Naomi Klein
Il vero regalo di Kerry per Bush non è stata la presidenza, ma l’immunità. La dimostrazione migliore si incarna nell’uomo Marlboro di Falluja e nei dibattiti surreali che lo hanno coinvolto. La vera immunità genera una specie di delirante decadenza, e la sua faccia è questa: una nazione che si scalda con il fumo, mentre l’Iraq brucia.
Le immagini simboliche suscitano attrazione e avversione. È il caso della fotografia di James Blake Miller, il ventenne marine di Appalachia ribattezzato “il volto di Falluja” dagli autorevoli sostenitori della guerra, e “l’Uomo Marlboro” da quasi chiunque altro.
Riproposta da più di un centinaio di quotidiani, la foto del Los Angeles Times mostra Miller “dopo più di dodici ore di intenso e quasi ininterrotto combattimento” a Falluja, la faccia dipinta con pittura di guerra, un graffio sanguinante sul naso e la sigaretta, appena accesa, tra le labbra.
Osservando Miller con benevolenza, Dan Rather, anchorman di CBS News, ha confidato: “Mi ha coinvolto personalmente. È un guerriero che scruta l’orizzonte lontano, per cogliere con lo sguardo il pericolo. Guardatelo, studiatelo, assimilatelo. Pensateci su. Quindi tirate un profondo respiro di orgoglio. E se non vi ritrovate con gli occhi umidi, siete più bravi di me”. Qualche giorno dopo, il LA Times dichiarava che la foto era “entrata nel regno dell’allegoria”. A dire il vero, l’immagine sembra allegorica solo perché è evocativa in modo quasi ridicolo: è uno scopiazzamento bello e buono dell’icona più forte della pubblicità americana, l’uomo della Marlboro, che a sua volta imita la stella più brillante che Hollywood abbia mai creato, John Wayne, che impersonava il più grande mito originale d’America, il cowboy sull’impervio confine. È come una canzone che ti sembra di aver già sentito mille volte, perché è proprio così.
Ma non è questo il punto. Per un Paese che ha appena eletto un aspirante uomo Marlboro come suo Presidente, Miller è un’icona, e lo prova il fatto che lui stesso abbia dato origine ad una disputa. “Molti bambini, ma soprattutto ragazzi, giocano ‘ai soldati’ e si divertono a imitare questo giovanotto. Il chiaro messaggio della foto è che il modo giusto di rilassarsi dopo una battaglia è una sigaretta”, ha scritto Daniel Maloney in una lettera di protesta allo Houston Chronicle. Linda Ortman ha mosso lo stesso appunto agli editori del Dallas Morning News: “Non ci sono foto di soldati in Iraq che non fumano?”. Un lettore del New York Post ha suggerito qualche immagine per una propaganda più politically correct: “Mostrare un marine su un carro armato, mentre aiuta un altro militare, o beve acqua, avrebbe un impatto più favorevole sui vostri lettori”.
Proprio così: coloro che hanno scritto lettere ai giornali da tutta la nazione esprimono unanimi la stessa indignazione: non che il soldato dagli occhi d’acciaio che fuma rende l’uccisione di massa accattivante, bensì che un’azione encomiabile come l’uccisione di massa renda accattivante il terribile crimine del fumo. Questo mi ricorda la battuta sul rabbino della comunità hasidic, secondo il quale sono accettabili tutte le posizioni sessuali tranne una: quella in piedi, “perché potrebbe indurre a ballare”.
A pensarci bene, forse Miller merita davvero di essere elevato allo status di icona: non della guerra in Iraq, ma della nuova era della dilagante immunità americana. Poiché, al di fuori dei confini americani, come sappiamo, c’è un altro il marine a cui è stato assegnato il titolo di “volto di Falluja”: il soldato ripreso da una videocamera mentre uccide un prigioniero ferito e disarmato in una moschea. A seguire, ci sono le fotografie del bimbo di due anni di Falluja in un letto d’ospedale senza la gamba che gli è stata strappata via; del bambino morto, steso sulla strada e aggrappato al corpo senza testa di un adulto; e di un centro di pronto soccorso ridotto in macerie. All’interno degli Stati Uniti, queste istantanee di un’occupazione fuorilegge sono comparse solo brevemente, se mai sono comparse. Al contrario, lo status di icona di Miller ha resistito, tenuto vivo da storie di umano interesse sui suoi fan che inviano stecche di Marlboro a Falluja, interviste alla mamma orgogliosa del marine e accese discussioni sulla possibilità che il fumo possa ridurre l’efficienza di Miller come macchina da combattimento.
