.libreriadelledonne.it, 20 giugno 2021)

di Caterina Diotto, Laura Minguzzi, Mariateresa Muraca, Anna Maria Piussi, Chiara Zamboni [1]


Report dell’incontro in libreria il 24 aprile 2021, rielaborato da Maria Teresa Muraca e pubblicato su Educazione Aperta – Rivista di pedagogia critica, 15 maggio 2021


Laura Minguzzi: il libro di Chiara Zamboni Sentire e scrivere la natura ha attirato il mio sguardo appena entrata in Libreria. Un saggio che si legge come un romanzo filosofico che tocca diversi piani della realtà attraversando e collegando in profondità differenti linguaggi. Gli ambiti trattati sono tanti, uno spaziare ampio e profondo che si radica nel presente e ci sollecita, spingendoci a ripensare un percorso soggettivo, attraverso figure indimenticabili e incancellabili della letteratura, della politica, della filosofia, della scienza e della storia (Ingeborg Bachmann, Meister Eckhart, Anna Maria Ortese, Laura Conti, María Zambrano, Maurice Merleau-Ponty e altre), che abbiamo incontrato nel nostro cammino, conosciuto, letto o studiato e alle quali ci siamo ispirate. Laura Conti per esempio nel bel capitolo che le dedica Chiara Zamboni è per noi la madre fondatrice del movimento ecologista, poiché si è posta come figura di connessione fra l’orizzonte simbolico della madre e l’orizzonte simbolico della natura, incarnando il suo sapere scientifico con l’amore per il vivente con tutti i suoi limiti.

Mariateresa Muraca: a Laura Conti infatti sono dedicate alcune pagine molto belle del libro, in particolare quelle in cui si approfondisce il «taglio sessuato […] delle forme umane di partecipazione con la natura […] che ci impegnano in scelte di pensiero e politiche» [2] (p. 58). Come anticipava Laura, queste pagine sono attraversate da una parola, che cattura e allo stesso tempo spiazza, suscita molti interrogativi. È la parola “amore” che tu, Chiara, riprendi da una riflessione di Questo pianeta [3], in cui appunto Laura Conti afferma di essere motivata nel suo impegno ecologista non da questioni etiche ma dall’amore per la vita nel suo insieme, «amo il sistema vivente, voglio proteggerlo» dichiara. Dunque, scrivi dell’amore come il perno della conoscenza e dell’azione politica di Laura Conti; un orientamento nei confronti del mondo che «accetta sia le parti buone che quelle negative», sia le reazioni aggreganti che favoriscono il rilancio del vivente sia le reazioni disgreganti; una posizione simbolica che fa vivere il paradosso per cui noi amiamo il mondo dall’interno, lo consideriamo nel suo insieme e contemporaneamente siamo del mondo. Il tema dell’amore comunque è presente in tutte le pensatrici con cui dialoghi. Di Anna Maria Ortese argomenti la condizione preconoscitiva e il lato invisibile dell’amore per il mondo, che è proprio dell’esperienza di partecipazione comune alla terra – intesa come corpo celeste, parte di una galassia a sua volta in relazione con altre galassie.  Rispetto a María Zambrano ti soffermi sulla qualità individualizzante dell’amore, che vincola alla singolarità di ogni cosa (quella foglia, quella casa, quel blu del quadro, quel prato di periferia), senza consumarla proprio perché tiene vive le differenze. Un passaggio che fa riflettere è quello in cui, scrivendo di María Zambrano e Maurice Merleau-Ponty, affermi: «entrambi sono impegnati filosoficamente a dare voce al mondo e a fare della scrittura il luogo di espressione del legame vivente con la natura. […] Merleau-Ponty per fedeltà al mondo […] Zambrano per amore» [4].

Chiara Zamboni: mi è sempre stato difficile adoperare la parola amore, perché può essere adoperata in modo molto superficiale. Tuttavia molte grandi filosofe del Novecento ne hanno fatto il fulcro del loro pensiero: Edith Stein, Simone Weil, Hannah Arendt, María Zambrano e anche scrittrici che qui cito: Ortese, Bachmann. In più scienziate come Laura Conti, Barbara McCklintock e filosofe della scienza come Evelyn Fox Keller. Prima di scrivere questo libro non avrei mai pensato di introdurre il tema dell’amore parlando della natura. Ma mi sono trovata costretta a farlo alla fine del libro perché sono loro ad avere questa posizione. E ne ho preso atto. E allora ci si può interrogare su perché queste grandi pensatrici abbiano avvertito la necessità di fare riferimento all’amore per parlare del mondo. È un passaggio simbolico, che ha a che fare con l’accettare tutto ciò che appartiene alla natura e al mondo, senza dare un giudizio. Amore indica il passaggio simbolico per descrivere questo accogliere che non è puramente contemplativo, ma ci lega e ci impegna. D’altra parte il limite (e la forza) di tale disposizione simbolica è che non la si può imporre a nessuno. Non è normativa. Non è un valore etico a cui educare. È una posizione, che sappiamo porta ad una serie di effetti trasformativi del nostro rapporto con il mondo. Ora, è vero che Merleau-Ponty parla invece di fiducia nei confronti del mondo e di fedeltà al rapporto che si ha con esso. Merleau-Ponty aveva una posizione di pensiero che riconosceva espressamente la propria dipendenza maschile dal materno. Bene, penso che l’accettazione di una radicale dipendenza dal materno porti più al sentimento della fiducia che a quello dell’amore. È per questo che Merleau-Ponty parla di fiducia e fedeltà alla Terra. Non di amore.

Caterina Diotto: nella scrittura e nella pratica di pensiero di Laura Conti c’è un altro concetto che mi ha affascinata e che vorrei approfondire: l’energia. In Ambiente Terra [5] Laura Conti presenta quella che Chiara ha chiamato una “visione di sistema”. Un sistema che non si isola nell’astrazione ma è sempre sistema vivente, in cui tutti siamo calati e a cui tutti partecipiamo. Il concetto di energia rappresenta una forza che permea tutto questo sistema e lo innerva mostrandosi in forme diverse tra loro: energia termica, energia elettrica, energia meccanica, luce. Per Laura Conti un pensiero che sia davvero “ecologico” deve riuscire a “tenere insieme” processi apparentemente molto lontani fra loro, e questo è possibile solamente considerando l’energia come processo trasformativo trasversale a tutto. Solo analizzando la produzione industriale e agricola, l’utilizzo delle risorse e le tipologie di risorse impiegate, il lavoro e l’entropia attraverso la chiave dell’energia saremo in grado di comprendere il reale costo ecologico dei processi produttivi rispetto al sistema vivente, perché solo attraverso l’energia i processi sono interconnettibili. Ho trovato questo concetto di energia e il cambio di prospettiva che porta con sé – che risale ormai alla fine degli anni ’80 – un colpo di genio, una chiave di lettura nuova che apre un orizzonte di comprensione pratica del mondo più complessa, molteplice e articolata. In Sentire e scrivere la natura viene messa in luce la novità di questa concezione. Tuttavia ho avuto anche la sensazione che questo concetto di energia come continua trasformazione rappresentasse uno dei “fili rossi” che percorrono e collegano insieme l’intera riflessione del libro, una chiave di lettura che permette di considerare la molteplicità delle autrici e degli autori trattati non come un insieme frammentario ma come le “forme” temporanee che il rapporto di pensiero dell’essere umano con la natura ha assunto. Chiara, vorrei chiederti cosa pensi di questa mia interpretazione.

Chiara Zamboni: prima della tua domanda non avevo pensato che in effetti il concetto di energia, che Laura Conti mette al centro come chiave per leggere i fenomeni del cosmo nel suo insieme, è qualcosa – un’intuizione – che mi ha guidato nello scrivere il libro. Non ridico quel che hai già detto sull’energia nel nostro cosmo. Dico solo che Laura Conti ha formulato interventi politici in parlamento per favorire quelle azioni che possiamo compiere che siano aggreganti di energia e ostacolare tutto ciò che porta alla degradazione dell’energia. Potremmo valutare ad esempio il progetto politico dei Verdi in Germania oggi con questi parametri. Ora, in effetti nel libro ho valorizzato tutte quelle figure che fanno riferimento a una energia in divenire, natura naturans nel suo essere generante, dinamica. Così in Zambrano penso ai semi di luce generanti nella natura. Hanno a che fare con la parola vivente che ha questa capacità di mettere al mondo, e hanno a che fare con una ragione materna. In Merleau-Ponty mi riferisco ad esempio alla figura della deiscenza: cioè la realtà in divenire è come un frutto che si dischiude e i semi si diffondono. In Ortese sono le cose stesse ad essere in continuo divenire, in trasformazione, mai identiche a sé stesse. In questo senso l’energia aggregante, generante, è uno dei fili conduttori del libro: la natura naturans nel suo movimento di dischiudere, fiorire, iniziare sempre di nuovo. Dove le stesse cose e noi siamo presi da questo movimento. Da questo divenire.

Caterina Diotto: mi ha colpito molto anche il concetto del sentire, che introduci fin dalle prime pagine. «Sentire è più del percepire. Succede quando si avverte che il fatto percepito è onirico e in divenire. Quando nel percepire insistono il passato e il presente avviato al futuro. Mi riferisco all’esperienza comune per la quale in questa erba secca dell’estate sentiamo l’odore dell’erba secca di altri luoghi e altri anni passati e che verranno. E quando la casa di oggi è anche la casa sconosciuta incontrata nei sogni» [6]. Leggerlo mi ha fatto ripensare a una frase di Ingeborg Bachmann nella prima conferenza delle sue Lezioni di Francoforte, che hanno il titolo collettivo di Letteratura come utopia: «Nel migliore dei casi, al poeta riusciranno due cose: rappresentare, rappresentare l’epoca sua, e presentare qualcosa per cui il tempo non è ancora venuto» [7]. In questa frase Bachmann racchiude per me l’anelito trasformativo e politico della letteratura, la capacità di presentare qualcosa per cui il tempo – che interpreto più come il tempo della codificazione simbolica della cultura – non è ancora venuto. Qualcosa di nuovo, che non si è mai detto prima. Ma come si fa a dire qualcosa che non si era mai detto prima, dove si fonda questa capacità trasformativa dell’arte? Quest’apertura all’inatteso, che ha una forte valenza politica oltre che conoscitiva? Se questa apertura non fosse possibile, vorrebbe dire che siamo in grado di guardare solo indietro, mai avanti. Allora molti hanno già scritto di questa capacità dell’arte, ma raramente si è parlato del come questo sia possibile, come avvenga, dove si origini. Leggendo Sentire e scrivere la natura ho pensato che il concetto di sentire potrebbe costituire una risposta a questa domanda perché rappresenta una condensazione, un intreccio di rimandi fra elementi consci, inconsci, reali e onirici, passati e presenti “avviati al futuro”, come scrivi. Vorrei chiederti se ti riconosci in questa interpretazione.

Chiara Zamboni: per risponderti partirei dalla scrittura. È centrale nel libro la scrittura in rapporto al sentire. Ho fatto riferimento a quelle scritture letterarie e filosofiche in cui la lingua adoperata è materna, poetica e accompagna le cose. Le cose tendono ad esprimersi e la lingua prende e rilancia tale espressione. Le cose si mostrano quasi balbettando nella tensione ad esprimersi. Ogni cosa ha risonanza. Ad esempio, se sovrappensiero tamburelliamo sul tavolo, il tavolo risponde alle nostre dita con il tatto – è elastico – e risuona di piccoli suoni ritmici. Quando sentiamo in questo modo il tavolo – il tavolo che risponde al tatto, che risuona nel tamburellare, che è nel tempo e si trasforma – siamo dentro una relazione viva con il tavolo, molto diversa dalla percezione oggettiva. Infatti diciamo che sentiamo il tavolo nelle sue risposte al toccarlo. In più la relazione tra me e il tavolo è tessuta di inconscio. Un inconscio che qui intendo come qualcosa che fa parte integrante della nostra partecipazione al mondo e alle cose. Dunque un inconscio non rimosso, ma un inconscio che fa tessuto, legame tra me e le cose. Tra me e le altre e gli altri. Sappiamo che i sogni, che sono la porta principale dell’inconscio, ci fanno entrare in case dove ci sono tavoli che conosciamo, ma che hanno un’atmosfera inconsueta. È lo stesso per le città che abitiamo. Ci svegliamo e ci chiediamo: che vorrà dire quella atmosfera nella città di sempre, ma altra dal solito? Era la città che conosco bene, ma perché era così diversa? Sentiamo che c’è il presentimento di qualcosa. L’imminenza di qualcosa che sta per avvenire. Le esperienze più vive della realtà mostrano più facilmente questa atmosfera inconscia, che pure c’è abitualmente. Ci mettono sul chi vive. Qualcosa sta per accadere, che l’esperienza segnala. È il pre-sentimento, il sentire prima che qualcosa diventi conoscenza. È segnale, traccia di futuro molto prossimo. La scrittura poetica – sia letteraria sia filosofica – non solo accompagna le cose ma riprende il loro gesto di significare, di dare un segnale, una traccia. Perché non è una scrittura soggettiva rispetto a una cosa da descrivere oggettivamente. E dunque, alcuni testi di Bachmann fanno proprio questo: riprendono la dimensione inconscia delle cose, l’aspetto per cui le cose alludono, danno segnali, attirano la nostra attenzione per significare qualcosa di presente e allo stesso tempo imminente. Ma non solo Bachmann, ovviamente. Mettersi in sintonia con questo modo di sentire le cose, legato all’inconscio e al linguaggio poetico, richiede un altro paradigma, che metta da parte la disposizione soggetto-oggetto e dove la ragione ha radice nel sentire attraversato dall’inconscio. È questa una delle principali scommesse del libro.

Laura Minguzzi: in Luogo eventuale, Ingeborg Bachmann [8] è testimone della malattia di Berlino. Può vedere e mostrare l’inquietudine della città, la sua difformità. La costruzione del muro taglia l’est dall’ovest della città, operando una violenza che incide gli animi. Il nodo essenziale è che essi negano questa ferita, non la vedono. In questo passaggio è già racchiuso il nucleo filosofico più importante del testo. Ogni accadimento è degno di attenzione, l’io che scrive non è più un soggetto contrapposto alla storia. Il mondo è mostrabile a partire da un io che non offre alcuna prospettiva identitaria ma si fa specchio di un esterno in divenire, le cui forze lo attraversano. Da un lato l’io si fa specchio della realtà. L’io si fa nulla, si scioglie nella realtà e dall’altro si differenzia e ne fa conflitto. È un paradosso tipico del linguaggio mistico ma lo si sperimenta anche quando si vuole parlare della natura. Lo stile di scrittura che segue è la strada per far vivere a noi lettrici e lettori una città malata dall’interno, folle in quanto nega la realtà e si trincera in un’armonia fittizia… La percezione per il lato inconscio del sentire porta con sé strati naturali e storici intimamente connessi.

