Aldo Civico
[…] Tra i concittadini di Bush – più inconsciamente che consciamente – si sta diffondendo la convinzione che alla paura non si può rispondere seminando altra paura ed altro terrore. “Lo scorso anno di questi tempi -mi dice Rainer, un giovane studente del Boston College – con i mie compagni pensavamo che non si poteva stare con le mani in mano, e molti davano ragione a Bush ed ai motivi della sua guerra. Oggi è chiaro ai nostri occhi, che la guerra ha portato solo maggiore caos”.
Per questo la piccola folla di accademici, artisti, politici, imprenditori e tanti semplici cittadini che si sono riuniti a Filadelfia venerdì scorso, 12 settembre, ha avuto un significato altamente simbolico. Di fronte al palazzo dove è stata firmata la Dichiarazione di Indipendenza nel lontano 1776, si è voluta firmare la Dichiarazione di Interdipendenza. Si è trattato di un semplice gesto di resistenza organizzato dai molti che in America professano il loro credo nel multilateralismo, nel dialogo tra le culture, nella necessità di una cittadinanza globale.
Duecento e più anni fa, l’America aveva trovato la sua libertà separandosi dal Vecchio Mondo. “Oggi invece – mi dice Benjamin Barber – la libertà la possiamo trovare solo lavorando per la libertà di tutti”. E’ l’esigenza insomma di passare dalla indipendenza all’interdipendenza, promuovendo un movimento dal basso che trasformi i singoli individui in cittadini del mondo in relazione.
Ma di fronte alla forza bruta dei muscoli d’acciaio, è di un altro manipolo di idealisti che abbiamo bisogno? “Oggi l’idealista è Bush ed il realista sono io”, risponde Barber. “Oggi l’idealista è chi non sa leggere gli eventi e non riconosce la realtà dell’interdipendenza. Sono realisti invece quanti riconoscono che nel mondo tutti dobbiamo cooperare perchè tutti siano più liberi, più eguali e più fraterni. Se vincono i realisti di oggi tutti saremo liberi. Se vincono gli idealisti di oggi, nessuno sarà libero”.
Menchu e Shiva contro la Wto: solo per crisi del caffè colpiti 25 milioni di contadini
Anche il controvertice è entrato pienamente nel vivo, dopo la manifestazione dei contadini che martedì ha contestato l’inizio dei lavori della Wto. Si svolge a qualche chilometro di distanza del summit ufficiale e si discute ovviamente di commercio, ma di commercio giusto, «quel commercio – dicono il premio Nobel per la pace Rigoberta Menchu e l’economista indiana Vandana Shiva – che favorisce davvero i piccoli produttori, non li strangola con la corsa al ribasso dei prezzi sui mercati internazionali e li sostiene nei momenti di difficoltà». «C’è qualcosa di perverso – spiega Menchù – nelle conseguenze del crollo del prezzo del caffè, che nel solo centro America ha provocato la perdita del lavoro per 540 mila contadini, che si vanno a sommare al gran numero di disoccupati».
«La sola crisi del caffè ha colpito 25 milioni di persone in Africa, Asia e America Latina – denuncia il premio Nobel rivolgendo un appello alla stessa Wto e ai governi presenti a Cancun perché appoggino il commercio giusto. «Lavoriamo per proteggere i nostri agricoltori, le nostre comunità, le nostre biodiversità – dice Vandana Shiva – Da quando la Wto ha cominciato a imporre le sue regole i prezzi dei prodotti agricoli sono crollati: in India, negli ultimi due anni i ricavi dei produttori di tè sono scesi da 9 a 5 miliardi di dollari e le vendite sono crollate del 20%. Con le regole di quello che chiamano il libero scambio l’export dei semi oleosi perde ogni anno 200 miliardi di rupie, quello delle patate 50, quello del riso 300, e quello del grano altri 300». «Quando si parla di regole – afferma Shiva – non ci si deve limitare al discorso sui sussidi, che sembrano la parte più critica e più criticata a Cancun, ma ci si deve concentrare sul problema del ribasso dei prezzi. Perché i sussidi interni, quelli dati allo sviluppo rurale, sono giusti: gli unici sbagliati sono quelli alle esportazioni».
Naomi Klein
I soldati filippini denunciano: il governo sta bombardando il suo stesso popolo per ricevere dollari Usa. Il Sud-Est asiatico sta per diventare il prossimo principale fronte della guerra di Washington contro il terrorismo?
Cosa serve per diventare la maggiore notizia di questa estate? Molto, come hanno recente scoperto un gruppo di giovani soldati filippini. Il 27 luglio, 300 soldati che avevano piazzato esplosivo C-4 in un gigantesco centro commerciale di Manila accusavano uno dei migliori alleati di Washington di far saltare in aria i propri edifici per attrarre i dollari Usa dei finanziamenti militari. E con ciò sono riusciti a malapena e entrare nelle notizie internazionali.
Questo a discapito di tutti perché, come conseguenza del bombardamento del Marriott a Jakarta e delle nuove conclusioni dell’intelligence, nelle quali si sostiene che gli attacchi dell’11 settembre sono stati studiati a Manila, pare che il Sud-Est asiatico stia per diventare per Washington il prossimo principale fronte della guerra contro il terrorismo.
IL MIGLIORE TERRORISMO
Le Filippine e l’Indonesia non sono rientrate nell’asse del male; i due stati offrono a Washington qualcosa che l’Iran e la Corea del Nord non offrono: governi amici che vogliono aiutare il Pentagono a ottenere la sua vittoria. Sia il presidente delle Filippine, Gloria Macapagal Arroyo, che il presidente indonesiano, Megawati Sukarnoputri, hanno abbracciato la crociata di Bush come perfetta copertura per le loro brutali operazioni di pulizia nei confronti dei movimenti separatisti che si trovano nelle aree più ricche di risorse: Mindanao nelle Filippine, Aceh in Indonesia.
Il governo filippino ha già ottenuto una fortuna dal suo status di miglior alleato nella lotta al terrorismo che gli Usa abbiano in Asia. Gli aiuti militari statunitensi sono passati da 2 milioni di dollari nel 2001 a 80 milioni di dollari all’anno, mentre i soldati e le forze speciali Usa si sono impegnati a Mindanao per lanciare attacchi contro Abu Sayyaf, un gruppo che la Casa bianca accusa di avere legami con al Qaida.
Ciò avveniva fino alla metà di febbraio, quando l’alleanza tra Usa e Filippine soffrì un’importante battuta d’arresto. Alla vigilia di una nuova operazione militare congiunta, che coinvolgeva più di 3000 soldati statunitensi, un portavoce del pentagono disse ai giornalisti che le truppe Usa nelle Filippine avrebbero “partecipato attivamente” ai combattimenti, un cambiamento inaspettato rispetto alla linea tenuta dall’ amministrazione Arroyo. Quest’ultima aveva sempre sostenuto che gli Usa stavano occupandosi solo di addestrare le truppe locali.
La differenza è significativa. Una clausola della costituzione filippina proibisce che gli stranieri combattano sul proprio territorio, una salvaguardia contro il ritorno delle basi militari Usa, che furono bandite dalle Filippine nel 1992. La protesta di popolo contro l’annuncio dato in febbraio è stata così forte che l’intera operazione è stata annullata e le future operazioni congiunte sospese.
CHI FA GLI ATTENTATI?
Nei sei mesi successivi, mentre tutti gli occhi erano puntati sull’Iraq, c’è stato un improvviso aumento degli attacchi terroristici a Mindanao. Ora, dopo la ribellione, la domanda è: chi ne è stato responsabile? Il governo accusa il Fronte moro di liberazione islamica (Milf). I soldati ribelli puntano il dito contro i militari e il governo dicendo che, gonfiando la minaccia terroristica, stanno costruendo la giustificazione per maggiori aiuti e interventi statunitensi.
I soldati ribelli affermano che:
– I capi dell’esercito, in accordo con il regime dell’ Arroyo, hanno piazzato le bombe di marzo all’ aeroporto della città del sud di Davao, così come in altri luoghi, dove 38 persone sono morte. TI tenente Antonio Trillanes, capo dei ribelli, dichiara di avere “centinaia” di testimoni che possono confermare l’esistenza del complotto.
– L’esercito ha fornito ai veri ribelli di Mindanao armi e munizioni, quei ribelli contro i quali i giovani soldati sono stati poi mandati a combattere.
– Membri dell’esercito e della polizia hanno aiutato i prigionieri accusati di terrorismo a fuggire dalla prigione. La “conferma finale” di questo, secondo Trillanes, sta nel fatto che Fathur Rohman al-Ghozi è fuggito il 14 luglio dalla sorvegliatissima prigione di massima sicurezza di Manila. Al-Ghozi è un noto bombarolo di Jemaah Islamiah, legato sia all’attentato di Bali che a quello al Marriott.
– Il governo si stava preparando e si stava organizzando per una nuova serie di bombardamenti che giustificassero il dichiarare la legge marziale.
DENUNCE “VALIDE E LEGITTIME”
La Arroyo nega e accusa i soldati di essere strumento di oppositori politici senza scrupoli. I soldati ribelli insistono sul fatto che non hanno mai tentato di aumentare il proprio potere bensì di denunciare una cospirazione tra i più alti livelli. Quando l’Arroyo ho promesso di avviare un’indagine su queste accuse, la ribellione è terminata senza violenza.
Nonostante che la tecnica utilizzata dai soldati sia stata condannata, la stampa e anche molti militari hanno riconosciuto che le denunce erano “valide e legittime”, come mi ha detto il capitano della Marina militare ora in pensione, Danilo Vizmanos.
I giornali locali hanno descritto la vendita di armi ai ribelli come un “segreto noto”, come una cosa “comunemente risaputa”. Il generale Narciso Abaya, capo del personale delle forze armate delle Filippine, ha alla fine ammesso che “esiste una corruzione a tutti i livelli”. E la polizia ha ammesso che al-Ghozni non potrebbe essere fuggito dalla sua cella senza l’aiuto di qualcuno dall’interno. Più significativo ancora, Victor Corpus, il capo dell’intelligence dell’esercito, si è dimesso, pur negando di aver avuto un ruolo nelle bombe di Davao.
SOLO UN “BIZZARRO” INCIDENTE
Per di più i soldati non sono stati i primi ad accusare il governo delle Filippine di bombardare il proprio stesso popolo. Giorni prima della ribellione, una coalizione di gruppi legati alla Chiesa e avvocati hanno lanciato una “missione alla ricerca di prove” per investigare le continue voci che davano lo stato come coinvolto nelle esplosioni di Davao. L’indagine sta anche tentando di verificare il possibile coinvolgimento delle agenzie di intelligence statunitensi.
Questi sospetti prendono le mosse da un bizzarro incidente avvenuto il 16 maggio 2002 a Davao. Michael Meiring, un cittadino Usa, ha involontariamente fatto esplodere degli esplosivi nella sua stanza di hotel, rimanendo gravemente ferito. Mentre era ricoverato all’ospedale, Meiring è stato sbattuto fuori di lì da due uomini, che testimoni dicono che si sono identificati come agenti Fbi, e portato negli Usa. La richiesta da parte di funzionari filippini che Meiring venisse riportato nel loro paese per essere accusato non hanno avuto effetto. “BusinessWorld”, uno dei più importanti giornali delle Filippine, ha pubblicato articoli che accusano apertamente Meiring di essere un agente Cia coinvolto in operazioni segrete “per giustificare la presenza di militari e basi Usa a Mindanao”. Tuttavia la storia di Meiring non è mai stata riportata dalla stampa statunitense. E le pesantissime accuse dei soldati ribelli non sono state nulla di più che una storia di un solo giorno. Forse la cosa deve essere parsa troppo esotica: un governo che perde il controllo mentre soffia sulle fiamme del terrorismo per aumentare il proprio budget militare, aggrappandosi al potere e violando tutte le libertà civili.
Perché gli Usa dovrebbero interessarsi a una cosa come questa?
Vandana Shiva al meeting di S. Rossore. «L’equa ripartizione dei beni non basta senza il rispetto dell’ambiente»
Fiamma Lolli
Vandana Shiva è in Italia per partecipare a «A New Global Vision», incontro mondiale su ambiente, cibo, salute, educazione e pace organizzato dalla regione Toscana nella tenuta di San Rossore. L’abbiamo incontrata in una pausa dei lavori.
Da anni lei non fa che ripetere le stesse cose su Ogm, sviluppo sostenibile, equa distribuzione delle risorse. Eppure l’attenzione dei media non cala…
Quando, nel 1987, cominciai ad occuparmi di questi temi nessuno, né nella comunità scientifica né in quella politica, ne aveva capito appieno la portata. Ci vollero cinque anni perché le cose iniziassero a cambiare, scientificamente e politicamente. Se l’attenzione non cala è perché quel che allora era solo un’anticipazione è diventato vero; basti pensare a ciò che sta succedendo in questi giorni nel vostro Piemonte. Del resto saper anticipare la realtà e prefigurarne gli sviluppi è una delle chiavi di volta del pensiero nonviolento.
Cosa vuol dire, oggi?
Promuovere e stabilire accordi multilaterali sempre più vasti e concreti che tutelino la biodiversità e favoriscano la sostenibilità ambientale per costruire un mondo migliore. Attenzione, però: parlare di multilateralità, come sempre più spesso fa l’Onu, presuppone che tutti i lati siano equamente forti. Rafforzare i singoli individui darà forti comunità, forti comunità come precondizione per nazioni forti, essenziali a una globalizzazione equa e giusta. Ma per realizzare questa giustizia dobbiamo saperla immaginare. Tradurre l’immaginazione in realtà è fondamentale per una globalizzazione nonviolenta, mentre la mancanza, l’incapacità di prefigurazione dei possibili scenari può solo portare nuove guerre.
Legare immaginazione e realtà? Su quale piano, in quale spazio?
La risposta è più semplice (non più facile) della domanda: bisogna agire prima che sia tardi. Se ci muoveremo in tempo, se grazie al dialogo riusciremo a prevenire conflitti distruttivi, non avremo più bisogno di nemici. A legare realtà e immaginazione è la nostra capacità di agire – e la sua necessità.