L’immunità, la percezione di essere al di là della legge, è stata a lungo il marchio del regime di Bush. Ciò che è allarmante è la sensazione che si sia accentuata dopo le elezioni, sfociando in quella che può ben essere descritta come un’orgia dell’immunità. In Iraq, le forze statunitensi e i loro delegati iracheni stanno prendendo di mira bersagli civili e attaccano apertamente medici, religiosi e giornalisti che hanno osato contare i corpi. In patria, la politica dell’immunità è stata ufficializzata da Bush con la sua nomina a ministro della Giustizia di Alberto Gonzales, l’uomo che, attraverso l’infamante “memoriale sulle torture”, aveva personalmente informato il Presidente che le norme della Convenzione di Ginevra sono ormai “obsolete”.
Questo genere di provocazione non può spiegarsi semplicemente con la vittoria di Bush. Qualcosa nel modo in cui ha vinto e in cui si sono tenute le elezioni deve aver dato a questa amministrazione la netta impressione di aver ricevuto una sorta di franchigia dalla Convenzione di Ginevra. Poiché questo è esattamente il dono che è stato consegnato proprio da John Kerry.
Per mantenere la possibilità di vittoria, la campagna di Kerry ha lasciato correre la macchina elettorale di Bush per cinque mesi senza mai affrontare questioni importanti come la violazione delle leggi internazionali. Nel timore di essere considerato troppo tenero riguardo al terrorismo e sleale verso le truppe statunitensi, Kerry ha scandalosamente taciuto riguardo ad Abu Ghraib e Guantanamo.
Quando è diventato chiaro che su Falluja si sarebbe abbattuto l’inferno subito dopo le votazioni, Kerry non si è mai opposto a tale piano, né ai bombardamenti illegali di zone civili che si sono verificati durante tutta la campagna. Anche dopo la pubblicazione su The Lancet dello studio in cui si stimava che 100.000 iracheni erano morti in seguito all’invasione e all’occupazione, con una frase oltraggiosa, anzi francamente razzista, Kerry aveva ripetuto che gli americani “hanno subito il 90% delle perdite in Iraq”. Messaggio inequivocabile: i morti iracheni non contano. Dando credito alla teoria altamente discutibile secondo cui gli americani sono incapaci di avere riguardo a qualunque vita che non sia la propria, la campagna di Kerry e i suoi sostenitori sono divenuti complici nella disumanizzazione degli iracheni, rafforzando l’idea che la vita di alcuni non sia così importante da rischiare di perdere voti. Più che l’elezione di un qualsiasi candidato, è questa logica moralmente insostenibile che consentire che crimini del genere possano susseguirsi senza freni.
L’effettivo risultato di tutte queste idee “strategiche” è stato che al danno hanno aggiunto anche la beffa: non hanno consentito a Kerry di essere eletto e hanno trasmesso a chi, invece, lo è stato, il chiaro messaggio che non avrebbe pagato alcun prezzo politico per i crimini di guerra commessi. È questo il vero regalo di Kerry per
Bush: non tanto la presidenza, quanto l’immunità. La dimostrazione migliore è, forse, nell’uomo Marlboro di Falluja e nei dibattiti surreali che lo hanno coinvolto. La vera immunità genera una specie di delirante decadenza, e la sua faccia è questa: una nazione che si scalda con il fumo, mentre l’Iraq brucia.
Fonte: Kerry and the Gift of Impunity
Traduzione di Tiziana la Cecilia per Nuovi Mondi Media
Il 2 novembre a Milano si potrà “votare” per il presidente USA. I
cittadini milanesi potranno recarsi al seggio elettorale organizzato
da socialpress e O’artoteca.