Anna Maria Piussi: questo è un filo di interesse che ho seguito nel percorrere il libro e che rimanda a scritti precedenti di Chiara, in particolare al saggio Sentire, nel libro collettaneo da lei curato La carta coperta [9], ma anche alla messa a tema dell’inconscio come passaggio ineludibile per l’articolazione di nuove vie simboliche e politiche, in lavori anteriori. Proprio nel periodo di uscita di Sentire e scrivere la natura, mi stavo cimentando sul “sentire” e “scrivere” come questioni epistemologiche e politiche. E questo, in particolare, mentre curavo l’edizione italiana di un libro dal titolo Segnali di vita [10] di un’autrice argentina impegnata a sperimentare forme di pensiero e di scrittura in grado di far sentire con tutti i sensi l’accadere delle cose, i movimenti trasformativi di sé e del mondo della scuola, nel dare conto pubblicamente, ma non convenzionalmente, di pratiche educative innovative da lei attivate insieme con altre. Da anni, non da sola ma con altre, sono alla ricerca di un linguaggio e di una scrittura che mostrino, non dimostrino, l’evidente, quell’invisibile che emerge alla visione quando l’esperienza si allarga e si intensifica grazie all’attenzione fluttuante, al sentire tra conscio e inconscio. Linguaggio e scrittura che restituiscano al mondo degli scambi umani – in primo luogo l’educazione e la formazione, ma anche la politica – la consistenza di un reale vivo, trasformativo, in divenire, nei suoi lati di luce e di ombra, comunque non oggettivabile in descrizioni, spiegazioni, interpretazioni. In modo da far sentire e far vivere in presa diretta gli accadimenti da parte di ascolta o legge, attivandone il desiderio di mettersi in gioco nel divenire del tessuto visibile e invisibile del mondo, ma senza cadere nel mito ingenuo dell’immediatezza e della naturalità, che, come nota Chiara soprattutto a partire dalla “seconda” Ortese, alla fine coincide con il già codificato nei significati dominanti. Da tempo anche nelle scienze umane si va affermando il paradigma ecologico, della complessità, che si proclama centrato sulle interconnessioni, ma spesso scade in un razionalismo  riduzionistico, dimentico della necessità, per il soggetto conoscente e pensante, di una sperimentazione esistenziale, di quella trasformazione che consenta di riconoscere i propri legami con il mondo, di essere appartenenti al e dipendenti dal sistema che si intende conoscere (e che mai è del tutto oggettivabile e spiegabile), a partire dal radicamento nel corpo sessuato anche nel suo lato inconscio e onirico. Se il sentire con tutti sensi e con attenzione coinvolta, amorosa e aperta alla presenza delle cose, delle persone e del mondo, è la via previlegiata di quel realismo onirico nel conoscere e nel “sapere con tutta l’anima” prossimo all’esperienza femminile, che procede per risonanze secondo una ragione poetica di matrice materna (v. María Zambrano), questo sentire si accompagna a una dislocazione simbolica ed esistenziale anche nel linguaggio: da qui la necessità di trasformare la relazione che abbiamo con la lingua, trasformando la lingua stessa. Prendendo le distanze da una relazione strumentale con le parole, hai fatto riferimento all’“ecologia della lingua” di cui parla Anna Maria Ortese in Corpo celeste: una cura della lingua necessaria alla precisione dell’esprimere, ma attenta a non perdere né il sentimento dell’insondabile né il logos della singola cosa nel suo divenire. È per questo che fin dalle prime pagine del tuo libro (e senza spiegazioni: da qui lo spaesamento iniziale!), troviamo una costellazione e una moltiplicazione di nomi e di figure come terra, suolo, cose, natura, mondo, vita… non del tutto separate ma neppure intercambiabili; e che solo a un certo punto della lettura riconosciamo essenziali a quel tuo linguaggio laterale che nella scrittura costeggia il fluire delle questioni da te vissute e pensate (senza mai pretendere conclusioni definitive), e ci chiama a spostamenti del pensiero mentre ci rivela l’inquietudine di una ricerca a cui ci inviti a partecipare?

Chiara Zamboni: sì, ho cercato di evitare le definizioni del tipo “questo è il significato di Terra”, “questo è il significato di mondo”, “questo è il significato di Natura”, “questo è il significato di vita”. L’ho fatto consapevolmente. Sono concetti che si rimandano l’uno all’altro in una costellazione, dunque sono legati, ma non sono sinonimi né interscambiabili. La Terra rimanda alla solidità del passo che vi cammina con fiducia; la natura a qualcosa di generante a cui possiamo fare singolarmente riferimento per continuarne l’opera; il mondo al nostro stare in relazione e così via. Ognuno ha una sua tonalità, per cui non sono sinonimi, ma prendono significato gli uni dagli altri. Ho trovato anche molto interessante proprio quello che tu riferisci di Ortese: l’invito ad una ecologia delle parole sullo stesso piano di una ecologia del vivente. Attenzione alle parole come a tutti gli esseri. Quando parla di ecologia delle parole, Ortese non intende una esattezza rigida, ma un’esattezza che è tale perché si adatta al divenire delle cose e dei contesti. Non a caso proprio lei usa tante parole diverse per dire di certe cose, perché sono le cose a cambiare continuamente, ad essere in divenire. L’esattezza nasce dall’essere fedele ai cambiamenti dei contesti.

Laura Minguzzi: è significativo che Ortese sostenga che l’amore per la natura è ponte per il paziente lavoro della cultura che lega cosmo ed essere umano. In altre parole occorre paradossalmente curare la lingua, se si ama la natura. E viceversa. Abbiamo bisogno di un’ecologia della lingua. Una lingua impoverita fa smarrire il senso delle cose e dei nomi, la pratica della scrittura aumenta il senso di realtà della Terra. Come è stato già accennato, il pensiero di origine femminista ha duramente criticato il sottrarsi del pensiero razionalista da ogni dipendenza nei confronti della natura e da ogni riconoscimento dei debiti verso ciò che ci ha permesso e ci permette di vivere, la madre prima di tutto. Attraverso “la porta stretta” del riconoscimento di tali dipendenze può avvenire la significazione libera di quel che siamo e sentiamo in rapporto alla natura. La presunzione di pensare di controllare il sistema vivente è effetto della mancanza di riconoscimento del fatto che ne siamo dipendenti. Solo collocandoci dentro al sistema e non all’esterno oggettivandola possiamo comprenderla. Una transizione ecologica si può realizzare se incarnata in ciascuno, ciascuna di noi. Chi è la Terra? La terra siamo noi. Una linea continua tra me e lei, senza contrapposizioni o dualismi intercambiabili o sostituibili.  Per far capire il salto concettuale che ci solleciti a fare nell’accostarsi alla natura, tu adoperi un insieme di immagini che viene dalla cultura persiana mazdea e da Zoroastro, che Zambrano conosce bene. Il passo più significativo della concezione della natura a cui questa cultura ci invita, è quello di non chiederci che cosa sia la Terra, ma chi sia la Terra.

Chiara Zamboni: stare alla domanda «Che cos’è la Terra?» ci pone nella posizione di chi vuole conoscere un oggetto e lo descrive. La Terra risulta allora un oggetto di conoscenza e basta. È bene notare che porsi la domanda «Chi sia la Terra?» non significa ribaltare un oggetto in soggetto. Non si tratta di considerare la Terra come un soggetto a pieno titolo accanto ad altri soggetti. Al limite portatore di diritti, come alcune correnti ecologiche affermano. Saremmo ancora nel paradigma culturale moderno dove c’è un soggetto e un oggetto, e dove ci sembra di aver cambiato chissà che portando la Terra da oggetto a soggetto. Invece nella cultura persiana mazdea, una cultura medievale, la Terra porta con sé una forma “immaginale” che esiste da sempre per suo conto e contemporaneamente è in un processo trasformativo che in parte dipende da come noi ci rapportiamo ad essa. È in divenire e chiama noi ad esserci, partecipando alla sua trasformazione. Esiste un circolo tra la Terra e noi. Possiamo tradire questo richiamo oppure possiamo assecondare il divenire della Terra e di tutti i suoi esseri «facendola ancora più bella», come è scritto nei testi mazdei. Proprio perché l’essenza “immaginale” della Terra è sì eterna, ma nel suo divenire ci impegna per intensificare la sua qualità esistenziale. Veniamo coinvolti nella sua trasformazione. Zambrano rende più contemporanea questa concezione attraverso una visione più materialista di quanto non fosse quella persiana medievale. Ma di un materialismo qualitativo dove il Chi è la Terra porta attenzione alla molteplicità delle cose del mondo. Al loro modo qualitativo di darsi. Attraverso il nostro sentire, in cui è coinvolto il corpo, la carne, tutti i sensi (udire, toccare, vedere, gustare). È questo il modo che lei suggerisce per contribuire alla qualità della Terra nel suo divenire, per una trasformazione che dipende in parte da noi e dal nostro coinvolgimento sensibile sensoriale. Emerge una idea di ragione radicata nel sentire. 

Mariateresa Muraca: l’attenzione a livelli diversi, compresenti, della realtà, e quindi alla dimensione sognante, onirica e inconscia apre a uno spazio in cui l’essenza delle cose si intensifica ed è possibile cogliere nessi tra creature, che sfuggono ad altre forme di comprensione. Ne scrivi in modo molto bello, quanto di soffermi sul sentire originario che – come spieghi – è un termine intenzionalmente adoperato da Zambrano al posto di inconscio. Scrivi: «In Dell’Aurora Zambrano non richiama, come invece fa altrove, la legge simbolica paterna, che separa e distingue. In questo senso porta la scrittura sulle tracce di un’esperienza sognata e reale allo stesso tempo, in cui ognuno ha una collocazione, che però è misurata da un ordine profondamente diverso dall’ordine della legge. […] Quando tratta della natura come in Dell’Aurora, ne sottolinea l’impronta materna, perché vi è alluso un ordine, che non ha bisogno della legge dell’individuazione. È nel tessuto simbolico materno che il limite tra l’onirico e il sogno è poroso, e per questo è possibile un va e vieni tra l’umano e le cose, tra l’essere umano e l’animale, il vegetale» [11]. L’attenzione per la dimensione inconscia quindi consente di mettere in luce l’asimmetria femminile, come il di più del pensiero delle donne rispetto al riconoscimento delle interconnessioni proprio dell’ecologia. Queste connessioni, infatti, sono espresse e significate dalle donne con uno «sguardo altro, sostenuto dagli aspetti fantasmatici, inconsci, che […] sperimentano con il corpo. Il corpo non è mai davvero “proprio” ma in relazione alla madre alla nascita e al rapporto con altre donne. Il corpo nella generazione. Un corpo aperto costitutivamente all’altro. Infinitamente. Tra simbolico e immaginario» [12].

Chiara Zamboni: è importante avere molta attenzione a una dialettica da trovare sempre di nuovo tra il discorso ecologico, che vede giustamente interconnessioni e relazioni di cui noi facciamo parte, da un lato, e dall’altro l’esperienza femminile di queste interconnessioni. Noi non parliamo di queste interconnessioni del sistema come fanno gli ecologisti cioè come se si guardasse la terra da fuori, da un pianeta lontano. Come se ci si potesse estraniare dai legami contingenti che abbiamo con questo grande tessuto di interconnessioni e vederlo come se fosse un grande oggetto visto dall’alto. Perché ciò che caratterizza il nostro discorso è che, proprio perché ne facciamo parte, ne parliamo dall’interno, a partire dalla nostra posizione. Noi sentiamo le relazioni, e in questo sentire tutto il nostro corpo è coinvolto, tanto è vero che si parla impropriamente di “nostro” corpo perché in realtà è aperto agli altri, alle cose, e questo proprio fin dalla nascita, perché siamo venute e venuti al mondo in relazione alla madre e il processo di soggettivazione avviene a partire da questa relazione iniziale costitutiva. L’esperienza femminile è particolarmente legata al corpo, al suo lato inconscio attraversato da fantasmi e sogni e dai fili invisibili che ci legano agli altri e alle cose. Restando fedeli al corpo, si è fedeli ad una soggettività femminile che si rapporta al mondo con le sue interconnessioni a partire da sé e non dall’esterno, solo guardando il sistema di connessione come oggetto. Come abbiamo imparato nelle pratiche femministe a parlare del nostro corpo soggettivamente e tenendo conto del nostro sentire, così occorre tenere sempre ben presente il filo di questa esperienza soggettiva della natura e del cosmo, per non perdere la qualità in più della nostra conoscenza. E la scommessa sta proprio nel mostrare che non si tratta allora da parte delle donne di relativismo soggettivo, né di chiusura in una identità. Anzi, l’opposto. Perché il sentire fa risuonare i legami con il mondo mettendo in campo conoscenza, percezione e inconscio. Molto di più e di più complesso della semplice conoscenza oggettiva.

Laura Minguzzi: ti pongo anche una domanda sull’autorità femminile. Il sentire è ciò che ci mette in rapporto con l’esperienza, che è potenzialmente significante, e che però ha bisogno di essere dipanata per divenire simbolica. Affinché l’esperienza si dispieghi nel discorso c’è bisogno di assumere autorità per poter dire alcune cose lasciando in silenzio altre, per sapere cosa dire e cosa tacere, dato che l’esperienza è un bene fragile, che può essere distrutto sia interpretandola senza residui, come se non avesse niente di enigmatico, sia distorcendola in significati che la tradiscono.

Chiara Zamboni: il sentire è al centro di questo libro. È il sentire con tutti i sensi, attraversato dalla dimensione onirica, inconscia. Noi sentiamo quando un’esperienza che ci accade è per noi fondamentale, rivelativa. Porta con sé qualcosa che ci attira e che non conosciamo in anticipo. Per questo ha qualcosa di enigmatico. Anche le esperienze più semplici e più evidenti lo sono. Tutte le pensatrici che ho coinvolto in questo libro, ne sono consapevoli. E ci offrono vie per capire come trovare le parole per dire un’esperienza senza tradirla. Portarla a discorso senza distruggere il nucleo enigmatico di verità che un’esperienza che ci accade porta con sé. Tutte sono impegnate in questo, ma non parlano di autorità, che pure mi sembra necessaria. Infatti dire la verità di un’esperienza significa contemporaneamente sottrarsi alle interpretazioni dominanti che già circolano sull’esperienza. Ne ha parlato Luisa Muraro in Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia. È un tema molto importante nella prospettiva politica della libertà delle donne. Salvo eccezioni, le donne trovano in altre donne l’autorizzazione a dire la verità di quel che sentono. È per questo che è ed è stato così importante il femminismo. So che è stato nella politica delle donne che ho trovato l’autorizzazione a trovare le parole per dire l’esperienza.

Anna Maria Piussi: nel libro tu discuti sia anche di posizioni esplicitamente femministe (v. Rosi Braidotti), che riducono anche la vita umana a zoe, intesa come “forza dinamica della vita in sé, capace di autorganizzazione”, forza trasversale che supera gli storici dualismi culturali e consente la pensabilità di un egualitarismo zoe-centrato come nucleo della svolta postantropocentrica. La vita biologica, potenziata e allargata dalle tecnologie, diventa in quest’ottica unica misura dell’umano.  La concezione di vita come potenza autonoma e anonima, immanente e in trasformazione, avvicina Braidotti agli antispecisti, che pur riconoscendo le diversità tra specie, le collocano tutte, anche quella umana, indifferentemente nel grande alveo della vita animale.  Ne parli in alcune pagine del libro, ma mi piacerebbe qualche approfondimento da te, anche in forza dei risvolti politici di tali posizioni.

Chiara Zamboni: mi ha molto colpito che alcune posizioni femministe contemporanee portino l’attenzione alla vita, ma intesa come vita anonima, impersonale, biologica che risulta interpretante di tutte le forme di vita e le riduce a questo unico piano. Mi ha colpito anche che esse affermino che la posizione della donna è più vicina a questa vita biologica proliferante, perché una donna è coinvolta in una generazione anonima della vita, nell’esperienza della maternità. Si tratta di un proliferare di materia vivente, che si differenza al suo interno ma sempre su base biologica. Questa riduzione della donna e della maternità al puro aspetto biologico, alla pura vita senza specificazioni, è vicina alle posizioni antispeciste, che fanno dell’essere umano e di tutte le altre specie qualcosa di appartenente alla pura vita animale, in quanto viene privilegiato l’aspetto dell’essere corpo tra altri corpi. Le differenze sono ridotte a corpi in divenire. Per queste concezioni tutto è vita, tutto è corpo. In modo indistinto. Le differenze vengono sminuite. Ma, noi sappiamo che la realtà delle differenze è invece fondamentale. Iniziamo dagli esseri umani. Sappiamo che nella gestazione la creatura che viene al mondo ascolta ancora prima di nascere la voce della madre e la sua lingua. Quindi l’essere umano nasce con un corpo segnato dai suoni della lingua materna. Ma pensiamo anche agli animali. Ogni specie ha forme di espressione simboliche e linguistiche molto variegate. Basta leggere un po’ di etologia, ma molto meglio avere un rapporto di amicizia con alcuni animali. Si pensi ai nostri gatti o ai nostri cani. Così anche le api hanno forme simboliche di comunicazione tra loro molto articolate. I delfini hanno un linguaggio giocoso tra loro e anche con gli umani. Fatto anche di finte e di inganni. Io penso anche proprio alle cose, che sono pure corpi in divenire. Nel libro parlo delle cose, dei loro modi singolare di mostrarsi. Chi è attento alle cose, fa attenzione alle forme diverse con cui si espongono allo sguardo, all’udito al tatto. Certo, occorre cambiare il modo di intendere il sentire. Ma pensiamo ai venti. Ognuno di loro ha un modo di risuonare. Ognuno con un loro suono specifico. Lo scirocco è un vento umido, pieno di profumi, denso, trasformatore. Il vento di nordest suona in modo diverso tra le case, perché altra è la direzione che prende rispetto allo scirocco, e suscita allegria. Le cose, toccate, creano esperienze diverse. Quello che vorrei suggerire è che esiste una molteplicità di piani d’espressione non solo umana. Dunque certo siamo corpi, ma corpi che portano al mondo forme simboliche di espressione diverse. Cancellare il piano dell’espressione simbolica a favore solo del corpo è molto pericoloso per tanti motivi. Tra gli altri, allora, non si porta attenzione a come adoperiamo il linguaggio, che può degenerare. C’è un campo di conflitto simbolico e politico su questo all’interno stesso del femminismo ed è bene avere chiari i termini della questione.