Quando dice «nostra» si riferisce all’umanità nel suo insieme o ad una differenza di genere? Crede che la capacità delle donne di agire in modo differente, questa differenza che si fa azione, sia consolidata nel movimento?
In movimento nulla è mai consolidato: credo però che dalla nostra visibilità non si tornerà indietro. Abbiamo conquistato più spazio perché abbiamo iniziato a farci sentire: se smettessimo lo spazio si chiuderebbe. Perciò la differenza di genere dovrà continuare ad essere uno dei temi centrali nel movimento. Non può né potrà esserci giustizia, né tantomeno pace, né ambiente, cibo, salute o educazione senza il contributo delle donne. Eguaglianza di possibilità, d’espressione, di diritti, anche questo è sostenibilità.
Sempre più spesso, tutelare biodiversità e produzioni alimentari tradizionali locali si traduce nel trasportarle a grandi distanze, su camion o aerei. Non crede che ci sia una contraddizione?
È questione di dimensioni: se torniamo da un viaggio con qualcosa di tipico da condividere con un amico, niente di male. Il problema nasce quando il trasporto a distanza diventa modello, regola, e smette di essere eccezione. Che senso ha produrre specialità fantastiche se poi inquiniamo per farle conoscere? Giusta distribuzione delle ricchezze non significa solo equa ripartizione dei beni ma anche corretta circolazione di merci prodotte in modo rispettoso dell’ambiente.
Quando si parla di giusto rapporto con la natura si finisce sempre per riferirsi al modo in cui la coltiviamo: sementi autoctone contro ogm, concimi organici invece che chimici… ma ambiente e cibo vogliono dire anche natura selvatica…
Natura selvatica e natura coltivata sono un po’ come femminile e maschile: il selvatico dovrebbe essere al centro, lì dove dovrebbero stare, più e più spesso, le donne, mentre il coltivato, così come il maschile, dovrebbe spostarsi un po’ di più verso il femminile, il selvatico. Venendo qui ho visto la Torre di Pisa e ho pensato che è una buona metafora di ciò che il cibo è o dovrebbe essere: un’opera d’arte, antico frutto dell’opera umana, solida e meravigliosamente «confezionata» eppure dolcemente piegata verso la terra.
Siegmund Ginzberg
Siamo alla Guerra semantica. Donald Rumsfeld si sta dando molto da fare per mettere i puntini sulle i della terminologia. “Impantanamento” quello in Iraq? “Se volete chiamarlo pantano (guagmire) fate pure. Io non lo definisco così”, “Guerriglia” quella che sta facendo quotidianamente tra le truppe occupanti quasi più vittime che nei giorni della guerra vera e propria? “No, non userei proprio questo termine”. E allora chi sono? “Terroristi, criminali”. Non è che il capo del Pentagono abbia scoperto una bruciante passione per la linguistica e la semantica. Dopo essersi esibito da storico il giorno della caduta di Baghdad: disse che Saddam raggiungeva nella pattumiera della storia altri dittatori rovesciati come Ceausescu e Stalin (dimenticandosi che questo era morto nel suo letto e fu adorato ai funerali). È che il quagmire, il pantano per antonomasia nel vocabolario degli americani, così come la “guerra di guerriglia” per eccellenza sono il Vietnam.
La guerriglia terminologica ha quindi uno scopo preciso: esorcizzare un fantasma inquietante. È bastato che giornalista facesse riferimento al Vietnam, come “il classico pantano”, per suscitare una pronta correzione da purista del dizionario: “Ci sono tante vignette ridicole in cui ci si chiede, voi della stampa vi chiedete: siamo già al Vietnam?, non solo domandandoselo, ma sperando magari sotto sotto che sia così. E invece no. Sono altri tempi. È un’altra epoca. È un altro posto”. Qualche giorno prima gli avevano chiesto se coloro che attaccavano i soldati americani erano “guerriglieri”. “No, io non userei proprio questo termine. Sono criminali. Tutte le grandi città hanno i loro criminali, ricordatevi che se Washington fosse popolosa come Baghdad, anche qui avremmo 215 omicidi al mese”, aveva risposto. E allora chi sono? “A differenza degli avversari con cui avevamo avuto a che fare nelle guerre del passato, che avevano firmato un documento di resa e consegnato le armi, i rimasugli del regime Baath e delle squadre della morte dei feddayin si sono dileguati in mezzo alla popolazione e sono tornati ad essere una rete terroristica”, la risposta. Unica ammissione, a denti stretti: che “durerà per qualche tempo” e che la mancata cattura di Saddam e dei suoi figli ha aggravato il problema ( “C’ è qualcuno che spera che possano tornare, perché erano privilegiati quando loro erano al potere”). Spiegazione seguita da un’altra ancora più inquietante, che pare preludere ad operazioni, forse altre guerre, anche al di là delle frontiere irachene: non solo rimasugli del vecchio regime ma anche “stranieri” (senza precisare di che tipo) e “gente influenzata dall’Iran”.
“Guerriglia” è per definizione una guerra combattuta da piccole unità, disperse in zone di difficile accesso o in mezzo alla popolazione, per distinguerla da operazioni condotte da contingenti che ad un avversario più forte sarebbe molto più facile attaccare e distruggere. Il pro console Usa in Iraq, Paul Bremer, ha dichiarato ieri che gli attacchi “appaiono condotti da gente che ha avuto esperienza militare o nei servizi… sono operazioni condotte da professionisti, piccole unità di 5 o 6 uomini… non attacchi spontanei da parte di folle inferocite o licenziati…”. E allora, perché ostinarsi a smentire il vocabolario? Solo perché evoca un denotato tabù e imbarazzante? I guerriglieri possono essere simpatici o antipatici. Se uno vuole si possono anche chiamare “criminali” e “terroristi”.
Ma l’operazione terminologica non toglie che, a differenza dei criminali comuni, la loro è una motivazione politica, non solamente psicologica o di banditismo. Gli analisti del sito americano Stratfor hanno tentato di dare delle spiegazioni alla furia semantica di Rumsfeld. Una delle loro ipotesi è che voglia delegittimare la valenza politica di quel che sta succedendo. Un’altra è più tecnica, che non consideri guerriglia una guerriglia allo stato iniziale (in questa accezione, “guerriglia” sarebbe quella che iniziò in Vietnam dopo il 1964, ma non le operazioni su scala minore condotte dai vietcong nel 1961 e 1962). Un’altra ancora è che ammettere che si trovano di fronte ad operazioni di guerriglia equivarrebbe ad ammettere che lo stesso Pentagono di Rumsfeld ha sbagliato grossolanamente i propri piani. “Se c’è guerriglia, e non la vogliono chiamare tale se ne possono trarre due conclusioni. La prima è che c’è stato un grave errore di intelligence sui piani del nemico… più grave ancora dell’errore di intelligence sulle armi di distruzione di massa. La seconda conclusione è che le forze armare Usa in Iraq non hanno una strategia per affrontare la guerriglia”, osservano impietosamente. Altri esperti cominciano a notare che, per correggere la svista, le truppe con cui hanno vinto la guerra non gli bastano, potrebbero dover chiedere aiuto. Ci sono volontari?
La diversità e il decentrameno sono le risorse indispensabili per costruire un altro mondo. Ma la critica allo sviluppo industriale e al degrado ambientale e sociale che esso provoca può diventare efficace se le comunità
locali del Nord e del Sud del mondo trovano il modo per continuare a camminare assieme sulla strada della resistenza alla globalizzazione. Un’intervista con la fisica indiana Vandana Shiva
Francesca Pilla
L’incontro con Vandana Shiva avviene in un’affollata università napoletana, nella facoltà di scienze politiche della Federico II, circondata da studenti, attivisti, donne, che la tempestano di domande. Dopo il seminario organizzato dalla cooperativa «O’Pappece» sui temi della globalizzazione e sulle forme di resistenza ai sistemi monopolisti, è una corsa per ascoltare ancora la fisica indiana che da oltre 15 anni si batte per contrastare le multinazionali arrivate in India a sfruttare i terreni e le comunità locali. Vandana Shiva ha fondato un’organizzazione, Navdanya, che raccoglie dieci milioni di agricoltori indiani e che sostiene l’importanza della biodiversità per combattere l’introduzione della monocoltura e la neocolonizzazione occidentale. Attualmente è direttrice della «Fondazione per la scienza, la tecnologia e l’ecologia» ed è fra i membri del Third world network, una rete internazionale di associazioni per lo sviluppo e le relazioni Nord-Sud. Definita la «santona no global», ha sempre detto di preferire la parola pro local a «no noglobal». Ma in un’accezione atipica perché «la dicotomia locale/universale – scrive nel volume Sopravvivere allo sviluppo, Isedi – è mal posta se applicata alle tradizioni indigene e occidentali del sapere, perché il sapere occidentale è una tradizione locale che si è diffusa nel mondo attraverso la colonizzazione intellettuale. L’universale si diffonde come sistema aperto. Il locale globalizzato si diffonde invece con la violenza e l’inganno. Il primo livello di violenza che si riversa sui saperi locali è quello di non riconoscerli come tali».
I suoi testi – molti dei quali pubblicati in Italia: Monocolture della mente, Bollati Boringhieri; Biopirateria, Cuen; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi; Terra madre, Utet, edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo; Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli; Le guerre dell’acqua, Feltrinelli – hanno rappresentato e rappresentano una vera «didattica» per il movimento no global. Sono testi dove Vandana Shiva pone l’accento sull’ecologia sociale come metodo di resistenza e di costruzione di alternative alle conseguenze di uno sviluppo fondato sulla distruzione ambientale che induce i paesi poveri a sottoscrivere e applicare i programmi di aggiustamento strutturale decisi dal Fondo monetario internazionale, che comportano sempre drastici tagli al welfare state e una politica di privatizzazione dei «beni comuni», come possono essere l’acqua, l’elettricità, i trasporti, le risorse naturali.
Con i suoi vestiti colorati e un sorriso calmo, la «donna dell’Himalaya» ascolta e risponde senza fretta, camminando nel centro storico napoletano. Alla fine raggiungiamo un bar dove mediattivisti indipendenti e giornalisti preparano le telecamere, i registratori, le penne e i blocchetti e anche in questo caso vale il principio della condivisione.
Lei ha contribuito a sviluppare in India un’ampia opposizione agli effetti della globalizzazione economica. Inoltre, ha spesso sottolineato la necessità di un’allenza con i gruppi di attivisti nel Nord del pianeta. A che punto è la tessituta della rete Nord-Sud?
Tutti vogliamo convertire i discorsi in pratiche d’azione. Abbiamo però livelli e condizioni differenti. Questo non è un problema, bensì una risorsa. Ritengo che ogni luogo abbia il suo specifico livello d’interazione e discussione e non si devono imporre le proprie dinamiche di discussione ad altri. Con queste premesse dobbiamo costruire una rete di solidarietà con il Sud e con i paesi dell’Est Europa unendo le energie, condividendo le esperienze e rispettando le differenze. E’ su questa strada che gli attivisti occidentali devono combattere le proprie battaglie. Non si tratta di un soccorso etico o morale, ma di un meccanismo fondamentale per cambiare i giochi del potere.
In questo momento, per esempio, i polacchi stanno tentando di difendere le loro fattorie che presto saranno risucchiate nelle logiche del mercato mondiale, ma i leaders politici di Varsavia fanno accordi per consentire l’espropriazione da parte delle multinazionale dell’agro-business. Una delle sfide del movimento dei movimenti è riuscire a unire le forze dei paesi dell’Est con quelli del Sud del mondo per ribellarsi e difendere i propri spazi si autonomia.
Cosa vuol dire in concreto?
Certo non bastano gli appuntamenti internazionali, come possono essere i forum sociali continentali. In Occidente, ad esempio, è importante modificare le azioni quotidiane, trasformandole in testimonianza politica. Decidere cosa comprare o mangiare, come vestirsi o viaggiare per esempio sono tutte azioni attraverso le quali si può fare politica e opposizione alle multinazionali. Devo ammettere che molti si stanno muovendo in questa direzione, ma non è ancora abbastanza.
Il cambiamento passa nel decentramento e nella diversificazione, deve cioè creare pluralismo culturale e biologico in contrapposizione alla concezione di comunità fondata sulla fabbrica, produttrice di monocolture insostenibili in natura e nella società. Difendere quello che hai e non consentirne la distruzione è un bisogno primario per ogni individuo. Ma ripeto: voi in Occidente dovete riuscire a unirvi al Sud e all’Est dove il decentramento e la diversificazione ancora esistono.
Certo è un passaggio fondamentale, ma non così scontato e automatico…
In agricoltura il collegamento, il dialogo tra le piccoli agricoltori è un principio essenziale per portare avanti qualsiasi battaglia. Ritengo che questa sia la componente principale in ogni luogo: abbiamo bisogno che sia così anche in Europa. Vedi, l’uniformità e la centralizzazione sono alla base del degrado ecologico e sociale di tutto il pianeta. Un precesso «degenerativo» che, invece di fermarsi, si sta diffondendo nei paesi in via di sviluppo. Così nel Sud, ma anche in Europa, invece di tendere alla differenziazione ci si uniforma al modello industriale e agricolo statunitense.
La maggioranza dei cittadini europei non vuole un appiattimento delle politiche nazionali sulle logiche della globalizzazione economica. E tuttavia i governi europei costantemente disattendono le aspettative di una migliore qualità della vita con una politica che, mentre induce a credere nella possibilità di riforme sociali, propone parallelamente l’asservimento delle comunità locali alle grandi multinazionali.
Attualmente, coesistono due sistemi: la monocoltura statunitense e i sottosistemi della diversità. Molti studiosi, e io con loro, sono convinti che il secondo modello sia più produttivo. L’Europa è seduta al centro, così può ancora decidere di andare verso la diversità, la democrazia, il rispetto delle differenze o, al contrario, verso la monocoltura.
