Francesca Lazzarato

Gita Wolf ha fondato la Tara Publishing nel 1994, e in dieci anni la casa editrice (che ha sede a Chennai, vicino a Madras) è diventata una delle “piccole imprese” più ammirate del mondo, grazie allo splendore della grafica e delle illustrazioni di libri costruiti artigianalmente, spesso stampati a mano su carta fatta a mano, in cui si ritrovano tutta la tradizione visiva dell’India contadina, ma anche le sue leggende, i suoi personaggi, i suoi animali. Alla produzione per bambibni si sono aggiunte di recente la narrativa per adulti e memorabili libri dedicati all’arte e all’iconografia popolare indiana. Dal primo libro con le figure, una fiaba femminista intitolata Mala, all’ormai celebre Very Hungry Lion del 1995 al recente One Two Tree! , illustrato da Durga Bai, un artista tribale di straordinaria bravura, la Tara ha messo insieme un bellissimo catalogo che vende in dieci paesi, dall’Europa all’Australia, dagli Usa alla Corea (tra quelli italiani ci sono Adelphi, Corraini e MC). Nonostante i premi vinti e gli ottimi affari conclusi all’estero, però, la Tara è e vuole restare un editore piccolo, che si regge sulle idee e la collaborazione di un gruppo di amici affiatati ed è aperto a sempre nuove collaborazioni, incluse quelle venute da lontano.

La Tara, così artigianale e sofisticata, rappresenta un’eccezione o un’anomalia rispetto all’editoria indiana di oggi, oppure esiste una tradizione alla quale vi ricollegate?

Direi un’eccezione, se non proprio un’anomalia, perché gli Indiani urbanizzati sono soprattutto interessati a progetti che parlino di un’India futuristica e tecnologica. Ma nelle zone rurali passato e presente convivono e il disegno tradizionale ha ancora un ruolo importante. In passato, il disegno tradizionale non si è mai veramente sviluppato al di fuori dell’ambito della tessitura e non si è mai adeguato ai gusti e alle tendenze di oggi, per molte ragioni. Nelll’India libera e post coloniale, però, questa tradizione ha ripreso vigore. Lo sviluppo dell’illustrazione, comunque, da noi è storicamente limitato. La sua lunga stasi è dovuta anche al fatto che era appannaggio di determinate caste considerate davvero marginali. In tempi di estetica industriale, tuttavia, c’è stato un revival che fa un po’ pensare a William Morris, il socialista inglese vissuto nel XIX secolo, che fece rinascere una tradizione pre-industriale e artigianale capace di inserirsi nella modernità. Da noi riproporre questa tradizione significa anche combattere la scarsa immaginazione della borghesia indiana. Abbiamo recuperato questa tradizione visiva rurale e tribale a beneficio dell’infanzia, senza condiscendenza alcuna, nel segno dell’eguaglianza e dell’apertura nei confronti di qualsiasi cultura.

Realizzate splendidi libri fatti a mano: in Europa sarebbero oggetti per pochi, costosissimi e da collezione. In India è la stessa cosa?

I libri fatti a mano sono solo una parte della nostra produzione, facciamo anche dell’altro. Per quel che riguarda questi libri, va detto che sono molto apprezzati da bibliofili di ogni specie, inclusi molti appartenenti alle classi lavoratrici e artigiane che vi riconoscono i segni tipici della propria cultura, e alla classe classe media indiana, che solo in tempi recenti ha preso a considerare il libro un “oggetto culturale”. Il prezzo di libri così speciali non è alto, se si considera che sono il frutto di un grande lavoro in cui è impegnata molta mano d’opera. Gli artigiani che li stampano e li rilegano sanno di fare qualcosa di unico e sono fieri dei molti premi internazionali che abbiamo vinto e dell’attenzione che riscuotiamo. E per un bambino è importante possedere libri così belli, sapendo per di più che nascono dalla tradizione culturale del proprio paese e dall’impegno di tante persone.

Che cosa ne pensate dell’editoria “globalizzata” e massificata che oggi si rivolge ai ragazzi, creando fenomeni che coinvolgono il pubblico di tutti i continenti?

In India ci sono sette giganti editoriali che offrono libri a prezzi molto bassi e ricorrono a energiche strategie di marketing per promuoverli. Ma la globalizzazione ha anche un’altra faccia, per esempio ci dà la possibilità di intrattenere relazione produttive e creative con editori e illustratori non indiani. Mi sento davvero felice ogni volta che i nostri libri vanno in giro per il mondo, e di recente ho acquistato i diritti di una serie di comics giapponesi su Hiroshima, Barefoot Gen. Non ho nessuna obiezione contro questo tipo di globalizzazione. Sfortunatamente, lo strapotere delle grandi multinazionali dell’editoria tende a soffocare le differenze culturali, a omologarle. In molti paesi occidentali è davvero difficile essere un editore indipendente, la libertà è piuttosto limitata dalla presenza e dall’azione dei “giganti”. In India, per fortuna, al momento esiste ancora uno spazio per lavorare a modo proprio.

Bruno Marolo

Quattro vedove hanno battuto Condoleezza Rice. Con le loro proteste hanno ottenuto da lei una testimonianza pubblica, sotto giuramento, davanti alla commissione d’inchiesta sull’11 settembre. La consigliera per la sicurezza nazionale sarà interrogata giovedì 8 aprile. Ha capito di non avere scelta quando ha chiesto di incontrare le famiglie delle vittime ma le vedove inesorabili le hanno risposto di no: prima di stringere loro la mano avrebbe dovuto testimoniare.
La Casa Bianca si è resa conto in ritardo di un potere che il congresso aveva imparato da tempo a conoscere e a temere. Il potere di quattro madri di famiglia che non si erano mai occupate di politica prima della tragedia che ha sconvolto le loro vite. I loro nomi si leggono ormai ogni giorno sulla stampa americana: Kristen Breitweiser, Patty Casazza, Lorie Van Auken e Mindy Kleinberg. Si fanno chiamare “le ragazze del New Jersey”, con un’allusione allo Stato in cui vivono ma soprattutto a una famosa canzone di Bruce Springsteen. Le ragazze dei New Jersey sono considerate provinciali e sempliciotte dalle loro vicine di New York. Anche per questo milioni di donne americane si sono riconosciute nelle quattro vedove, hanno visto in loro lo stesso spirito dei personaggi di un film di Frank Capra, “Mr. Srnith va a Washington”: la rivincita di gente semplice e perbene contro il cinismo dei professionisti della politica.
“Prima dell’ 11 settembre – confessa Lorie Van Auken – non conoscevo la differenza tra camera e senato. Quando sono stata per la prima volta a Washington con le mie nuove amiche, ho domandato a una di loro se fossero più numerosi i deputati o i senatori. Ora ho imparato che non si possono dare per scontati i diritti garantiti dalla costituzione. Bisogna combattere per difenderli. Non basta votare. Se non si capiscono i problemi con cui dobbiamo misurarci, si rischia di votare per qualcuno che non rappresenta i nostri interessi”.
Nelle elezioni del 2000 Lori Van Auken e Mindy Kleinberg hanno votato per Al Gore, Kristen Breitweiser e Patty Casazza per George Bush. Oggi come allora, tutte e quattro sostengono di non essere legate a un partito. “Vogliamo la verità – assicura Kristen Breitweiser – vogliamo sapere perché un giorno i nostri mariti sono andati al lavoro nel World Trade Center a New York e la sera non sono tomati”.
Nel dicembre del 2001 il senatore democratico Joseph Lieberman chiese al governo di nominare una commissione d’inchiesta sull’11 settembre. Dalla Casa Bianca emergevano retroscena inquietanti: mesi prima dell’attentato i servizi segreti e l’agenzia investigativa federale erano sulla
pista di alcuni dei dirottatori, il governo era stato avvertito che i terroristi di Al Qaeda volevano impadronirsi di aerei per un attacco al cuore degli Stati Uniti, il governo di Bill Clinton aveva un piano di intervento contro la rete di Osama Bin Laden ma il consiglio nazionale di sicurezza lo esaminò con mesi di ritardo. Il massacro dell’11 settembre era evitabile? Il presidente Bush era risolutamente contrario alla nomina della commissione. Sosteneva di voler condurre la lotta contro il terrorismo guardando al futuro e non al passato. Gran parte dell’opinione pubblica era con lui.
Le quattro vedove andarono insieme da Home Depot, un grande emporio di materiali da costruzione. Comprarono tavole di legno e barattoli di vernice, scrissero i nomi dei mariti uccisi, e presero un treno per Washington. Con altre trecento persone, si accamparono davanti al congresso. “Non era possibile dire no a quelle donne” ha confessato un deputato repubblicano al New York Times. Nessun politico voleva dare l’impressione di opporsi alla ricerca della verità sulla più grande tragedia americana dalla fine della guerra mondiale. Il presidente Bush cambiò atteggiamento. Fu la prima volta, ma non l’ultima. Sotto la pressione delle vedove Bush ha accettato di dare altri fondi e altri mesi di tempo alla commissione, di autorizzare la testimonianza di Condoleezza Rice e di essere interrogato egli stesso, a porte chiuse.
Le “ragazze del New Jersey” si sono messe in contatto con le famiglie delle vittime del volo Pan Am 103, esploso nel 1988 sopra Lockerbie in Scozia. Da loro hanno imparato a sollevare l’opinione pubblica contro i tentativi di insabbiare le indagini. “L’Internet è la quinta vedova – spiega Kristen Breitweiser – grazie alla rete siamo riuscite a dare vita a un movimento nazionale”. Thomas Kean, il presidente repubblicano della commissione d’inchiesta, si rende conto che non sarebbe tollerata alcuna compiacenza da parte sua verso il governo. “Le vedove – ha raccontato al New York Times – mi telefonano continuamente, mi tengono d’occhio, seguono il progresso dell’inchiesta, ci hanno suggerito alcune delle domande più importanti per i testimoni. Se non ci fossero loro, dubito che la commissione esisterebbe ancora”.

Francesca Koch Società Italiana delle Storiche

Vorrei esprimere qualche riflessione in margine alla concezione di eroi e di eroismo, che si sta celebrando nel nostro paese per l’insistenza governativa e mediatica su stereotipi che speravamo ormai superati. Più di altre, la trasmissione “L’infedele” di sabato 24 “Morire per l’Iraq?” ha offerto alcuni interessanti spunti problematici. Il titolo (evidente citazione della domanda che gli europei si fecero negli anni ’40, se era giusto “morire per Danzica”) alludeva ai comportamenti dei militari italiani nelle vicende belliche del novecento, alle loro prove di coraggio, alla loro presunta capacità di maggior umanità, alle accuse di viltà che i soldati italiani subirono in occasioni di disfatte come quella di Caporetto. La trasmissione ha cercato, anche se forse non abbastanza, di prendere le distanze dal mito del “buon italiano”; sarebbe stata sufficiente una maggiore attenzione alle colpe e alle atrocità di cui si sono resi responsabili gli italiani nella guerre coloniali fasciste (questione peraltro sollevata da un puntuale intervento di Catalano) o viceversa, ricordare l’ eroismo e il coraggio dei 600.000 militari internati nei campi di prigionia nazisti dopo il 1943, per accennare alla complessità e alla pluralità dei comportamenti.

E tuttavia, c’è un punto di questo dibattito che mi preme particolarmente sottolineare e che riguarda la declinazione stessa dell’eroismo, visto ancora all’interno di comportamenti militari, aggressivi o di difesa; come giustamente hanno fatto notare alcune donne presenti, grazie alla loro esperienza di pratiche di pace nei luoghi di conflitto(Anna Fazi, Simona Pari) e alla lunga riflessione storiografica (Anna Bravo), altre sono le nostre aspettative quando parliamo di eroismo.