Riferimenti bibliografici

Bachmann I., Luogo eventuale, SE, Milano 1992.

Bachmann I, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano 1993.

Conti L., Questo Pianeta, Editori Riuniti, Roma 1982.

Conti L., Ambiente terra. L’energia, la vita, la storia, Mondadori, Milano 1988.

Punta T., Segnali di vita. Diario di bordo dalla scuola, edizioni Junior, Parma, in corso di pubblicazione.

Zamboni C., Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020.

Zamboni C. (a cura di), La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, Moretti & Vitali, Bergamo, 2019.


Note

[1] L’occasione per questo dialogo è stata offerta dalla presentazione del libro presso la Libreria delle donne di Milano il 24 aprile scorso.

[2] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020, p. 58.

[3] L. Conti, Questo Pianeta, Editori Riuniti, Roma 1982.

[4] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., pp. 127-128.

[5] L. Conti, Ambiente terra. L’energia, la vita, la storia, Mondadori, Milano 1988.

[6] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., p. 11.

[7] I. Bachmann, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano 1993, p. 28.

[8] I. Bachmann, Luogo eventuale, SE, Milano 1992.

[9] C. Zamboni (a cura di), La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, Moretti & Vitali, Bergamo, 2019.

[10] T. Punta, Segnali di vita. Diario di bordo dalla scuola, edizioni Junior, Reggio Emilia, in corso di pubblicazione.

[11] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., p. 109.

[12] Ivi, 67.


(Educazione Aperta – Rivista di pedagogia critica n. 9/2021, 15 maggio 2021)


Il 22 giugno 2019 è stato presentato a Milano in Libreria delle donne il libro Femminismo giuridico, edito da Mondadori Università, 2019, a cura di Anna Simone, Ilaria Boiano e Angela Condello, anche autrici del testo con altre. La discussione si è svolta guidata da Lia Cigarini, che ha coinvolto le altre giuriste e il pubblico presenti al circolo.


Introduzione di Chiara Calori


Ringrazio per l’opportunità che mi è stata data di addentrarmi in questa lettura: da laureanda in giurisprudenza, nello specifico in filosofia del diritto, ho avuto come principale difficoltà nei miei studi quella di dovermi confrontare con concettualizzazioni del diritto molto astratte, sia nel caso di quelle più tradizionali e più o meno superate, sia nel caso delle nuove elaborazioni, presentate come sovversive di quelle precedenti ma poi in fondo molto simili alle prime. Questo libro si pone anch’esso come radicale riflessione sul e tentativo di ripensamento del diritto ma, come vedremo, non finirà per tradire le sue intenzioni.

Da queste prime note emerge che è sentita un po’ ovunque l’urgenza di ripensare il diritto, ma ciò che forse permetterà a questa strada di funzionare al contrario delle altre è l’aver ben chiaro il contesto nel quale ciò deve avvenire. Qui in questo luogo – la Libreria delle donne di Milano – lo si è detto e ripetuto più volte nell’anno passato, e lo si continua a dire: è in corso un cambio di civiltà, e il paradigma ‘diritto’ non può restare invariato ma anzi va “rivoltato come un calzino”, come dicono le autrici nell’introduzione (p. 5). Parlare di “femminismo giuridico” significa precisamente questo, mettere totalmente in discussione il concetto e il modello giuridico, a partire da coordinate precise: come punto di partenza la differenza sessuale, il fatto di essere nata donna (o uomo), che è rilevante nel pensare il reale, diritto compreso, e permette di evitare di cadere nella trappola del pensiero unico o universale, presentato come neutro quando invece è sessuato ed ha come modello di riferimento l’“uomo, adulto, bianco, sano, etc …”[1]. Il punto di arrivo, inteso come méta verso cui si tende, è altrettanto preciso, ed è la libertà femminile.

Le autrici illustrano bene nel libro che tipo di diritto emerge da questo approccio, io mi limiterò qui ad esporre la struttura del testo, per esplicitarne poi quei passi chiave della loro riflessione che mi hanno molto colpito.

Il libro è strutturato nel modo seguente: nella prima parte i saggi riflettono sul rapporto tra diritto e femminismo a partire dall’interazione di alcuni concetti, come nei capitoli “Diritto/Diritti/Giustizia” o “Cittadinanza/Frontiere” (scritti rispettivamente da Anna Simone e da Ilaria Boiano), mentre la seconda parte è composta da saggi che riflettono su quel rapporto a partire dal pensiero di una specifica giurista e femminista contemporanea, come ad esempio Lia Cigarini e Silvia Niccolai, la prima fondatrice insieme ad altre della Libreria delle donne di Milano e grande pensatrice nell’ambito giuridico e in quello della politica delle donne; la seconda docente di diritto costituzionale presso l’Università di Cagliari e importantissimo e prezioso incontro per la Libreria, le cui frequentatrici (e frequentatori) sono state in più occasioni accompagnate da lei nella riflessione su questioni importanti, come la maternità surrogata e la prostituzione.

Passando ai contenuti del libro, ciò che colpisce è innanzitutto l’approccio al diritto, affrontato da quella ben definita dalle autrici come una prospettiva ‘ariosa’, che estende lo sguardo anche a ciò che non è tradizionalmente considerato inerente al diritto. Qui ho percepito come massima la divergenza rispetto allo stile accademico, che procede esattamente all’opposto: l’idea alla base è che il sistema giuridico sia un tutt’uno bastante a sé stesso, e che il ragionamento ad esso relativo da lì parta e lì finisca. Ci sono dei tentativi di apertura, per esempio ad opera di una corrente chiamata “neocostituzionalismo”, che prova a rendere il diritto permeabile alla realtà cercando un dialogo tra il mondo dei principi e delle regole giuridiche e quello dei valori morali. Ma questa apertura all’esterno è in realtà temuta e, in ultima analisi, falsa, traducendosi in un diritto che si camuffa da morale o viceversa. Insomma, non si esce dal seminato.

Diversamente, nel femminismo giuridico il diritto è collocato in una rete più ampia, che lo mette in comunicazione con elementi apparentemente molto lontani dal mondo giuridico, vale a dire altri saperi e altre pratiche, in primis quelli del corpo e quelle dell’esperienza reale. Così, è impensabile non partire dal corpo per ragionare in termini giuridici sui temi della sessualità femminile e dell’aborto[2], come è necessario restare sul piano concreto per pensare in termini di differenza (sessuale) ed uguaglianza (sostanziale)[3].

Questo è importante non solo perché mette in discussione il diritto in sé, ma anche perché problematizza un altro aspetto, che riguarda la sua materia prima: il linguaggio giuridico, e in particolare la sua recente tendenza ‘totalizzante’, che lo porta a voler intendere e spiegare tutto (o certamente vi aspira). Il diritto è uno dei linguaggi che ci sono a disposizione, le regole giuridiche sono alcune delle regole che guidano la realtà e i rapporti sociali, e nemmeno sono le principali[4]. Mi sono chiesta cosa venga prima, se la dimensione giuridica o l’esperienza concreta, e, mentre vorrei poter rispondere che è la seconda che guida e orienta la prima, mi dico anche che questa è solo una possibilità, e al momento serve di più avere consapevolezza del meccanismo inverso, ossia del portato simbolico del diritto nella realtà. Il simbolico, l’ho imparato qui, è un piano che è in grado di influire sulla realtà, di modellarla anche, per cui è bene indagare le costruzioni simboliche che filtrano dal diritto nella realtà attraverso il linguaggio. Nei saggi del libro si discute, tra le altre cose, del diritto antidiscriminatorio e delle pari opportunità (entrambi elaborazione del femminismo di stato e detti anche ‘cultura giuridica minima’), o della logica della prevenzione in ambito penale: queste sono tutte categorie giuridiche da cui discendono esplicite collocazioni simboliche della donna nella posizione di vittima o soggetto che va tutelato. A questo proposito, segnalo un interessantissimo documentario, a sua volta segnalatomi da Silvana Ferrari, della Libreria delle donne di Milano, su una giudice della Corte Suprema Statunitense, Ruth Bader Ginsburg[5], la quale svela la sottile comunicazione che c’è dietro legislazioni come quelle che regolamentano l’aborto: di fatto una implicita affermazione dell’incapacità della donna di decidere per sé e del bisogno che altri (più spesso che altre) lo facciano per lei. Svelare tali operazioni simboliche è uno degli obiettivi che si sono date le teorizzatrici del femminismo giuridico, in modo da mettere in guardia da ragionamenti suggestivi dotati di una logica apparentemente perfetta, che però non va nel senso della libertà femminile.

Ma è possibile o, prima ancora, desiderabile ricercare la libertà femminile attraverso il diritto? Lia Cigarini osserva come questa si sia realizzata al di fuori delle leggi e prima di queste, quindi suggerisce che è da valutare “di volta in volta l’opportunità o meno di fare ricorso al diritto”[6]. Ci si deve porre rispetto a questo con strategie che possono portare a fare un passo indietro, a chiedere che il diritto interagisca con certe problematiche con l’astensione piuttosto che con un intervento normativo, ed è quello che sempre Lia chiama “vuoto legislativo”. Perché il diritto non è né l’unica né la principale dimensione (e nemmeno, come abbiamo visto, l’unico o il principale linguaggio) dell’esperienza. Questa strategia si è resa[7] e si rende necessaria rispetto ad un diritto che è patriarcale e costruito a dimensione di ‘uomo’, come si diceva in apertura, ma è una necessità anche di fronte ad elementi che non sono definibili una volta per tutte, quali la differenza sessuale o la singolarità delle esperienze, a partire dalle quali si sviluppa la riflessione del femminismo giuridico.

Questa è una prima strategia, ce n’è un’altra, altrettanto se non più ambiziosa: si può cioè aspirare ad un diritto giusto. Come dice Anna Simone nel suo saggio su Silvia Niccolai, “persino la legge può divenire giusta”, e lo diventa per le donne “quando le libera” (p. 146). Qui si realizza la fusione tra libertà (femminile) e giustizia, due elementi che vanno insieme[8] e che rappresentano l’obiettivo ultimo, la méta verso cui tendere, nel pensiero di queste giuriste e studiose del diritto. E che ci riporta al punto di partenza, vale a dire alla necessità di ripensare completamente il diritto. Per concludere vorrei citare un importante esempio di rielaborazione del diritto, proprio a partire dalla giustizia. In Femminismo giuridico essa viene declinata con un taglio estremamente concreto, ricostruita a partire da Aristotele. Io la vorrei richiamare qui con una formulazione analoga nel contenuto, ma a me più vicina perché viene da uno dei miei primi incontri con il pensiero giuridico femminista, avvenuto sempre grazie alla Libreria delle donne di Milano. Elizabeth Wolgast, nel suo libro La grammatica della giustizia (1991), afferma: “(…) ritengo che la giustizia non si possa prescrivere, che non abbia una forma data; è una creatura dei nostri sforzi, della nostra immaginazione, della nostra esigenza. Noi ceselliamo faticosamente delle risposte al male, non per soddisfare qualche immagine preconcetta della giustizia, ma per affrontare le insidie dell’ingiustizia. (…) La giustizia entra nelle nostre parole quando un’ingiustizia o un torto ci portano a reclamarla. La giustizia appare allora come un correttivo indefinito all’ingiustizia, piuttosto che una cosa definibile di per sé”.

Ringrazio lei, le autrici di questo libro e le giuriste il cui pensiero è lì riportato per aver fornito a me, come sicuramente forniranno ad altre e altri, nuovi strumenti per orientarmi nella comprensione, nell’analisi e nella critica del diritto e della realtà.




[1] Con le parole di Valeria Verdolini, autrice del saggio Devianza/Questione criminale/Sicurezza (p. 74). Anche la nostra stessa Costituzione ricalca la misura maschile: per Lia Cigarini, “il patto costituzionale non è stato sottoscritto dalle donne” (p. 157).

[2] È l’argomento del saggio di Angela Condello, Sesso/Sessualità/Riproduzione, pp. 39-54.

[3] Coppia analizzata nei saggi Differenza/Eguaglianza, di Chiara Giorgi, e Letizia Gianformaggio e l’eguaglianza giuridica, di Angela Condello.

[4] Riprendo qui una delle osservazioni finali del saggio di Ilaria Boiano su Tamar Pitch, la quale “ricorda che “viviamo in un universo di regole di vario tipo”, non solo e neanche principalmente giuridiche, che informano rapporti (anche di potere) e relazioni sociali”, in Tamar Pitch. Differenza, differenze e diritti fondamentali, p. 129. Al riguardo Anna Simone, a partire da Niccolai, ribadisce che il diritto “può diventare un modo [tra gli altri] attraverso cui l’esperienza soggettiva prende parola”, in Silvia Niccolai o dell’esperienza giuridica come esperienza, p. 133.

[5] Alla corte di Ruth (titolo originale in inglese RBG), 2018, regia di Julie Cohen e Betsy West, uscito in Italia a luglio 2019.

[6] Ilaria Boiano su Lia Cigarini, p. 155.

[7] Per esempio nel caso dell’aborto, per il quale alcune femministe italiane chiedevano la semplice depenalizzazione senza l’appesantimento di una sua regolamentazione, opzione che poi alla fine ha vinto.

[8] Anna Simone, sempre parlando di Silvia Niccolai, rileva questa “tensione continua verso un’idea di giustizia in grado di travalicare i confini della legge” (p. 131).


(www.libreriadelledonne.it, 20 settembre 2019)

di Katia Ricci

 

Report dell’incontro nazionale delle Città Vicine alla Libreria delle donne, Milano 17 febbraio 2019

Nella lettera di invito, si dice che prende «l’avvio dalle esperienze e riflessioni pubblicate nel recente numero speciale della rivista “A&P Autogestione e Politica Prima” della MAG di Verona dal titolo Le Città all’opera, dedicato all’omonimo convegno promosso dalle Città Vicine e da Ada teoria femminista lo scorso febbraio a Napoli nei locali di Santa Fede liberata-Bene Comune e della Casa delle donne per la Restituzione-Bene Comune».

L’incontro molto partecipato ha focalizzato la discussione su alcuni temi in particolare: cambiare lo stile di vita verso una maggiore sobrietà e “povertà”; l’importanza di parlare con e ascoltare per innescare trasformazioni e suscitare empatia anche in chi si mostra intollerante verso i migranti; modificare il linguaggio e cercare parole nuove per uscire da forme di odio e di chiusura, usando anche i linguaggi dell’arte; non enfatizzare il tema dei migranti per non prestare il fianco a paure e intolleranze; ripensare la cittadinanza alla luce della differenza sessuale, dei movimenti dei popoli e dell’invecchiamento della popolazione; necessità di fare politica per accorciare le disuguaglianze e lo squilibrio economico, temi abbandonati dalla sinistra. E se il capitalismo ha vinto, imponendosi anche con la dittatura e gli eserciti, bisogna continuare con la buona politica delle donne con piccoli passi, ma grandi vedute.