L’amministrazione Bush ha dichiarato di voler esportare la
democrazia
in tutto il mondo. Vogliamo prendere sul serio quest’affermazione:
d’altra parte la scelta del presidente dell’unica superpotenza
mondiale ci riguarda tutti Ecco perché il 2 e il 3 novembre 2004
invitiamo la comunità mondiale a votare, in tutti i paesi, per
eleggere il presidente degli Usa.
Dieci macchine elettorali Votomatic, di quelle usate nelle elezioni
presidenziali in Florida nel 2000, con lo strascico di polemiche che
ne seguì, sono state portate in Europa dall’artista newyorkese Michael
Rakowitz, e saranno installate a Innsbruck, Lubiana, Milano e altre
città. I cittadini europei che lo desiderano potranno perciò votare
per il presidente Usa in contemporanea con i cittadini statunitensi.
A Milano il seggio elettorale è stato installato presso la galleria
O’artoteca, in Via Pastrengo 12. Il seggio verrà aperto martedì 2
novembre alle ore 14, e le operazioni di voto si chiuderanno alle ore 3 del 3 novembre.
Durante le operazioni di voto collegamenti con le altre città,
proiezioni e installazioni video e musicali.
Ore 19: aperitivo elettorale.
Per informazioni:
Socialpress tel. 348 8125178 info@socialpress.it
www.socialpress.it
O’artoteca tel. 02 66823357
o.artoteca@uovodicolombo.com
Cara redazione del sito,
questo articolo mi piace e ve la propongo perchè è la storia di un uomo che senza grandi atti di eroismo, con piccole azioni quotidiane, con le sue preziose relazioni di tutti i giorni e grazie all’amore verso una donna, cerca di cambiare il suo mondo in una situazione difficile come quella irakena.
Umberto Varischio
Il volto dell’altra America Da scudo umano a coltivatore, il percorso compiuto da Martin Edwards attraverso la guerra portata dai suoi compatrioti nel paese mediorientale. Con una inattesa conversione all’Islam e un matrimonio
Come un pacifista americano, sua moglie irachena e alcuni loro amici hanno vissuto la guerra e l’occupazione dell’Iraq; e perché adesso si trovano ancora lì, dando una mano come possono.
di Marinella Correggia
Quacchero della California, capelli argentei e occhi azzurri, ex agricoltore, giornalista e altro ancora, sempre ornato di spilla con la scritta «Create a nonviolent peace force», Martin era il più pratico e organizzato fra i trenta pacifisti dell’Ipt (Iraq Peace Team) che vivevano a Baghdad nelle settimane dei bombardamenti pre-occupazione, fra il marzo e l’aprile 2003. Americani, inglesi, coreani, canadesi, australiani, un’italiana. La più giovane di tutti era Un-Ha, gentile ragazza che a Seoul aveva rimandato il matrimonio pur di «stare con gli iracheni contro la guerra». La sua stanza era ingombra di cibo coreano impacchettato, portato chissà come via terra da Amman, e diventò meta di pellegrinaggio quando nell’hotel Al Fanar il menù cominciò a limitarsi al pollo e per i vegetariani rimanevano solo pane, marmellata di datteri e qualche cetriolo che sarebbe stato molto costoso se non l’avesse regalato di straforo Abu Ali, il factotum dal grembiule grigio.
Negozi e mercati aperti
Quando nell’hotel divennero più forti le voci sulla possibilità di un lungo assedio a Baghdad, Martin ebbe l’idea: si prese qualche ora di pausa dalle dolorose visite collettive agli ospedali e ai bombing sites, dove il gruppo andava a constatare per future denunce i misfatti della «coalizione dei volonterosi» (allora pensavamo che a conflitto finito tutto sarebbe stato sepolto dall’oblio, come dopo la prima guerra del Golfo, con quegli innumerevoli morti civili e militari iracheni sepolti vivi nelle trincee). Il quacchero trovò negozi e mercati aperti nella città immobile. Vi comprò melanzane, patate, cipolle, olio, lenticchie, riso, datteri e una pentola. Da allora cominciò a preparare cene collettive al lume di candela (il generatore dava luce solo al pianterreno) nella sua stanza, cui aveva dato un look da sopravvivenza bellica – la rete messa in verticale a proteggere da eventuali vetri infranti il materasso sul pavimento.