Nella prima settimana di luglio a Napoli si terrà il secondo appuntamento dei gruppi e delle associazioni per costruire il Forum sociale del Mediterraneo di Barcellona. Le difficoltà di riunire attorno a un tavolo realtà così diverse, come possono essere quelle italiane, libanesi, tunisine, alegrine, spagnole appare enorme…
Ogni politica innovativa costruisce le proprie basi secondo le condizioni di attuabilità in un dato momento storico. Non penso che bisogna essere disfattisti e insicuri in quello che organizziamo, ma guardare il contesto e cogliere il potenziale. Ci sono dei problemi nel Mediterraneo come ci sono in India. In ogni situazione esiste un potenziale, ma può essere raccolto solo attraverso la nostra determinazione. Sono convinta che in nessun luogo ci saranno mai le condizioni ideali per coinvolgere le comunità. Dipende molto da noi. Finché le persone saranno creative e solidali, pronte a condividere le esperienze, potranno provocare uno piccolo cambiamento. Ma poi sappiamo che i piccoli cambiamenti possono crescere, irrobustirsi, germineranno e i nuovi germogli inizieranno a fiorire. La transizione alimenta cioè se stessa. Per troppo tempo in politica si è adottata una parola che non posso sopportare: «posizione».
La realtà non è una posizione è un processo. «Posizione» è una parola artificiale, io non ho una posizione, il mio è un cammino, un percorso, un impegno in divenire. Raccogliamo i frammenti dei processi, le evoluzioni. Tutti noi non siamo esseri stagnanti con posizioni immutabili. E’ necessario comprendere quali energie possiamo mettere in campo e capire chi e che cosa è agli antipodi della nostra idea di società.
Personalmente, ritengo le multinazionali alimentari agli antipodi della mia comunità e le combatto, mentre posso convivere con i contadini e i loro piccoli commerci. Sbaglia chi propone la chiusura, l’assenza del mercato. I contadini nelle più isolate regioni dell’Himalaya hanno costituito un mercato, fondato sul baratto è vero, ma questo dimostra che nessuna società è mai stata totalmente chiusa
I progetti del futuro?
Partecipo a una commissione sul futuro alimentare organizzata in Toscana che crede in una politica della diversità, della localizzazione ed è contraria all’agricoltura biochimica. I gruppi impegnati nei lavori, un team globale con i principali attivisti del mondo, stanno cercando di costruire difese per il futuro contro lo sviluppo distruttivo e l’ecologia del terrore. L’idea è quella di formare una commissione mondiale e spingere i governi a promuovere la diversità. Poi c’è la battaglia in India contro la privatizzazione dell’acqua. Da un anno e mezzo abbiamo dato vita a un movimento chiamato water liberation per la difesa della sovranità comunitaria sull’acqua. Il mese scorso abbiamo conseguito un successo contro la privatizzazione del fiume Shivnat costringendo il governo a recidere il contratto con la Coca cola. Un progetto che prevedeva un’imponente diga che avrebbe spostato tutti i villaggi, nel raggio di due miglia dalle rive del fiume. Le donne si sono battute per un anno, poi la corte suprema ha deciso di sostenere le comunità locali, definendo il piano un’appropriazione illegale.
Ora stiamo cercando di impedire la privatizzazione delle rive del Gange. Una società francese ha intenzione di prelevare 635 milioni di litri per spostarli nelle condotte di Dheli. Contrastiamo anche il megaprogetto di 200 miliardi di dollari per spostare il corso naturale della maggioranza dei fiumi indiani. Far confluire l’acqua nelle grandi città e nelle aree industriali significherebbe sottrarre un bene primario per dieci anni alle comunità lungo la riva.
Per il prossimo futuro invece uno degli appuntamenti cui parteciperò sarà la mobilitazione per fermare il Wto, che si riunirà a Cancun in settembre. Il primo obiettivo degli attivisti globali è infatti fermare il Wto prima che renda irreversibili i meccanismi che mettono in ginocchio i contadini e i piccoli produttori nel Sud del mondo.
Lei si è battuta contro le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq, condotte in nome della lotta al terrorismo. Lei cosa pensa del concetto di guerra preventiva?
La parola terrorismo ha un significato complesso. Terrorismo è un sistema che porta appunto terrore e diffonde paura. Il terrorismo arriva nell’economia indiana e trascina via con sé le sicurezze dei contadini, li catapulta con forza nella società del XXI secolo. L’11 settembre tutti gli occhi erano puntati sulle due torri del World trade centere che crollavano. Molti hanno scritto parole toccanti sulle vittime delle Twin Towers. Quell’impeto di commozione e solidarietà ha coinvolto anche me.
Quel giorno io ero in un piccolo villaggio tra le montagne, chiamato Evisa. E quel giorno 23 persone sono morte di stenti. Sottrarre le risorse alle comunità, avere coscienza di provocarne la morte fisica, spingere i contadini a coltivare per il mercato è terrorismo a banda larga, è la profonda e permanente violenza quotidiana in ogni società. L’11 settembre è un giorno solo e ha distrutto due palazzi in una città. La globalizzazione è l’11 settembre ogni giorno, in ogni momento.
Guillermo Altares
Il mercato del quartiere sciita di Al Kadhamiya vive del tutto libero dai timori per la situazione della sicurezza che si sono abbattuti su altre zone di Bagdad da quando la città è stata presa dagli americani, il 9 aprile. Tutti i negozi sono aperti e quasi non si cammina nella folla che scorre tra i banchi di cibo o di frutta, i ristoranti di kebab, i negozi di vestiti o di apparecchiature elettroniche e, naturalmente le botteghe che vendono ritratti di Alì o di Hussein – le due principali figure della religione sciita, un ramo dell’Islam che permette le immagini. Ma non è solo l’intensa attività, senza soldati statunitensi che pattuglino la zona, a sorprendere. Il quartiere offre una visione insolita in altre parti della capitale irachena – e non solo di popolazione cristiana -: non c’è una donna che non vada coperta, o con il chador nero che copre dalla testa ai piedi, in molti casi anche con i guanti, o, ed è solo una minoranza, con un fazzoletto in testa e una gonna lunga. Il timore che questa immagine diventi generale in tutto l’Irak ha portato diversi gruppi di donne a organizzarsi.
Ritorna il chador.
“Certo che questo pericolo esiste”, segnala Maisun al Danluyi, nella lussuosa casa che Adan Bachachi possiede nel quartiere di Al Mansur e che usa per le costanti riunioni della sua formazione politica, il Movimento Indipendente per la Democrazia. Molti diplomatici occidentali e molti iracheni di classe media vedono in quest’uomo di 80 anni, vissuto in esilio per 30 anni e sostenitore di uno Stato laico per l’Irak, l’unico politico capace di mettere insieme un governo di transizione. Al Danluyi, una donna di 42 anni, è una dei suoi principali consiglieri ed è stata l’organizzatrice dell’Incontro delle Donne Irachene, svoltosi a Bagdad lo scorso fine settimana. “L’obiettivo di questo incontro era discutere i problemi delle donne irachene e anche il nostro futuro”, dice. “Il pericolo non è nell’Islam, perché l’Irak è un paese a stragrande maggioranza musulmana, ma nelle pratiche radicali di questa religione. Vogliamo che questo incontro sia il principio di una vasta organizzazione per la difesa dei nostri diritti”. E non è l’unica riunione di donne, ce ne saranno altre nella capitale le prossime settimane. Il principale quotidiano distribuito a Bagdad, il giornale curdo Azzaman, annunciava di recente il ritorno di Safia al Shiel, un’attivista irachena che ha passato 20 anni in esilio, soprattutto in Libano e in Siria. “Al Shiel ha dichiarato di aver preso contatti dentro e fuori l’Irak per fare una conferenza nazionale che garantisca i pieni diritti della donna irachena, e ha aggiunto che l’Irak è un paese più avanzato dal punto di vista sociale di altri Stati della zona”, segnalava il quotidiano. Al Danluyi afferma che gli anni d’oro delle donne irachene sono stati gli anni cinquanta e sessanta, quando raggiunsero un grado di libertà molto superiore a quello di altri Stati arabi. Attualmente ci sono molte donne che lavorano nei ministeri, negli ospedali e all’università. “Mia madre è stata la prima pediatra irachena, all’inizio degli anni sessanta. Nell’epoca di Saddam abbiamo conservato alcuni di quei diritti, ma è stato nonostante il dittatore: non ha represso solo le donne, ma tutto il popolo iracheno”, dice. Kadimiya Jabar, di 53 anni, conosce molto bene la repressione del dittatore contro le associazioni di donne. Abbigliata con un fazzoletto in testa, Jabar si trova nella sede della Lega delle Donne Irachene, un edificio ripulito dai saccheggiatori, situato molto vicino al Ministero degli Esteri. Questo movimento fu fondato nel 1952 e, sia sotto Abd al Karim Qasim sia sotto Saddam Hussein, le sue appartenenti furono perseguitate, torturate e uccise. Jabar, sposata e madre di sei figli, ha vissuto 10 anni in esilio. “La religione rispetta i diritti delle donne. Quelli che dicono che la donna non deve muoversi di casa non è che siano religiosi, è che sono contro il progresso. Noi pretendiamo di avere gli stessi diritti degli uomini, e che ogni donna decida come vuole uscire vestita in strada”, dice la portavoce della Lega delle Donne Irachene.
Pessimismo.
Ma non tutti si mostrano tanto ottimisti. I cristiani, che rappresentano una minoranza del 4 per cento della popolazione irachena, anche se a Bagdad sono una parte più importante, non vedono il futuro così chiaro. Nelle zone del sud del paese, dove gli sciiti sono la stragrande maggioranza, non si vedono donne senza chador. Di fatto, si vedono poche donne per strada o nei mercati. Questo si spiega in parte per la paura dovuta alla situazione di insicurezza generale, ma anche perché sono zone profondamente conservatrici. “Se finirà per imporsi una legge islamica, dovrò andarmene dal mio paese”, afferma Rajaà Bosha, ginecologa di 60 anni che collabora con l’associazione Al Amal, una ong che da 10 anni sviluppa programmi di donne nel Kurdistan e che si è appena stabilita a Bagdad. “Bisogna lottare per il rispetto dei diritti di tutti, di uomini e donne, perché altrimenti l’Irak non sarà mai una piena democrazia”, dice questa cristiana di Bassora, la principale città del sud dell’Irak, sempre più dominata dalle tradizioni sciite più conservatrici. “La situazione della donna non è ancora un problema maggiore in Irak, perché conserviamo molti dei diritti ottenuti negli anni sessanta, anche se c’è molto da migliorare nel campo dell’attenzione ginecologica. Ma la situazione può cambiare e bisogna far qualcosa prima che sia troppo tardi”, aggiunge.
(traduzione di Clara Jourdan)
Forse bisognerebbe indagare perché questi civili accettano di partecipare alle parate militari…
Giulio Marconi
La partecipazione di un «manipolo» di ragazzi/e impegnati nel Servizio Civile Nazionale (non gli obiettori di coscienza: considerati troppo pericolosi) alla parata militare del 2 giugno è l’ennesimo segnale della cooptazione del «civile» e dell’umanitario dentro la cornice e la logica di un protagonismo delle Forze armate fatto da «soldati di pace» (titolo della prossima serie di telefilm Rai) che fanno le «guerre umanitarie», naturalmente. Cos’abbiano a che fare i ragazzi che portano aiuto ai disabili e agli anziani con la tronfia e retorica parata (e che costa milioni di euro, molto più utili per i servizi ai disabili che Berlusconi smantella quotidianamente) i carri armati e i caccia bombardieri è difficile da dirsi. Per il governo italiano è più chiaro: un tocco di bontà, un pizzico di umanitario con cui condire in salsa nostrana l’indigesta pietanza di un esercito di «pace» con retrovie «civili» e blandire qualche ente di servizio civile che in questo modo si crede accolto, legittimato, valorizzato. I governi italiani da anni aumentano le spese militari; dalle nostre basi militari partono gli aerei per le missioni di guerra; le nostre forze armate partecipano ad alcune operazioni militari (Iraq, Afghanistan) che niente hanno a che fare con le missioni di pace. Quando Aldo Capitini e don Lorenzo Milani pensavano a un servizio civile alternativo a quello militare immaginavano qualcosa di radicalmente diverso da un’appendice «umanitaria» in coda ai camion dei militari e alle autoblindo sappiamo che quei ragazzi in servizio civile svolgono un compito importante per la comunità e che l’istituzione del Servizio Civile Nazionale rappresenta un importante risultato e anche una conquista per il Movimento per la pace italiano. Ma se il prezzo è quello di essere «embedded» tra un battaglione San Marco e la Folgore, allora quel prezzo è troppo alto. La festa della Repubblica è di tutti, ma non è certo un buon motivo per avvalorare una omologazione civili-militari tutti insieme appassionatamente, omologazione cui gli alfieri degli interventi militari-umanitari da alcuni anni si prodigano con entusiasmo. Nessun pregiudizio ideologico verso le Forze armate se hanno un ruolo autenticamente di pace e dentro la cornice dell’Onu; ma contro il militarismo e il loro uso al servizio delle guerre e alla geopolitica di potenza sicuramente sì. I ragazzi «precettati» alla sfilata militare avrebbero dovuto ricorrere alla vecchia e sempre buona pratica dell’obiezione di coscienza e sfilare da qualche altra parte, o magari, ancora meglio dedicare la giornata di ieri al servizio cui si dedicano gli altri giorni della settimana. La istituzionalizzazione del servizio civile (in alcuni casi problematica) non può voler dire la sua strumentalizzazione ai fini di operazioni politico-culturali che hanno come obiettivo l’annullamento dell’autonomia, della radicalità e del carattere di pace del servizio civile e della sua ispirazione originaria. Non prestarsi a queste operazioni è di fondamentale importanza per le organizzazioni umanitarie e per il servizio civile. A Baghdad nel `42 le Ong internazionali presenti sul campo non collaborano né si fanno intruppare dalle Forze armate americane. A Via dei Fori Imperiali il messaggio non è ancora arrivato.