Gli interventi

Nella sua introduzione, dopo i saluti di apertura di Laura Minguzzi, Maria Castiglioni mette l’accento sulla necessità di aprire varchi fisici e relazionali all’interno delle città perché fondamentale è la fiducia. Nel convegno di Napoli di febbraio del 2018 ha individuato alcuni varchi aperti in città: i beni comuni, le pratiche artistiche e l’attenzione ai nuovi linguaggi, i legami tra donne che creano cambiamento nelle città e conclude con una citazione di Maria Concetta Sala: «Ho accettato di essere sola davanti al mio destino e non riesco ad aprire varchi se non mi adopero per avere relazioni sensate».

Franca Fortunato nella sua introduzione ha ripercorso la storia delle Città Vicine, nate nel 2000, in un incontro stanziale ad Adelfia (Scoglitti-Ragusa), per iniziativa di Città Felice di Catania. Le Città Vicine – il cui logo è dell’artista Donatella Franchi – sono partite dal Sud e, in questi quasi vent’anni, si sono estese al nord fino all’Europa e oltre, mantenendo una delle caratteristiche fondamentali, quella di tenere insieme donne che fanno lavoro di relazione nella città e donne che lavorano direttamente sulla città, stando in prossimità di vicinanza a tutto quello che accade e si muove nelle città, per capirne e coglierne i mutamenti e interrogarne le pratiche. Lungo il percorso si è guardato a città lontane, divenute vicine per affinità di linguaggi, pratiche e progetti politici, come la città di Barcellona e la sua sindaca Ada Colau che parla di città e femminismo, di rifondare l’Europa a partire dalle città; si è guardato a come la presenza delle e dei migranti stava cambiando il volto delle città e alle buone pratiche di convivenza come a Riace. Le Città Vicine hanno creato spazi di riflessione, di scambi di esperienze di donne e di alcuni uomini che nel quotidiano esprimono cura e amore per i contesti, per i territori, per le città e si mettono in gioco e tessono il volto di un’altra Europa da quella dei muri, delle frontiere, dell’austerità e della finanza. Hanno sempre tenuto insieme i binomi città e femminismo, arte e politica, si sono avventurate a ripensare l’economia, a riflettere sul rapporto tra “politica prima” e “politica seconda”, tra “politica della partecipazione” e “politica dell’esserci in prima persona”, sull’autorità femminile al governo delle città. Il lungo percorso delle Città Vicine è testimoniato dai documenti e dagli scritti contenuti sul blog e all’interno del sito “Donne e conoscenza storica” curato da Donatella Massara, e nelle numerose pubblicazioni, libri e atti dei convegni, pubblicati nella rivista della Mag “Autogestione e Politica prima”. Si è deciso di realizzare un Almanacco che raccolga tutta le storia delle Città Vicine, in occasione del ventesimo dalla loro nascita. Il progetto sarà discusso in un incontro di vacanza politica da programmare per questa estate in Calabria o altrove.

Bianca Bottero rileva come anche Milano, città indubbiamente tra i primi posti della vivibilità, presenta delle criticità avendo basato le sue fortune sullo sfruttamento del suolo e sull’autocentramento, impoverendo l’interland. Legge, poi, un documento inviato dagli urbanisti Giorgio Pizziolo e Rita Micarelli.

Katia Ricci ricorda che uno dei temi di cui le Città vicine si sono occupate fin dall’inizio è la creatività e l’arte. Da alcuni anni, insieme alla Merlettaia di Foggia sono state organizzate mostre itineranti di mail art su Immagina che il lavoro, Lampedusa porta della vita, Kintsugi (arte del riparare), Concepire l’infinito e l’ultima (in mostra durante il convegno), Ci deve essere un luogo in comune… tratto da un passo del libro di Antonietta Potente Come un pesce che sta nel mare (ed. Paoline, 2017). Tanti gli interrogativi, le immagini nelle cartoline: il mondo, il mare, il deserto, il ventre di donna, luogo della vita per antonomasia, luoghi nati da donne che elaborano pensieri e linguaggi, che tengono conto della differenza e della singolarità in relazione. Non ci sono luoghi lontani in cui occorre andare, non bisogna necessariamente spingersi lontano per essere se stesse/i e trovare il proprio posto, come ricordano Adele Longo, riproponendo poesie di Emily Dickinson, Vittoria Di Candia, Clelia Iuliani, Donatella Franchi che nella sua cartolina riporta la fotografia di una delle madri di Plaza de Mayo che cucina con addosso un grembiule con il volto del Che, perché la politica è vita vissuta ed è attenzione al quotidiano. Stessa idea della politica nelle cartoline di Cornelia Rosiello, Antonietta Lelario, che mette l’accento sulle pratiche politiche delle donne, come fanno anche Anna Di Salvo, Donata Glori, Clelia Mori e Pina Nuzzo che fa riferimento alla coraggiosa denuncia di Rachel Moran, autrice di Stupro a pagamento. Opere che contengono una posizione politica netta e radicale di un femminismo militante. Per molte e molti il luogo in comune è nella nascita che è l’origine comune, nel legame con la natura, nell’attenzione all’ambiente e nella necessità dell’incontro e di stare nelle relazioni.

Per Stefania Tarantino la situazione del mondo è cambiata dal convegno di Napoli e si è imposta la lingua della forza e della chiusura. Nota che le Città Vicine mettono al centro la fragilità che non è una debolezza, anzi è una forza perché è importante il legame di fiducia anche con chi è lontano per sconfiggere l’attuale narrazione “tossica” degli eventi. È necessario riprendere il discorso di Virginia Woolf nelle Tre ghinee e modificare il modo di vivere, basandolo sulla povertà, che non significa miseria, ma ciò che basta, ricerca dell’essenziale, anche nel pensiero che sia legato alla quotidianità. In un periodo in cui c’è una perdita dell’empatia vivere in povertà significa ricerca “del più profondo”.

All’origine delle città vicine, ricorda Clara Jourdan, c’è una proposta politica di vicinanza tra città a partire dalle relazioni tra donne che le abitano, una mediazione femminile che cambia lo sguardo sulle altre città oltre che sulla propria.

Sandra Bonfiglioli illustra le pratiche del LabMi, pratiche della vita quotidiana in città raccontata da 15 donne alle partecipanti al laboratorio che hanno riflettuto insieme su che cosa si mette in gioco in città nella vita quotidiana di ciascuna.

Pinuccia Barbieri, che abita in una zona pre-periferica, sottolinea la necessità dell’impegno anche individuale e racconta dell’azione che sta svolgendo per recuperare uno spazio degradato ma privato, un’ex tipografia, perché possa diventare una zona verde restituita alla città.

Sull’impegno individuale si è soffermata Marirì Martinengo che grazie alle Città Vicine ha capito che quello che ha fatto a Savona, sua città d’origine, vale a dire la creazione di una biblioteca, è un lavoro politico e non sentimentale.

Anna Di Salvo si dice d’accordo a nominare d’ora in poi “politica” delle Città Vicine, come aveva suggerito Clara Jourdan, invece che “rete”. Pensa sia venuto il tempo di lavorare insieme a tematiche comuni e progetti condivisi pur nel rispetto delle reciproche peculiarità, per esempio l’immigrazione perché attraversa molte/i delle Città Vicine, cercando mediazioni con gli uomini e le donne che rifiutano la presenza dei /delle migranti. È una questione spinosa e bisogna intensificare l’ascolto delle ragioni dell’altra/o e trovare soluzioni e parole che favoriscano la comunicazione e lo scambio per dare corso a una nuova visione di cittadinanza e a un nuovo senso del vivere la città legato alla differenza femminile.

Elisabetta Cibelli riflette sul clima di intolleranza e sullo scritto di Luisa Muraro su Simplicio. Come poter intercettare la sofferenza in chi sostiene certe posizioni intolleranti e come suscitare la loro comprensione? Gli uomini sono usciti dal patriarcato quando hanno capito che c’era una perdita di realtà e di soggettività, dunque è necessario lavorare su questo anche per avvicinare gli intolleranti alla realtà dei migranti. Riporta l’esempio di una donna rifugiata che ha accompagnato in ospedale, dove un medico si è mostrato in un primo momento saccente, non volendo riconoscere la violenza subita dalla donna, ma quando lei gli ha raccontato la condizione della donna, dentro di lui è avvenuto un cambiamento. Non riconoscere la violenza è un’ulteriore violenza fatta non solo a quella donna, ma a tutte. È opportuno lavorare su come innescare una trasformazione nell’altro anche quando è addirittura un nemico. E conclude: «O guadagniamo tutte o nessuna».

Mirella Clausi, riprendendo l’intervento di Elisabetta, osserva come solo i corpi riescono a parlare veramente. Riguardo agli stranieri in città che arrivano per turismo o migrazione, nota che si dà al turismo un’accezione positiva e alla migrazione una negativa, giudizio che si potrebbe capovolgere: ci sono, infatti, città diventate dei ghetti per turisti oltre che per i migranti. Il turismo ha degli aspetti sicuramente positivi, ma omologa le città e provoca una perdita delle relazioni. I migranti possono essere una risorsa, ma se li si ghettizza, si provoca un aumento della delinquenza, come si vede a Catania che è cambiata per quanto riguarda l’accoglienza. Di qui la necessità di collegarsi con altre e altri delle varie associazioni, ma c’è difficoltà a mantenersi integre nella politica delle donne. Nota, però, che avviene qualche cambiamento positivo grazie alle pratiche dell’ascolto, del manifestare affettività e dell’appoggiare il desiderio altrui.

Ada Maria Rossano lamenta la mancanza delle e dei giovani e fa riferimento a quanto sta accadendo in Belgio, in Svizzera e in altre parti dell’Europa del Nord, dove stanno scioperando per l’ambiente, cosa di cui si parla poco.

Per Luisa Muraro il tema dell’emigrazione ha subito un’enfasi e questo porta all’incitamento del razzismo. In realtà l’ostilità xenofoba è verso i poveri, atteggiamento che si può modificare. Suggerisce di non insistere sulla migrazione, ma di spostarsi su altri temi e questioni.

Adriana Sbrogiò racconta che il sindaco di Spinea, dopo aver ascoltato Anna Di Salvo sul tema della cura delle città, ha costituito un gruppo di donne e uomini sulla cura della città. Racconta della costituzione presso la biblioteca del Comune di una sezione riservata ai materiali dell’associazione Identità e differenza di Spinea.

Interviene Diana De Marchi del Comune di Milano, presentando il “modello Milano” che tiene insieme la crescita e l’accoglienza e informando che è stato istituito un registro per chi ha perso il permesso umanitario, in modo da dare loro legalità. Il clima di odio tuttavia esiste e chiede, perciò, di unirsi tra tutti coloro che vogliono reagire al linguaggio di odio e all’indifferenza.

Rahel, che lavora nell’associazione “Cambio passo” che si occupa dei rifugiati, dice che per il colore della sua pelle viene sempre presentata come rappresentante della comunità straniera, lei che è romana di nascita. C’è un problema che riguarda il linguaggio, infatti lei, per esempio, viene classificata come esponente della seconda generazione, pur non essendo immigrata. C’è una povertà di linguaggio che rende difficile l’accoglienza. Invita a individuare ciò che è essenziale, perché ci sono troppe parole sul fenomeno della migrazione e c’è un eccesso di chiacchiere che provoca risposte reattive, a lavorare sul linguaggio, a mischiarci ad altri, e a condividere e convivere. Il termine “migrante” è sbagliato perché serve a indicare una condizione eterna, mentre molti sono residenti e soprattutto non si può parlare in assenza dei protagonisti. Rispetto alla proposta di usare le caserme dismesse per ospitare temporaneamente i migranti, dice di essere contraria perché la temporaneità aggiunge senso di precarietà, invece c’è necessità di una risposta di stabilità.

Giusi Milazzo di Catania ringrazia la MAG per aver pubblicato gli atti del convegno di Napoli di cui riprende due temi. Ridiscutere l’idea di appartenenza alla città e al luogo, sforzandosi di evitare il senso di appartenenza e l’idea di cittadinanza. Ciò che è fondamentale è la relazione e la politica delle donne. Altro tema è quello dei beni comuni: a Catania il progetto di predisporre un luogo per le donne maltrattate e sfrattate si sta concretizzando insieme con altre associazioni secondo l’esempio dei beni comuni. Il progetto è di riutilizzare la zona di un ospedale dismesso per accogliere attività sociali per donne, ma anche per sanità rivolta al sociale e laboratori vari.

Anna Potito racconta che Foggia nelle cronache nazionali è una città terribile per il ghetto di Rignano, dove i lavoratori stranieri vogliono stare anche se viene smantellato periodicamente e ricorda che anche a Saluzzo accadono episodi affini, come testimoniato da GianPiero Bernard. Nel nostro territorio avvengono anche cose buone che non vengono menzionate, per esempio in paesi dell’Appennino come Bovino, Monteleone si sono create situazioni simili a Riace. Quasi di fronte al ghetto di Rignano c’è Casa Sankara, sorto su un terreno pubblico dove famiglie senegalesi hanno costruito un villaggio, cambiando anche coltivazione dal pomodoro alla canapa. Nel centro di accoglienza di Emmaus per sole donne alcune ragazze che vi erano ospitate hanno cominciato a lavorare presso famiglie della città, creando integrazione e scambio. Ci sono medici che hanno costituito una rete di sostegno e di aiuto a persone in difficoltà economiche oltre che ai migranti. Il problema è la povertà. Anche a Foggia c’è il progetto di fare un registro per quanti non hanno il permesso umanitario.

Laura Minguzzi sottolinea l’importanza di modificare il linguaggio e invita a dare voce a chi non ce l’ha. Anche lei ha un senso di perdita di realtà quando esce di casa a Rogoredo e si trova tra i senza tetto. Il nodo irrisolto è anche il nostro, dice, dobbiamo risolverlo. E si chiede: “Voglio la realtà o i soldi?” Questo il problema che si è posta quando è andata via di casa e a Bologna ha scelto la libertà, rifiutando l’agiatezza e affrontando il rischio di vivere.

Carla Maragliano dell’associazione delle Giardiniere parla di un conflitto sorto all’interno del gruppo, perché nonostante una lunga pratica di relazione, si reagisce a volte secondo schemi soliti. Il conflitto è nelle relazioni e non ci si deve scandalizzare perché può essere un arricchimento, quindi non va né evitato né applicato lo schema “io vinco e tu perdi” né va vissuto come un attacco personale, ma tematizzato.

Giordana Masotto sottolinea l’importanza della contrattazione, fondamentale dell’agire insieme come riconoscimento della differenza, per potersi riconoscere come soggetti e per poter agire in comune. Ripensare la cittadinanza è una chiave unificante dei rivolgimenti che stanno accadendo. Una cittadinanza attraversata dalla differenza sessuale, dai movimenti di popolazione, dalla crisi della democrazia rappresentativa. C’è un invecchiamento della popolazione che richiede l’esigenza di ripensare le vite che invecchiano e per questo è necessario impegnarsi nel cambio di civiltà.

Per Simonetta Patanè il tema fondamentale è la convivenza tra le differenze, per cui bisogna lavorare in quanto ci sono molti movimenti che hanno un linguaggio antagonista. Ritiene che seppure le pratiche delle donne stanno passando, quando si raccontano si cade nella povertà di linguaggio. È dunque necessario lavorare sul linguaggio, condividere, convivere e modificarsi, individuando ciò che è essenziale oggi.

Anna Di Salvo si dice d’accordo nel non mettere al centro la questione dei migranti e nel riflettere su come interviene la politica delle donne. Quando sorgono conflitti si deve andare alla contrattazione per una nuova convivenza nelle città. Considera importante il discorso sul linguaggio di Rachel che esorta a non usare la parola “migrante”. Parla di autocoscienza abitativa e che prima della cittadinanza c’è la cittadinanza interiore.