A differenza dell’enfasi sui gesti individuali, eccezionali e astratti, sostanzialmente poco attenti alla tutela della vita, propria e altrui, con cui si celebrano gli eroi, queste voci hanno posto l’accento sulla necessità di spostare l’osservazione sui comportamenti quotidiani, portatori delle virtù civili (il rispetto per l’altro, la dignità, la capacità di cura, la relazione..) la cui pratica (lo ha ricordato Ermanno Olmi) è l’unica capace di creare dialogo e convivenza.

[…]

Un milione almeno in piazza a Roma per dire basta alla guerra. La manifestazione di un popolo che vive le ferite di Baghdad, di Pristina, di Madrid e pretende di spezzare la catena della morte e del terrore. Cominciando con il ritiro delle truppe dall’Iraq. Il cammino di pace per un altro mondo possibile non si ferma
Loris Capetti

Una manifestazione di popolo, un laboratorio. Una manifestazione di popolo perché c’erano i bambini in carrozzina con i genitori e i nonni, un tutt’uno, uno sciamare di uomini e donne di ogni età con un grande sentimento comune disegnato con tanti colori quanti sono quelli che formano l’arcobaleno della pace. Ma anche un laboratorio dove si sperimentano nuove forme di relazioni sociali tra diversi. Di più: dove si comincia a praticare un altro modo di stare al mondo, di decidere le priorità in totale autonomia rispetto all’agenda dettata dalla Politica con la P maisucola. C’è posto per tutti in questo laboratorio che fa politica, per tutti coloro che hanno espulso la guerra dal proprio orizzonte e non tollerano l’idea di consegnare ai propri figli un mondo peggiore di quello in cui hanno vissuto loro. Hanno una base in comune queste centinaia di migliaia di persone, è l’articolo della Costituzione che espelle la guerra dalle possibilità, dalla politica. Boy scout e sindaci, disobbedienti e suore, ambientalisti e delegati operai non hanno fatto una manifestazione, hanno invaso Roma mescolati tra di loro come gli ingredienti di un piatto raffinato in cui i gusti, però, si distinguono l’uno dall’altro, il dolce e l’agro, il salato, il piccante, il delicato. Quanti sono questi e queste no-guerra? Impossibile dirlo, non bastano le cinque ore di corteo a contarli tutti e se si dovesse recitare l’elenco dei gruppi, dei circoli, delle scuole, delle fabbriche, delle sezioni, delle associazioni, dei comitati si finirebbe per far arrabbiare un sacco di individui e collettivi dimenticati nella narrazione. Non si vedono servizi d’ordine, salvo in pochissimi casi militanti, o come li chiamano gli altri, i normali, «militonti». Le bandiere con le falci e martello bordate con il filo d’oro si intrecciano con gli striscioni dipinti in casa, lungo la marcia interminabile che da ogni parte di Roma conduce al Circo Massimo. Alle 18 i cortei sono due, uno che tenta di arrivare e uno di chi tenta di uscire. «Fate il vino non la guerra», invita uno di questi striscioni casalinghi, ma sia ben chiaro, il vino «dev’essere biologico». Per chi manda questo messaggio l’altro mondo, quello possibile, è fatto di lavoro «scelto per vivere non per sfruttare gli altri». C’è chi si aggrega sognando un mondo in cui ci sia più posto per la fede e meno per le religioni: «Di che religione è Dio?». Oppure: «Cristo è qui/ quando ci sarà tutta la Chiesa?». Non si scandalizzano, cattolici di Verona e valdesi di Grottaglie, a camminare insieme alle «lesbiche contro la guerra» o a chi alza uno degli striscioni più divertenti e commentati: «Uomini contro la guerra. Percorsi maschili di libertà».

 

In quel mondo possibile sognato e in piccola misura già vissuto dai camminatori arrivati a Roma in treno, pullman, auto private, camper, c’è posto per gli americani pacifisti «Not in our name» e per gli amici kurdi di Abdullah Ocalan, per gli spagnoli romanizzati e i palestinesi, per gli ebrei contro l’occupazione e per i disoccupati napoletani o di Acerra che sembrano arrivare da Marte. Sarà perché vogliono essere muratori di un altro mondo dove ci sia lavoro ma anche dove ci si possa fumare una canna in pace, come chiedono giovani dei centri sociali più o meno disobbedienti. Un mondo in cui non ci si scanni per il petrolio, ma siccome per riuscirci bisogna anche ridurre il consumo di petrolio, ecco i pedalatori che hanno avvitato al loro velocipede una targa speciale: «Bici no oil». In bici si va più lentamente, certo, ma non s’ammazza nessuno. Se si andrà più piano non ci sarà bisogno neppure dell’alta velocità che mina la vivibilità della val di Susa. Pace e non solo. Perché per costruire la pace bisogna vivere in un altro modo, bisogna costruire «Ponti, non muri», bisogna controllare il mercato dei capitali e aprire le frontiere agli umani (non al mercato degli umani, quello è già aperto). «Non sulla nostra pelle», chiedono decine di africani che si presentano come «rifugiati a Roma Tiburtina». Tre o quattro quartieri più avanti si ripete con maggiore irriverenza lo stesso concetto: «Bossi e Fini fuori dai confini/ Berlusconi fuori dai coglioni». Irriverente ma efficace, condiviso da tutti anche da un cappuccino con tanto di sandali che sorride imbarazzato. In un mondo diverso ci sarà posto per giocolieri e trampolieri che intanto si esercitano in piazza Barberini e poi lungo tutto il corteo, anzi i cortei; non c’è posto per le scorie che siano o non siano radioattive. Dev’esserci l’acqua in questo mondo in nuce e meno elettrodotti. Ma sempre alla pace si ritorna: «Ke cazzata la guerra», ci ricorda lo striscione firmato «i corvi/ movimento studentesco». Ci sono gonfaloni di mezz’Italia, sono costretti a sfilare chi lungo il corteo ufficiale chi giù per via Nazionale. Ci sono comuni in cui i sindaci non hanno smanie di presidenzialismo, anzi da anni sperimentano il bilancio partecipativo, come avviene in un paese della costa ascolana.

 

Quel che non si capisce è dove inizi e dove finisca il corteo, tutta Roma è un corteo. Alle 19 anche Trinità dei Monti è un corteo che scende e risale da piazza di Spagna verso via Frattina e via del Corso, pacifisti e giapponesi che si mescolano e si fotografano a vicenda schivando assembramenti esagerati di poliziotti, carabinieri e quant’altro che sembrano asini in mezzo ai suoni, fuori posto più o meno come un lunghissimo dirigente della sinistra che si affaccia a un corteo pieno di suoi elettori, ma neanche loro ce lo vogliono nel corteo. A proposito di carabinieri, quelli di Nassiriya, tutti li rivorrebbero a casa, qualcuno addirittura suggerisce: «Tornate a farci le multe». E’ pieno di «ingegneri di pace», «traduttori di pace». Ci sono anarchici che si chiamano «Gruppo Kronstadt contro la guerra», costretti a spiegare a tanti curiosi dov’è Kronstadt, e cosa vi capitò più di ottant’anni fa. Per imparare la storia anche le manifestazioni possono tornare utili. Una citazione di un’organizzazione possiamo farla: si tratta di Emergency, che ha dato un segno – positivo – alla giornata mondiale contro la guerra targata Roma. Domanda cretina: ma oltre che contro la guerra, questi due milioni di persone saranno anche contro il terrorismo? Le domande cretine non meritano risposta. Madrid brucia sulla pelle di tutti i camminatori iridati. Madrid però non è rimasta senza risposta. Ha moltiplicato le forze, i pullman e i treni, anche la Cgil ha avuto uno scatto di reni dopo Madrid, ma tante Camere del lavoro, la Fiom e la Funzione pubblica non hanno avuto bisogno di altri 200 morti per continuare un cammino mai interrotto, almeno da Genova 2001. Sergio Cofferati guarda la piazza, forse la riconosce. E’ una piazza che cammina dietro idee semplici e fantastiche, più che dietro uomini e bandiere. Dovremmo rifletterci tutti.

Parla il ragazzo che ha avviato la ribellione contro il Pp. Con un semplice messaggino: «Aznar non fare il finto tonto»
Non ha nome né cognome, solo un cellulare. È stato lui, un ragazzo di Madrid, a lanciare sabato la protesta contro la strategia di occultamento delle informazioni seguita dal governo e dal Pp. La catena radiofonica Radiocable (www.radiocable.com) lo ha scovato e intervistato ieri. Questo è il testo

 

Sei tu l’autore del primo messaggio?

 

Sì, venerdì notte avevo scritto il messaggio e la mattina di sabato l’ho inviato a pochi amici

 

Immaginavi gli effetti della convocazione?

 

No. In verità no. L’ho fatto quasi come un atto di rabbia. C’erano le elezioni e si stava giocando con un’informazione che poteva essere molto importante per il loro esito. E l’ho fatto come un gesto alla disperata, senza immaginarne le conseguenze, la mobilitazione che poi si è prodotta.

 

Sei andato a calle Genova?

 

Sì. Andavo con alcuni amici, stavamo scherzando su quanta gente ci sarebbe stata, 15-20 persone. Già pensavamo di andare al cinema o da qualche altra parte. Mano a mano che ci avvicinavamo a calle Genova, arrivati ad Alonso Martinez, abbiamo notato un piccolo ingorgo di macchine e siamo rimasti allucinati. Quando abbiamo potuto scorgere l’entrata della metro, abbiamo visto che da lì usciva un casino di gente con cartelli di «no a la guerra» e «paz». Ci siamo resi conto immediatamente di ciò che stava succedendo. La gente aumentava, le tv internazionali piazzate di fronte alla sede del Pp mandavano in diretta le immagini. C’era molta stampa ma era tutto casuale. Molti hanno parlato di cospirazione quando invece è stato il frutto di un atto tanto semplice come mandare un messaggio. La fortuna è stata che c’erano moltissime televisioni stavano montando i propri set per la notte elettorale dalla sede del Pp. Immagino che i tecnici hanno avvisato i giornalisti e la voce è corsa. Anche la Cnn l’ha trasmesso per un’ora.

 

Appartieni a qualche piattaforma politica o partito?

 

No, l’ho fatto per una questione personale, mi sembrava vergognoso ciò che stava accadendo. Uno dei primi diritti è quello alla verità, soprattutto in una situazione come questa, quando la violenza terrorista uccide. E’ stato semplicemente un atto di protesta.

 

La manifestazione ha influito in qualche maniera sul risultato elettorale?

 

Non lo so. Per me la cosa più importante è che abbia influito sulla gente che sentiva quello che sentivo io: l’impotenza di non poter far nulla, la sensazione che non si dicesse quel che stava davvero accadendo. Personalmente, quando mi sono trovato in calle Genova con tutta la gente che arrivava, e rimaneva lì per ore, pensavo: in che cosa mi sono cacciato? Ma la gente era molto educata: nessun incidente, nessuna provocazione. Tutti avevano molto chiaro quel che volevano: la verità.

 

Ricordi il messaggio?

 

«Aznar non fare il finto tonto….» e poi si dava l’appuntamento per le 18 in calle Genova. Il mio telefono permette solo 160 caratteri, il messaggio ne ha 158. Me ne avanzavano due, sono rimasto molto tempo a limare il testo.

 

Si apre una nuova epoca per le mobilitazioni collettive?

 

E’ stata un’esperienza allucinante. Una convocazione che parte alle 10 di mattina per sms da un telefono e arriva a concentrare 6-7.000 persone è un’esperienza quasi da studiare. E’ stata una reazione a catena, a valanga in pochissime ore, un processo quasi istantaneo. Normalmente quando organizzi un’azione del genere, metti i manifesti, lo pubblicizza per giorni. Invece questa è stata istantanea. Cresceva a misura di quello che la gente sentiva per quello che stava accadendo.

 

Sapevate che Rajoy stava condannando la manifestazione?