Il suo salvataggio «dai torturatori iracheni» aveva commosso l’America e il mondo. Ma ora si scopre che fu tutta una montatura allestita dal Pentagono per dare un volto umano a una guerra che si stava trascinando
Marco d’Eramo
La faccetta sbarazzina sotto il berretto militare, a noi veterani del manifesto Jessica Lynch ricorda vagamente Valentina, la figlia di Valentino Parlato, e suscita perciò la simpatia di chi si è visto crescere. Niente a paragone del prorompente amore con cui tutta l’America sta cingendo in un soffocante abbraccio questa diciannovenne nata in Virgina, in un borgo chiamato Palestina, e che si era arruolata per poter frequentare le scuole e diventare maestra delle elementari. Il cantante Eric Horner ha appena inciso Lei è un eroe, «una canzone che mi è sgorgata diritta dal cuore e che è dedicata a Jessica» dice modesto il cantante. Dalle scuole elementari arrivano valanghe di compiti in classe scritti da scolari. Su internet è già iniziato il merchandising: insieme a un’altra decina di oggetti, sono in vendita magneti da attaccare al frigorifero con la scritta «America Loves Jessica» (5 dollari), dipinti a olio (200 dollari). Si sono formati club di ammiratori. Ma era quasi inevitabile dopo dopo che per giorni e giorni i piccoli schermi hanno martellato con il suo visino le famiglie d’America e che Newsweek le aveva dedicato la copertina «Saving Private Lynch», «salvando il soldato Lynch», che ricorda il Private Ryan del film di Steven Spielberg. E come poteva essere altrimenti se è vero che Jessica è la prima soldatessa «Pow/Mia salvata da un commando»? dove Pow/Mia è una sigla inflazionata dai tempi di Rambo, quando mezza America era stata convinta a credere che in Vietnam ci fossero ancora miriadi di prigionieri di guerra (Prisoners of War, Pow’s) o di «dispersi in combattimento» (Missing in Action) da recuperare con spericolate incursioni come quella che ha salvato appunto la soldata Lynch da un ospedale iracheno.
Ma ricapitoliamo la storia – almeno come ci fu raccontata. Il 23 marzo, nei pressi di Nasiriyah, un furgone dell’esercito Usa con a bordo 15 militari della sussistenza «cadde in un’imboscata», e nove soldati americani perirono: nella propaganda di guerra, i soldati angloamericani morivano sempre in imboscate, mentre quelli iracheni rimanevano uccisi negli attacchi. Come in seguito riferì il Washington Post, Jessica Lynch «riportò multiple ferite d’arma da fuoco» e fu anche pugnalata mentre «combatteva accanitamente e colpiva parecchi soldati nemici, sparando con la sua arma finché esaurì le munizioni». L’autorevole quotidiano della capitale Usa citava anche una fonte militare anonima secondo cui «lei stava combattendo a morte».
I media americani instillarono la convinzione che Jessica Lynch era torturata dagli iracheni. La guerra nel frattempo sembrava impantanarsi per la coalizione angloamericana, di fronte alla resistenza di Bassora e di altre città. Il 2 aprile all’alba a Doha, Qatar, i rappresentanti della stampa mondiale furono scaraventati giù dai loro letti e portati nel futuristico e hollywoodiano Centcom (centro comunicazioni): «C’è una situazione di notizie scottanti, il presidente è già stato avvertito». I giornalisti credettero che Saddan Hussein fosse stato arrestato, riferisce l’inviato del quotidiano inglese The Guardian. Invece fu mostrato loro un filmato di cinque minuti sul salvataggio della soldata Lynch che era stata picchiata nel suo letto d’ospedale e interrogata, dissero gli ufficiali del Pentagono. Il salvataggio era stato reso possibile solo dall’eroico avvocato iracheno Al-Rehaief che aveva informato gli americani dell’ospedale in cui era «imprigionata» Lynch. Così, poco dopo mezzanotte, un comando di Rangers dell’esercito e di Seals della marina attaccò l’ospedale di Nasiriyah: il loro «temerario» assalto in territorio nemico fu «carpito» dalla cinepresa militare a visione notturna. Fu detto che erano avanzati sotto il fuoco nemico, ma che ce l’avevano fatta e avevano trascinato via Lynch fino all’elicottero. Nel filmato si sentivano spari, esplosioni, e i soldati americani gridare: «Go! Go!». In pochissime ore il filmato girato da un operatore militare aveva subìto l’editing e fu diffuso ai network di tutto il mondo. Quando fu mostrato, riferisce l’inviato del Guardian, «il portavoce militare a Doha, il generale Vincent Brooks, dichiarò: “Alcune anime eroiche hanno rischiato la vita perché questo avvenisse, leali al comandamento di non lasciare mai indietro un commilitone caduto».
L’avvocato Al-Rehaief ha ottenuto l’asilo politico appena due settimane dopo il suo ingresso negli Usa, ha firmato un contratto da 500.000 dollari per un libro di memorie Rescue in Nasiriyah («recupero a Nasiriyah») che uscirà in ottobre. E Hollywood ha naturalmente già pronto un film. Solo che il salvataggio era già un film.
Subito l’arrivo in Germania, il comandante dell’ospedale militare, il colonnelloDavid Rubenstein disse ai giornalisti che l’esame medico «esclude che qualunque ferita (di Jessica) sia stata causata da armi da fuoco o da taglio». Il giorno successivo, riferisce WorldNetDaily, il padre di Jessica confermò questa diagnosi riferendo che i dottori gli avevano detto che Jessica non era stata sparata, ma aveva subito fratture alle braccia e alle gambe quando il camion era saltato per una granata irachena. D’altronde è difficile immaginare una furiera, addetta alla sussistenza, e che cioè non è addestrata al combattimento né all’uso delle armi, «battersi sino alla morte», «colpire i nemici fino a esaurire le munizioni».
Crollava così una prima parte della storia di Private Lynch. Ma a metà aprile la stampa inglese (non per caso, vedremo) ha cominciato a smontare anche la seconda parte della storia, quella che riguarda il «temerario salvataggio». Il Times di Londra raccolse la testimonianza del dottore Harith al-Houssona che si meravigliava della versione Usa: «Quel che raccontano gli americani è come la storia di Sinbad il marinaio, è un mito». Secondo questo dottore, quando gli fu portata nell’ospedale di Nasiryah, Lynch aveva una ferita alla testa, un braccio e una gamba rotti e fu curata con tutte le premure possibili, come raccontò più tardi anche l’infermiera Khalida Shinah al Guardian.
Non solo, ma due giorni prima che arrivasse il commando, il dottore Al-Houssona aveva deciso di consegnare Jessica agli americani, la caricò su un’ambulanza e istruì l’autista di andare al checkpoint americano: mentre si avvicinava, gli americani aprirono il fuoco e l’autista riuscì a salvarsi per un pelo e a rientrare di corsa in ospedale.
Non basta. Il giorno prima dell’«eroico recupero», l’esercito iracheno era scappato via. Addirittura – raccontava un cameriere di un ristorante, Hassam Hamoud – una pattuglia di americani entrò in città e l’interprete arabo gli chiese se in giro c’erano ancora fedayn, e lui rispose «no».
Perciò le «anime coraggiose» arrivarono in elicotteri e con carri armati sul tetto di un ospedale disarmato, esplosioni risuonarono e spari echeggiarono in corsie semivuote, dottori con lo stetoscopio al collo furono ammanettati, fu squarciato il materasso su cui era stata adagiata Jessica («e ci tolsero l’unico letto “anti-decubito” che avevamo»), furono imprigionati anche pazienti che erano intubati e paralizzati. Racconta al Times il medico al-Housssona: «Erano terribilmente delusi di non trovare l’orribile Guardia repubblicana che si lavorava Lynch con i ferri roventi… quando stai girando un film a buon mercato, ti arrangi con quel che hai. Avevano bisogno dei cattivi, e non è colpa loro se la produzione non gliene aveva forniti di veri», così se la presero coi dottori.
In definitiva, la soldata Jessica, addetta alla sussistenza, si era fratturata braccia e gambe e non era stata colpita da pallottole o lame. È stata curata. Non è stata torturata. Il commando americano non ha dovuto fronteggiare nessun soldato nemico, poiché tutti erano fuggiti il giorno prima. L’arma più pericolosa che ha minacciato questi Rambo sarà stato un clistere. Per il resto, non sapremo mai cosa avvenne il 23 marzo a Nasiriyah perché, molto opportunamente, Jessica Lynch ha un’amnesia: non ricorda nulla, e in realtà la ragazza virginiana sembra capitata per caso nel film del suo salvataggio, forse perché era fotogenica, e si trovava là nel momento in cui la propaganda di guerra Usa aveva più bisogno di un viso gentile per dare un volto umano a una guerra che si trascinava.
Tutta la messa in scena del Pentagono è venuta fuori solo a causa dei dissensi che dietro le quinte crescevano tra Gran Bretagna e Stati uniti su quale politica dell’informazione adottare (ricordate i giornalisti embedded?). Durante il conflitto, l’addetto inglese a Doha, Simon Wren ha mandato parecchi rapporti al vetriolo a Londra e a Downing Street. In particolare, vi definiva «imbarazzante» e «ipergonfiata» la versione americana su Jessica Lynch. Di queste crepe nel fronte alleato è sintomo anche il documentario girato dalla Bbc e presentato domenica 18 maggio, col titolo War Spin. Una delle espressioni più in moda tra i politologi anglosassoni è attualmente spin doctors, commentatori e analisti che nei media che fanno cambiare («ruotare») opinione.
In gioco, tra Londra e Washington, era non solo l’episodio di Jessica Lynch, ma il rapporto tra verità e politica: è probabile infatti che Tony Blair fosse davvero convinto che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa e che gli americani ne avessero prove inconfutabili.
Invece gli americani stavano perfezionando la tecnologia delle «bombe al panzanio», come le ha chiamate Stefano Benni, arruolando nel proprio arsenale bellico produttori e sceneggiatori di Hollywood, completi di effetti speciali. In particolare, scrive John Kampfner del Guardian, «il Pentagono è stato influenzato dalla Tv-realtà e dai film di azione, in particolare Black Hawk Down. Nel 2001, il produttore di Black Hawk Down (il film su Mogadiscio), Jerry Bruckheimer, andò al Pentagono per proporre un’idea. Lui e il suo coproduttore Bertam van Munster (che aveva programmato il reality-show Cops, Sbirri) suggerirono Profili dal fronte, una serie tv in prima serata sulle forze Usa in Afghanistan: storie umane viste con gli occhi dei soldati. Lo scopo di Van Munster era di metterla sull’intimo e sul personale». L’idea entusiasmò il ministro della difesa Donald Rumsfeld, tanto che nella guerra in Iraq il Pentagono si è prodotto da solo i suoi profili dal fronte, di cui Saving Private Linch è stato l’episodio di maggior successo. Il primo, ma certo non l’ultimo.
PS. Due osservazioni marginali sulla vicenda di Jessica Lynch.
1) È assordante il silenzio che i media italiani hanno mantenuto sulla messinscena, dopo che ci avevano bombardato per giorni con l’eroico salvataggio e le graziose lentiggini. Lungi da noi il sospetto che la stampa italiana sia succube di quella americana.
2) Elaine Donnelly, presidentessa del Center for Military Readiness, sospetta che siano state le «femministe del Pentagono» ad aver fatto filtrare i rapporti (falsi) sulle ferite e (non documentati) sull’eroismo di Jessica Lynch per favorire l’avanzamento delle donne nella carriera militare: le disavventure della povera furiera sono così strumentalizzate dalle paladine del patriarcato, almeno quello militare.
Continuare a chiedersi il perché dei silenzio delle donne o della loro invisibile presenza nel movimento non può che continuare a suscitare un imbarazzato e imbarazzante silenzio. Il problema semmai è che le molte voci assenti (e non solo quella delle donne) non trovano possibilità e volontà di espressione nelle sedi tradizionalmente deputate al dibattito e alla decisione collettiva e politica poiché non le riconoscono come luoghi di effettiva costruzione. Più interessante ed utile sarebbe quindi interrogarsi sul perché un movimento così femminiliizzato nella pluralità di pratiche, forme e contenuti, nella sua ferma convinzione della non autosufficienza dei soggetti che lo animano, nella resistenza che diventa Immediatamente costituente, nell’importanza attribuita alla comunicabilità e alla costruzione dei consenso, conviva con il persistere di forme di organizzazione e della decisione politica ormai inattuali, Inadeguate e superate. Infatti un movimento che fa della molteplicità delle pratiche e dei soggetti la sua cifra è inevitabilmente in contraddizione con la tendenza alla sintesi e all’unanimità insita nella natura di assemblee plenarie e comitati o nella figura carismatica dei leader. Il movimento nato a Seattle giunto a Genova, debordato contro la guerra in tutto il pianeta lo scorso 15 febbraio, contestando il governo abusivo dei mondo pone come questione centrale il problema della crisi della rappresentanza. In relazione a questo, la sperimentazione delle pratiche avviata dal movimento dei movimenti trova nell’invenzione di dispositivi che superino i meccanismi di delega e di restringimento degli ambiti decisionali la sua sfida più alta. In questo quadro ridurre il dibattito ad un problema di relazione tra donne e uomini è a nostro avviso semplificatorio e fuorviante: riduce infatti ad un dualismo “classico” quella complessità che costituisce la vera potenza dei movimento e allo stesso tempo indica come possibile soluzione una sorta di politica delle quote. Non sembra essere la rappresentanza mista la soluzione al problema quanto l’espressione delle singolarità attraverso pratiche, creative quanto radicali, di conflitto.
Serena Orazi, Serena Fredda
Teresa Sarti Strada
Caro direttore, le scrivo per segnalare a lei e ai suoi lettori alcune immagini, nel caso vi fossero sfuggite.