Laura Minguzzi sottolinea che prima della cittadinanza c’è la coscienza dell’abitare qui e ora, coscienza che ha attivato nel LabMi raccontando la sua vita quotidiana nei vari quartieri dove ha abitato a Milano. Qui ha conosciuto situazioni molto diverse, da un aspetto internazionale alla vita in un quartiere virtuale dove abita ora. E riporta esperienze molto interessanti di condivisione che sono alla base della nuova cittadinanza.

Per Stefania Tarantino il neoliberalismo non è solo economico, è un sistema vincente che investe anche le soggettività. Non riconosce più il volto di città accoglienti come Catania e Napoli, città che ha subito una mutazione antropologica fin dal 2006 perché il prestigio, il potere e il denaro costituiscono un modello vincente. Per raggiungerlo vengono usati anche mezzi cruenti, la mafia oggi è penetrata anche al nord. Tutti i mostri che S. Weil aveva individuati oggi sono imperanti. Anche il vicino di casa ha assunto un atteggiamento da camorrista. La politica delle città vicine deve agire su questo immaginario, mettendo in campo la fragilità, nel senso weiliano del termine, che riguarda tutti e la povertà. C’è una triade costituita da camorra, fascismo e neoliberalismo. La degradazione non riguarda solo i migranti ma anche noi, c’è uno sradicamento spirituale da parte di tutte, che comporta una perdita di realtà. Non bisogna lasciare la parola sulle donne né alla tecnologia né alle forme di bullismo e di odio.

Clelia Mori è stata colpita dai riferimenti al corpo e all’arte nel racconto del percorso delle Città vicine, per cui illustra il suo lavoro sulle tute bianche a cui sono state costrette le operaie di Melfi che si macchiavano di sangue mestruale e che sono diventate un’opera d’arte esposte prima a Mestre e poi a Foggia. Di qui una riflessione sul sangue mestruale che è sangue di vita.

Maria Castiglioni, riferendosi al mito di Didone, come racconta Elena Ferrante nella Frantumaglia, fondatrice di città, ricorda le mosse simboliche messe in atto da Didone per fondare la città. Didone prendeva dal culto di Era nel mondo greco il rito dell’immersione della statua per togliere la “lordura del coito”. Ancora oggi nel Kossovo c’è la tradizione di ritornare a casa della madre per tre notti per ripurificarsi. È un’interruzione del mondo patriarcale. Didone fugge da Tiro con la sorella e per costruire Cartagine secondo il mito riesce ad allargare lo spazio che le era stato dato, pari alla pelle di un bue, tagliandola a striscioline. Dilatare e inventare lo spazio è una pratica anche delle Giardiniere. Un’altra pratica delle Giardiniere è parlare con tutti, approfittando del fatto che l’istituzione ha delle porosità. Ricorrono anche ad azioni illegittime, ma lecite, come entrare in spazi vietati.

Per Emilia Costa la città non può vivere senza rapporti in entrata e in uscita con il territorio. Una delle donne che ha parlato nel LabMi ha raccontato della campagna e del rapporto che ha stabilito con l’agricoltura. Attraverso di lei ha capito la necessità di interessarsi della bioagricoltura e di diversificare le colture dei semi del pomodoro e del grano.

Maria Bottero parla della superiorità della donna che consiste nella gestazione e nel mettere al mondo la vita. Il senso mitico profondo della fecondità si lega alla natura. Femminismo ed ecologia sono nate insieme negli anni ’70, per cui è fondamentale riparlare della natura e dell’ambiente.

Marisa Guarneri sente incombente la variabile tempo, per cui se l’istituzione, con cui per la sua attività politica è entrata in relazione, non è porosa e non è disponibile, bisogna fare buchi, altrimenti nell’attesa vincono gli altri. Nei progetti con le istituzioni bisogna guadagnarci qualcosa non solo la relazione con le donne, non solo la soddisfazione personale. Lei ha guadagnato delle amiche. Nella politica si dice attaccata alla pratica delle relazioni e all’affidamento.

Luciana Tavernini si riallaccia al concetto di cittadinanza e parla della sua esperienza: quello che oggi succede con i migranti lei lo ha vissuto, perché è figlia di un profugo e lei stessa migrante, anche se non si è mai percepita così, perché si è sempre sentita cittadina del mondo senza barriere. Che cosa cambia pensarsi cittadina del mondo, che cos’è l’essenziale, la povertà? «Mio figlio, per esempio, dice, si veste al mercatino, ma ha comprato il biglietto di viaggio in Sudamerica alla suocera perché fosse vicina alla figlia che partoriva». In certi momenti è necessario spostarsi e oggi vietare alle persone di spostarsi crea un grande dolore. Non devono esserci barriere perché ne va la salute del mondo.

Loredana Aldegheri nota come il governo attuale ha atteggiamenti di chiusura, anche se lei non ha avuto atteggiamenti negativi nei confronti del governo perché i 5 S rappresentano la parte che è in difficoltà economica, la Lega rappresentava il pezzo di società del Nord più povera simbolicamente, anche se oggi è vicina alla borghesia, insomma gli elettori sono la parte più debole della società. E hanno scelto la via più sbrigativa per risolvere i loro problemi. Sappiamo però che le vie sbrigative non portano a niente. Se questo è vero, c’è una responsabilità di tutte di trovare parole semplici che possano arrivare a queste persone per salvarsi insieme. Altro punto importante è il dato economico: il liberismo ha fallito sulla promessa di benessere per tutti, perché i ricchi sono pochi e i poveri crescono sempre di più e ci sono su questo dati allarmanti. Si è prodotta una diseguaglianza impressionante che la sinistra non combatte più. Noi che apparteniamo alla classe media possiamo fare una scelta di sobrietà, ma dobbiamo ridiscutere i paradigmi del sistema economico.

Luisa Muraro interviene dicendo che il liberismo ha vinto, i movimenti operai sono stati sconfitti, perciò dobbiamo ragionare su altre politiche e sul senso della giustizia. Noi donne abbiamo la forza di non lasciarci sconfiggere.

Lia Cigarini sottolinea l’importanza di nominare le pratiche in modo chiaro, per esempio dire la pratica dell’ascolto anche di quelli che hanno paura e che non riescono ad uscire da soli dalle loro paure, ma possono farlo attraverso la pratica delle relazioni, non accusandoli di fascismo e razzismo, ma provando a parlare con loro. Il migrante è il capro espiatorio della disperazione dei più deboli e dei più poveri. È anche necessario insistere su una politica più efficace della democrazia rappresentativa e trovare parole semplici con cui continuare a “martellare”.

Luisa Muraro ricorda che gli economisti nella crisi del 2008 hanno detto di non essere in grado di concepire alternative perché tutto dipende dalla politica, ma la politica è debole. Il capitalismo ha impiegato secoli per creare il suo sistema, il comunismo è partito di slancio ma ha fallito, noi dobbiamo continuare a fare buona politica come stiamo facendo, ma il “mostro” non si distrugge, anzi noi lo nutriamo e lo sosteniamo altrimenti siamo rovinati e, comunque, quello che trasforma la storia non sono i progetti demiurgici che si sono rivelati avventure rischiose, l’importante è muoversi, perciò bisogna muovere piccoli passi e avere grandi vedute, come dice Teresa D’Avila.

Simonetta Patanè si dice in disaccordo perché come facciamo buona politica possiamo fare buona economia: la politica non deve essere separata dall’ecologia e dall’economia, ma tenere insieme tutti gli aspetti che stanno insieme nelle nostre vite. A Napoli si è parlato della città metropolitana che unifica tutti i territori che hanno percorsi interrotti da discariche, case abbandonate ecc. Occuparsi di migranti significa anche trovare posti di lavoro. L’orientamento verso una nuova civiltà è già politica, la risoluzione dei problemi sta insieme a un orientamento del mondo. Ci sono soluzioni alternative in tutto il mondo, sono magari granelli di sabbia, che però possono interrompere i grandi meccanismi quindi non siamo di fronte al mostro impotenti, ma dobbiamo sottrarre energia, intelligenza.

Filippa Di Marzo pensa che uno dei motori che trasforma è l’economia, le sembra che nelle parole di Luisa Muraro ci sia un senso di impotenza. O la politica delle donne è capace di indicare alternative, o non è possibile trasformare nulla.

Conclude Anna Di Salvo, ringraziando la Libreria delle donne e il Circolo dalla rosa per l’organizzazione e l’ospitalità, saluta le/gli intervenute/i, suggerisce la sospensione momentanea di ogni giudizio e di voler permanere in una pausa di ascolto e di riflessione in merito a quanto è stato detto ed è avvenuto durante il convegno. Infine riferisce di un progetto in fieri condiviso con Elisa Varela Rodriguez dell’Università di Girona (Catalogna), riguardo a un convegno delle Città Vicine da tenersi all’Università di Girona, e di un invito della filosofa Maria Concetta Sala della Biblioteca UDI delle donne di Palermo a presentare in un incontro allargato, da tenersi alla Casa Mediterranea, il numero speciale della rivista A.P. della MAG di Verona Le Città all’opera.

Ringraziamo Stefania Giannotti, Nanni Di Salle e Blanca Jaime per l’ottimo buffet speciale studiato per la giornata, per amore della politica delle Città Vicine e per le donne tutte.

I video integrali del convegno sono pubblicati qui:

https://www.youtube.com/watch?v=9MFI0ue8D3k

https://www.youtube.com/watch?v=I8XH48kbrag


(www.libreriadelledonne.it, 26 febbraio 2019)

di Laura Minguzzi

 

Introduzione all’incontro con Valentina Parisi, autrice della Guida alla Mosca ribelle (Voland, 2017), Libreria delle donne – Circolo della rosa, 6 giugno 2018.

 

Ho sentito leggendo la Guida alla Mosca ribelle di Valentina Parisi una consonanza, una grande emozione nel ritrovare luoghi conosciuti e visti negli anni settanta per la prima volta e poi rivisti nel corso del tempo. Oltre al gusto per il viaggio. Ma il viaggio prima di tutto come messa in gioco della soggettività di chi lo compie, soggettività che, esposta a stimoli non usuali si rinnova e arricchisce, galvanizzandosi al contatto di genti e orizzonti immaginati, sognati, ma non ancora conosciuti. I non sperimentati spazi chiedono di fare il vuoto dentro di sé per accogliere quanto d’inaspettato ci è offerto. Ed è una postura politica fertile, destinata ad applicazioni anche in altri ambiti. Si sceglie in genere di fare un determinato viaggio, seguendo un desiderio, perseguendo un completamento di sé; un’altra caratteristica che sento in comune è di intendere il viaggio non solo per sé, ma anche per altri e altre.

Per il mio modo di viaggiare e conoscere altre culture ho letto con grande interesse i percorsi esplorativi della Mosca ribelle di Valentina Parisi perché ci guida a compiere un viaggio fatto di scoperte, un viaggio non banale non eterodiretto ma che fa leva sulla nostra curiosità personale, il nostro desiderio di arricchirci con lo scambio e con la lentezza del camminare per andare a vedere ciò che lei seguendo un proprio desiderio vuole mostrarci.

A me è sempre piaciuto progettare viaggi a mia misura, osservare le trasformazioni, parlare con la gente, con le donne, per andare oltre le notizie. Questo mi è stato possibile con gli scambi fra scuole che ho organizzato per una decina di anni (dal 1992 al 2003), quando insegnavo. Nel mio ultimo viaggio (da Mosca a Vladivostók) ho seguito le tracce e la storia delle Decabriste e dei Decabristi e come Valentina Parisi nella Guida, descrivendole e quindi pubblicandola, ho reso partecipi altri della loro vicenda rivoluzionaria. Mi piaceva che anche le mie alunne e i miei alunni, vivendo nelle famiglie russe, dessero corpi, una storia alla realtà, alla lingua che studiavano sui banchi. Con la fine dell’Unione Sovietica nel 1991 io ho cominciato a sognare una civiltà europea senza frontiere, senza muri, che potesse lambire l’oceano Pacifico, arrivare oltre gli Urali fino a Vladivostók. Ho sempre temuto l’idea della fortezza Europa che si difende o si arma. Partivo perciò per capire cosa stesse succedendo, cosa pensasse la gente comune, le amiche, le insegnanti, cosa scrivessero i giornali della nuova Russia che si andava formando, tastare il polso della situazione e nelle scuole portavo la mia esperienza politica, libri di scrittrici italiane, e a mia volta compravo libri di scrittrici russe da leggere nelle mie classi.

Dal mio primo contatto con Mosca nel 1972, di questa città mi ha sempre affascinato la forma a centri concentrici, ad anelli che progressivamente si allargano (i kol’zo in russo), come quando nell’infanzia si getta un sasso in mare o in un lago e si formano cerchi che se il lancio è ben riuscito si allargano in modo quasi magico sempre di più, quasi all’infinito…

La Guida alla Mosca Ribelle di Valentina Parisi è molto precisa e dettagliata con mappe dei luoghi e dei quartieri descritti, come arrivarci con le fermate e le stazioni della metropolitana con alcune foto dell’autrice. Completa la guida un esaustivo indice dei nomi delle figure storiche e dei luoghi. Perciò è di facile consultazione, molto adatta anche per un viaggio autonomo non organizzato.

Gianpiero Piretto, nella prefazione, ci illustra perché Mosca è considerata la madre di tutte le città russe accompagnandoci attraverso i vari epiteti e attributi di Mosca in un percorso storico dall’origine della città, come prima sede del trono, e via via nel corso dei secoli. Mosca rappresenta l’antichità, la tradizione e ha goduto di una serie di attributi per distinguerla nel bene e nel male da Pietroburgo-Leningrado, città europea, voluta da Pietro il Grande all’inizio del Settecento. Nel quattordicesimo secolo Il principe Dimitrj Donskoj sostituì il vecchio Cremlino di legno con la pietra, la dolomite e il calcare, poi principi e boiardi preferirono la pietra bianca e allora Mosca si chiamò “Mosca dalle pietre bianche”. Poi oltre nel sedicesimo secolo per affermare la supremazia dell’ortodossia comparve l’appellativo “Mosca terza Roma”. Il profilo della città antica si manifestava nelle numerosissime cupole d’oro delle molteplici chiese e si fece ricorso all’espressione figurata, sòrok sorokòv, come dire mille millanta. Sòrok significa quaranta ma soròk indicava le unità amministrativo-religiose in cui la città era divisa. Così come “Mosca rossa” e “Mosca bella” testimoniano di come il nome della città fosse legato nella storia alle realtà più diverse, sacro e profano, alto e basso. Ma è nel ’57, pochi anni dopo la morte di Stalin, che a Mosca si ebbero le due settimane più intense, inaspettate e innovative che la storia dell’Unione Sovietica ricordi. Fu il VI Festival Mondiale della Gioventù e degli studenti. Fu il sessantotto prima della stagione dei figli dei fiori di San Francisco e del maggio francese. Negli anni settanta-ottanta trionfarono le canzoni d’autore del ribelle cantautore Vysòtzkij, i samizdàt, le produzioni manoscritte autonome della dissidenza politica e del femminismo. Infine per arrivare agli anni prima della grande ricostruzione degli anni novanta, l’epiteto “Mosca non è di gomma” sintetizza la resistenza degli abitanti a un allargamento smisurato dei confini. Dopo il crollo dell’URSS, la nuova identità riassunta nella Mosca-City ci presenta una capitale che vuole essere un centro affari internazionale. Un piano cominciato nel 1997: palazzi, grattacieli, torri, spazi espositivi.