 

C’era un filo diretto tra dentro e fuori. Quando Rajoy ci ha attaccato abbiamo iniziato a gridare «la voce del popolo non è illegale». La situazione era delicata, c’era la giornata di riflessione, la campagna elettorale sospesa. Ma la gente voleva stare lì.

 

Eri cosciente dell’illegalità di questa manifestazione?

 

Non la chiamerei manifestazione. E’ stata una concentrazione spontanea, non pensavo arrivassero in tanti. C’era la polizia. Se fosse stata illegale avrebbero potuto scioglierla. Ma noi stavamo lì per difendere la legalità.

Le pratiche di pace femminili mostrano che il rifiuto della guerra comporta la rivoluzione di tutto il lessico della politica. Per chiarire le occulte parentele che legano la violenza pubblica e quella privata, e per inventare una politica della relazione contro la politica dell’identità
Paola Melchiori

Le considerazioni di Adriana Cavarero sul rapporto fra guerra e politica (Una politica oltre il potere, sul manifesto del 28 febbraio scorso) mi stimolano a una riflessione ulteriore che parte dalle molto diffuse quanto poco note o quantomeno poco considerate «pratiche di pace» delle donne, pratiche che hanno popolato la storia recente in molti luoghi difficili del pianeta. Sono d’accordo con la lucida e nitida radicalità con cui Cavarero prospetta la vicinanza/continuità tra politica e guerra ed evidenzia, del femminismo, la spinta al ripensamento radicale dei concetti di base che fondano il nostro pensare e il nostro vivere.

 

Poco note, poco considerate, attribuite al pacifismo tutto femminile del materno, o alla «vocazione sacrificale» delle donne, da molti (quanti?) anni, nei luoghi dove ogni dialogo si è ormai spento, si ritrovano gruppi di donne che non cedono nell’estenuante pratica del dialogare, parlarsi, continuare a confliggere, non rompere del tutto. Israele, Palestina, Colombia, Irlanda, Gran Bretagna, ex Jugoslavia per citare le più note, India-Pakistan, Ruanda, in ognuno di questi luoghi esistono tentativi di non arrendersi alle frontiere segnate dalla storia. Oggi, ogni organizzazione di incontri internazionali deve fare i conti con la eventualità di incontri/scontri/ dialoghi estremi tra «nemiche potenziali» o definite come tali dalla storia e da una soggettività che alla storia comunque non può sfuggire. Il ragionamento di Cavarero mi permette di esplicitare con maggiore chiarezza ciò che questi tentativi testimoniano, di tirarli fuori da una eccessiva ovvietà, da facili stereotipi.

 

Per chi non pratica queste esperienze e questi luoghi e ne vuole avere una idea un po’ più che descrittiva, invito alla lettura di un libro, non recentissimo, ma molto attuale in questa discussione, The space between us, Negotiating Gender and National Identities in Conflict (Zed Books). Cinthia Cockburn vi analizza le caratteristiche di queste pratiche in tre zone calde del mondo, Israele-Palestina, Irlanda-Gran Bretagna, ex Jugoslavia. Vi si trovano spunti utili al dibattito in corso, che da un lato evidenziano le premesse necessarie a una possibilità di dialogo, tra persone in guerra potenziale o reale: la rinuncia a una politica dell’identità, per esempio. Dall’altro vi si descrivono le strategie che appunto le donne si sono inventate, nelle varie e molto diverse situazioni, per stare al di qua della guerra, della rottura, per mantenere uno spazio abitabile dall’idea di relazione. Vi si descrivono i vissuti delle singole, si osano alcune ipotesi interpretative. Sono pratiche del tentativo di usare il conflitto al posto della guerra, pratiche che si collocano fuori dalle ideologie e sembrano fondarsi sulla disperata necessità del salvataggio di una relazione con le altre donne, sulla preservazione anche di uno spazio fisico comune, una «casa delle donne», per esempio, dove prima che il conflitto si radicalizzasse le donne si incontravano, in una sorta di terreno franco. Sono pratiche che cercano di preservare uno «spazio tra», uno spazio transnazionale e«transizionale» , più importante di ogni ideologia, di ogni identità da difendere, o terra, o principio. Pratiche che sono state affinate con l’esperienza, fatte anche di stratagemmi, di usi abili e consapevoli del silenzio, politiche del «fermarsi e deviare» prima che… sperimentate nel tempo, senza ingenuità, dove tutte sanno qual è la posta in gioco, dove vengono sapientemente dosate le possibilità emotive di conflitto di ognuna, i suoi limiti.

 

Tali pratiche, rigorosamente, condividono la radicalità di alcune revisioni concettuali. Prima di tutto esse sono fondate sulla più o meno esplicita coscienza che vi sia una occulta parentela da chiarire, comprendere, disfare e ri-comporre, tra il maschilismo della guerra e le violenze che popolano le case, i luoghi privati di quell’amore tradizionalmente contrapposto alla guerra dall’immaginario maschile. Mi ha più volte colpito come molte delle donne della rete internazionale di cui faccio parte che vengono da zone di guerra, dal Sudan , dal Mozambico, facciano tesi (di laurea o master) sulla guerra da cui provengono. Molte finiscono per focalizzare la contrapposizione tra guerre di liberazione e guerre nelle case. Molti titoli suonano: «Pace nella nostra terra, guerra nelle case». Molti dei racconti, negli incontri post pace, evidenziano i paradossi della pace dei tempi di guerra e delle guerre dei tempi di pace, secondo una percezione, quella delle vite femminili, che impongono rovesciamenti, ridefinizioni inaspettate. Pace e guerra si riempiono di significati opposti.

 

La nascita di una nuova antropologia può avvenire soltanto se e quando divenga impossibile «saltare» le domande che ri-accomunano in ogni singolo soggetto l’autoanalisi della distribuzione pulsionale tra le due «guerre», le due violenze, quella tra i sessi e quella tra uomini. Ciò che accomuna questi tentativi sono lo sforzo e il coraggio, che è stato già di molte donne, di guardare dentro il pozzo dei propri desideri, complicità, miserie, distribuzioni pulsionali, tenendo insieme questi paesaggi pubblici e privati. Alcuni uomini ci hanno provato, a partire dal vecchio libro di Glenn Gray, del 1959, The Warriors, diario da soldato in Italia, durante la seconda guerra mondiale, di un intellettuale americano. Ce ne sono ormai molti altri. Senza un lavoro di questo tipo ogni teoria della guerra e della pace, ogni pacifismo non puramente tattico ma sostanziale sarà sempre monco, di superficie, inadatto a sfiorare le forze profonde che operano nel sostenere le guerre, il desiderio di guerra, la repulsione della guerra, i sogni dell’andare e del tornare, i paradossi di paci che diventano altre guerre e di paci che coprono altre guerre.

 

In quale luogo sarà analizzabile questo rovesciamento dei luoghi comuni? Sarà possibile trovarne uno in cui liberamente si possano rimettere in questione i significati, le definizioni concettuali di pace, guerra, conflitto, a tutto campo? Questa è una delle questioni culturali e politiche su cui si giocano oggi sia la possibilità di un dialogo tra i sessi che la stessa presenza politica non subalterna delle donne nello spazio pubblico. Quanto di questa estenuazione dialogica cui le donne non rinunciano si basa sulla comune consapevolezza che esistono altre guerre e altre paci da trovare e che i fondamenti dell’una e dell’altra «pescano» in quell’ altro fondo, vivo e trasversale alle ideologie politiche, oltre il marxismo, che è il patriarcato?

Dopodomani la prima marcia sulla Casa Bianca. A Baghdad muoiono altri due soldati Usa

Bruno Maolo

WASHINGTON In segno di lutto, Jenifer Moss indossa una maglietta bianca. A 29 anni è vedova con tre bambini. Suo marito, il sergente Keelan Moss, è morto. in novembre in Iraq, su un elicottero abbattuto da un missile dei guerriglieri. Sulla maglietta di Jenifer vi è una scritta.in caratteri rossi: “Sostenete i nostri soldati, destituite George Bush”.
Domenica 14 marw, un gruppo di donne come Jenifer, mogli e madri di militari caduti, marceranno sulla Casa Bianca. Per il 20 marzo, nell’anniversario dell’invasione, è in programma una dimostrazione di protesta davanti al ranch di Bush a Crawford nel Texas. “Mio marito – accusa Jenifer – è stato mandato a morire con un pretesto. Le armi di sterminio non sono state trovate”.
Forse per la prima volta negli Stati Uniti, si sviluppa un movimento pacifista organizzato dalle famiglie dei combattenti. Si chiama “Military Families Speak Out” e ha raccolto più di mille adesioni sul suo sito internet. Vuole accompagnare la campagna elettorale di George Bush con manifestazioni di denuncia. Tra i suoi attivisti si sono schierati uomini e donne che in maggioranza hanno votato per questo presidente quattro anni fa, ma hanno perso la fiducia in lui quando hanno appreso che in Iraq non esistevano armi di sterminio. Il reverendo Tandy Sloan, un pastore protestante di Cleveland nell’Ohio, ritiene Bush responsabile della perdita di suo figlio Brandon, 19 anni, caduto in battaglia un anno fa durante l’avanzata verso Baghdad. “Provo disgusto – spiega – quando ascolto le dichiarazioni del presidente in televisione. Sbagliare è umano, ma non si può perdonare chi ha ingannato volontariamente la nazione”. Ronald Spector, docente di storia militare alla George Washington University, conferma: “Non vi sono precedenti di portata così vasta. Se le famiglie dei militari cominciano ad avere gravi dubbi sulla necessità della guerra e non credono che ci sia un motivo accettabile per la presenza dei loro ragazzi in Iraq, si tratta di un fenomeno nuovo e molto significativo”. Durante la guerra in Vietnam, le madri di alcuni caduti avevano partecipato a una marcia di protesta, ma erano meno di venti. Inoltre, la guerra durava da anni e andava di male in peggio quando erano cominciate le manifestazioni di dissenso. Il sito Internet ({Military Families Speak Out” è stato creato da due famiglie prima dell’invasione dell’Iraq. Quando le truppe americane hanno attraversato la frontiera altre 200 famiglie hanno aderito, e altrettante dopo i bombardamenti aerei sulle città irachene. “Bush – proclama il sito – dice ai guerriglieri in Iraq di farsi sotto, ma noi diciamo a lui di riportare subito a casa i nostri figli, di dire la verità invece di nascondere il numero dei caduti”. La guerra in Iraq è costata alle forze armate americane 533 morti e 3200 feriti. “Quanti altri giovani dovranno morire perché questo presidente non ha il coraggio di confessare di aver commesso un terribile errore, e di mettere fine all’occupazione?”, domanda Cherice Johnson, vedova di un marinaio ucciso da un cecchino mentre il suo reparto si avvicinava a Baghdad un anno fa. Richard Dvorin, padre di un soldato dilaniato da una mina, ha scritto al presidente Bush: “Dove sono gli arsenali di armi chimiche e biologiche? La vita di mio figlio è stata sacrificata in una guerra inutile”.
L’Internet ha dato alla protesta una dimensione che non sarebbe stata possibile ai tempi della guerra in Vietnam. Quando Marianne Brown, 52 anni, ha organizzato una veglia a lume di candela a South Haven nel Michigan, reggendo la foto del figlio soldato in Iraq, soltanto una decina di donne si è unita a lei. La gente della sua città le gridava insulti, e la sua auto è stata rovinata con graffiti ingiuriosi. La notizia, pubblicata soltanto da un giornale locale, si è diffusa sulla rete. Le famiglie contrarie alla guerra si sono messe in contatto, e hanno dato vita a una organizzazione nazionale. Sono una minoranza, ma la loro voce non può più essere ignorata.
La protesta contro la guerra si diffonde negli ambienti più conservatori. John Bugay, 44 anni, di Pittsburgh, si vanta di non avere mai votato per un candidato del partito democratico. Ora ha fondato un sito di nome republicansforkerry.org. “Mi sento tradito da questo presidente di guerra”, si sfoga.
Intanto lo stillicidio dei morti prosegue. Ieri sera sono rimasti uccisi altri due soldati americani a Baghdad. Il loro convoglio è saltato su una mina.