Ho visto, durante il Tg3 serale di Pasqua, la breve cronaca di un episodio che assume una altissima valenza simbolica per me e per la gente di Emergency, ma non solo, credo. L’ambiente è l’ospedale di Karbala, Iraq, la città santa degli sciiti. Le finestre sono incredibilmente rivestite dalle bandiere di pace (comperate in piazza Duomo, a Milano). Effettivamente, sembra uno dei tanti palazzi delle nostre città, quelli a cui alziamo gli occhi con gratitudine e consonanza, da mesi. Ma che cosa è successo? L’11 aprile il team di Emergency, arrivato da Amman con 30 tormellate di farmaci e materiale di consumo, aveva chiesto ospitalità per il camion frigorifero e l’autoarticolato nel recinto dell’ospedale Troppo rischioso portarli a Baghdad, in preda ai saccheggi; meglio raggiungere la capitale con le sole macchine e rendersi conto di persona della situazione. Due giorni dopo, fatte le verifiche e presi i contatti con l’ospedale Al Kindi di Baghdad, i nostri sono tornati a Kerbala: nulla, nemmeno un filo di sutura, era stato prelevato dal cargo. Si instaura un rapporto di fiducia e di collaborazione, vengono lasciate tre tonnellate di farmaci e si comincia a fare una prima ipotesi di collaborazione. Il sabato di Pasqua i medici dì Emergency tornano da Baghdad nella città santa degli sciiti. Spiegano al mullah che dirige l’ospedale il significato delle bandiere colorate mescolate ai farmaci, raccontano di milioni di italiani che hanno esposto le bandiere alle finestre per dire il “no” alla guerra che avrebbe colpito il loro paese. E il mullah chiede di esporre le bandiere arrivate dall’ Italia alle finestre dell’ospedale.
Subito dopo il servizio del Tg3 dava altre immagini che mi hanno commosso. 12 pazienti (tra cui 10 bambini) affidati al team di Emergency perché li curassero, con più mezzi e maggiori competenze specialistiche, nel nostro ospedale di Sulaimaniya, nella zona dei curdi, i loro “nemici”. “Ma quali nemici, siamo tutti iracheni”, diceva qualche giorno prima Hawar, in un’intervista a Giovanna Botteri. Ti rubo ancora qualche riga per raccontarti anche questa storia, altrettanto ricca di valenza simbolica.
Hawar è l’amministratore curdo dell’ospedale di Emergency a Sulaimaniya. Ha guidato il convoglio che arrivava da là, con 6 tonnellate di farmaci, materassi, cuscini e 45.000 litri di gasolio per rimettere in funzione il generatore dell’ ospedale Al Kindi di Baghdad. A Baghdad Hawar, in quanto curdo, non era potuto andare nemmeno quando, nel 1998, era ricoverato il suo bambino di tre anni, operato di tumore al cervello. Mohammed non ce l’aveva fatta, e adesso Hawar arrivava a Baghdad (Il medesimo ospedale? Un altro? Non importa) per contribuire a rendere possibile la salvezza
di altri figli, E dice “siamo tutti iracheni”.
La cura delle vittime e l’impegno per la pace non possono essere disgiunti, se non si vuole cadere nell’ipocrisia e nel pietismo. “Ciecopacifisti” ci hanno chiamato con disprezzo, pacifisti assoluti Certo, non siamo pacifisti a guerre alterne, questa si, questa no.
Perché dappertutto vediamo lo stesso orrore, la semina di sofferenze, e la semina dì odio che la guerra porta.
Quella sera di Pasqua d’istinto ho dedicato le immagini che avevo visto a padre Alex Zanotelli: “pace da tutti i balconi”, ci ha detto in questi mesi, lui che ben sa che la condivisione e l’impegno politico devono stare insieme.
Ma, se me lo permettete, dedico quelle immagini di speranza anche a tutti i vostri lettori che non toglieranno le bandiere dalle finestre, perché sanno di doversi impegnare per la pace preventiva.
Con stima
Teresa Sarti Strada
Teresa Sarti è Presidente di Emergency – Life Supportfor Civilian War Victims,
www.emergency.it
Lidia Ravera
Narrando storie Sherazade procrastinava l’esecuzione della sua condanna a morte. Lei parlava, e il boia restava in attesa. Anche i cattivi hanno bisogno di essere intrattenuti, anche i dittatori si annoiano, la fame di parole non conosce limiti politici, puoi imporla l’ignoranza, perché un popolo colto fa paura, ma per te stesso, anche se sei un mostro sanguinario, desideri la distrazione della cultura.
Inaarn Kachachi, nel presentare brani di romanzo, racconti e poesie scritti da donne irachene, ha scelto di risalire alle mitiche Mille e una notte, “Umana Commedia” d’Oriente, e alla Madre di Tutte le Scrittrici: “Le sue nipoti, oggi, usano praticamente la stessa astuzia: ingannano il destino con racconti, che dicono la verità, più di tutti i bollettini del mondo”. E vero, leggere Parola di donne irachene, sottotitolo Il dramma di un Paese scritto alfemminile, edizioni Baldini e Castoldi (in libreria il 20 di maggio), ti fa provare passione e compassione, ammirazione e orrore. “In Iraq si è abituati a scrivere col sangue. Sicuramente perché è diventato meno caro dell’inchiostro”, dice e Inaam, che, come alcune fra le donne che ci presenta in questa antologia, ha ancora voglia e forse, soprattutto, bisogno, di sorridere. Dal 1990 ogni merce è contingentata. La carta è un bene raro, si scrive su tutto, -‘4i vecchi quaderni al retro delle ricette, dalle fatture inevase ai sacchetti di carta spiegazzati. Una matita è un piccolo tesoro. Una giornalista racconta d’aver dato uno schiaffo sulla mano al suo nipotino, perché aveva temperato troppo il prezioso mozzicone che gli serviva per fare i compiti. Dopo aver ceduto a quel momento di rabbia si è chiusa in camera a piangere. Sapeva di essere stata ingiusta. Sapeva anche quanto le era costato quell’umile strumento. “Anche le matite sono sottoposte all’embargo, poiché i Signori delle commissioni Onu sostengono che la grafite potrebbe essere usata per scopi bellici”. Chi scrive una lettera a Baghdad ha l’accortezza di aggiungere un foglio bianco, per poter ricevere una risposta che non costringa il destinatario a sbattersi tre giorni per trovare un pezzo di carta.
Ci pensiamo mai alle condizioni materiali della scrittura, mentre battiamo allegre sui tasti lievi dei nostri personal computer, mentre guardiamo distratte la stampante secerneTe pagine su pagine, obbediente al comando, funzionale, ficca? No, non ci pensiamo. Eppure la parola durevole ha i suoi costi. L’estrema povertà, la reclusione in prigioni inumane, l’embargo, la guerra ti tolgono dalle mani quei due strumenti che consentono ad un pensiero di consolidarsi in parole, alle parole di restare, di poter essere lette, di creare ponti fra realtà distanti, fratellanze per affinità morale. Una matita, un pezzo di carta. Per fortuna, le scrittrici irachene, hanno saputo superare ogni tipo di difficoltà: da quella patetica dei pezzo di carta, a quella quasi insormontabile della cultura ginefobica (che le vuole mute e discrete, coperti i capelli come i pensieri), fino a quella, non meno terribile, della censura. Con l’ostinazione dei poeti e la rabbia dei testimoni, hanno saputo continuare a scrivere.
[…]
Subcomandate insurgente Marcos
Secolo XXI. Il nuovo secolo ripete in alto la vocazione del suo predecessore: le proposte politiche trovano fondamento nel dominio e nell’esclusione dell’altro. Che cosa c’è di nuovo? Come prima, oggi si ricorre alla guerra, alla menzogna, alla simulazione, alla morte. (…) Il progetto di mondo del neoliberismo non è altro che una riedizione della torre di Babele.(…) Il neoliberismo tenta di fare la stessa costruzione, ma non per raggiungere un cielo improbabile, bensì per liberarsi una buona volta della diversità, che considera una maledizione, e per assicurare al potere che mai cesserà di esserlo. (…) Il nuovo dio del denaro ripete la maledizione originaria ma all’inverso: sia condannato il diverso, l’altro. Nel ruolo dell’inferno: il carcere e il cimitero. Il boom dei profitti delle grandi imprese transnazionali è accompagnato dalla proliferazione di prigioni e camposanti. Nella nuova torre di Babele, il compito comune è l’omaggio a chi comanda. E colui che comanda lo fa solo perché supplisce alla mancanza di ragione con un eccesso di forza. (…)
Se nella torre di Babele della preistoria l’unanimità era possibile con la parola comune (lo stesso linguaggio), nella storia neoliberale il consenso si ottiene con gli argomenti della forza, le minacce, l’arbitrio, la guerra.
Posto che vivere nel mondo significa farlo in contiguità con il differente, le opzioni che abbiamo sono tra essere dominante o dominato. Per il primo ruolo la quota è esaurita e farne parte è ereditario. In cambio, per il ruolo di dominato ci sono sempre posti liberi e l’unico requisito è rinnegare la differenza o nasconderla.(…)
II. La geografia delle parole
Se la preistoria è terminata tre anni o venti secoli fa non sembra importare molto. Là in alto, quelli che sono il potere e il destino, si impegnano a convincerci che la storia si ripete, checché ne dicano i calendari. L’annullamento del differente è una moda sempre di attualità. E benché, nell’essenziale, non ci sia nulla di differente tra le catapulte dell’Impero romano e le «bombe intelligenti» di Bush, adesso il progresso tecnologico funziona come il nuovo cappellano delle truppe di occupazione (dipinge di bontà quel che non cessa di essere un crimine a distanza) e come lo scenografo dello spettacolo (i bombardamenti in televisione si trasformano in intrattenimento pirotecnico «affascinante»: Cnn dixit). (…)
Dove mancano le ragioni, pullulano i dogmi. Il primo dogma appoggia la causa, poi la deforma e la trasforma in destino. Nel cannocchiale del potere, l’orizzonte è sempre lo stesso, immutabile ed eterno. La lente del potere è uno specchio. Il differente sarà sempre inatteso e all’inatteso sempre si opporrà la paura. E la paura sempre si farà forte del dogma per schiacciare l’inatteso. Nel cannocchiale del potere, il mondo è piatto, sbiadito e sudicio. (…)
III. La geografia del potere
(…) Coloro che abitano nel nord non si trovano nel nord geografico, ma nel nord sociale, vale a dire che stanno sopra. Coloro che vivono nel sud, stanno sotto. La geografia si è semplificata: c’è un sopra e un sotto. Il luogo di sopra è stretto e ci entrano solo alcuni. Quello di sotto è tanto grande da comprendere qualunque luogo del pianeta, e offre posto a tutta l’umanità.(…)
Nell’epoca moderna, il potere conduce guerre multiple di conquista. E non mi riferisco a «multiple» nel senso di «molte», ma nel senso di «in molte parti e in molte forme». (…)
Oggi, i civili in Iraq, uomini, bambini, donne e anziani, all’improvviso hanno qualcosa in comune con il prospero manager nordamericano. Questi fabbrica missili Cruise, quelli li ricevono. Gli eserciti di Stati uniti e Gran Bretagna sono solo gli amabili postini che uniscono due punti tanto lontani geograficamente. Così che dobbiamo ringraziare persone come Bush, Blair e Aznar per essersi presi il disturbo di nascere nella nostra epoca. Senza persone come loro, sarebbe impensabile, la geografia moderna. Ma questa guerra non è contro l’Iraq, o non solo contro l’Iraq. È contro ogni tentativo, presente o futuro, di disobbedire. È una guerra contro la ribellione, vale a dire contro l’umanità. È una guerra mondiale nei suoi effetti e, soprattutto, nel NO che gli effetti provocano.
IV. Il destino di Polifemo
(…) Le mobilitazioni in tutto il pianeta, tra altre cose, provano che questa è una guerra contro l’umanità. Se c’è qualcuno che ha inteso bene che l’Iraq si trova oggi in qualunque parte del pianeta sono i giovani. Mentre altri guardano una carta geografica e si consolano misurando le migliaia di chilometri che separano Baghdad dalle loro case, i giovani hanno compreso che le bombe (quelle esplosive e quelle della disinformazione) non vogliono solo distruggere il territorio iracheno, ma il diritto ad essere differente.
E quando un giovane dipinge un «No» su un cartello, su un muro, in un quaderno, in una voce, non sta solo dicendo «No alla guerra in Iraq», sta anche dicendo «No alla nuova torre di Babele», «No alla omogeneità», «No all’egemonia». Perché i giovani ribelli usano il »No» come pennello, e tenendolo in mano e nello sguardo dipingono e prevedono un’altra geografia.
Come il ciclope della letteratura greca, Polifemo, il potere fa dell’odio verso il differente il suo unico occhio. È in verità molto forte, e sembra invincibile. Ma, come già a Polifemo, un fantasma chiamato «Nessuno» lancia una sfida al potere. Perché, quando il potente si riferisce agli altri, con disprezzo li chiama «nessuno». E «nessuno» è la maggioranza di questo pianeta. (…)
Nel mondo che sta per nascere, (…) quando qualcuno chiederà: «Chi ha fatto questo mondo?», la risposta sarà: «Nessuno».