Martin era il più assiduo alla centrale di potabilizzazione di Al Mansour che gli attivisti dell’Ipt, pur non essendo scudi umani, avevano deciso di presidiare con turni diurni e notturni in omaggio alla convenzione di Ginevra che proibisce di centrare obiettivi civili vitali (nel 1991 erano stati rasi al suolo deliberatamente). Surreali quelle serate all’impianto, il tramonto che tutto intorno si confondeva con i fumi antiaerei e i funghi di bombe sganciate sugli iracheni da invisibili aerei; si cenava in picnic sull’erba intorno alle vasche dell’acqua, controllate dall’ingegnera Leila, foulard e aria stanca, e non mancavano la fontanella per bere, diversi gatti randagi e le provviste procurate da Martin, fra cui vera Nutella che causò qualche senso di colpa).
Il 9 aprile, quando all’improvviso si materializzano i carri armati americani, immobili e puntuti come scorpioni in attesa, Martin è il primo a decidere che con quelli, con i soldati, si deve parlare. Gli altri dell’Ipt sentivano di detestarlo leggermente quando diceva: «Adesso faccio public relations con i soldati». Ma si trattava di intendersi: public relations per un quacchero vuol dire cercare di capire e spiegare.
In quei giorni molti dei pacifisti partono; chi ha finito da un pezzo le ferie, chi i soldi, chi non sa davvero più cosa fare lì; e l’anima ispiratrice dell’Ipt, Kathy Kelly, va incontro al processo politico che le costerà oltre quattro mesi di carcere negli Stati uniti. Ma Martin vuol rimanere, e può farlo; per vivere gli basta pochissimo e ha qualcosa da parte che si farà mandare. Nel marasma generale restano anche due coreani, Un-ha e Song-Ji, la prima a far volontariato in un orfanotrofio statale senza più stato, dove per un mese paga il personale, aiutata a sua volta da un tassista iracheno che la affida a sua sorella vedova, cibo e ospitalità gratis. Il secondo coreano rimugina l’idea di un centro per la pace ma nel frattempo paga un camioncino per raccogliere i rifiuti nel fatiscente quartiere «New Saddam» (come si chiamerà adesso?).
Ben presto Martin prende dimora in un ospedale privato, aiutando come elogista, per gli acquisti e simili. Poche settimane dopo, di passaggio all’hotel Al Fanar, confida agli amici rimasti di essersi innamorato di una ragazza irachena: Amal («speranza»), una delle tante ingegnere civili di buona famiglia ora disoccupate. Lei trentacinquenne, lui sessantenne. Ma il problema è un altro: per sposarsi all’islamica, come lei esige perché è molto religiosa, lui deve diventare musulmano. E’ incerto… Poi scompare nuovamente nel vortice di Baghdad. E gli ultimi amici stranieri partono.
Quasi un anno dopo, in una lista di discussione, appare il messaggio di un Martin Edwards che dagli Usa scrive: «Sono tornato a Baghdad con mia moglie Amal e vi potrò dare una mano». E’ proprio lui? Certo: da Baghdad risponde che sì, si sono sposati con rito musulmano, lui studia l’arabo, va a pregare in moschea – che differenza fa, Dio è sempre Dio – e là ha molti amici, certo deliziati dall’idea di un americano convertito e antioccupazione. Nella sua «vita precedente», Martin aveva anche coltivato soia; così qualcuno l’ha messo in contatto con Plenty, una comunità-associazione statunitense che appoggia progetti nutrizionali, ora anche in Iraq.
I contatti con i pacifisti di casa, Martin li tiene attraverso un gruppo Yahoo e con articoli per giornali alternativi. Quanto ai connazionali occupanti… Un giorno di maggio Martin si trova a passare davanti al futuribile monumento ai martiri della guerra contro l’Iran. La polizia irachena che lo presidia – la zona è ora una specie di base militare – è ben disposta verso questo «giornalista americano musulmano», ma il militare statunitense lo manda via. Martin insiste: «E’ un monumento iracheno, vorrei fotografarlo». Risposta: «Questo adesso è il nostro monumento. Fila».