Bruno Gravagnuolo

“In Europa è iniziata una fase nuova: la riscossa delle identità e dei soggetti. Non più in chiave liberale o redistributiva. Piuttosto come movimento collettivo dell’intimità”. Sì avete letto bene: intimità Alain Touraine , sociologo dell'”azione” e dei movimenti, indagatore del sociale e del “post-industriale”, ritorna sulle motivazioni dell’agire collettivo. E distilla una “categoria” a prima vista psicologica, che sembra non aver nulla di sociologico o di “ideal-tipico”. Categoria “post-politica” e “post-sociale”, che serve allo studioso francese per descrivere quella che a suo avviso è la ribellione che cova sottotraccia nelle metropoli del consumo, dei media e dei lavori flessibili. Per capirne di più siamo andati alla fonte, da Touraine medesimo, che ieri era a Roma per una conferenza all’Università di Roma III, alla presenza di cinquecento studenti, invitato da Giacomo Marramao e dal rettore Guido Fabiani.

 

Professor Touraine il titolo della sua conferenza è “Fine del sociale?”. Non si sarà mica fatto convincere da Barman e da Baudrillard, ovvero: sociale “liquido”, inafferrabile, fatto di simulacri e senza soggetti?

 

No. Se dico “fine del sociale” mi riferisco a una certa idea del sociale. Prima del XIX il sociale veniva espresso in termini politici: stati, istituzioni, monarchie. Così ne parlavano Bodin, Machiavelli, Rousseau, Hobbes: il sociale come fatto politico. Ebbene, così come nel XIX secolo, con Marx, s’è avuta l’emersione del sociale contro il politico, allo stesso modo oggi entra in crisi la maniera tradizionale – e tutta sociale – di parlare del sociale. Non penso a una realtà invertebrata e inafferrabile, come accade nei post-moderni. Ma a un mondo fatto di identità e soggettività culturali, definibile in chiave culturale. E dunque, a mondo post-sociale, né liquido né informe. In ogni cm è stata la società di massa e globale ad aver distrutto la “società sociale”: mercato mondiale, finanza, televisione. Tutte realtà autoreferenziali e anti-sociali, disaggreganti. Che prescindono dalla comunità, dalla famiglia e dalle individualità concrete. Insomma la “società” viene distrutta da forze anonime e incontrollate: guerra, spettacolo, mercato, e persino inconscio collettivo.

 

Ma il mercato non è una forza molto materiale?

 

Non è solo materiale, ma è anche potere immateriale. Desocializzante, e incontrollabile. Così come lo sono la tecnologia e l’alta finanza. Ciò che c’è di più individuale viene distrutto. Tuttavia esistono dei nuclei di resistenza. E stanno in quel che io definisco “l’intimità”. Organizzata attorno alla sessualità, alle relazioni interpersonali, al “sé”. Non più dunque la conquista utopica del mondo, bensì l’affermazione pubblica dell’interiorità Siamo passati da un mondo maschile, ad una dimensione femminile, rivolta verso l’interno.

 

Non è una barriera un po’ troppo flebile e romantica, contro forze tanto potenti?

 

Nulla di romantico in tutto questo, perché la ricaduta vera consiste nell’espansione e nel rilancio della lotta per i diritti, civili, socia li, culturali ed economici. Ma “culturali” prima di tutto, in un mondo globale che tende a cancellare le identità particolari.

 

Non c’entra per caso la difesa del formaggio Roquefort, professore?

 

I difensori del capitalismo globale tenteranno di mettere in ridicolo certe istanzelocalistiche, così come veniva fatto contro il protezionismo e il corporativismo dal capitalismo nascente. C’è il localismo certo, ma c’è anche molto di più. Mi riferisco al conflitto tra mercato globale e autoaffermazione delle identità culturali. E parlo di volontà che sono modi di relazione e stili di vita.

 

Le chiedo: le lotte attuali per il salario, contro le diseguaglianze e la difesa del Welfare sono altro, rigetto allo scenario che lei descrive?

 

Non dico che la lotta per i diritti sociali è finita, anzi. Affermo che oggi il grande problema è quello di legare i diritti culturali ai diritti sociali, così come in passato il movimento operaio ha legato questi ultimi ai diritti politici. C’è bisogno di tutte le forze per resistere contro forze immense e globali A partire dall’uso del diritto contro lo Stato e a favore dell’individuo. E a cominciare dalla famiglia, non più veicolo di valori tradizionali come in passato, ma condizione di base per potenziare e sviluppare l’individualità critica, autonoma, responsabile. E lo stesso vale per la scuola, terreno laico di formazione della personalità. Contro le potenze anonime e desocializzanti, e contro l’integralismo comunitario.

 

Che relazione intravede tra il movimento new-global e “l’intimità libera” che tanto le sta a cuore?

 

I new-global sono fondamentali. Come critica della globalizzazione e dei suoi squilibri. E a difesa delle realtà umane concrete, nell’ingranaggio del mercato mondiale. Tuttavia la capacità dì mobilitazione sociale e la progettualità sono ancora scarse. Il movimento ha valore di denuncia, e per di più è mondiale. Ma non è ancora una realtà radicata sull’autonomia delle soggettività e dei diritti a livello planetario. La denuncia è solo contro la cattiva redistribuzione. Oggi invece occorre passare dal tema della redistribuzione del reddito, a quello del riconoscimento dell’altro.

 

Quel che lei descrive, come diagnosi e auspicio, non investe anche le forme produttive? Ovvero resta il capitalismo così com’è, il confine dei movimenti?

 

Il capitalismo è l’economia liberata da ogni controllo, che giunge perciò a dominare ogni ambito sociale. Una dinamica latente e ineliminabile. Ma ineliminabile è anche il movimento opposto: la ripresa di controllo delle forze spontanee da parte della politica. Ed è proprio quello di cui discutiamo oggi, quando denunciamo l’egemonia dei paesi ricchi, la delocalizzazione o l’aumento delle diseguaglianze. Nondimeno il controllo politico, ecco il punto, deve essere culturale. Incentrato sui diritti dei singoli e delle comunità, a partire dal nuovo sociale.

 

E favorevole a un nuovo “universalismo dei diritti”, oppure sì tratta di uno slogan troppo neutro e illuministico?

 

Non amo questo lessico universalista, benché non sottovaluti affatto il ruolo delle istanze universalistiche come l’Onu, il tribunale penale o, Amnesty International. Ma la forza principale contro questa globalizzazione restano le individualità concrete, le lotte contro l’umiliazione e contro il disconoscimento dell’identità dell’altro.

 

Dunque, Onu ed Europa non hanno alcuna chance di intercettare i temi e i movimenti sociali che lei descrive?

 

Direi di sì, e sono il primo ad augurarmelo. Ma l’Onu è troppo debole, e l’Europa è un vuoto morale…

 

Euroscettico, professore?

 

No, eurodisperato! Certo che sono per l’Europa, ma solo a condizione che sappia svolgere un ruolo politico mondiale. Verso il mondo islamico ad esempio, e in modo del tutto opposto a quello americano. Quanto al resto – la tecnocrazia, le banche e i bilanci passano sopra la testa dei soggetti. E poi l’economia e le banche sono un fatto mondiale, e non europeo…

 

Per concludere, professor Touraine che idea si è fatta dell’Italia di oggi, l’Italia del centro-destra e dì Berlusconi?

 

E’ una vergogna (in italiano, n. d. r). Probabilmente è tutta una conseguenza della modernizzazione e del liberismo degli anni ottanta, che da voi alla fine ha assunto un aspetto peculiare: la confusione estrema tra interessi pubblici e privati. Populismo è categoria troppo nobile per Berlusconi. Piuttosto è una forma di patrimonialismo, di puro dominio del denaro. Avete una grande capacità di mobilitazione collettiva e di iniziativa sociale. Prima o poi il centrosinistra riuscirà a trovare un accordo politico, ne sono sicuro.

 

Eppure la destra in Italia è votata da metà degli italiani e oltre. Come lo spiega?

 

Credo dipenda dal contesto internazionale. Dal peso dell’americanizzazione. In questo quadro di interdipendenza, ci sono spinte e controspinte in Europa. Da voi ha prevalso l’allineamento agli Usa, contro i veri interessi europei Berlusconi? Rappresenta l’allinea-, mento filo-Usa ai livelli più bassi. L’assenza italiana dalla politica europea è un grave danno. E il vostro premier, venditore e uomo del denaro, è una catastrofe in tal senso. Un incubo. Ma ce la farete, mi creda. L’Italia è cosa troppo seria, e gli italiani non la lasceranno ancora a lungo a Berlusconi.

“Culture creole. Imprenditrici straniere a Milano” di Carla Lunghi
Enzo Costa

Il processo di globalizzazione sta certamente modificando in profondità il mondo in cui viviamo, rimescolando confini, ridefinendo identità, ponendoci di fronte a sfide che, prima ancora di poter essere affrontate sul piano dell’azione politica, richiedono di essere capite, elaborate, pensate. Interpretare quello che ci accade oggi resta dunque una sfida aperta per una sociologia tesa a dare voce e parola ai soggetti, impegnati a cercarsi nel quotidiano. La recente ricerca di Carla Lunghi Culture creole. Imprenditrici straniere a Milano (Franco Angeli), s’interroga sui fenomeni migratori e sul processo di globalizzazione dirigendo lo sguardo verso un settore (quello delle donne straniere imprenditrici a Milano) delimitato dal punto di vista oggettuale e definito da quello territoriale, ma proprio per questo anche più controllabile e maggiormente accessibile a un’analisi concreta. Richiamandosi alla direzione metodologica praticata da Laura Bovone, la ricerca assume come strumento dell’analisi sociologica i racconti di vita delle protagoniste. Il libro si presenta allora come il tentativo di narrare le storie di queste donne, lasciando a loro stesse il compito di
raccontarsi attraverso lunghe interviste di cui l’autrice riporta ampi passi.
Il motivo che conduce a scegliere le donne straniere come oggetto dell’indagine è chiaro sin dall’inizio. Nella figura della donna straniera si incontrano due categorie tradizionalmente marginali che sembrerebbero in linea di principio dover restare escluse dall’attività creativa. Carla Lunghi è invece interessata a queste donne straniere proprio in quanto imprenditrici che si sono affrancate da una duplice passività, da un lato riappropriandosi di pratiche tipiche delle donne che però, in quanto pratiche dell’eccellenza, divengono spesso prevalentemente maschili, e dall’altro riscoprendo il valore innovativo della propria cultura di origine”Indagare la moda e il cibo – scrive l’autrice – ha quindi significato tutto questo: da un lato verificare la creatività della cultura popolare, soprattutto laddove pratiche straniere si mescolano a prassi locali, e dall’altro scommettere sull’esistenza di- nuovi ruoli femminili elaborati da coloro che sembravano, per definizione, condannate alla tradizione, le donne straniere”.
Seguendo le narrazioni delle intervistate, Lunghi cerca di mostrare come il processo di globalizzazione non produca soltanto una- standardizzazione dei modelli di vita, poiché la cultura popolare, che in queste donne vive e si esprime, manifesta una notevole vivacità. I migranti sono costantemente in viaggio, e con loro viaggiano le loro culture. Innestandosi in nuove realtà locali queste producono commistioni tra usi stranieri e tradizioni locali, generando oggetti e beni che condensano stratificazioni di significati e che, in quanto fruiti dalla cultura d’accoglienza, indicano non solo un fenomeno economico, bensì la ristrutturazione simbolica e materiale degli ambienti ospitanti, una contaminazione produttiva: introducono nuovi stili di consumo e dunque originali modi di immaginare e fruire la vita, il corpo e il tempo.
Questi prodotti culturali non si limitano infatti a riproporre modi dettati dall’immaginario della cultura d’origine, ma si adattano a nuove situazioni facendosi a loro volta contaminare dalle tradizioni ospitanti. Di qui l’idea di culture creole, di linguaggi nuovi che propongono alla riflessione un altro aspetto, alternativo e per molti versi antagonista, della globalizzazione. La produzione culturale di queste donne rappresenta infatti una singolare mescolanza di diversi tratti che, invece di giustapporsi, si fondono, dando luogo a qualcosa di nuovo e di originale, a prodotti ibridi che superano le rigide barriere tra cultura alta e cultura popolare o di massa.
Di questa ricca ricerca, attenta all’analisi del quotidiano, almeno un altro aspetto va segnalato. L’analisi delle reti reali che spesso sostengono il lavoro delle imprenditrici straniere mostra come, nel processo migratorio, proprio alle donne risulti forse assegnato un ruolo “privilegiato”. Dovendo gestire con scioltezza ruoli formali e informali, esse sono infatti portate a creare doppi legami innanzitutto fra il contesto &origine e quello d’accoglienza, ma poi anche a coniugare, in maniera libera e originale, pratiche e modelli tradizionali con valori e prassi della modernità. Esse stanno così potenzialmente al centro di un’integrazione che non si esaurisca nella passiva assunzione dei modelli propri del contesto d’accoglienza. Lunghi suggerisce che, dovendo giocare un ruolo di mediazione nel lavoro, nella scuola, nella vita associativa, le donne straniere non rappresentano l’anello debole della catena migratoria, bensì la potenzialità di un’integrazione creativa che produce innovazione.