E per prevedere questo mondo e cominciare a costruirlo, è necessario vedere molto lontano nella geografia del tempo. Chi sta in alto ha la vista corta e si sbaglia, quando confonde uno specchio con un cannocchiale. Chi sta in basso, «nessuno», non deve nemmeno mettersi sulla punta dei piedi, per indovinare quel che seguirà. Perché il cannocchiale del ribelle non serve neppure per vedere qualche passo più in là. Non è che un caleidoscopio in cui le figure e i colori, complici le une e gli altri con la luce, non sono attrezzi da profeta, ma una intuizione: il mondo, la storia, la vita avranno forme e modi che non conosciamo ancora, ma che desideriamo. Con il suo caleidoscopio, il ribelle vede più lontano del potente con il suo cannocchiale digitale: vede il domani. I ribelli camminano nella notte della storia, sì, ma per arrivare al domani. (…)
I ribelli non cercano di emendare la pagina o riscrivere la storia perché cambino le parole e la ripartizione della geografia, semplicemente cercano una nuova mappa, in cui vi sia spazio per tutte le parole. Una mappa in cui la differenza tra i modi di dire «vita» non sia nella bocca di chi li pronuncia, ma nella totalità di coloro che si esprimono. Perché la musica non si compone di una sola nota, ma di molte, e il ballo non è un solo passo ripetuto fino al disgusto. Così, la pace non sarà altro, se non un concerto aperto di parole e di molti sguardi su un’altra geografia…
Dall’Iraq delle montagne del sud-est messicano, e vedendo il cielo oscurarsi di aerei ed elicotteri militari della Operación Centinela, marzo del 2003. (Il testo sarà pubblicato integralmente nel prossimo numero di Carta)
Silvia dai Prà
Qualche mese fa una minuscola fetta del mondo sportivo iracheno ha lanciato una proposta attraverso la stampa internazionale. Era la fine di ottobre, la guerra sembrava ancora evitabile e la nazionale femminile di calcio iracheno propose una partita amichevole con la squadra Usa, nel nome della pace. Il calcio femminile è presente in Iraq fin dagli anni `50 e dopo un primo tentativo negli anni `70, la nazionale è stata ricreata 4 anni fa. L’Iraq è stato uno dei pionieri dell’emancipazione femminile nel mondo arabo. Le donne rappresentano una fetta consistente della popolazione universitaria, sono presenti al parlamento e nei ministeri; l’infibulazione non è praticata, così come non ci sono normative sul vestiario. La situazione è peggiorata dopo l’embargo, con la crisi economica e il riavvicinamento del regime a posizioni più tradizionaliste. L’Iraq resta però uno dei paesi arabi in cui le donne godono di maggiore libertà. “Nessuno pensa che lo sport sia solo per gli uomini – ha detto la calciatrice Nida Yasser, 25 anni – anche se mia madre era un po’ preoccupata quando ho cominciato a giocare a calcio. Adesso lo ha accettato e prega per me”. Sopravvissute alle torture e alle punizioni che hanno spesso colpito gli atleti iracheni per volontà del figlio di Saddam Hussein, Uday, le ragazze del calcio iracheno si allenavano (prima dell’inizio della guerra) liberamente, con tenute da calcio regolamentari, calzoncini neri e magliette con i colori nazionali. Nel 2001 hanno vinto la medaglia di bronzo a un torneo di calcio islamico tenutosi in Iran. Kholud Layez, 35 anni, è il capitano e il difensore centrale della squadra. Ai giornalisti ha dichiarato: “E’ un mio grande desiderio affrontare la squadra americana. Vorremmo mostrare che anche noi sappiamo giocare a calcio. E forse le giocatrici americane hanno una posizione più aperta rispetto a quella del loro governo. Forse a loro interessa sapere che l’Iraq è una nazione civile, e che il suo popolo ama lo sport, esattamente come loro”. Le ha fatto eco Sana Ahmed, portiere della squadra: “Con una partita amichevole la battaglia potrebbe essere civile, un confronto sul terreno di gioco”.Dagli Stati uniti non è arrivata alcuna risposta, se non qualche commento a margine sul dislivello tra le due formazioni che renderebbe la partita impraticabile. Dalla Federazione irachena nessuna proposta ufficiale è stata inoltrata alla Fifa, pronta ad appoggiare ogni iniziativa che possa fare del calcio uno strumento di contatto tra culture diverse, ma incapace di prendere un’iniziativa personale. Il suggerimento delle calciatrici irachene è stato però raccolto dal calcio femminile italiano: “Non sarebbe un’occasione straordinaria? E per arginare il dislivello di gioco, non potremmo rafforzare la nazionale irachena con rappresentanti degli altri paesi? E perché non giocarla qui a Roma? Il giorno di Pasqua? Magari ci viene anche il Papa!”, questa la reazione euforica del sito calciodonne.net, che ha immediatamente cercato di attivarsi. E che ha provato a coinvolgere Mia Hamm, stella del calcio Usa, presidentessa di un’associazione di beneficienza, ma anche figlia e moglie di un militare. Hamm si è detta troopo impegnata. Le calciatrici irachene, dopo questa breve apparizione sui giornali, sono scomparse di nuovo nel nulla. Finita la guerra, quelle sopravvissute ci riproveranno.
I libri di Saskia Sassen sono disponibili alla Libreria delle Donne di Milano nel settore “Economia Politica” ( si veda anche il “Catalogo” nella nostra home page)
Intervista a Saskia Sassen
Benedetto Vecchi
Le spiegazioni della guerra degli Usa e dell’Inghilterra contro l’Iraq sono molteplici. Qualcuno ritiene Saddam Hussein un dittatore, pericolososo per il suo paese e per la stabilità internazionale, ragione sufficiente per cacciarlo via con ogni mezzo. Altri sostengono che la guerra serve agli Stati uniti per appropriarsi delle riserve petrolifere irachene; altri ancora ritengono che l’obiettivo di Bush sia molto più ambizioso: creare un ordine mondiale cucito su misura degli interessi statunitensi. Per te invece?
La terza che hai detto. Ma prima di risponderti, voglio fare una premessa per me
importante: questa guerra è illegale dal punto di vista del diritto internazionale e
ingiustificata dal punto di vista della minaccia reale rappresentata da Saddam
Hussein. Detto questo, sono convinta che l’intervento militare in Iraq fa parte di un
progetto più ampio che va ben al di là del mutamento degli assetti politici a Baghdad.
Bisogna però capire chi vuole questa guerra e quali saranno i benefici per gli
statunitensi. Per noi americani, il bilancio sarà disastroso. Costerà un mare di soldi.
L’ultima stima ufficiale è che la guerra all’Iraq costerà 75, 80 miliardi di dollari in più
di quello previsto in precedenza: una cifra enorme che peserà sul già enorme deficit
di bilancio. Sono convinta inoltre di quanto sostengono la maggior parte degli analisti,
che sono persuasi che questa guerra non porterà benefici all’economia. Magari andrà
bene alle imprese scelte due settimane fa dal governo statunitense per ricostruire
l’Iraq. Al di là del fatto che Bush ha preso questa decisione quando all’Onu era ancora
aperta la discussione sull’intervento militare o meno, va sottolineato che anche in
questo caso solo alcune imprese participeranno alla spartizione della torta. Quindi
possiamo dire che la guerra la vuole solo una parte dell’establishment economico.
Stando ai sondaggi, sembra però che gli americani la adorino: per loro è uno
spettacolo grandioso – e in effetti le immagini sono drammaticamente sbalorditive.
Un vero evento mediatico. Ma è una guerra dichiarata in un contesto in cui il governo
ha posto un’alternativa secca: o con noi o contro di noi. L’amministrazione Bush ha
fatto dunque leva sul patriottismo. I media si sono poi dilungati sulla notizia che Bush
e la Rice pregano insieme in ginocchio nello Studio ovale, evocando il profondo
puritanesimo della società americana e ingigantendo l’immagine di una nazione unita
dalla preghiera. A tutto ciò, possiamo aggiungere una variabile che sta pesando
molto nelle decisioni di George W. Bush e che riguarda un sentimento di intolleranza
dell’establishment neo-conservatore verso tutto ciò che potremmo definire «diversità
su scala globale». Gli Usa hanno costretto gran parte delle nazioni a diventare
neoliberiste, cioè a intraprendere politiche di privatizzazione, di apertura dei mercati
interni agli investimenti esteri, anche se questo significava lasciar morire di fame le
rispettive popolazioni. Credo, però, che gli Stati Uniti stiano abusando del proprio
potere. Storicamente, quando questo è accaduto abbiamo assistito alla fine dei
grandi imperi. È forse un’ironia della storia, ma quando un potere è assoluto,
vengono a mancare alcune condizioni che lo disciplinano e questo porta alla sua crisi.
[…]
Il movimento antiglobalizzazione è stato uno dei protagonisti dell’opposizione alla guerra in nome di un’alternativa al neoliberismo. Il New York Times ha parlato di un’altra superpotenza nel mondo dopo gli Usa, il movimento antiglobalizzazione. Come valuti le mobilitazioni di questi ultimi mesi contro la guerra?
Credo che il movimento antiglobalizzazione svolgerà un ruolo cruciale nel ridisegno del mondo. E’ infatti un movimento globale che propugna una cittadinanza globale, fattore che gli consente un protagonismo politico impensabile solo fino a pochi anni fa. In un’intervista con il manifesto (Marco d’Eramo, 22/04/2001) avevo affrontato il tema delle “micropratiche della cittadinanza”. Potremmo dire che ora ci troviamo di fronte a pratiche di cittadinanza transnazionale. Nel caso dell’Europa, questo è quanto sta emergendo con forza nel movimento contro la guerra in Iraq. Mi sembra cioè che i cittadini europei stiano andando oltre i propri leader nazionali, visti alternativamente come eroi (Chirac) o come farabutti (Blair), e stiano incominciando a costruire una pratica di cittadinanza europea che supera gli stati nazionali e i partiti politici nazionali.
I cittadini, e uso questo termine nel senso più ampio, non solo formale, dei paesi europei i cui governi sono storicamente rivali (Francia e Regno Unito, Francia e Germania), ora si uniscono attraverso le frontiere. Le immagini delle manifestazioni contro la guerra veicolate dai media globali alimentano questo sentimento politico che potremmo definire universalistico. Un senso di “europeità” sta nascendo ed è molto più sofisticato di quello che misura la Commissione europea per aumentare la partecipazione dei cittadini. Chi manifesta la sua contrarietà alla guerra mette l’accento su questa cittadinanza transnazionale e non sul conflitto fra Blair e Chirac. Così, gli inglesi vedono Blair un leader politico che mette in pericolo l’Europa e Chirac un po’ come un eroe. Allo stesso modo, i francesi pensano che Chirac debba gestire il conflitto con Blair in vista del rafforzamento dell’Europa e non solo in funzione della difesa degli interessi nazionali.
La guerra non ha solo degli effetti nei luoghi dove si combatte, ma anche all’interno dei paesi che l’hanno voluta. Dopo l’11 settembre, l’amministrazione Bush ha emanato delle leggi che limitano la libertà di movimento per i migranti e alcuni diritti civili…. Le città globali diventeranno delle fortezze presidiate militarmente?
Certamente. Non c’è alcun dubbio che la guerra in Iraq avrà delle ripercussioni globali e quindi anche negli Stati uniti. Il Patriot Act, la legge approvata dal parlamento dopo gli attacchi dell’11 settembre, ha ridotto i diritti legali dei migranti e di alcune minoranze. La paura degli attacchi terroristici porterà a una militarizzazione degli spazi pubblici, dei sistemi di trasporto. Questo è un elemento potenzialmente fascista all’interno degli Stati Uniti che prima o poi ci toccherà tutti, cittadini o migranti, minoranze sospette o meno, poveri o ricchi.
A proposito delle città globali che diventano fortezze ci sono alcuni dati interessanti del Dipartimento di Stato sugli anni Novanta che mostrano come, dopo il 1998, le città siano diventate il principale obiettivo degli attacchi terroristici. E’ inoltre molto probabile che la guerra contro l’Iraq avrà quello che alcuni studiosi chiamano un “ritorno di fiamma”, cioè spingere un numero impreciso di “indecisi” alla scelta terrorista e che le metropoli diventeranno sempre più “obiettivi sensibili”.
Da quando Bush e Blair hanno iniziato a parlare di guerra, abbiamo assistito all’aumento del livello di allerta in città come Londra o New York. Con il mio gruppo di studio sulle città globali abbiamo fatto una ricerca sui giornali Usa per vedere se dall’11 settembre ci fosse stato da parte dell’amministrazione Bush una qualche ammissione relativa due fatti: a) se il dipartimento di stato avesse mai diffuso questi dati; b) che andare alla guerra con l’Iraq avrebbe aumentato le possibilità di attacchi alle città americane più che ai militari ammassati nel Golfo. Non possiamo diventare paranoici e pensare che le città diventeranno stati-fortezze. Considerato quanto odio e disperazione ci sono nel sud del mondo, considerato la violazione del diritto internazionale e le sofferenze per i civili rappresentate dal bombardamento dell’Iraq, è sorprendente quanto poco terrorismo contro gli Stati Uniti ci sia. Ma da oggi, forse, la situazione cambierà, visto che gli Usa stanno offrendo molti incentivi per spingere molti giovani a varcare quella soglia oltre la quale c’è la scelta di morire combattendo contro il mio paese.
Le metropoli di una nomade
Mai una definizione come «la circolazione di cervelli» si addice a Saskia Sassen.
Olandese di nascita, ha passato la sua prima giovinezza in Argentina, trasferendosi
poi in Italia per approdare, infine, negli Usa, dove insegna all’Università di Chicago e
alla Columbia University di New York. Ma il suo nomadismo intellettuale la porta
spesso in Italia, in Francia e in Inghilterra. Attivista da sempre nella «nuova sinistra»
è però poco incline al dogmatismo che caratterizza spesso il pensiero critico
statunitense. Il suo nome è divenuto famoso per un saggio sulle Città globali, una
analisi particolareggiata del ruolo di New York, Londra, Tokyo nell’economia globale (il
libro è stato pubblicato dalla Utet). La tesi centrale del volume è che in alcune città si
sono concentrati alcuni servizi finanziari, legali, di progettazione organizzativa, di
ricerca e sviluppo che sono indispensabili, per coordinarlo, a un processo produttivo
disseminato potenzialmente in tutto il pianeta. Proprio per questi motivi, nelle città
globali la «polarizzazione sociale» raggiunge il suo acme. Saskia Sassen ha in seguito
applicato questa griglia analitica a molte altre città, come San Paolo, Miami,
Singapore, Honk Hong nel libro Le città nell’economia globale (Il Mulino).
Oltre a questo tema, uno degli argomenti da lei studiati è la crisi della sovranità
nazionali nell’economia mondiale (Losing control, Il Saggiatore) e le conseguenze
sociali della globalizzazione economica (Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore). Ed è
all’interno di questo argomento che è maturato il suo interesse per il ruolo delle
migrazioni nello sviluppo economico europeo (Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione
di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli), dove il migrante diventa la figura simbolica
della globalizzazione economica. B. Ve.