Valentina Parisi nella sua introduzione ne segue lo sviluppo storico lento fino al ’900, secolo in cui il paradigma della lentezza si è capovolto. Decrescita è una parola ignota a Mosca. Frequente il termine megalopoli. Stabilire la popolazione attuale è un’impresa disperata. Dodici, tredici milioni? Ai dati ufficiali va aggiunto un numero fluttuante di presenze invisibili: sans-papier giunti per lo più da ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, braccia indispensabili alla crescita implacabile della capitale. La stessa struttura concentrica della città pare garantire un allargamento a macchia d’olio. Dal Piano Generale di ricostruzione degli anni trenta voluto da Stalin, Mosca attraversa ora l’ennesima fase di trasformazioni. Ci sono gli sviluppatori, developery in russo, che mettono mano alla città chiamando la trasformazione renovacija – rinnovamento – e vogliono tramutare Mosca in una città pedonale – peschechòdnaja, anche se il clima non invita certo alle passeggiate, per cui molte strade centrali vengono ristrette. Con la City si è tornati allo sviluppo in verticale con i grattacieli in vetro e acciaio. Ne è un esempio la Torre della Federazione, l’edificio più alto d’Europa, 374 metri.

Per non smarrirsi in un simile caos occorre una chiave di lettura. La scelta di Mosca come città ribelle è da rintracciare nel passato, dice l’autrice. Il filone letterario della narrazione dell’io comincia in Russia con l’autobiografia di un disobbediente, quella scritta da Avvakùm nel carcere di Pustoziòrsk, oltre il Circolo polare artico, mentre attendeva il martirio sul rogo. Mosca è da allora centro e luogo per le proteste antigovernative. Molti in Italia ricordano, ricordiamo, la protesta mondiale delle Pussy Riot, due delle quali, Mascia Aliòchina e Nadja Tolokònnikova, nel 2012-13 furono condannate a due anni di lavori forzati nella colonia penale di Perm, liberate nel dicembre del 2013 grazie alle pressioni internazionali su Putin, in quanto c’erano le Olimpiadi a Soci e non gli conveniva. Avevano osato denunciare le collusioni di potere fra governo russo e ortodossia e potere religioso rendendo visibili le relazioni fra Putin e il patriarca di Mosca Kirill con la performance scandalosa, definita blasfema nella Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca. Mascia Aliòchina, madre single di Filipp, inoltre era attiva nel movimento ecologista e aveva partecipato alla difesa della foresta di Khimk attorno a Mosca, che stava per essere distrutta dal progetto di costruzione di un’autostrada. Io oggi mi chiedo, citando il titolo di un’opera del poeta Nikolaj Nekràsov: Chi vive bene in Russia? Un poema che parla della vita dei contadini, servi della gleba e delle loro sofferenze, sconosciute ai nobili che vivevano separati nei loro palazzi in città. Valentina ci descrive il quartiere dove visse Aleksandr Ràdiscev, un nobile condannato all’esilio in Siberia per avere pubblicato un libro di viaggio da Pietroburgo a Mosca in cui descrive ciò che ha visto. Ci fa conoscere Fanny Kaplan e un monumento a lei dedicato, nonostante la damnatio memoriae che a lungo l’ha bandita dalla storia della città. Aveva attentato alla vita di Lenin.

Rivolgo la domanda a Valentina: Oggi chi vive bene in Russia? perché la ribellione e la protesta nascono da questa domanda. Come migliorare la vita non solo materiale ma renderla più libera nell’espressione di sé? Io quando sento strategie politiche come quella di Putin, tipo la cosiddetta verticale del potere, che portò all’eliminazione delle elezioni autonome dei governatori e alla centralizzazione delle scelte, penso all’accentramento burocratico, al risucchiamento delle risorse a Mosca, come specchio per le allodole e così interpreto le proteste e le richieste di più autonomia delle città siberiane che si vedono sottratte le risorse dalla capitale. Dal punto di vista geopolitico vedo inoltre un progressivo spostamento della Russia verso l’Asia e mi pare che sia dimostrato anche dallo sviluppo abnorme e caotico di Mosca dal 2000 a oggi, come racconta Valentina nella introduzione. Una città asiatica molto più simile a Singapore, Hong Kong ecc.

Un’altra domanda mi preme. Come vivono le donne? Perché a differenza degli anni novanta non sappiamo più nulla delle produzioni letterarie e artistiche di giovani scrittrici o scrittori? Per esempio mi ha colpito ciò che ha scritto Chiara Zamboni in Femminismo fuori sesto, sul femminismo delle cucine nell’Unione sovietica degli anni settanta-ottanta, citando il libro di Svietlàna Aleksièvic Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo: «Allora la libertà di parola di queste donne contribuì a dare una spallata al sistema sovietico ma non creò un mondo nuovo e si è lasciato travolgere dal capitalismo» (pag. 12). Oggi Eduard Limonov richiama in Italia un grande interesse di pubblico. Sono impressioni che ho ricavato ascoltando una sua conferenza nel corso della quale ha attaccato duramente l’Aleksièvic, definendola una scrittrice nemica del popolo russo e addirittura criticando apertamente la scelta di conferirle il premio Nobel, attribuendolo anzi a una precisa volontà di attaccare la Russia e di porla in cattiva luce, denigrando il popolo sovietico.

(www.libreriadelledonne.it, 25 giugno 2018)

di Giordana Masotto


Questo testo è nato in occasione della presentazione alla Libreria delle donne di Milano del libro di Colette Shammah
In compagnia della tua assenza (La nave di Teseo editore, 2018) in cui l’autrice attraversa la vita della madre Sophie che non c’è più e dialoga con lei. Dalla sedicenne ebrea di Aleppo che viene mandata sola a Parigi a studiare nell’Europa minacciosa del 1938/40, alla donna colta e indomita, esile come un «tratto calligrafico giapponese», madre di quattro femmine, che approda a Milano.

Io e Colette ci ritroviamo qui oggi dopo tanti anni perché questo luogo, la Libreria delle donne, ha un senso speciale che riassumo così: se continuiamo a cercare noi stesse le nostre strade passano da qui.

Colette Shammah si è presa l’impegno di raccontare la vita di una donna. Come scriveva Carolyn Heilbrun alla fine degli anni ’80 in Scrivere la vita di una donna, rendere visibile la vita delle donne «è una impresa femminista». Si tratta di trasformare le vite in storie perché «non sono le vite a fornire i modelli ma le storie». È un altro modo per creare simbolico. È un lavoro politicamente importante, come ci ha detto Virginia Woolf novant’anni fa (Una stanza tutta per sé). Per questa via possiamo anche – come dice Heilbrun con una libertà che a me piace – risignificare la parola potere: «Il potere è la capacità di prendere parte a un discorso dal quale dipende l’azione e il diritto di essere ascoltati.»

Tu, Colette, ti sei presa la libertà di guardare alla vita di tua madre. E di farlo, inevitabilmente, con i tuoi occhi e con il tuo sentire. Un bel regalo che fai a tua madre: «No, non volevo che il mondo ti dimenticasse, che cancellasse il tuo nome.» Onori lei e ti prendi la tua bella libertà, di esserci tu, tutta intera nella storia di tua madre. Questa è l’impresa che ci interessa.

Ci vuole coraggio per esserci in presenza della madre. Colette ce lo dice: di fronte a lei «ero sempre in bilico tra menzogna e chiusura.» Eppure, essere vista dalla madre è un passo obbligato: «Alla mia età, avevo ancora bisogno di essere vista da te. Peggio: di essere vista tout-court. Saperlo era stancante. Per questo dopo la tua morte ho ritenuto che fosse arrivato il momento di uscire allo scoperto e di rivelare chi ero veramente.»

I dispositivi per costruire e preservare la propria identità sono uno dei fili rossi che attraversano tutto il libro. Scopriamo ad esempio la fascinazione di Zekìye, la madre di Sophie, per una figura leggendaria di donna, un’antenata della Spagna del Cinquecento, ai tempi dell’Inquisizione: «Zekìye era affascinata da quella donna che aveva vissuto contemporaneamente due esistenze in due mondi diversi, una da esibire e l’altra da proteggere e nascondere, una donna che aveva due nomi, anzi tre: Hannah di nascita; Beatriz, imposto dall’Inquisizione; Gracia, scelto da lei.»

Anche la giovanissima Sophie si misura con la propria madre: «Ma non avrebbe mai smesso di stupirsi di come sua madre cambiava in presenza dei nonni paterni: sembrava diventare meno sicura di sé, più mite e arrendevole. Una cosa che non le piaceva. Da grande, avrebbe cercato di non fare come lei: non si sarebbe mai lasciata sottomettere.» Decisioni perseguite con fermezza anche quando la forza non c’è ancora: «Lei teneva le gambe rigide e dritte come un soldato. Molto dritte. Questo le dava una certa sicurezza. Si sentiva meno sola perché era salda sui piedi.»

Quando quella forza cresce la Sophie adulta è diventata «una donna dalle mille qualità, attraente e manipolatrice. Un’affascinante piovra piena di desideri.» Alla figlia non resta che invidiare «la tua forza di volontà, la tua precisione di desideri».

Fuga? Conflitto? Oppure la scelta di inabissarsi in una clandestinità che è un modo per convivere con le proprie fragilità sentendosi anche forti? O addirittura la consapevole strategia di Penelope per tessere in segretezza le proprie tele quando il contesto prende il sopravvento? Elaborare la fragilità o l’onnipotenza materna rimane un paradigma fondamentale per affrontare le disparità tra donne.

Ma c’è un altro aspetto di questo libro che mi preme sottolineare. Si scrive sempre nella lingua materna che, come scrive Luisa Muraro ne L’anima del corpo, «è lingua endogena e relazionale, parlante da dentro, trovata con altri, risorsa di un’interiorità non isolata, che si potenzia nello scambio con altre e altri, mediatrice di distanze che altrimenti si popolano di macchine e mostri».

Eppure Colette scrive e pensa in italiano – come ha deciso crescendo – benché la lingua dello scambio familiare, la prima lingua, sia sempre stata il francese. Questo contraddice la natura unica della lingua materna? No davvero. Perché il cuore del discorso sulla lingua materna è che è lingua soggettivante, cioè quella che ti mette in grado di rigenerare l’esperienza. È la lingua che sprofonda dentro quando cresciamo, ma rimane a disposizione e la possiamo recuperare dentro di noi. È la lingua dell’arte e delle relazioni. Quella che ti consente di riarticolare il rapporto tra pensiero e parola. Ha scritto María Zambrano: «vivere umanamente è andar nascendo, continuare a nascere.»

Non si può rinunciare all’inesauribile nascere. La lingua materna dentro di noi ci consente di continuare a farlo e a stare così nel mondo. Qualunque essa sia e comunque si trasformi: ricordo che da giovane mi piaceva andare all’estero per sentirmi più libera e proprio la lingua straniera mi sfidava a scoprire chi ero e fin dove volevo spingermi.

Un’ultima osservazione. A sorpresa l’autrice scrive: «Ritorno nel presente, all’hotel Westin Palace dove ogni mattina vado a ritrovarti, scrivendo.» Che meraviglia! Il luogo per ritrovare la madre – e dunque se stesse – è uscire dalla casa, dal tuo luogo, per poter cercare al di là del già detto della tua vita. Ti crei spazio fuori, in quel luogo insieme stanziale e di passaggio, esposto e misterioso che è la hall di un albergo.

Questa è l’altra lezione che la figlia impara dalla madre Sophie, nomade, mai profuga: «Aveva innata la capacità di sentirsi pronta e a casa ovunque. E di abitare a pieno titolo la sua realtà.» Una lezione che per Sophie viene da lontano: «Il rabbino aveva spiegato che per andarsene da un luogo era indispensabile aver assimilato il concetto di libertà, mentre per scappare non c’era bisogno di elaborare un sapere, poiché malgrado le apparenze la coscienza non si modificava e non avveniva alcun cambiamento.»

L’abbiamo imparato: la stanza tutta per sé ce l’abbiamo dentro e ce la portiamo nel mondo. Il cerchio si chiude: siamo tornate al qui e ora, radicate ed esposte, ad attraversare le nostre differenze.

(www.libreriadelledonne.it, 28 febbraio 2018)

Milano, Libreria delle donne – Circolo della rosa, 24 febbraio 2018 ore 18. C’era una volta un’Italia comunista che faceva paura agli americani. Oggi, si tratta solo di nostalgia oppure resta qualcosa da dire di quella grande esperienza di uomini e donne? A partire dal libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli Al lavoro e alla lotta. Le parole del Pci (Harpo 2017), ne discutono con le autrici Liliana Rampello e Massimo Lizzi.

 

Introduzione di Massimo Lizzi

 

Del glossario, la prima parte del libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli, ha parlato Liliana Rampello. Come lei ha anticipato, la seconda parte del libro consiste in dieci interviste di dieci domande a sei donne e quattro uomini protagonisti della storia del PCI. Una scelta che vuol far prevalere il punto di vista femminile e femminista su una storia prevalentemente maschile.

Le domande sono incentrate sulle ragioni dell’adesione al PCI; la formazione politica e culturale, individuale e collettiva; il rapporto tra i sessi e con il femminismo; le pratiche politiche e il giudizio sulla comunità del PCI, se migliore delle altre; la propria definizione politica oggi, poiché quasi tutte le persone intervistate non sono più iscritte ad alcun partito.

 

Le ragioni della scelta del PCI

Gianni Cuperlo, il più giovane degli intervistati, l’ultimo segretario della FGCI, dice che per la sua generazione — si iscrive alla FGCI nel 1976 — l’adesione al PCI non si caricò di una scelta epica e sacrificale, come per le generazioni precedenti. Aldo Tortorella ricorda della sua militanza di giovane partigiano a Genova, tre compagni: il primo fu colpito a morte in strada, il secondo fu impiccato, il terzo fu deportato in un lager. A lui poteva capitare la stessa sorte. Tentato più volte di lasciare il partito, non lo fece mai, perché l’avrebbe vissuta come una scelta vile nei confronti di chi aveva sacrificato la vita. Cuperlo definisce la sua una scelta quasi per inerzia: i giovani comunisti erano la comunità più prossima e più ospitale tra i moti collettivi della scuola.

La mia scelta fu ancora meno epica di quella di Gianni Cuperlo, che almeno visse la seconda metà degli anni ’70. La mia generazione è quella degli anni del riflusso e del disimpegno. C’era un grande turn-over di giovani, ma c’era anche un notevole nucleo di militanti costanti e quasi totalmente disponibili. Sapevamo di non essere epici, ma ci sentivamo gli eredi di un’epica. Non rischiavamo nulla e non avevamo paura che il tempo del rischio potesse tornare. Solo quando vidi un film sui desaparecidos argentini (La notte delle matite spezzate) mi resi conto del rischio potenziale che una scelta di militanza poteva sempre implicare. Ricordo che da bambino venivo mandato a comprare i giornali e mia nonna, che aveva una mentalità cospirativa, si arrabbiava se non tenevo l’Unità nascosta dentro La Stampa.

La scelta del PCI non era, per noi, solo una scelta tra partiti. Era una scelta di campo nel conflitto tra entità storiche. I comunisti si misuravano non solo e non tanto con gli altri partiti, quanto con realtà più grandi, importanti e potenti: la chiesa cattolica (con cui c’era un dialogo e una rivalità morale); la Fiat e il capitalismo (con cui c’era un rapporto di conflitto e negoziazione, per lo più attraverso il sindacato, sempre a partire da una visione di interessi contrapposti o differenti); gli Stati Uniti e l’imperialismo, lo stato che occupava il nostro paese con le basi militari, e che voleva ancora installare gli euromissili, ed era avversario, oltreché dell’Urss, dei vari movimenti di liberazione nei vari continenti.

La scelta del PCI era pensata dal quel nucleo militante forte come una scelta di vita. Sia nel senso che sarebbe durata fino alla morte. Sia nel senso che era la cosa più importante della nostra vita. Sempre disponibili (pure i turni di vigilanza notturni, in Federazione o alle Feste dell’Unità). Sempre attivi, anche in situazioni che apparentemente non c’entravano niente con la politica. Persino un corteggiamento poteva sfociare in un’azione di sensibilizzazione politica.