Laura Colombo

Dal 16 ottobre al 2 novembre 2003, a Milano, si è tenuta la manifestazione Piazze solidali: pensare e agire un mondo diverso. Insieme a Sara Gandini, Elisabetta Marano e Laura Milani, ho partecipato alla realizzazione della mostra che è stata esposta in questo spazio, a cura del Gruppo Comunicazione del Social Forum di Milano. Si tratta del gruppo che ha pensato e pubblicato, durante il Forum di Firenze del 2002, il quotidiano Social Press, e che ora gestisce il sito www.socialpress.it.


Questa esperienza, chiamata “del Tendone”, non è stata del tutto positiva. Abbiamo infatti rilevato una grande dispersione, poiché vi era un’ambivalenza di fondo: accanto a eterogenee proposte politiche di associazioni, gruppi, collettivi vi erano molti banchetti di vendita, che andavano dalle cibarie all’artigianato.
Riteniamo che la pluralità sia ricchezza, a patto che si presenti con un taglio. In altri termini, la potenziale ricchezza può dispiegarsi solo se è possibile un netto confronto tra i differenti soggetti politici, e se la posta in gioco è una sfida all’esistente.
Quello che secondo noi mancava era esattamente questo taglio. Tale carenza ha portato a uno sfilacciamento della proposta poltica, che pareva ridotta alla vendita dei prodotti equi e solidali (cosa peraltro sacrosanta), mentre l’aspetto del confronto, della sfida, è rimasto parecchio al margine. Per un movimento che ha la presunzione di aspirare a un “altro mondo” non può bastare.
Anche l’impostazione forzatamente pluralistica, quasi buonista, è, a nostro avviso, criticabile: creare un contenitore asettico, nel quale far convergere una pluralità di soggetti non ha un senso politico, se non si predispone un terreno sul quale far nascere qualcosa di nuovo. Detto altrimenti, per fare politica è essenziale uno spazio di incontro/conflitto, in cui le diverse soggettività possano mettersi in gioco. Le urgenze di altro tipo (“tecniche”, di vendita, di organizzazione), seppur rilevanti, rischiano di far perdere buone occasioni.

In ogni caso, qui vogliamo darvi la possibilità di visitare la parte della mostra che noi abbiamo curato, oppure di rivederla, nel caso siate passati nello spazio che era stato allestito dietro al Duomo di Milano (il Tendone).
Le linee guida che ci siamo date nel lavoro per la mostra, sono le seguenti:
1. BASTA MISERABILISMO: vogliamo mostrare come molte donne, anche in situazioni critiche, sappiano trasformare la sofferenza in lotta.
2. IMPARARE DALLA POLITICA DELLE DONNE: per spingere a una lotta rinnovata crediamo che ci sia molto da imparare dalla politica delle donne (da parte di donne e uomini).
3. IL CONFLITTO TRA I SESSI NEL MOVIMENTO: le pratiche politiche peculiari del movimento di movimenti sono mutuate dalla politica delle donne. Tuttavia ai vertici ci sono quasi tutti uomini, e negli scontri di piazza ci sono prevalentemente uomini.

 

Vi sono moltissime situazioni di guerra, di povertà, di deprivazione, che le donne affrontano con amore e creatività. Quindi il primo punto, più che una cosa da imparare, diventa un saper guardare in un modo differente là dove queste cose succedono, premessa indispensabile per poter mettersi in ascolto dell’altro e guadagnare sapere politico per sé.
Guardando con occhi differenti a quello che le donne riescono a fare, non si vedono più solo donne misere, sfruttate, più deboli dei deboli, anche se il contesto sociale, politico e culturale resta tremendo. Il fatto che le donne sappiano trovare forme di lotta inedite, punti di vista differenti, parole che sanno mostrare paesaggi imprevisti, rende possibile il cambiamento anche all’interno di queste situazioni.
Così abbiamo fatto spazio alle parole di Hebe de Bonafini, Vandana Shiva, Amira Hass, Liana Badr, Odile Sankara: donne grandi, dalle quali si può imparare.
Il terzo punto apparentemente rimane a sé, ma invece no. Infatti, le forme della politica degli uomini spesso aderiscono alla logica della forza, della contrapposizione, portano avanti una forma di colonizzazione di impronta occidentale. Anche nel movimento vi è un’irriducibile differenza, che però fatica a esprimersi: vi è un conflitto tra i sessi che stenta a rendersi esplicito. L’ultimo scritto che presentiamo tenta il difficile passo di una messa in parola di tale conflitto.

 

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Sveva Haertter

A Parigi, anche fuori da seminari e plenarie si è parlato molto della legge che vieta l’esposizione visibile di qualsiasi segno di appartenenza religiosa nella scuola pubblica.
Martine, favorevole alle legge, racconta di essere molto arrabbiata per il fatto che nella piscina che frequenta, ora ci sono orari in cui l’ingresso è concesso solo alle donne: “Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo”. L’obiezione che questo è l’unico modo per darvi accesso a donne e ragazze di religioni che prevedono una stretta separazione tra uomini e donne, non la convince più di tanto. Viviane sostiene che è necessario un percorso più graduale, ma che certo, alcuni tipi di lavoro che prevedono un contatto con il pubblico, difficilmente possono essere svolti da donne che per osservanza religiosa per esempio non danno la mano agli uomini.
Durante e dopo la plenaria su “Razzismo, xenofobia e antisemitismo”, nella quale fin dall’introduzione è stato sottolineato che è un errore limitare le espressioni individuali, anche se di tipo religioso, ne parlo a lungo con Widad, una giovane donna di origine maghrebina che abita in un piccolo centro fuori Parigi. Casacca, jeans e scarponi, la testa coperta da un foulard. Widad ha 28 anni, tre figli piccoli e un master in economia.
Sei venuta solo per questo dibattito o hai partecipato ad altri lavori dell’FSE?
“No, solo per questo dibattito. Mi interessa molto. Soprattutto la questione dell’antisemitismo. È difficile sostenere la causa del popolo palestinese senza subire questo tipo di accuse. Ma sono qui anche per sentire la discussione sul razzismo, sulla situazione qui in Francia.”
Cosa pensi della legge che vieta il velo nelle scuole?
“Vedi, io vorrei fare l’insegnante, ma non posso perché porto il foulard. Voglio lavorare però e quindi penso che proverò a mettermi in proprio.”
Come ti regoli, quando per salutare un uomo ti porge la mano?
“Beh, in teoria non vorrei dargli la mano, ma se capita che un uomo mi porge la mano rispondo al gesto, altrimenti lo metterei in imbarazzo e questo mi dispiacerebbe. Non sarebbe educato. Certo, se non mi porgono la mano sono più contenta.”
Dalla platea è intervenuta una donna, dicendo che il velo è un simbolo di oppressione delle donne. Capisci le sue ragioni?
“Certo che le capisco. Ci sono tanti paesi dove le donne sono costrette loro malgrado a portare il velo e questo va senz’altro denunciato con forza.”
E tu, perché hai deciso di coprirti? È una tua scelta o è stata la tua famiglia a volerlo?
“Quando ero una teenager cercavo me stessa, sentivo bisogno di una maggiore spiritualità. Ho letto molto il corano ed ho deciso che mi sembrava giusto che una donna avesse un aspetto pudico. Così ho deciso di potare il foulard. Non so se riesci a capirmi. E in parte è anche un’esigenza di rimarcare la mia identità, l’appartenenza ad una minoranza.”
Anche le tue sorelle hanno il foulard. Hanno fatto lo stesso tipo di percorso? La tua famiglia è religiosa?
“Si, hanno fatto come me. La mia famiglia non è particolarmente religiosa. Anche in una famiglia religiosa troverei molto sbagliato imporre il velo ad una ragazza o ad una donna che non lo vuole portare. La costrizione non aiuta la ricerca spirituale e quindi nemmeno la religione. Se il velo è semplicemente imposto, è privo di significato.”
Cosa diresti alla donna che è intervenuta prima, a chi è favorevole alla legge e soprattutto a questo movimento?
“Vorrei dire che invece di sostenere quella legge, soprattutto noi donne dovremmo unirci in una grande battaglia comune perché in tutto il mondo, anche nei paesi arabi, le donne siano veramente libere, anche di scegliere se mettere o no il velo.”
Che nelle scuole pubbliche si imponga di appendere croci sulle pareti o si vieti di portare il velo, non cambia poi molto, sono due espressioni di una stessa intolleranza, reazioni scomposte di un’Europa spaventata dal fatto di essersi scoperta già più multietnica di quanto pensasse di essere. Sarebbe ben più importante ragionare su chi sono oggi i cittadini europei, sui loro diritti, le loro esigenze e modalità di espressione, sul significato del concetto stesso di cittadinanza in Europa