Nicoletta Dentico *
Raffaele Salinari **
Kosovo, Afganistan e, ormai ineluttabile, l’Iraq. Sono i ciclici scenari che collegano, accanto alle crisi tragicamente ignorate, il trascorso secolo breve a quello che viviamo oggi. Un’oltranza epocale che si caratterizza per le disuguaglianze crescenti sulla faccia del pianeta, ma anche per la centralità della guerra, confermata prosecuzione dell’assenza di politica con altri mezzi, e per la riduzione del diritto internazionale a semplice diritto del più forte. Brutale paradosso di questa operazione, la progressiva militarizzazione dell’azione umanitaria (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e la maggior parte dei paesi dell’Unione Europea hanno modificato la loro dottrina militare incorporando gli aiuti umanitari alle missione degli eserciti), ovvero le ragioni umanitarie delle armi e la giustificazione umanitaristica delle guerre, che mira a trasformarne la natura agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali. E poi la battaglia delle relazioni pubbliche, sofisticato fronte della cittadinanza per chi non va al fronte.
E se (con le parole di Eduardo Galeano) l’aggettivo umanitario conferma, oggi come non mai, la cattiva opinione che la maggior parte degli abitanti del pianeta ha sul genere umano, la transizione dalla guerra umanitaria del Kosovo a quella preventiva dell’Iraq, passando per l’azione afghana segnata dalla strategia delle “bombe e pane” di blairiana memoria, segnala, oltre ogni possibile interpretazione, l’inarrestabile deriva di quello che una volta veniva chiamato il diritto umanitario.
I capisaldi di questa dottrina, evocata da molti ma studiata e applicata con coerenza da pochi, risiedono su alcuni chiari principi: l’indipendenza dell’aiuto da ogni condizionamento di ordine politico e quindi militare, l’imparzialità nel diritto di accesso alle vittime, tutte le vittime. La guerra umanitaria del Kosovo ma, ancor più la rappresaglia afghana, hanno stravolto in profondità questi principi. L’aiuto umanitario fa ormai parte integrante del dispositivo bellico: lo dichiarò a chiare lettere Tony Blair, campione della coalizione militare-umanitaria che si accingeva a bombardare l’Afghanistan dopo l’11 settembre, quando affermò che i tre tasselli (militare, diplomatico e umanitario) erano andati a posto e che si poteva bombardare.
Nel caso dell’Iraq, la strutturazione di questa indigeribile propoganda ha dato origine, nelle ultime ore di vigilia bellica, all’Ufficio per la Ricostruzione e gli Aiuti Umanitari da parte del Pentagono: avrà il compito di determinare il quadro di lavoro delle organizzazioni umanitarie e indicare le aree di intervento. In altre parole, qualsiasi presenza, trasferimento o progetto dovrà ottenere l’approvazione di questo organismo e la benedizione dell’esercito americano. Il compimento di una mutazione genetica.
Per le organizzazioni umanitarie, qualunque sia la loro storia e la loro specificità operativa, si impone un enorme problema di coerenza. Invero, la necessità di rimettere in causa (o di re-inventarsi?) la raison d’etre della propria esistenza, intrappolata in un rischio di legittimazione usurpato a oltranza.
Certamente, nessuno ha il monopolio degli aiuti. Ma l’indipendenza dell’azione umanitaria deve essere senza se e senza ma. Altrimenti, l’azione, umanitaria non è. Non è pensabile arruolarsi a diventare il braccio di servizio, o meglio l’alibi, di organizzazioni politiche e militari implicate direttamente o indirettamente nel conflitto. Non è possibile assoggettarsi a un programma nascosto che ha valenze puramente geo-strategiche. Ne va anche della percezione che le vittime hanno di noi, e quindi del nostro rapporto con i beneficiari.
Per questo motivo una delle sfide che sempre più criticamente si pone di fronte agli operatori umanitari è quella dell’indipendenza economica. Nel nodo gordiano della strategia di reperimento dei fondi, infatti, si sostanzia anche la cifra della nostra indipendenza politica. E’ legittimo – in un’ottica di diritto umanitario – prendere fondi da un governo che decide di aderire all’azione militare, e che si pone quindi come parte belligerante? A quale credibilità si affida chi adotta una politica di fondi pubblici – quindi, in qualche modo, dovuti alle organizzazioni umanitarie? – quando l’amministrazione che eroga i fondi sottoscrive una guerra al di fuori di ogni legale riferimento del diritto internazionale? Non è più sufficiente dichiarare, come si usava fare sino a tempi recenti, che non è importante l’origine dei fondi quanto ciò che se ne fa. Così si contribuisce a chiudere il circolo vizioso di subalternità dell’umanitario alle logiche militari: esattamente ciò cui aspirano i corifei della nuova dottrina.
* Direttore generale Medici Senza Frontiere
** Presidente Terres Des Hommes
La lettera dice che “la guerra teme la poesia”, ma è forse più vero che la poesia teme la guerra. Anche noi temiamo la guerra.
Però la poesia ha un’autentica forza simbolica.
La guerra teme la poesia.Alla Casa bianca poche settimane fa è stato
annullato un invito a molti poeti americani per paura che si
esprimessero contro la guerra. Un tempo la poesia è stata profezia e
preveggenza, oggi conserva la capacità di restituire alle parole il loro
significato più profondo e autentico. Ieri come oggi i poeti vengono
banditi dalle città e dalle case perché smascherano l’ipocrisia dei
politici e dei mercanti di morte. Si cerca di far accettare
l’inaccettabile, usurpando e rovesciando il senso delle parole, così le
guerre diventano giuste, umanitarie e sante e quindi inevitabili e
perché no? desiderabili… Da quando le bombe sono diventate
intelligenti c’è di che preoccuparsi di come viene utilizzata la parola
e l’intelligenza. Per arrivare al ripugnante «effetto collaterale» con
cui viene definita la morte di civili innocenti. La guerra e i suoi
rappresentanti temono le parole perché prima o poi torneranno a
riprendersi il loro vero significato. Chiediamo a chi si esprime con la
scrittura e la parola di inviare il proprio testo
(roberto.pasquali@iperbole.bologna.it) e di aderire a una giornata della
poesia (sabato 29 marzo) in cui la parola pace possa raggiungere anche
gli uditi meno sensibili come quelli dei potenti che solo con la forza
tentano di dominare il mondo.
Roberto Pasquali, Bologna
Stefano Pistolini
intervista a Naomi Klein
Naomi Klein ha preso sul serio la missione che le è precipitata addosso allorché il suo No Logo si trasformò, un paio d’anni fa, da provocatoria indagine sugli scheletri nell’armadio delle corporation, in manifesto comportamentale del movimento anti-globalizzazione. Da allora Klein gira il mondo, partecipa ai principali appuntamenti della rete internazionale dell’antagonismo, sintetizza col suo stile che mescola passione e documentazione gli andamenti di quella che a tutti gli effetti è diventata “la” questione planetaria. Oggi esce in Italia da Baldini&Castoldi Recinti e Finestre. Dispacci sulle prime linee dei dibattito sulla globalizzazione (pagine 258, f 15,80), una raccolta di articoli e interventi che testimonia questo suo biennio di forsennato attivismo. Abbiamo raggiunto telefonicamente la Klein per commentare insieme la parabola che l’ha collocata sotto i riflettori dell’attenzione pubblica mondiale e questa sua capacità comunicativa, che descrive efficacemente la modernità come un alternarsi di recinti, ovvero di barriere insuperabili che dividono e difendono (ad esempio difendono i ricchi dalla minaccia, dalla presenza, perfino dalla visione dei poveri) e di finestre, le aperture in certi casi soltanto le fessure, attraverso le quali può ancora transitare un qualche flusso d’opportunità.
Dove si trova in questo momento?
Sono in Argentina. Ci sono tornata dopo la prima visita di un anno fa, in coincidenza dell’esplodere della crisi economica e dei disordini popolari. Sono tornata per realizzare un documentario sulle elezioni politiche e sugli scenari sociali che da esse dipendono. Ma niente pare più sicuro da queste parti. Compresa la data delle elezioni, che continua a cambiare. Adesso si parla del 25 maggio. Aspetterò fino ad allora. Del resto c’è così tanto da vedere e analizzare. Fin dai tempi della rivolta del 2002 ho pensato che un gran numero delle questioni sollevate dal movimento no-global qui in Argentina assumessero un’accelerazione, si estremizzassero fino a diventare autentici stereotipi, perfettamente descrittivi. Dei casi flagranti, di fronte ai quali non si può restare indifferenti. Qui il fallimento del nuovo liberismo economico viaggia a doppia velocità, così come il disastro dell’organizzazione sociale che su di esso si è tentato di basare. Un paese in via di sviluppo stava raggiungendo il sogno dell’avvento di una grande middle class. Poi è arrivato questo terremoto e tutto è tornato a squilibrarsi, con oscillazioni minacciose come solo un’economia neoliberista può provocare. Ed eccoci a fronteggiare l’eventualità di una brasilificazione dell’Argentina, sul limitare del caos. E tutto è successo in modo drammatico e velocissimo. Le risposte però sono state estremamente creative. Buenos Aires oggi è un vero laboratorio. Si stanno cercando le strade per una possibile nuova democrazia. La metropoli si sta reinventando. E’ al tempo stesso instabile, pericolosa, vivacissima.
Su cosa da centrando la sua attenzione?
Su questo vedermi circondata da esperimenti interessantissimi anche se frammentari. L’impressione generale è quella di un azzeramento, dopo il quale si comincia a ricostruire, senza però che la comunità abbia ancora raggiunto un vero accordo sulle strade da seguire. Non c’è una visione unificata di cosa dovrebbe diventare il paese. Ci sono grandi spaccature e tutto è all’insegna della spontaneità. Il sistema privato è crollato e farlo ripartire si sta rivelando tutt’altro che facile. Ad esempio è straordinario il fenomeno che sta prendendo corpo sempre più massicciamente nelle fabbriche, le stesse che mesi fa, al culmine della crisi hanno cominciato a chiudere per le motivazioni più diverse. Gli operai – prima in due o tre fabbriche, ora in dozzine e dozzine – hanno cominciato a rifiutarsi di lasciare il posto di lavoro. Si sono barricati dentro gli stabilimenti e alla bella e meglio hanno continuato la produzione. Una specie di sciopero all’incontrario. Non accettavano di rinunciare. E queste aziende, in qualche modo, non sono morte. Così tutto attorno a loro è nata una catena di solidarietà che ha permesso che gli esperimenti reggessero. Sono spuntate cucine da campo, infermerie, punto di incontro con le famiglie. Se ci pensi è pazzesco, nel 2003. Com’è pazzesco che in un paese tra i principali produttori ed esportatori mondiali di cibo, in questo momento si muoia di fame. Ogni giorno in Argentina 27 bambini muoiono di fame. Esattamente nel paese che continua a produrre le bistecche più famose del mondo. Sulla faccenda qui sono perfino capaci di scherzare, dicendo che negli anni Settanta la politica era qualcosa che veniva dal cervello e scendeva giù negli altri organi del corpo, per governarli e condizionarli. Oggi sono gli organi a comandare, a cominciare dallo stomaco. E le sue direttive salgono su fino al cervello. C’è poco da star tranquilli a fare politica su uno sfondo di questo genere.
Del resto in “No Logo” e ora in “Recinti e Finestre” utilizza 8 cibo come snodo principale del dibattito – ma anche dello scontro…
La base di tutto. Triste a dirsi. Quando sei povero ogni bisogno è fatto di dolore. I movimenti sociali oggi partono esattamente di qui. Ci si comincia a organizzare partendo dal cibo, magari da una cucina collettiva. Avere il pane. La teoria, al confronto, diventa trasparente, invisibile, a tratti del tutto inutile. E qui in Argentina la questione è all’ordine del giorno. Si muore di fame e i camion che trasportano cibo vengono assaltati. E’ una crisi spirituale profonda, una di quelle nelle quali spesso hanno affondato le mani varie forme di fondamentalismo.
Quali echi arrivano a Buenos Aires dei venti di guerra che scuotono il mondo e come li mette in relazione col movimento no-global di cui è stata tra le promotrici in un momento in cui il pacifismo ancora non aveva assunto la centralità che ha oggi?
A metà febbraio, quando il mondo ha protestato contro la guerra, io sono andata alla manifestazione qui a Baires. C’erano 20mila persone, non poche se pensi alla crisi interna che questo posto sta passando. Ma se penso alla questione in termini più ampi, dirò che oggi movimento pacifista e movimento no-global potrebbero rappresentare una possibile dicotomia. Può essere pericoloso che i due movimenti si confondano l’uno nell’altro. La guerra al terrore è anche una guerra contro la possibilità di alcuni popoli di difendere i propri diritti. Intendo che quella definizione può essere anche utilizzata per impedire alla gente di difendersi. E credo che si debba combattere la guerra ma che si debba anche difendere il diritto di combattere per i propri diritti. Un tempo bastava dire: No War. Oggi il discorso mi sembra più complesso. Il 12 settembre 2001 ho capito che si stava aprendo una strada nuova, difficile, dove l’unico dato positivo era che sicuramente avremmo cominciato a conoscerci meglio sul piano globale.
In pratica esprime uno scetticismo assoluto sull’utilizzo stesso che oggi si fa della parola “guerra”.
Io credo che “guerra al terrorismo” oggi sia un marchio di mercato. La sua edificazione, la progressiva propagazione, il flusso di informazioni, il crescendo delle posizioni del potere, sono gli stessi del procedimento di commercializzazione di un prodotto. L’unica differenza è che in questo caso invece di vendere una merce sì vende un’idea. Dai tempi di No Logo ragiono su questi aspetti del contemporaneo. E ora parlo proprio di questo dichiarare genericamente “guerra al terrorismo” senza mai precisare fino in fondo le ragioni della guerra, il campo di battaglia, il tempo e l’identità circoscritta del nemico. Così si genera un’idea fluttuante di “guerra”, che può essere modificata in corsa, così come può essere modificata la strategia di vendita di un prodotto. Ad esempio negli ultimi mesi si è esteso il concetto generico di “guerra al terrorismo” trasformandolo in “guerra all’Irak”, un concetto differente da quello originale. In sostanza “guerra al terrorismo” è un marchio che d’ora in avanti potrà essere utilizzato per scenari diversi, di volta in volta aggiungendo nuovi slogan o aggiornando i vecchi. Difficile non credere che alla base dell’intera operazione, non ci sia una precisa consapevolezza. Si è varato in laboratorio un sofisticato concetto di diffusione di un prodotto, seguendo le regole del mercato. Il prodotto si chiama “guerra al terrorismo” e il suo posto è esattamente al centro di tutti gli scaffali mediatici…
In pratica si è messa in circolo un’idea-base di “guerra” e di volta in volta si aggiungono gli accessori destinati a influenzare la mentalità del pubblico e ad aggiornarla..