La fine del PCI, per essere stata un’abiura giocata nella contingenza della politica spettacolo, in retrospettiva ha ridimensionato tutto questo e ha fatto spazio alla percezione di aver vissuto una storia sbagliata, di aver fallito, di essere stati smentiti nella diversità e nell’originalità dei comunisti italiani. E quindi, la percezione di avere avuto e di avere politicamente torto. La trasformazione socialista della società italiana non era avvenuta. Il programma, la strategia, l’organizzazione del PCI non erano state adeguate perché avvenisse e non era in vista nessun adeguamento futuro, perché quell’obiettivo storico veniva archiviato. Si poteva allora essere comunisti per ragioni sentimentali rivolti al passato o per motivi utopici rivolti al futuro, ma non lo si poteva più essere per motivi politici rivolti al presente.

Il libro, almeno nel ripensare la storia passata, lenisce questo sentimento depressivo, perché mette a fuoco e dà valore politico ad alcuni aspetti della storia comunista, che nel bilancio delle realizzazioni, tra critiche e autocritiche, sono lasciati sullo sfondo o del tutto ignorati.

 

La formazione politica e culturale

Un aspetto è la formazione politica e culturale. Luciana Castellina vede i suoi compagni di scuola comunisti essere di gran lunga i più colti e intelligenti, quelli che esercitavano più influenza su di lei. Graziella Falconi da ragazza definisce il PCI come il più intelligente d’Italia. Io stesso intendevo l’essere comunista come l’essere più preparato degli altri nella conoscenza dei fatti, nel modo di interpretarli e nell’abilità dialettica.

Alcune risposte sui libri della propria formazione individuale vanno oltre il senso della domanda ed espongono di fatto una vasta indicazione bibliografica. Le persone intervistate hanno letto molto, alcune di tutto: letteratura, poesia, filosofia, saggistica, storia, i classici soprattutto. Le donne più degli uomini. Agli uomini mancano del tutto le autrici.

A significare l’importanza dei libri c’è una battuta attribuita da Marisa Rodano a Palmiro Togliatti: «Non perdete troppo tempo con i giornali, piuttosto leggete romanzi». E c’è soprattutto un tragico episodio raccontato da Emanuele Macaluso: la sorte di Michele Calà, il bibliotecario della sua cellula di partigiani a Caltanissetta, che sotto i bombardamenti, invece di rifugiarsi, si preoccupa di salvare i libri e viene ferito mortalmente da una scheggia.

Il PCI si concepiva come intellettuale collettivo, per esercitare una egemonia culturale nella società. Incoraggiava la formazione individuale e organizzava quella collettiva, mediante giornali e riviste, in particolare l’Unità e Rinascita, e una rete di scuole di partito, la più importante alle Frattocchie, fuori Roma, dove si tenevano corsi e seminari, anche di molti mesi, per gli operai, le donne, i dirigenti e gli amministratori locali.

La stessa vita di partito in sezione e l’attività di base nei quartieri, a scuola e nelle fabbriche, oltre che per la sua valenza politica e propagandistica, era considerata un aspetto importante della propria formazione. La consuetudine con un operaio era quanto di meglio, per evitare di diventare un astratto intellettuale operaista (Achille Occhetto).

 

Il giudizio sulla comunità politica del PCI

L’appartenenza e la vita di partito avevano un importante aspetto comunitario. Lia Cigarini racconta del militante andato via con il manifesto, ma poi tornato alla sua sezione del PCI, perché bisogna pur avere degli amici nella vita. Secondo Aldo Tortorella, dovunque andavi potevi trovare un compagno disposto ad accoglierti come un fratello o così pareva. In parte, pareva anche a me, se penso al rapporto speciale con genitori e insegnanti comunisti o al modo in cui potevamo essere accolti da comunisti sconosciuti, durante la diffusione dell’Unità o un’attività porta a porta. A scuola, l’ultimo anno, sospettavamo della relazione tra un professore e una studentessa: entrambi comunisti, in pubblico si davano ostentatamente del lei. Oggi sono sposati con due figli.

La comunità del PCI teneva insieme cose diverse. Diverse generazioni, diverse anime politiche, in particolare quella riformista e quella movimentista negli anni ’80, di cui le due autrici sono espressione. E questo nel rispetto e nella valorizzazione reciproca, o almeno ci si curava che apparisse così. Diverse figure sociali operai, impiegati, commercianti, artigiani, piccoli e medi imprenditori. Lia Cigarini racconta come nella sua sezione nel centro di Milano fossero presenti l’ambulante e il primo violino della scala, la portinaia e l’intellettuale, l’artigiano e il bancario.

Quasi tutte le persone intervistate ritengono che la comunità politica del PCI fosse migliore delle altre. Un giudizio che richiama la diversità dei comunisti italiani. Lia Cigarini dice che tutti i funzionari che conosceva avevano fatto due scelte serissime: la resistenza e la povertà. Luciana Castellina osserva che quando i comunisti hanno rinunciato alla loro diversità, non si sono avvicinati di più alla gente, se ne sono invece allontanati.

 

Il rapporto tra i sessi e con il femminismo

Questo è l’aspetto più problematico visto oggi da questa sede, ma già da molto tempo. Lia racconta di avere rotto con il PCI, le sue pratiche politiche, negli anni ’60, dando vita con altre al primo collettivo del femminismo della differenza (DEMAU).

Una signora libraia, giovedì sera, sapendo che sarei qui intervenuto oggi pomeriggio, mi ha chiesto qual era l’argomento in discussione. Le ho detto che presentavamo un libro sulla storia del PCI. Mi ha risposto che il PCI non l’ha mai appassionata tanto, perché lo vedeva come parte del mondo maschile. Nel motivare questo ha citato, non tanto il ruolo degli uomini, il rapporto tra compagni e compagne, quanto il modo in cui i compagni trattavano le loro mogli e fidanzate: le mettevano in secondo piano rispetto all’impegno prioritario della militanza. Da segretario di sezione, quando convocavo i compagni per telefono, spesso dovevo fare una trattativa con la moglie, se rispondeva prima del marito. La questione fu discussa in un comitato centrale del 1953, perché il PCI accusava la DC di non essere coerente con il suo modello di unità familiare, poiché con gli effetti del suo governo, la povertà, la disoccupazione, l’emigrazione, disgregava le famiglie. Tuttavia, al lavoro, il PCI aggiungeva la militanza totalizzante e questo sottraeva ulteriore tempo alla famiglia. Sorse così la preoccupazione tra i comunisti che le mogli trascurate potessero essere preda di vicini, amici benintenzionati o dei parroci ed essere convinte a votare per la DC. L’Unità pubblicò un editoriale titolato: «Per chi voterà tua moglie?». L’indicazione del CC del Partito fu, non quella di dedicare più tempo alla famiglia sottraendolo al partito, ma intensificare la propaganda politica in famiglia.

Il maschilismo del PCI era comunque il più amico delle donne. Aveva una cultura emancipazionista. Un’organizzazione di donne di massa, che se non teorizzava la relazione tra donne, a suo modo la praticava e quell’associazionismo femminile creò le condizioni e determinò la riforma del diritto di famiglia e la tutela delle donne divorziate. Il PCI fu l’unico partito a tentare di aprirsi al femminismo della differenza e oggi molti uomini femministi (pur sempre pochi) sono uomini che provengono dal PCI o dai suoi paraggi.

All’epoca, mi interessava il femminismo come uno dei movimenti di liberazione — nel glossario è definito come un elemento di comunismo insieme all’ambientalismo. Leggevo le femministe che scrivevano sugli organi di partito, perché ritenevo facessero parte della formazione del buon militante, le leggevo anche se capivo poco. Compravo persino Reti, la rivista diretta da Maria Luisa Boccia. Ma non avevo coscienza del dibattito femminista o non me ne ricordo bene. Sapevo però che nel partito c’era questo orientamento del femminismo della differenza, che si stava affermando con la Carta delle donne. Ricordo una mia compagna (di partito e di scuola) farmi questo discorso: «Sai noi donne siamo differenti da voi uomini. Voi vi riunite la sera, a noi piace riunirci di pomeriggio. Mentre discutiamo, vogliamo prendere il té, magari ci capita anche di emozionarci e piangere». Io rimasi allibito e le dissi che non le credevo, che lei si stava solo adeguando a una linea di partito, anzi delle donne del partito in quel momento guidate da Livia Turco.

La Carta è vista dalle persone intervistate come un tentativo di sintesi o di incontro tra la cultura del PCI e il femminismo, come un tentativo di andare oltre l’emancipazionismo. Si risolse, forse, soprattutto nelle quote rosa, non si tradusse in una pratica politica e il suo percorso fu interrotto dalla fine del PCI. Lia Cigarini chiede perché non riprese nel PDS, un partito meno strutturato del PCI, dove le condizioni per una pratica di relazione tra donne poteva essere meno difficile.

 

(www.libreriadelledonne.it, 24 febbraio 2018)

di Pinuccia Corrias


Il 28 gennaio 2018, presso la Libreria delle donne di Milano si è tenuto un incontro fra donne appartenenti ai Gruppi donne delle Comunità di Base cristiane italiane, al Graal-Italia, alla Sororità di Mantova, a Thea-Teologia al femminile e la Comunità di
 storia vivente.

Intervento di Pinuccia Corrias

Solo la lettura de L’Ordine simbolico della madre di Luisa Muraro e le sue conseguenze sulla relazione con mia madre e, dunque, col mondo delle donne, credo che abbia avuto su di me conseguenze così significative come la scoperta della pratica di “storia vivente”, acquisita in particolare grazie a Marirì Martinengo.

Essa ha portato un altro pezzo di libertà nella mia vita attraverso la comprensione del libro di Mira Furlani, Le donne e il prete, in un percorso che descrivo in un testo di cui ho letto un breve pezzo all’incontro del 28 gennaio in Libreria a Milano, e che qui ripropongo per intero dopo averlo condiviso con Mira.

Mi presento. Anche se non faccio parte delle Comunità di Base, ho fatto un lungo percorso con Doranna Lupi e Carla Galetto nel gruppo Ricerca teologica e pensiero della differenza, che ha alimentato molto del pensiero e delle pratiche femministe di Pinerolo e valli.

Inoltre conosco Mira, sono stata sua ospite tanti anni fa e c’è stato uno scambio reciproco sulle gioie e gli scacchi della nostra vita. Anche per questo il suo libro, Le donne e il prete, mi ha interessata tantissimo; l’ho letto con grande passione e con altrettanta passione con Doranna e le altre ci siamo confrontate, senza trovare soluzione alla nostra conflittuale posizione; pur non negando il positivo che Doranna e Carla individuano nella loro bella prefazione, io mi sentivo bloccata da qualche cosa che mi sembrava mancasse e da cui veniva un’ombra anche a ciò che veniva detto. Da qui il rifiuto e quindi il silenzio tormentato.

Posso dire che per iniziare a rompere questo muro, mi sono servite all’inizio le parole di Luisa Muraro: «Mi parve una storia di “donne che non vanno d’accordo” e ciò mi diede fastidio» (Viottoli, n. 2/2017, p. 57).

Certo, anche in me avrei potuto riconoscere “pregiudizi misogini”, come chiamava i suoi Luisa, ma la cosa non mi placava, perché mi sembravano altrettanto misogini quelli usati per stigmatizzare la donna o le donne che in questa questione stavano dall’altra parte, e dunque i miei dubbi sulla bontà della scrittura di Mira, soprattutto in alcuni punti, continuavano a bloccarmi.

La lettura ripetuta di tutti i testi che Carla e Doranna hanno raccolto nell’ultimo numero di Viottoli – grazie! – in particolare di quelli le cui autrici hanno visto e hanno tentato di svolgere il nodo (che io sapevo essere anche il grumo doloroso della mia vita), insieme al mio desiderio di trovare una via di uscita valida anche per me stessa, mi hanno portata a due scoperte che proverò ad esplicitare.

La prima è il consiglio di Marirì Martinengo, madre insieme ad altre della Libreria delle donne di quella pratica che hanno chiamata “storia vivente” e di cui avevo letto i testi con interesse, ma che erano rimasti per me pura teoria senza un aggancio concreto alla realtà.

«La radice della nostra pratica è l’autocoscienza degli anni settanta, che aveva un suo progetto politico; la storia vivente ne ha un altro; il metodo, la pratica, è quello di andare a fondo dentro di sé fino ad individuare il nucleo, il nodo profondo che ha fatto di ciascuna di noi quello che è diventata: il narrarlo e lo scriverlo ne è la storiografia. L’esposizione, prima orale poi scritta, di quanto viene fuori, va contestualizzata (questo è il punto chiave!) e legata saldamente con i fatti di cui dicevo sopra. Occorre rifuggire dallo psicologizzare e mantenersi ancorate/i al terreno della politica» (sito della Libreria delle donne, 6 aprile 2017).

Aggiunge, poi, un’affermazione che lei stessa definisce “essenziale”: «Estrarre dalla propria interiorità l’esperienza femminile e darle parola e poi scrittura, significa narrare la storia dei condizionamenti violenti imposti alla vita delle donne dall’organizzazione simbolica e sociale patriarcale, acquistarne consapevolezza e contemporaneamente studiare il modo di mettere al mondo le vie per sottrarvisi, avviando un movimento politico e storico in cui vi sia libertà e autorità femminili. Proponiamo una storia a partire da sé – valida per donne e uomini – da un sé profondo che la filosofa María Zambrano e la storica María Milagros Rivera Garretas chiamano le viscere. (Forse l’universale come mediazione)» (idem).

Far parlare le viscere, dunque.

E c’è un punto in cui le viscere di Mira parlano e ciò che dicono non è quanto si sa e tutti raccontano sulla rivoluzione dell’Isolotto. Quella rivoluzione che tutti sanno e riconoscono, Mira l’ha vissuta da protagonista alla pari dei maschi, donna prometeica, forte e vincente. L’unica donna a subire il processo con gli altri uomini e come loro assolta.

Le viscere di Mira in questo libro gridano invece un altro nodo, rimasto sempre taciuto, che è quello riguardante il progetto delle “case-famiglie” con tutto ciò che vi è nato dentro e intorno e che ha riguardato la sua vita.

E non è affatto reticente, come suggerisce Luisa Muraro.

Dice tutto ciò e solo ciò che le viscere hanno sempre tenuto dentro nel loro groviglio doloroso e che l’ha sempre ferita e che ha sempre taciuto e che finalmente ha avuto la forza, grazie all’amore di altre donne, di tirar fuori.

Ecco, le viscere hanno parlato, ma ora, come dice Marirì Martinengo, il nodo va contestualizzato.

E il contesto, dico io, non è l’Isolotto, luogo in cui Mira ne ha fatto dolorosa e incompresa esperienza; il nodo non riguarda le donne e il “prete”, perché qui l’essere prete, secondo me che ho fatto un’esperienza simile con un uomo che prete non era, non c’entra: c’entra l’essere uomo – e perfino dei migliori – di quel tempo.

Qui il nodo è: le donne e l’uomo negli anni “rivoluzionari” del ’68 e dintorni.

Il contesto qui è il simbolico patriarcale nel rapporto uomo-donna: il simbolico, non il sistema! Che veniva allora contestato dai figli maschi coadiuvati dalle figlie femmine. Simbolico che negli anni ’60 e in buona parte degli anni ’70 funzionava uguale e quasi intatto in tutte le realtà miste: famiglia, scuola, partiti di sinistra ed extra-parlamentari, chiesa tradizionale e chiesa del dissenso; con una differenza, però, rispetto agli anni precedenti. Differenza di cui Mira era portatrice, come molte altre donne che in quel tempo si erano affacciate autonomamente alla vita sociale, sostenute da madri silenziose ma incoraggianti; una differenza di cui, tuttavia, eravamo in buona parte inconsapevoli.

Non per molto tempo ancora, però.

Era il tempo della discussione tra “liberazione” ed “emancipazione”, allora importantissima.

La differenza di cui parlo viene messa bene in luce da Alessandra De Perini, in un suo intervento del 22 settembre a Padova, commentando una foto.