Carissime con grande piacere ho visto che era in rete un commento di Lia Cigarini all’articolo di Piero Sansonetti.
Avevo linkato i paragrafi dell’articolo del 17 -appunto- al sito di storia; più che l’obbrobriosa parola questione femminile mi aveva colpito che le donne avessero preso parola e anzi a quello che ho saputo, addirittura aperto il Forum; le cose dette e ben spiegate nell’articolo mi avevano interessato anche se mi pareva che nulla si dicesse della complessità con cui abbiamo in questi anni affrontato la questione del potere, e Lia la commenta e indica – tuttavia rispetto al silenzio e alla marginalità femminile che era stata notata nei Forum precedenti, adesso questa voglia di dire la propria pur se concentrata su questioni di politica oggettiva (chiamo così la sequenza di temi che erano già stati presenti nel Forum di Firenze) mi aveva colpito favorevolmente e avevo letto in quelle parole un discorso simile a quello che abbiamo fatto su un ordine non basato sul diritto ma sulle relazioni e i soggetti. Inoltre una crescita, una determinata volontà politica delle donne di uscire e mettrsi al centro del Forum dove comunque desiderano stare.
Dopo – sull’onda della lettura di Sansonetti che non mi era sembrata così terrible, ma non sono conoscitrice acuta dei giornalisti dell’unità e della politica della sinistra come Lia e neanche ho la autorità di lei, sono andata alla assemblea delle donne alla Casa della Cultura, venerdì scorso. Purtroppo ho constatato che niente di quello che Sansonetti lasciava pensare saltava fuori nell’Assemblea dove di donne non compariva ‘quasi’ la parola (non ho sentito è vero l’intervento di apertura di Giovanna Capelli, però quattro o cinque interventi di altre del pubblico e organizzatrici, li ho sentiti). C’è stata una sequela di parole sui temi cardine del Forum come controllo sociale sul precariato, migranti, leggi di regolamentazione della flessibilità. Ne ho concluso dopo avere riletto gli articoli di Sansonetti del 17 e del 18 novembre e essere stata all’assemblea che fra le donne questa forza del movimento no-global – intendo i temi di lotta politica al neo-liberismo – sbocca in un grigio neutralismo che depotenzia i soggetti – le donne in questo caso tutte sbilanciate a leggere contraddizioni e questioni che riuonano altre, patrimoni della sinistra che le metteno però nella posizione di ‘esperte’, ‘sindacaliste’, ‘anime belle’, anche, non soggettività piene e oggettivamente collocate nella socità e nel movimento. Come se loro medesime entrassero in questi contesti direttamente con la loro personale situazione che è o un universale interesse per il mondo o un collocarsi fra le donne come puro soggetto economico. E mi ha colpito che fra il pubblico delle ‘convinte’ c’erano anche alcuni volti che abitualmente vedo alla Libreria e agli incontri del Circolo. Come se il corpo e la materialità dei bisogni economici andassero alla Casa della Cultura e la cultura e lo spirito andassero in via Pietro Calvi.
Adesso perchè vi dico tutto ciò? Perchè vorrei saperne di più, riunire i commenti e le impressioni, il corpo e lo spirito. Il commento di Lia Cigarini è già una risposta e una riunificazione, perchè era quello che se avessi avuto spazio alla Casa della Cultura avrei grosso modo detto anch’io, contenta fino a un limite, però, oltre il quale vorrei andare. Mi spiego: è difficile parlarsi attraverso un articolo di un bravo giornalista io stessa me ne sono accontentata prima di andare alla Casa della Cultura. Allora è successo qualcosa di nuovo a Parigi riguardante le donne, c’è stata una scalata al tavolo centrale. Cosa ne segue? Su Jemanjà sono stati pubblicati documenti interessanti, esistono resoconti giornalistici delle donne? Aspetto la vs. risposta e mi adeguerò alla vs. ricerca considerato che siete numericamente di più che nel sito di storia e anche più vicine al movimento dei movimenti.
Un abbraccio carissimo a tutte voi e tutti quanti del giro

 

Donatella

Carissima Lia Cigarini,

ti chiedo scusa, innanzitutto, per il ritardo col quale ti rispondo. E’ dipeso prima da problemi che ho avuto sulla posta elettronica (ho visto la tua lettera solo ai primi di dicembre), poi da un accumulo di impegni, e infine dalla mia pigrizia.

Ho letto le tue critiche, severissime, agli articoli che ho scritto da Parigi. Le critiche fanno sempre dispiacere, specie quando sono un po’ brusche, come le tue. Però se vengono da persone intelligenti, e colte, fanno riflettere. E io naturalmente sto riflettendo sulle tue osservazioni, e mi è difficile pensare che siano infondate, dal momento che tu da molti anni ti occupi di queste cose, le studi, ci hai costruito sopra tanti pensieri e tante battaglie, mentre io ne so pochissimo. E’ la condanna odiosa alla quale siamo sottoposti tutti noi giornalisti: occuparci di cose che non conosciamo, o conosciamo pochissimo, fingendo di saperne molto.

 

Vorrei solo avanzare una timida giustificazione e poi fare due osservazioni.

 

La giustificazione è semplice: io in quegli articoli non ho espresso il mio pensiero: ho fatto il cronista. Cioè ho riferito – probabilmente in modo un po’ approssimativo e incompleto – di alcuni documenti e di vari seminari che si sono tenuti a Bobigny, e ai quali hanno partecipato molte migliaia di donne; e poi ho resocontato l’intervento (sulla questione europea) di una dirigente politica svedese. E’ probabile – come spesso mi succede – che resocontando abbia mescolato il mio pensiero e le idee espresse dalle donne del forum, e mi dispiace. Però non credo di avere esageratamente contraffatto le idee e i concetti che ho ascoltato.

 

Passo alle osservazioni. La prima è molto ingenua. Mi chiedo: se migliaia di persone – e anche moltissime donne – tutte appassionate e impegnate nella lotta e nella analisi politica, trovano ragionevoli le cose di Bobigny, non è giusto tenerne conto? Voglio dire: non credi che la vostra lotta – di voi donne: che è storica ed è decisiva per i destini dell’umanità – debba raccogliere insieme sia i livelli di elaborazione e di coscienza più avanzati e d’avanguardia, sia quelli più rudimenatli e primitivi, cercando di intergarli, di farli crescere, non di contrapporli? Come vedi non è un’osservazione, è una domanda. E ti giuro che è posta senza nessuno spirito
polemico, né tantomeno con arroganza: è posta proprio così com’è: una domanda vera.

 

Anche la seconda osservazione è quasi una domanda. Questa. Tu dici: ma allora non sarà che esiste una questione maschile? E identifichi la questione nell’incapacità dei maschi a non considerare universale il loro punto di vista. Sono convinto di sì. Esiste una questione maschile. Io credo però che non ci sia nessuna differenza tra le due questioni di genere (maschio e femmina: vedi che sto attento a non scrivere più questione femminile… mi destreggio…) perché non può esistere una senza l’altra, dal momento che la questione esiste solo come questione di rapporto tra i due sessi. Se non ci fosse il problema di riformare questo rapporto, e poi il rapporto di ciascuno dei sue sessi con la società, non vedrei dove sta il
problema. Non è così?

 

Perdonami qualche schematismo e superficialità.

 

Ti saluto con affetto e stima

 

Piero Sansonetti

Lia Cigarini

Piero Sansonetti è un giornalista politico che io stimo molto sia per la capacità di fare una cronaca precisa ed intelligente di grandi e complessi avvenimenti come sono stati i raduni di Porto Alegre, di Firenze e di Parigi, sia per la passione politica che gli permette di captare il linguaggio e la realtà che cambia.
Tuttavia, nel racconto del forum di Parigi (L’Unità 17 novembre 2003), segnalando la presenza importante delle donne, Sansonetti usa un linguaggio politico vecchio, prefemminista e contradditorio. Parla, cioè, di “questione femminile”. E sembra ignorare che questa è una formula che rispecchia un pensiero inconsapevolmente maschilista.
Ben più grave però è un altro punto. Egli sembra non sapere che da trenta anni il movimento internazionale delle donne (in particolare in Italia, Germania, Spagna, Polonia, Francia e parte degli Stati Uniti) ha criticato e decostruito il potere dando esempio di un agire politico che lo aggira.
Perciò la sua ricostruzione della discussione su questo tema appare contraddittoria e non corrispondente alla realtà. Egli, infatti, dice che la forza del movimento no-global sta nel fatto che non si è mai posto l’obiettivo del potere e sostiene che da qui partirebbe la nuova battaglia delle donne. E’ vero il contrario: per anni le donne riunite in piccoli gruppi hanno messo in parola la loro esperienza del mondo tentando di costruire un altro ordine di relazioni tra donna e uomo a lato della politica maschile di potere. E da quelle pratiche e da quel sapere ha preso ispirazione il movimento no-global, come sottolinea Naomi Klein con la celebre sintesi; “il movimento dei movimenti è donna”.
Il ragionamento di Sansonetti continua così: il movimento vuole trasformare il potere in semplice meccanismo di organizzazione e così si abolisce il vantaggio maschile che sta tutto nel potere. Ed ecco risolta la questione femminile!
Poi riferisce dell’applaudito discorso di Gundrum Schyman dirigente della sinistra svedese che, partendo dalla constatazione che più della metà numerica del mondo, le donne, sono fuori dal potere, chiede, perché ci sia più democrazia, una spartizione numericamente equa del potere. Siamo in piena confusione. E’ una confusione che ha origine nello stesso movimento i cui dirigenti hanno sempre privilegiato il femminismo di denuncia e di rivendicazione del potere. E non vedono le pratiche politiche che mettono in discussione il potere alla sua radice, nella sessualità, nell’esperienza quotidiana di rapporti tra uomini e donne. Dico cose che molte hanno già segnalato, specialmente a Firenze, penso in particolare alla critica mossa da Paola Melchiorri.
Qui a me non interessa tanto la discussione nel movimento no-global bensì capire come mai Sansonetti e insieme a lui tanti uomini sensibili ad una collocazione dignitosa delle donne nella politica democratica (che è comunque equilibrio di poteri) o addirittura attratti dalla pratica politica delle donne, alla fine danno l’impressione di non capire le nuove questioni poste dal movimento delle donne.
Quasi mi viene da dire: ma allora esiste una questione maschile. Mi riferisco alla identificazione di sé uomini con un punto di vista universale, che non può non comprendere in sé tutto e tutti, identificazione che l’uomo difende spesso a forza di sordità verso la compagna della vita o quella di riunione, seduta lì, al suo fianco.

Lia Cigarini

Pubblichiamo solo la seconda puntata del 18 Novembre di Sansonetti, che ha seguito molto bene il Forum di Pagi del movimento di movimenti, perché nella prima (17 Novembre) c’è una confusione grave per quello che riguarda la politica delle donne. Precisiamo che su questa confusione fatta dal movimento di movimenti Sansonetti non è riuscito a fare chiarezza.
La redazione del sito

Leggete il commento di Lia Cigarini


Piero Sansonetti

I giornali francesi hanno parlato molto e molto approfonditamente del Forum sociale europeo che si è concluso domenica a Parigi. Quelli di sinistra, quelli di centro, quelli di destra. Anche i politici francesi si sono occupati del forum. Laurent Fabius, ex premier socialista, è stato a colazione con José Bove, molti capi conservatori hanno partecipato a varie riunioni sul tema della globalizzazione e del ruolo del movimento, e si sono mostrati tutt’altro che aggressivi col forum (il governo di centrodestra lo ha finanziato con più di un miliardo di vecchie lire). I giornali francesi non parlano di argomenti tipo “sono violenti o no?”, “sono divisi?”, “chi sono i leader?”. Parlano delle analisi e delle proposte dei no-global. Le approvano, le discutono o le contestano. Talvolta anche nettamente le contestano (specie giornali di destra come Figarò) ma nel merito. Dicono: non è vero che la mondializzazione ha portato a un aumento della povertà, perché i dati sono questi e questi. Oppure: è vero che ha aumentato le disparità ma tutto lascia credere che sia un ciclo naturale e che le disparità torneranno a ridursi. Alcuni sostengono che le proposte antiprotezioniste dei no-global (per l’agricoltura) sono giuste, altri dicono che sono pericolosissime. E spiegano queste proposte, e spiegano le analisi che ci sono dietro, e perché funzionano o perché non vanno bene. Colore quasi niente, pettegolezzi pochissimi.
Sono cose per il giornalismo italiano neppure concepibili. Fanno quasi paura: complicherebbero maledettamente la vita ai giornalisti e ai lettori. Le Monde ha aperto il giornale due volte sul Forum. Il quotidiano economico “Echos”, che è un po’ come il nostro “Sole 24 ore”, gli ha dedicato un inserto di dodici pagine, tutte sui contenuti. E un editoriale nel quale dice: “È impossibile oggi fare politica o occuparsi di economia senza tener conto del movimento altromondista, che è la più importante novità politica di occidente dell’ultimo quindicennio”.