Sì, tenendo presente come cambiano le opinioni e quali sono gli andamenti della qualità della vita. Proprio secondo quel concetto di “elasticità” da cui parte la buona vendita di un prodotto sul lungo termine.
Un tema di grande rilievo nei nuovo libro è l’ossessione per la sicurezza.
Credo sia un’altra nicchia di nuovo mercato destinato a straordinaria espansione nell’immediato futuro. Qui in Argentina sotto la dittatura si aveva paura di tutto, a cominciare dai vicini, che con una spiata potevano mettere a rischio la tua stessa vita. Quando si è tornati alla democrazia la gente ha cominciato a uscire di casa e a scoprire il piacere di comunicare. Si è compreso che conoscersi è il miglior sistema di sicurezza che esista. Proteggersi a vicenda. Oggi l’isteria è tornata alle stelle. Con l’instabilità son tornati i vecchi terrori. I rapimenti sono all’ordine del giorno. I politici fanno campagna elettorale sulla sicurezza. La paura c’è, si sente.
Un’ultima risposta da quell’osservatorio privilegiato: intravede un futuro sociale improntato a una politica tradizionale, partitica, con un nucleo statale e sbocchi internazionali?
Credo che i partiti possano sopravvivere solo in forma di reti, concreta espressione di un fortissimo senso d’interconnessione. Terminali di una democrazia partecipativa accentuata. Ma ciò che più m’interessa sono le politiche locali. Dare a tutti il modo di osservare i risultati diretti della democrazia. Può essere un’esperienza esaltante e il suo vero nome è “coinvolgimento”. Città come realtà visibili. Lula in Brasile sembrava andare su questa strada, ma appena arrivato in vetta il suo desiderio di democrazia partecipativa mi sembra si stia già annacquando. Sono le malattie del potere.
Cosmologia del presente Lo sguardo e la prospettiva dello studioso francese erano orientate dal senso della differenza. Cioè da quella grammatica spontanea dell’inchiesta che torna utile per indagare la condizione postcoloniale
Federico Rahola
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È quindi in questa via di mezzo, che si colloca un testo come La società contro lo Stato. A rileggerlo oggi appare un libro insospettabilmente «solido», pieno di intuizioni straordinarie e con una progressione narrativa e una costruzione logica impressionanti, sulla scia della migliore tradizione etnologica francese e mondiale, dal «Saggio sul dono» di Mauss in poi. Al centro c’è la questione, ovviamente dirimente nell’antropologia politica, del potere, sintetizzata in una domanda semplice, diretta: si può affermare che esistano società senza potere politico, non «strutturate» cioè sulla logica weberiana dell’autorità, sul nesso coercitivo comando-obbedienza? E quindi, a ruota, devono considerarsi tali società come non politiche, o meglio come prepolitiche, in base a inesorabili leggi di necessità della Storia?
Clastres lavora sul suo terreno, la «periferia» al cuore dell’America latina, quella foresta amazzonica lontana dalle grandi civiltà andine: i Guayakì, i Guaranì, gli Jivaro, popolazioni sterminate nel corso del più grande genocidio della storia (di cui, in un capitolo sulla «demografia amerindiana», condividendo l’ipotesi di Chaunu delinea en passant proporzioni ancora più consistenti: «gli scontri `microbici’ del XVI secolo annientarono, nell’insieme, un quarto dell’umanità»).
Ne analizza rigorosamente l’organizzazione sociale e la divisione dei sessi, le cosmologie, i rituali, la particolare economia (e pure le politiche di genere, il senso del tempo, la nostalgia, l’umorismo). E porta alla luce la straordinaria figura, comune a quasi tutte quelle popolazioni, del «capo impotente», riflesso di un potere molto durkheimiano (ecco l’ambivalenza) che è tale solo perché «sociale»: il capo, cioè – le cui parole non sono ordini ma simboli, la cui autorità non si fonda neppure sull’ascolto ma sul «prestigio», sulla «parola», e sul dovere del «dono» – rappresenta la scelta agita, tutt’altro che inconsapevole, di annullare ab origine ogni gerarchia e ogni coercizione, ogni tensione verso l’«Uno». Se «il potere è esattamente quello che le società hanno voluto che fosse», le popolazioni della foresta ci restituiscono una figura politicamente «potente» proprio perché la dipendenza dal gruppo la rende nei fatti impotente.
Tesi di fondo di La società contro lo Stato è allora che non sia possibile dividere la società in due gruppi, con potere e senza potere: «riteniamo al contrario che il potere sia universale, immanente al fatto sociale (sia questo determinato da `legami di sangue’ o dalle classi sociali), ma che si realizzi in due modi particolari: potere coercitivo e potere non coercitivo». Enunciato che innesca una sequenza di domande enormi (cos’è il potere politico? come e perché emerge la coercizione, e quindi, «cos’è la storia?»), tutte però giocate su una condizione preliminare e assoluta: «che si rinunci asceticamente (…) alla concezione esotica del mondo arcaico che, in ultima analisi, determina il discorso che si pretende scientifico su questo mondo». È a partire dalla negazione perentoria di ogni tentazione esotica e «primitivista» che Clastres, allineandosi a molte altre voci contemporanee, assume come bersaglio la generale disposizione dell’etnologia a fare di un presunto «naturale» etnocentrismo – il fatto di guardare il mondo a partire dai propri occhi – la base inavvertita e ideologica del proprio discorso scientifico.
Ed è su questa premessa che Clastres demolisce lo sfondo evoluzionista e la pretesa di scientificità del discorso etno-antropologico, cogliendone i sintomi in una serie di passaggi logici e indiziari: l’assenza di scrittura, e quindi di storia, l’assenza di un mercato, e quindi di un’economia che non sia di sussistenza. Il primo caso, infatti, è un dato fattuale, incontrovertibile: la scrittura c’è o non c’è. Poi però c’è il giudizio, che è sempre di valore, in base a cui assenza di scrittura diventa assenza di storia. Clastres blocca sul nascere questa progressione ideologica in uno splendido capitolo sui segni e la «memoria»: segni sul corpo (la «marchiatura» di cui parlano Deleuze e Guattari in Anti-Edipo), che ricordano in modo indelebile ai giovani Guayakì appena iniziati il loro essere uguali, uomini fra gli uomini, «finiti» come tutti, e che non sono scrittura, non si separano dai corpi per diventare «Legge», ma sono memoria vissuta, marchi, appunto storie.
Il secondo «sintomo» è invece tutto in una parola: sussistenza. La condanna a una precarietà cronica, l’incapacità di staccarsi dall’urgenza dei bisogni materiali e da una stagnante scarsità. Tutta l’epoca coloniale è stata dominata dall’assioma che l’«arretratezza» tecnica abbia impedito alle culture colonizzate di produrre quel surplus che è motore del progresso sotto il segno del capitale (ecco la macchina mitologica dello «sviluppo»). Clastres in questo caso si muove su linee già tracciate, per esempio, da Marhall Sahlins, portando alla luce «società dell’abbondanza» che non accumulano e piuttosto sprecano (e qui, dietro l’angolo, c’è l’idea bataillana di depense). Ma fa di più: non si limita a decostruire l’ideologia dell’economia di sussistenza. Con un twist «hegeliano» rovescia l’ordine del discorso: ok, ammettiamo che di economia di sussistenza – e cioè di un’economia che garantisce piena sussistenza – si tratti. E allora? Gli agricoltori Guaranì lavorano due mesi ogni quattro anni; nelle asce metalliche che il contatto con i coloni gli ha messo in mano, non vedono mezzi per produrre di più, ma per «lavorare di meno»: la produzione senza l’incubo dell’accumulazione, il tempo libero, l’ozio, come scelta contro il «lavoro alienato».
Queste società che i primi colonizzatori definivano «senza re, senza leggi, senza dignità», sono allora incomplete nella misura in cui si concepisce il mercato, l’accumulazione e lo stato come destino ultimo di ogni formazione sociale, orizzonte evolutivo della politica (un po’ come il corpo della scimmia che, secondo Hegel e Marx, si poteva comprendere solo a partire dalla costituzione dell’uomo). Il messaggio che le popolazioni della foresta ci consegnano è però opposto: l’esperienza di una sussistenza piena senza accumulare, senza cioè accasermare le «eccedenze», tanto di cibo che di potere. Questa la loro assenza di Stato.
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Come collocare questa differenza, queste forme di vita, nello spazio e nel tempo che vengono problematicamente «dopo le colonie»?
Il loro violento ingresso in ciò che Benjamin definiva come il tempo «lineare e vuoto» della «modernità» è segnato dal lutto, certo; ma è anche sintomo di qualcosa che ancora insiste sul presente, e ne indica direzioni opposte (il loro essere società contro lo Stato) che contribuiscono a relativizzarne la portata (nella misura in cui la fanno apparire un’opzione, la più forte, tra le altre). È questa forse l’immagine più nitida del presente postcoloniale che si può ricavare fra le righe del testo di Clastres: un tempo in cui l’insieme dei passati che il progetto coloniale (e il moderno capitalismo) ha incontrato sulla sua strada riemerge confuso in una sorta di «esposizione universale», che, al contrario del Muséé de l’Homme, è però dentro la modernità, e potrà parlare una lingua davvero universale solo se saprà affermare la contemporanea presenza di queste differenze «contro», con un sentimento che Dipesh Chakrabarty definisce di «gratitudine anticoloniale».
Parte da New York un grido contro la guerra nei teatri di tutto il mondo
Aristofane oggi. Ideata da Katrhyn Blume e Sharron Bower, l’iniziativa ha coinvolto oltre cinquanta paesi
Cristina Piccino
Tutto comincia in gennaio a New York, quando cioè la protesta contro la guerra preventiva in Iraq esplode con forza, sostenuta apertamente da intellettuali, artisti, attori, attrici, Sean Penn in testa che vola anche a Bagdad per vedere cosa accade realmente in quel paese. L’idea viene a Kathryn Blume e Sharron Bower, registe e attrici di teatro, che in quei giorni stavano lavorando a un’adattamento di Lisistrata, e la storia scritta da Aristofane secoli fa è diventata subito gesto contemporaneo nella volontà di quelle donne, guidate dalla bella ateniese, che stanche della guerra infinita tra Atene e Sparta organizzano lo «sciopero» del sesso. Nasce così The Lysistrata Project, pensato come un gesto di pace collettivo che coinvolga i palcoscenici di tutto il mondo. La filosofia delle due ideatrici è «pensare globale, agire localmente», che poi è anche un po’ il modello seguito per i Dialoghi della Vagina di Eva Esler – la quale ha dichiarato: «è fantastico sapere che un evento simile sia possibile, inviate il mio sostegno e sappiate che sono lì tra voi con tutta l’anima – visto che per protestare contro la politica di Bush, le due attrici cercano di coinvolgere sullo stesso testo il più grande numero artisti. E nello stesso momento, una data, il 3 marzo che vuole essere scaramantica e simbolica. «Prima di tutto questo ci sentivamo impotenti, non potevamo fare altro che guardare in tv l’orrore della politica di Bush, i suoi preparativi per l’attacco unilaterale all’Iraq. Abbiamo iniziato a spedire e-mail ai nostri amici, e abbiamo aperto un sito. La risposta è stata incredibile. Ci hanno scritto in migliaia dicendoci che vivevano il nostro stesso stato d’animo e che nei loro paesi discutevano ogni giorno sui pericoli di questa guerra». Un lavoro appassionato, frenetico e instancabile. Infatti all’appuntamento hanno aderito cinquantasei paesi sparsi nel mondo, dagli Stati uniti all’America Latina, e poi Giappone, Australia, Europa (in Italia l’evento è stata ospitato dal teatro Vascello di Roma, e dal Teatro Miela di Trieste), oltre novecento artisti e compagnie e circa mille teatri… E tutti presenti con forme e modi diversi, utilizzando anche spazi non teatrali, biblioteche, parchi, improvvisando o seguendo una regia più studiata. A Londra il Progetto Lisistrata ha «occupato» la piazza di fronte al Parlamento. Nel coro contro la guerra c’erano anche Vanessa Redgrave, Magie Steed, Alan Rickman, David Hare, e Toni Harrison che ha «regalato» al pubblico e alla pace la lettura in anteprima del suo adattamento di Lysistrata. A New York The Lysistrata Project è stato rappresentato all’Harvey Theater, nel ruolo di Lisistrata c’era Mercedes Ruehl, insieme a Fred Murray Abraham, Kevin Bacon, Peter Boyle, Kathleen Chalfont, Delphi Harrington, Kyra Sedgwick, Lori Singer con la regia di Ellen McLaughlin. Ha detto Julie Christie, che ha sostenuto l’iniziativa in California (regia di Michael Clark Haney, John Densore alle percussioni ): «la storia deve scrivere che milioni e milioni di persone erano contro questa guerra». All’iniziativa hanno aderito anche moltissime organizzazione per la pace, e i soldi raccolti nei diversi teatri erano destinati all’aiuto delle organizzazioni non governative che lavorano nei paesi massacrati dalle guerre.
E ora? Cosa accadrà del Progetto Lisistrata? Le curatrici continuano a lavorare (si parla di un prossimo appuntamento per il 3 maggio) e sperano che la macchina teatrale di protesta non si fermi finchè si parla di guerra. Dicono Blume e Bower: «noi amiamo il nostro paese e per questo pensiamo che la sua libertà e la sua ricchezza devono essere legate a un grosso senso di responsabilità. Questa guerra non è un’azione responsabile. Bush non vuole ammettere che una guerra renderà il nostro paese ancora più povero, ci allontentanerà da molti paesi alleati e soprattutto farà crescere un sentimento antiamericano in tutto il mondo. Deve essere chiaro che Bush non parla a nome degli americani. E tutti coloro che sono contro questa guerra devono dirlo, devono agire per la pace».