«C’è una bellissima foto che per me ha un significato simbolico: mostra Mira che insieme a don Mazzi, ambedue giovani stanno salendo sull’Adamello. Lei è più avanti di lui, è più in alto e sembra rivolta verso di lui come per incoraggiarlo a salire. Nel momento in cui fu scattata la foto (un manifestato lo chiama il biopsicologo Badard, cioè l’espressione evidente di una realtà simbolica non esplicitata) lei, a livello profondo, è già collegata a una storia più grande, che scorre lenta, la trascende e narra di un’umanità femminile che lotta per affermare il proprio desiderio di verità, di esistenza libera, in fedeltà a sé e all’amore alla madre. Su di lui, invece, incombe una storia antichissima di potere maschile materiale e spirituale che lo appesantisce» (Viottoli, p. 56).

Eccolo il contesto che la De Perini (che non a caso è una storica) ha lucidamente individuato e che ora, nel 2018, possiamo dire, perché quasi 50 anni di femminismo ci hanno dato le parole per dirlo.

Quasi 50 anni. Perché il ’68 fu un tempo straordinario (vedi Alessandra Bocchetti, Cosa vuole una donna?) in cui noi donne condividemmo con gli uomini (e ciascuna con il proprio compagno di strada) tutto: privato e pubblico, corpi anime e spirito.

Capire che cosa è successo allora non era facile.

Ora, però, lo sappiamo.

Noi eravamo più avanti.

E sempre più avanti siamo andate; e ora, di ciò che è stato, sappiamo fare memoria efficace, storia vivente, mentre i maschi ricordano battaglie e vittorie, quasi sempre legislative! E così anche le donne che dai maschi – i migliori! – hanno mutuato il linguaggio e il simbolico.

Quello di cui parla Mira non è un nodo solo della sua storia personale, e neanche solo dell’Isolotto e della Chiesa patriarcale, ma delle donne e degli uomini che hanno attraversato quel tempo, soprattutto quelle che nel ’68 hanno mischiato la loro vita con i maschi e hanno fatto con loro progetti di vita.

E quel nodo finora non era mai stato elaborato politicamente dalle donne.

Non sbaglia, forse, Marcello Vigli quando afferma che le difficoltà nella relazione uomo-donna aumentano se l’uomo è un prete (cfr.Viottoli p. 42), ma sbaglia di certo quando non capisce che don Mazzi non si è scontrato con Mira in quanto prete. Questo può essere avvenuto in altre situazioni, ma è un’altra storia.

E per chiarire ancora di più, vorrei dire alcune cose a chi ha scritto a nome dell’Isolotto.

Che Mira ci abbia impiegato così tanto tempo a scrivere è la prova più grande del suo amore per don Mazzi e della sua volontà di non trascinarlo in una situazione di confronto pubblico ambigua oltre che difficile.

Voi scrivete: «Don Mazzi, che non è più con noi da cinque anni (e si sente tutto il dolore e la desolazione per questa perdita irreparabile, perché – lo sappiamo – i morti non tornano!) e non può quindi, anche se lo volesse, rispondere a Mira» … e noi capiamo “per difendersi”!

Ma, vedete, Mira non ha scritto questo libro per parlare di don Mazzi ma per dire di sé.

Non più, però, di quella Mira pubblica che aveva già dato e ricevuto la sua parte nel processo all’Isolotto.

Perché quella era una Mira dimezzata, mutilata. Era quella che, di fronte al valore dell’esperienza dell’Isolotto, ancora una volta, come sempre abbiamo fatto per tanto tempo noi donne, ha messo da parte se stessa e il suo grumo di dolore irrisolto, e a spada tratta ha difeso ciò che l’Isolotto rappresentava per chi l’aveva fatto.

Col tempo, però, con la maturazione del pensiero della differenza e il sostegno di donne che stavano dalla sua parte, Mira ha trovato, dentro il dolore e lo scacco, d’improvviso le parole perfette per dire quel suo dolore e quel suo scacco. Dirlo.

Bene per alcuni/e. Male per altri/e.

Rischiando di essere fraintesa, di essere letta secondo schemi e pregiudizi a volte perfino umilianti, consapevole di dire una parola tagliente, che poteva ferire, insicura talvolta perfino che ne valesse la pena.

Ha sentito che doveva dirlo. Per se stessa. Non per don Mazzi o per l’Isolotto o per le case-famiglia.

No. Per Giustizia. E la Giustizia è indissolubile dalla Verità. (Ed è maiuscola per chi la sente essenziale per il proprio essere e il suo rapporto con Dio. Come Giobbe).

E la verità è che dentro l’Isolotto, come dentro il ’68, come dentro le rivoluzioni maschili non c’era (e non c’è, credo) posto per una donna che volesse, e voglia, essere “soggetta” e non protagonista o oggetto.

Non ce n’era. E neanche gli uomini migliori, preti o no, potevano rispondere ai desideri di Mira, o delle donne come lei.

Perché per quei desideri non c’erano ancora né parole né pratiche e perché – l’abbiamo imparato dopo – affinché i desideri delle donne si attuino, occorre che una donna non sia sola, ma in relazione con un’altra donna. In più: per entrare in relazione con donne “così”, gli uomini dovrebbero essere “altri” uomini, che io non posso sapere come devono essere. Perché io non conosco uomini “altri”.

So, però, per esperienza diretta, che anche quando qualche donna ci tenta e qualche uomo ci prova, c’è spesso un’altra donna che – chissà perché – facilita a quest’uomo la strada per restare quello che è: un uomo che si crede Dio.

A differenza di María López Vigil, giornalista cubana che ritiene che la “mascolinizzazione” del divino «contribuisca […] alla disuguaglianza tra uomini e donne. E alle diverse espressioni di violenza degli uomini contro le donne» (Viottoli, p. 78), mi convince di più pensare che da una pratica di violenza sulle donne – non solo e non necessariamente fisica – nasce un simbolico onnipotente, per cui l’uomo si sente un dio e dunque si crea un dio maschile.

Ma qui non è questo il punto.

(www.libreriadelledonne.it, 16 febbraio 2018)


Presentazione del libro di
Liliana Di Ponte e Daniela Simi, Il mio paese adesso sono due, Ed. ETS, 2017 a cura di Laura Minguzzi, della Comunità di Storia vivente.

Nell’introduzione Catia Sonetti (direttrice dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Livorno) definisce le due autrici “raccoglitrici sensibili di racconti.” Le storie che raccontano sono di venti badanti provenienti da tredici paesi diversi di età comprese fra i ventisei e i settantuno anni, «Vengono da lontano per riparare i buchi del nostro welfare». Il territorio è quello di Lucca e provincia. Gli incontri sono stati organizzati con l’aiuto di varie mediazioni spesso informali, come amiche, conoscenti o la Caritas. Tutte le donne intervistate sono state contente che qualcuno/a potesse interessarsi alle loro vite. Le domande erano semplici e dirette. Perché sei qui? Cosa ti ha spinto a partire? Chi hai lasciato per venire qui? Come vivi nella nostra città? Che progetti hai?

Il termine “badante”: l’Accademia della Crusca ha accolto nel 2002 il nuovo termine che in origine indicava il lavoro di chi accudiva animali bisognosi di cure continue come vacche e vitelli. Sta proprio in quella necessità del sempre, in quest’avverbio (ho pensato subito che in amore si dice “ti amerò per sempre”), lo spartiacque fra tutto ciò che non siamo più in grado di assicurare e coloro che lo garantiscono per noi. Nelle ricerche che ho consultato nel sito di In genere si usa il termine “assistenti familiari” o “lavoratrici domestiche”.

L’Italia è il paese con il più alto numero di lavoratrici domestiche e di cura. Ci sono circa 900.000 lavoratrici domestiche quasi totalmente straniere. Le due autrici, che non sono specialiste di metodologia di raccolta di testimonianze orali, hanno scoperto a loro spese che le confidenze più significative sono arrivate quando l’intervista era finita e il registratore spento «perché nonostante tutto lo strumento inibisce». Ma l’ascolto sensibile messo a disposizione da Liliana e Daniela ha fatto sì che l’intervistata si aprisse fiduciosa. Una qualità rara e preziosa quella dell’ascolto attento. Anche nella comunità di Storia vivente ricordo che Marirì Martinengo chiese che non si registrasse per esercitare il massimo di ascolto e attenzione alle parole dell’altra, valorizzando la presenza, la parola in presenza, la fiducia nell’ascolto dell’altra. La percezione colloca questo lavoro prezioso di cura o manutenzione della vita in un passato molto remoto, quasi secolare, cioè prima della fine della famiglia patriarcale. C’è una generale svalutazione e non riconoscimento di questo lavoro soprattutto femminile.

Mi ha colpito la scelta linguista delle autrici, cioè si citano fedelmente frasi delle donne intervistate che s’inventano parole che suonano molto espressive, per esempio “la manchezza”. Soma dello Sri Lanka dice: «Quando torno a casa, sento la manchezza…», «Qui mi manca “mi respiro” perché qui mi sento proprio strinta vita», oppure parlano un misto fra la lingua d’origine e l’italiano, come Ramona che in Ritratto di signora definisce il rapporto con l’assistita “un tribolo”.

Il libro è diviso in sette parti con una breve introduzione e una cartina geografica del mondo con le rotte di provenienza che conducono queste donne dai luoghi più disparati al territorio di Lucca (Albania, Ecuador, Bulgaria, Senegal, Romania, Ucraina, Filippine, Brasile, Russia, Sri Lanka, Perù, Marocco ecc.). Le autrici hanno scelto un metodo molto efficace scomponendo e ricomponendo i racconti in base a tematiche simili e inserendo brani autobiografici. Quella del racconto mi è sembrata una scelta felice; in Francia è appena uscito un libro di racconti di badanti che Guido Lagomasino mi ha consigliato.

Particolarmente toccante anche la scelta di introdurre ogni capitolo con una poesia di una poetessa straniera su tematiche di migrazione. Natalia Bondarenko scrive:

Mi prendi in giro tu

per come parlo la tua lingua,

per come sfuggo alle sue regole

per come la maltratto (per forza

di cose), ma è soltanto

un fatto di abitudine, trasmesso

da madre a figlia, dal seno al sangue,

dalla radice all’albero che combatte

la sete e non muore […].

Partono col sostegno della famiglia che spera in benefici, ma a volte con l’ostilità di uno o più parenti. Ma in ogni caso giocano un ruolo da protagoniste in quel contesto, un ruolo attivo che spezza la visione di donna che accetta il proprio destino e dà vita a nuovi possibili orizzonti. È un riposizionarsi nel mondo. Diventano soggetti che portano reddito a tutta la famiglia. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla lingua. «Non capire le cose, non comprendere le richieste crea disagio, è una barriera». Usano soprattutto la TV per imparare o in alcuni casi le stesse assistite o parenti, una ha la figlia maestra, insegnano loro l’italiano. Io ho avuto la netta impressione di vedere attraverso il racconto di queste vite pararsi davanti ai miei occhi lo svolgersi della storia europea, e non solo, dopo la caduta del muro di Berlino e soprattutto le ultime vicende delle guerre di confine in Georgia e in Ucraina dove c’è di mezzo la questione della Nato. Nelle parole di due giovani amiche, Galina e Tamara, partite appena ventenni dalla Georgia, si comprende la crisi economica e politica di questo paese dopo l’intervento della Russia del 2008 per impedire l’ingresso di questa repubblica nella Nato. Così come per l’Ucraina sappiamo che la questione dell’accettazione in Europa è causa del conflitto permanente nelle regioni del Donbass, confinanti con la Russia, che vogliono l’indipendenza e continuare a gravitare nell’orbita della Russia. Oltre l’Europa ho conosciuto le vicende della guerra civile nello Sri Lanka nei racconti dei badanti, una giovane coppia di quel paese che ha lavorato e abitato presso i miei suoceri per alcuni anni, accompagnandoli verso la morte.

Il titolo esplicita la caduta del senso di appartenenza, lo stare in bilico, un equilibrismo faticoso ma che può portare a scelte di libertà o a ricadute nello sradicamento sofferente se non si lavora sul senso del lavoro, sulle implicazioni e le potenzialità innovative di questa particolare esperienza relazionale.

Qui in Libreria abbiamo ascoltato un esempio portato da un’artista, Donatella Franchi, del tipo di lavoro simbolico che aiuta a dare un senso alla relazione fra badante, assistita e parente dell’assistita – in questo caso la madre centenaria di Donatella – la relazione madre e figlia e le diverse badanti con cui nel tempo Donatella ha costruito una relazione, facendo emergere la creatività nascosta di ognuna di loro e scoprendone gli aspetti umani, le storie familiari, la realtà politica del paese di provenienza, tessendo una rete di significati che ha riscattato e sollevato dalla pura materialità contrattuale il lavoro di cura («Donne con le ali», non a caso, s’intitola il suo lavoro creativo fatto di poesie, installazioni, libri d’artista).

Difficoltà di accasarsi nella lingua, nel paese di adozione, dovuta forse al fatto di avere ancora in mente il modello di famiglia ideale che non esiste più. Molte delle testimonianze ritengono che valga la pena affrontare i rischi, i pericoli del Gran Viaggio (le mafie degli intermediari, delle agenzie)! Ne parlano Galina dalla Georgia, Anastasia dall’Ucraina, Flor dalla Bulgaria: c’è il pericolo di essere derubate durante il viaggio di ritorno, ma ne vale la pena soprattutto per i figli. Dalle macerie nascono nuove scelte di vita oltre il machismo e le violenze dei mariti che bevono. Ma la prima vera trasformazione investe loro stesse. In un articolo su Italiaoggi ho letto recentemente della difficoltà del ritorno perché soprattutto nei paesi dell’Est c’è la continua richiesta di reddito e le badanti sono una fonte sicura. Rivestendo il ruolo di capofamiglia non riescono a sottrarsi alle richieste. Anche Paula dell’Ecuador dice: «Sono stata tentata dai soldi pensando che qui incontravo il paradiso… però non è così, è duro. Mi mancano tanto i miei figli… Oggi per me non c’è motivo per restare…». Ma dov’è allora la libertà femminile? Anche nell’impostazione, nella struttura del welfare italiano c’è ancora una forma mentis legata alla vecchia famiglia tradizionale. Non si vedono i cambiamenti? Ranija, filippina, racconta invece di una felice esperienza. Gestisce da tre anni un bed & breakfast, perché lei dice di sé che pensa positivo e ha affrontato l’ignoto con questo pensare positivo. Anche Vera, albanese, si è felicemente stabilita in Italia e Tamara ha un lavoro regolare in una casa di cura di suore e un ottimo rapporto con loro ed è soddisfatta della sua scelta di vita.

Nella recensione di questo libro, in Leggendaria n° 123 dal titolo La catena internazionale della cura, la giornalista Francesca Caminoli pone questa domanda: perché le autrici del libro s’interrogano sul confine poroso tra privato e pubblico, sulle famiglie e sui modelli di welfare?

Anche le ricerche pubblicate di recente come Viaggio nel lavoro di cura di Sara Picchi, Ediesse 2016, rilevano il carattere usurante e complesso di questo lavoro in quanto non esiste mansionario e si distingue solo fra assistito/a autosufficiente o non autosufficiente… Un progetto di ricerca del Comune di Milano del gruppo CuraMI, condotto da Soleterre e dall’Istituto di Ricerca Sociale (IRS) nel 2015, ha tracciato un percorso sperimentale con un gruppo di una quarantina di donne. Un lavoro di parola di decontaminazione dal lavoro totalizzante al fine di migliorare la vita e la relazione con le/i pazienti attraverso uno scambio di parola e di auto aiuto. La sperimentazione è stata guidata da una psicologa, un’antropologa e una consulente del lavoro. Guadagnare tempo per sé, alla fine questa è stata la conclusione, migliora anche la relazione con l’assistita/o. Il punto di vista adottato era dalla parte delle lavoratrici e non come di solito succede dalla parte della famiglia italiana che richiede garanzie del servizio prestato.

Libreria delle donne – mercoledì 27 settembre 2017