 

ALAIN JUPPE. L’ex primo ministro conservatore, Alain Juppé, ha rilasciato un’intervista lunga e seria a “Echos”, nella quale esprime molte critiche alla strategia no-global ma anche molto rispetto. E persino consenso verso la parte ambientalista del movimento. Juppé dice che il problema di quale e quanto mondo vivibile lasceremo ai nostri figli e nipoti è un problema generale e gravissimo, che supera le distinzioni tra destra e sinistra. E prende sul serio anche la domanda di uguaglianza che viene dal forum: però critica le strategie marxiste e quelle “arcaico-contadine?” che secondo lui non sono il modo per rispondere a quella domanda.
TONI NEGRI. Il vecchio professore che negli anni settanta fu il leader dell’autonomia operaia, e si beccò condanne per svariati anni di galera, e prima riparò in Francia e poi tornò in Italia per scontarle (e qualche mese fa ha finito la pena), cioè Toni Negri, è stata una delle star di Parigi. Era prevista la sua presenza a due seminari. Però i seminari si tenevano in sale piccole, da trecento posti, come tutti i seminari. E a sentire Negri venivano in duemila. Non c’entravano. Così Negri è dovuto uscire dalla sala, rinunciare a amplificazioni e traduzioni simultanee, e parlare all’aperto, alla Villette, su una spianata di cemento, con un microfono gracchiante e una gran folla seduta per terra ad ascoltarlo. Era una scena curiosa. Negri parlava in italiano, in francese e poi un ragazzo traduceva in inglese, parlava con molta foga, gesticolava, da lontano sembrava la scena di un comizio un po’ rozzo, e invece era una complicatissima e sofisticata lezione di dottrina politica sul seguente concetto: non c’è più la classe operaia, c’è la moltitudine. Cioè l’idea (e la pratica) di sfruttamento non si applica più alla produzione di plusvalore, ma a tutta la produzione,visibile e invisibile, intellettuale e materiale, d’officina, d’ufficio, domestica o casalinga. la produzione non è solo quella di beni concreti ma è anche produzione di relazioni, conoscenze, servizi, saperi. Chiunque lavori è moltitudine: sfruttato dal capitale in quanto lavoratore e in quanto singolo. La moltitudine è plurale ma è anche singola e individuale. Questo cambio del soggetto produttivo, del soggetto sociale e del soggetto politico, cambia tutta la strategia e la teoria del movimento operaio. E cancella l’idea di popolo, idea vecchia legata agli stati nazionali.
L’AGRICOLTURA. Il forum si è occupato molto di Europa e anche molto di agricoltura. L’agricoltura è un problema decisivo, perché da come lo si risolve dipende molto dellerelazioni tra sud del mondo e Occi- dente nei prossimi anni. Il movimento no-global a Cancun ha avuto un buon risultato in questo campo: alleandosi con Brasile, Cina, India e altri 17 paesi, ha sconfitto gli Stati Uniti e l’Europa stabilendo il principio che finché l’Occidente non rinuncia al suo protezionismo agricolo, i paesi poveri o in via di sviluppo bloccano il funzionamento del Wto e dunque danneggiano le strategie di mercato dell’occidente. I paesi che seguono questa linea sono abitati da più della metà dell’umanità (quasi quattro milioni di persone) e quindi da più della metà dei possibili mercati del futuro. Cosa c’entra tutto questo con l’Europa? C’entra, perché l’Europa è chiamata a una scelta: continuerà a schierarsi a corpo morto con gli Usa, come ha fatto a Cancun, o sceglierà una via politica, offrendo una sponda ai paesi del cosiddetto G20 e rinunciando ai suoi privilegi protezionisti? I privilegi sono molto semplici: l’agricoltura europea e americana è finanziata dallo Stato (due dollari al giorno per una mucca), e quindi mette fuori mercato e uccide l’agricoltura del terzo mondo che questi finanziamenti non li ha. Rinunciare al protezionismo colpisce i piccoli contadini europei? No, perché più del 95 per cento delle sovvenzioni vanno alle multinazionali impegnate in agricoltura. Cioè servono solo a rimpinguare i profitti, a danno del Sud del mondo.

 

IL PACIFISMO. Sicuramente la scelta pacifista ormai è un punto fermo. Il movimento ha fatto enormi passi avanti in questi anni. Il rischio che corre è solo quello di adagiarsi in un pacifismo generico, mentre invece il problema è quello di collegare il pacifismo a tutta l’analisi sul neo-liberismo che costituisce la forza vera del movimento. Per esempio, su Iraq e Medioriente ci sono stati molti dibattiti al forum e, sono stati interessanti. Hanno partecipato palestinesi, israeliani, afgani, rappresentanti dei partiti di opposizione (non armata) irachena. La linea è chiara: no alla guerra, no alla violenza, no alla forza come elemento di regolazione delle relazioni tra gli uomini e gli Stati. Però ci sono delle domande alle quali il movimento non sa ancora rispondere. Per esempio questa: come si affronta il successo economico – cioè la ricaduta positiva sul piano economico – che la guerra sta avendo negli Stati Uniti? La recessione è invertita grazie all’industria bellica e alle speranze di petrolio iracheno a prezzo basso. Le Corporation sono dispostissime in cambio di questi risultati a sopportare un migliaio di soldati morti all’anno. Neanche Bush e il potere. politico hanno la forza per fronteggiare queste potenze. Il movimento non può attestarsi sulla sua “grandiosità” etica: deve entrare nel merito. Se no resta fuori dalla partita.

 

COME SI CONCLUDE. Con l’apertura di una nuova fase di impegno e di lotta politica, nella quale ai temi tradizionali (pace, agricoltura, lotta alle privatizzazioni) si aggiunge il grande filone dell’Europa. Questo è un segno di straordinaria maturità e di crescita del movimento. Si conclude anche con la presa d’atto dei successi dell’ultimo anno. Fondamentalmente due: l’accordo di Ginevra sulle medicine “fuori brevetto” nei paesi poveri, e il fallimento della linea Usa-Europa a Cancun su privatizzazioni e agricoltura. Sono grandi successi. Dov’è il limite che esce da Parigi? La mancanza di una linea che possa imporre ai partiti tradizionali il dialogo. La distanza tra partiti tradizionali e movimenti non si è ridotta, in questi mesi. Si è allargata: specie sulla Costituzione europea e sulla funzione che viene assegnata al mercato nella regolazione della vita pubblica. Queste distanze si possono stringere solo se i movimenti impongono ai partiti di pronunciare dei sì e dei no su grandi questioni, al tempo stesso concrete e ideali. Per esempio: il disarmo e la rinuncia all’ esercito europeo; l’abolizione delle frontiere; il salario sociale o un’ altra forma concreta di abolizione della povertà; la fine del protezionismo agricolo; la Tobin tax e la tassazione delle rendite finanziarie. Se ci riescono vuol dire che sono entrati nella loro fase decisiva: quella che si misura sulle possibilità di governare le società moderne. Se no arrancano.

Il maresciallo Pallotta, direttore del Giornale dei carabinieri, attacca la missione in Iraq: “Peacekeeping? Ma quale pace? Altro che terrorismo, è guerra. E a combattere mandiamo padri di famiglia. Non deve essere il nostro Vietnam”. Contro di lui si schiera il Cocer, il comando dei Cc potrebbe punirlo
Alessandto Mantovani

Il Cocer, la rappresentanza istituzionale dei carabinieri, lo accusa di “strumentalizzare” i morti di Nassiriya. E il comando generale dell’Arma potrebbe assumere iniziative giudiziarie e disciplinari. Ma il maresciallo capo Ernesto Pallotta, vent’anni di servizio nella Benemerita e quasi altrettanti di battaglie per democratizzarla, ha deciso di non mollare. “Il nostro governo deve essere chiaro, deve constatare che in Iraq vi è la guerra e che la missione di pace è un’operazione di guerra”, ha dichiarato ieri Pallotta, direttore editoriale de Il Giornale dei carabinieri e delegato del Cobar Lazio (è la rappresentanza regionale corrispondente ai Cocer). “Peacekeeping – ricorda Pallotta – significa mantenimento della pace. Ma quale pace? Chi ha deciso? Il presidente americano ha decretato l’inizio e la fine della guerra. Ma unilateralmente, senza ascoltare i suoi nemici che invece proseguono nelle azioni bellicose”. Pallotta la vede così: “In assenza dei caschi blu, dell’Onu e dei partner europei che si sono ben guardati dal mandare le truppe, la parola giusta per quanto accade in Iraq è guerra. E poiché oggi la guerra è cambiata non si fa più viso a viso, come vorrebbero gli americani che sono i più forti, ma si chiama anche terrorismo, guerriglia, resistenza… Gli Stati Uniti usano la parola terrorismo per cercare di coinvolgere altri paesi”. Il maresciallo polemizza anche con il ministro della difesa. “Martino – prosegue Pallotta – ha detto che questo è il nostro 11 settembre. Noi invece non vogliamo che l’Iraq diventi il nostro Vietnam. Chiediamo quindi un dibattito politico sulla missione per decidere se questa è una guerra. E quel punto saranno altri gli uomini e i mezzi impiegati, non dei semplici padri di famigli convinti di essere lì per la pace o per mantenerla”.Ma se l’Italia dichiarasse la guerra non violerebbe l’articolo 11 della Costituzione? “Certo – risponde il maresciallo Pallotta – Sarebbe necessario il mandato dell’Onu, come per la guerra del Golfo nel `91 e più avanti per la Bosnia”. E in quel caso dovrebbe toccare ai carabinieri? “Ma no. I carabinieri sono organo di polizia militare e dovrebbero occuparsi soltanto dei reati eventualmente commessi dai nostri militari. Per il resto possono partecipare a operazioni di peacekeeping a tutela dell’ordine e della sicurezza, ma solo in situazioni diverse da quella irachena attuale. Il problema, insomma, dovrebbe porsi in un secondo momento. E comunque per la guerra non siamo attrezzati: non abbiamo obici semoventi, né missili, né aerei. I nostri blindati non bastano”. In Iraq, oltre ai paracadutisti e agli altri specialisti della guerra, sono andati anche decine di carabinieri dei reparti territoriali, attirati dalle cospicue indennità di rischio (98 per cento dello stipendio) ma forse (il comando nega) non del tutto preparati alla situazione.Pallotta è scomodo perché le sue parole colpiscono la strategia dei vertici dell’Arma, che invece scommettono parecchio sulla Seconda brigata mobile che riunisce i parà del Tuscania, i reggimenti speciali di Laives e Gorizia e gli uomini del Gis. Le missioni all’estero, per la Benemerita, vogliono dire soldi, prestigio e ruolo internazionale, tant’è che i carabinieri sono arrivati in Iraq prima ancora dell’esercito e i loro generali, se potessero, ne manderebbero molti di più degli attuali 350 (su 2400 militari italiani). Pallotta su tutto ciò non si esprime. Ricorda solo che “il parlamento europeo, più di una volta, ha approvato raccomandazioni che chiedono la smilitarizzazione delle forze di polizia”.Per la polizia la riforma c’è stata nel 1981. I carabinieri invece mantengono l’ordinamento militare che impedisce loro di parlare, se non altro attraverso liberi sindacati come quelli dei poliziotti. Pallotta le sue battaglie le ha pagate a caro prezzo: nel febbraio del `93, quando insieme a un gruppo di carabinieri democratici fondò l’associazione Unarma, il maresciallo in pochi giorni venne deferito alla commissione di disciplina e rischiò la radiazione. E dopo anni di pressioni, nel 2001, il Consiglio di Stato ha deciso che Unarma aveva “natura sindacale” e che pertanto era “legittimo” applicare le sanzioni previste dalla legge 382/1978 che vieta l’iscrizione dei militari di professione alle associazioni sindacali. Le adesioni, così, si sono fermate a quota tremila. “Eravamo – racconta Pallotta – un luogo di libero dibattito e di confronto tra carabinieri”. Sarebbero potuti arrivare a decine di migliaia, raccogliendo una bella fetta dei 112 mila carabinieri esistenti in Italia. Per questo è calata la mannaia del Consiglio di Stato, nell’assordante silenzio del centrosinistra al governo. Contro la decisione Unarma ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani, la cui pronuncia è attesa nel 2004. E intanto Pallotta ha subito attacchi di ogni tipo, dai comandi dell’Arma e da alcune procure (militari e non).All’indomani del massacro di Nassiriya Pallotta e i responsabili del Sindacato carabinieri in congedo (Sinacc) hanno chiesto il ritiro del contingente (i comunicati sono in rete: www.nsd.it). E il primo a reagire è stato il Cocer: “E’ un tentativo di strumentalizzazione di poveri ragazzi deceduti che hanno invece bisogno solo di pietà e, soprattutto, di rispetto”. E’ un organo istituzionale, il Cocer, l’esatto opposto di un sindacato: lo presiede un generale che era iscritto alla P2, Serafino Liberati, e oggi (oltre a rappresentare la truppa) comanda il Raggruppamento investigazioni scientifiche dal quale dipende il Ris di Parma. “Pallotta parla a titolo personale”, dicono i generali. Il comando ha diramato una nota che potrebbe preludere ad azioni disciplinari, facendo sapere che le parole del maresciallo “non rappresentano nel modo più assoluto il pensiero del comando generale, né quello di tutto il personale dell’Arma”. Replica Pallotta: “E’ risibile, non ho mai parlato a nome dell’Arma. Esistono le rappresentanze militari e io ne faccio parte. Mi sembra che il comando commetta lo stesso errore che imputa a me: nemmeno il comando, infatti, è proprietario del pensiero dei carabinieri”.