Nella tragedia di laggiù, Martin vive «da iracheno», molto più di tutti gli stranieri presenti, militari, funzionari occupanti, contractors, giornalisti, cooperanti di ong. Vive con Amal in un appartamentino, attorniato dai parenti di lei. La luce va e viene; per avere un po’ di refrigerio con ventilatori a pale e soprattutto per far funzionare il computer ha comprato un piccolo generatore. Anche l’acqua va e viene, ma ci sono i cassoni per accumularla.
Bere l’acqua dei canali
Invece, nelle campagne dov’è andato per la sua soia, Martin ha visto i contadini bere l’acqua dei canali di irrigazione. I contadini sono quelli che Plenty ha convinto, con un contributo, a riavviare in Iraq la coltivazione di soia, non geneticamente modificata; ma non più per gli animali, bensì per la diretta alimentazione umana. I semi provengono dal Centro di ricerca agricola di Dohuk e da una banca di semi biologici americana. Partner importanti del progetto sono l’Istituto iracheno per la nutrizione e la facoltà di agraria di Baghdad, dove il professor Sahouki decenni fa aveva sviluppato una proposta relativa al «latte» di soia; ma al regime non piaceva. Adesso, a coltivarla si è detto disponibile anche un allevatore di polli un po’ a disagio (e poi con quel caldo son sempre malati).
Intanto Martin ha ritrovato e coinvolto il giovane Salam, conosciuto un anno prima mentre l’iracheno organizzava con altri studenti il giornale Al Muhajaa.
Con semplici macchinari – costruibili anche in Iraq – dai fagioli di soia si ricavano latte, germogli, formaggio, crocchette, farina, dolcini, biscotti proteici. Ma… la soia: non sarà forse percepita come un’americanata in Iraq, l’ennesima? Plenty si è posta il problema e ha organizzato alcuni seminari preparatori con assaggi, per genitori, bambini, docenti universitari, lavoratori sociali, piccoli imprenditori, cuochi d’ospedale; tutti hanno espresso interesse e trovato che quegli alimenti sono anche adattabili ai gusti locali. Del resto il più proteico e bilanciato e versatile di tutti i legumi è ben più asiatico che yankee.
Agli inizi di aprile Martin era in giro per il nord, mentre i militari del suo paese martirizzavano Falluja. Peccato, perché in quei primi giorni, gli iracheni di Baghdad si affannano in moschee e chiese e ogni luogo a raccogliere aiuti per portarli a Falluja, sperando di evacuare feriti. Ma hanno bisogno di qualche straniero che accompagni i loro autobus, a mo’ di lasciapassare, per non essere rispediti indietro dai militari americani. Bussano a tutte le porte delle ong internazionali che hanno in loco dei cooperanti.
Ong asserragliate
Ma quelli non cooperano: asserragliati nelle zone più tranquille di Baghdad, non accettano di correre il rischio. (Dopo qualche giorno, come tutta Baghdad, manderanno a Falluja con aiuti il loro personale iracheno; ma hanno intanto perso un’ottima occasione per rendersi utili, in un paese per il resto così ricco di competenze umane che quelle straniere non servono proprio).
Disperati, gli iracheni bussano alla porta della giovane inglese Jo Wildings. Lei è in Iraq da mesi, fa spettacoli da circo (senza animali) con i bambini, come già in Bosnia, Serbia, Afghanistan. Jo si fa una semplice domanda – «chi ci va sennò?». E per risposta, li accompagna lei i bus iracheni a Falluja, sventolando il passaporto anglosassone. Più tardi, non si potrà più fare. Riescono a tornare vivi dall’inferno riportandone pazienti gravi. L’avrebbe fatto anche Martin, fosse stato in zona; e l’avrebbe fatto Song-Ji, il coreano, che si autodefinisce «primo pacifista a tempo pieno della Corea» (è sostenuto da un forte gruppo di appoggio laggiù). E’ tornato in Iraq da poche settimane e con Martin vuole costruire a Baghdad il primo «Centro di educazione alla pace».