Cinzia Zambrano

Volevano farne a tutti i costi il simbolo dell’idealismo americano che lotta contro il Male, l’eroina della guerra a stelle e strisce contro il dittatore iracheno Saddam Hussein. In verità, erano anche riusciti nell’intento: per settimane la sua storia aveva monopolizzato i media, distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica Usa dal pantano nel quale l’Amministrazione Bush si andava infossando in Iraq. Fino all’altro ieri. Quando, in vista della trasmissione – prevista sulle tv americane per stasera di un film sulla sua vicenda, Jessica Lynch, l’ex soldatessa catturata in Iraq e liberata da un commando americano, non ha deciso di dire basta alla strumentalizzazione della sua storia.
Jessica rivendica la “normalità” del suo dramma: “Non sono un eroe,mi hanno usata perché avevano bisogno di un simbolo. I veri eroi sono i miei undici compagni morti al mio fianco”. .
Doccia fredda, anzi gelata, per il Pentagono che all’indomani della liberazione di Jessica aveva diffuso le immagini sgranate del suo salvataggio infarcite di coraggio e abilità militare. “Sono esagerate e sfruttate a scopo di propaganda” accusa ora l’ex soldatessa appena ventenne, che invece di imbracciare un fucile avrebbe preferito insegnare ai bambini. Con la sua, “verità” il soldato Lynch scoperchia un verminaio composto di macchinazioni e strumentalizzazioni che lasciano stecchiti i falchi dell’Amministrazione Bush. E diventa, ora sì simbolo, ma di una coscienza americana che rifiuta l’inganno.
In un’intervista alla “Abc”, che andrà in onda martedì ma di cui sono stati diffusi alcuni stralci, Jessica, maestrina mancata ed eroina per forza, confessa che le forze armate americane hanno manipolato il resoconto del suo salvataggio da un ospedale di Nassiriya e che non avrebbero dovuto filmarlo. “Non mi considero un’eroina. I miei eroi sono Lori Piestewa e gli altri soldati come lei uccisi nell’imboscata. Sono i soldati che sono ancora lì”, dice Jessica alla “Abc”. E sulla ricostruzione fatta del suo eroismo rincara la dose: “Fa male quando vedi che la gente inventa storie che non hanno fondo di verità. Solo io potrei raccontarlo, raccontare che mi difesi sparando, ma non l’ho fatto, non ho sparato un colpo, l’arma si era inceppata, ho nascosto la faccia tra le mani e pregato. Non,ricordo nulla della cattura. In ospedale sono stata trattata con grande umanità”, dice Jessica smontando con onestà il ritratto eroico della sua resistenza alla cattura e della sua prigionia dipinto dal Pentagono. Originaria della West Virginia, Jessica era poco più di una bambina dalla faccia pulita che si era arruolata con l’ambizione di pagarsi gli studi per fare la maestra. Spedita in Iraq, lei e la sua unità di Fort Bliss in Texas caddero in un’imboscata il 23 marzo vicino a Nassiriya, nel sud del Paese. Undici dei suoi commilitoni, tra cui la soldatessa pellerossa lori Piestewa, morirono nell’agguato, ma Jessica, gravemente ferita, fu catturata dagli iracheni e salvata una settimana dopo dalle Forze Speciali americane.
La “sua” storia, lei l’ha raccontata. Non agli sceneggiatori del film “Salvate Jessica Lynch”, ovviamente, che è stato peraltro girato senza neanche la sua consulenza. La settimana prossima nelle librerie americane approderà la sua biografia autorizzata, messa nero su bianco dall’ex giornalista del “New York Times” Rick Bragg. Nel libro, intitolato “I am a Soldier, Too”, Bragg rivela che Jessica sarebbe stata violentata dagli iracheni. Ma la ragazza, che ha perso la memoria di quanto accaduto dopo il ferimento, non conferma.

Mi chiamo Stefano Ciccone e faccio parte di un gruppo (e di una fragile rete nazionale) di uomini che tentano di riflettere sulla propria identità sessuata e sottoporre a critica modelli e culture del maschile.
Laura Colombo mi ha segnalato questo spazio di confronto e mi ha proposto di intervenire, cosa che faccio volentieri anche perché mi/ci farebbe piacere trovare canali di comunicazione anche con la vostra esperienza che è ovviamente uno dei punti di riferimento con cui ci interessa misurarci/interloquire/ configgere/ascoltare.
L’incontro promosso nell’ambito del Social Forum di Firenze proponeva nel titolo un’interlocuzione tra donne e uomini a partire dal reciproco riconoscimento di parzialità anziché solo dalla condivisione di obiettivi politici comuni. In effetti la discussione che c’è stata ha lasciato anche me un po’ perplesso e forse preoccupato.
Il tema posto era “donne e uomini un conflitto necessario per un futuro comune” ed intervenendo ho cercato di domandarmi come potevo collocarmi in questo “conflitto necessario”.
Se questo conflitto si gioca sulla differenza salariale o sugli spazi nella politica (come molti interventi hanno riproposto) ciò che possiamo fare come uomini impegnati politicamente su obiettivi di giustizia, equità e solidarietà, è appunto “solidarizzare” con giuste rivendicazioni di spazi e diritti delle donne come di altri “soggetti deboli” o discriminati. E’ una prospettiva per me ormai sterile e che non corrisponde più al mondo che conosco, ai miei desideri, alle relazioni con le donne che ho costruito. Non solo perché sento come riduttiva la rappresentazione delle donne come “soggetto debole” a favore del quale rivendicare un riequilibrio ma perché mi propone un terreno “troppo facile” che mi chiede (e mi offre) solo una disponibilità a “cedere” spazi e rinunciare a privilegi.
Non si tratta, ovviamente di non riconoscere le disparità che ancora segnano l’organizzazione sociale, l’accesso al potere, ai saperi, alla cittadinanza ma di andare oltre. Criticando alla radice le forme del potere, dei saperi, della cittadinanza.
Il “conflitto necessario” tra donne e uomini è per me non occasione di rinuncia volontaristica a quelli che sono stati definiti i dividendi del patriarcato e di cui ho certamente goduto nella mia esperienza, ma occasione per una ricerca di libertà e di una diversa ricchezza della mia vita che proprio l’accesso a quei dividendi sento aver impoverito come un’eredità in parte inservibile in parte avvelenata.
Ho partecipato a quell’incontro perché non era scontato proporre quel tema in un movimento in cui, a fronte di molte dichiarazioni di radicalità e disobbedienza, si ripropongono forme e linguaggi subalterni ad una cultura segnata da un immaginario virile e bellicista. Abbiamo già tentato di aprire un dibattito e un conflitto nel movimento dei movimenti dalla manifestazione di Genova in poi partendo dall’immagine della specularità degli schieramenti, dei linguaggi, (degli scudi) che in piazza riproducevano emblematicamente un deficit di alterità. Ma credo sia importante riprendere anche qui questa riflessione. Se è vero infatti che un ordine si è rotto e che appare inservibile per conferire senso alla mia vita e a quella di tanti uomini, è anche vero che questo stesso universo simbolico patriarcale oggi dimostra una sua grande vitalità (se volete regressiva), una rinascente capacità di seduzione sugli uomini di ogni latitudine geografica e culturale. Si insidia ovunque, anche nelle culture e nelle forme politiche che si vogliono antagoniste e radicali. Offre opportunità di identità e di senso di fronte alla crisi degli stati nazionali, le lotte di uscita dal colonialismo, la crisi della politica.
Ma, appunto, anche chi si pone come “anti-sistema” sembra subire la seduzione di modelli identitari non riducibili al maschile ma che la lettura critica della maschilità mi fa vedere in modo più chiaro, direi più stridente.
E forse in questo ha pesato una insufficiente capacità di comunicazione che emerse già in occasione di genova. Ci sembra significativo che proprio Luisa Muraro, dopo avere riaffermato la forza di una “politica prima” costruita nelle relazioni quotidiane, abbia scelto, a proposito di quanto avvenuto a Genova, di aggiungere queste parole: “Molto di quello che ho scritto qui, io e altre meglio di me, lo sapevamo da prima. Anche la mossa dell’avversario era prevedibile da prima, almeno da parte di chi ha una storia come la mia, che comincia negli anni Sessanta e si e’ sviluppata nei movimenti non organizzati. Ma non abbiamo parlato, non siamo intervenute. Saremmo state ascoltate? Non lo so, ma valeva la pena esporsi a questa prova e, forse, si doveva”.
Ho scelto, con altri, di pormi “lontano dai militari e da chi li imita” seguendo percorsi paralleli di critica della politica e delle sue forme, dei rischi di subalternità alle culture dominanti ed ai modelli gerarchia che anche movimenti antagonisti rischiano di riprodurre anziché di sovvertirne le regole. Ma il fatto per me nuovo è stato di farlo in quanto uomo, ed affermando la valenza politica di questa collocazione. Si tratta non di una scelta “moderata” ma al contrario che ricerca ed esprime al massimo la conflittualità, che non la riduce allo schieramento tra fronti ma nel legge le potenzialità nelle relazioni, nei linguaggi, nella quotidianità. Non un di meno ma un di più di critica dell’esistente.
Il nodo credo sia proprio in quel nesso tra radicalità e memoria che oggi il movimento dei movimenti ha davanti a sé. Negli interventi che si sono succeduti credo sia emersa una contraddizione: una domanda di radicalità che non trova parole per dirsi e non riesce a riconoscersi nelle parole prodotte dalle culture critiche, e al tempo stesso la diffidenza verso la politica delle donne vista come rischio di deriva intellettualistica o accademica che porta rifugiarsi in certezze (penso alle giovani ragazze inglesi e tedesche o del nord europa che reiteravano la loro collocazione radicale, antagonista, antiliberista, anticapitalistica) che fungano da antidoto a questa “fuoriuscita dal conflitto”. Il dibattito tra le italiane presenti è stato certamente quello più avanzato ma al tempo stesso poco capace di comunicare ad altre esperienze e, credo, troppo segnato dalla valutazione del passato e dalla collocazione rispetto ad esso.
I femminismi sono stati e sono anche un’esperienza diffusa, radicata e concreta di critica della politica. Oggi che la politica torna nelle piazze e torna ad acquisire una dimensione “di massa” mi pare abbia bisogno di questa radicalità.

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