Tradotte dal bengali, sono uscite per Einaudi sotto il titolo La preda le storie della scrittrice indiana scelte da Anna Nadotti. In questi racconti, dove nulla blandisce il lettore, i drammi del mondo rurale brutalizzato dal governo
Silvia Albertazzi
Su The Hindu del 22 giugno si poteva leggere di una nuova emergenza agraria in India, che ha spinto al suicidio più di trecento contadini nelle ultime sei settimane nell’Andhra Pradesh, dopo aver già causato un numero imprecisato di morti per stenti nel corso di questo 2004. Fame e suicidi sono comunque all’ordine del giorno da lungo tempo tra la popolazione rurale indiana, e non sono da ascriversi tanto a occorrenze meteorologiche avverse, come la siccità, quanto a una cattiva politica agraria, che si può far risalire addirittura ai giorni dell’Indipendenza, nel 1947. Di tutto ciò, la letteratura indoinglese che troviamo in traduzione non parla, così come non parlano di queste tragedie i nostri quotidiani (ma raramente ne fanno cenno gli stessi giornali indiani). È però appena uscita da noi una raccolta di storie – tradotte, è bene rilevarlo, dal bengali e non dall’inglese – in cui questa India non esotica, non misteriosa, non frequentata dagli agenti e dai critici letterari occidentali, occupa il primo piano. La preda – titolo sotto cui sono riuniti sette racconti scelti da Anna Nadotti all’interno dei quarantadue volumi scritti da Mahasweta Devi nell’arco di mezzo secolo – è un libro che introduce il lettore in questo dissestato panorama rurale indiano, alle radici della tragica situazione che ha spinto e continua a spingere tanti contadini a opporre l’estrema protesta del suicidio a una società che non si è mai curata di loro.
Racconti non certo scritti “per far piacere ai lettori” (è la stessa autrice a dichiararlo) le storie di Devi colpiscono come un pugno allo stomaco la cattiva coscienza del primo mondo. “Dopo aver letto i miei lavori, il lettore dovrebbe affrontare la verità dei fatti, vergognarsi della vera faccia dell’India” – afferma Mahasweta Devi in un’intervista citata nella postfazione del volume. E aggiunge: “La mia esperienza mi fa essere perpetuamente arrabbiata, ci sono sfruttatori e forme di sfruttamento imperdonabili […] E dal momento che io credo nella collera, in una violenza giustificata, strappo la maschera all’India progettata dal governo, per denudarne la brutalità.” Racconti di rabbia, dunque, e di violenza, che riflettono l’impegno civile che ha caratterizzato tutte le battaglie combattute nell’arco di un’ormai lunga esistenza (è nata nel 1926) dall’attivista Devi, da sempre impegnata nella lotta contro ogni sorta di ingiustizia, a cominciare dai privilegi e dagli abusi castali, dalla sopraffazione arrogante su cui si regge il sistema feudale agrario.
Cresciuta nella borghesia privilegiata – padre intellettuale, madre assistente sociale – educata, come Tagore, Satyajit Ray e Amartya Sen, a Shantiniketan, prestigiosa scuola di utopiche convinzioni, laureata in letteratura inglese a Calcutta, Devi sceglie di scrivere in bengali tanto i suoi racconti e romanzi quanto i saggi e le opere teatrali, in cui sostiene con veemenza e infaticabile energia – la stessa che da sempre riversa nella propria attività sociale – i diritti degli aborigeni indiani (è fondatrice dell’Aborigenal United Association).
Visioni di un mondo tribale, senza edulcorazioni, le storie di Mahasweta Devi non chiedono la complicità del lettore, né la sua lode. Non vogliono stupirlo né blandirlo: gli domandano semmai una forte e lucida indignazione. Due forme di ignoranza si fronteggiano: quella rassegnata di un popolo spogliato persino della propria dignità e quella, violenta e superba, di chi detiene qualsivoglia forma di potere, dal padrone terriero al rappresentante dell’ordine, dal militare al latifondista. Ma soprattutto, Devi ci regala grandi figure femminili: donne del popolo non remissive, donne che resistono – come la Draupadi del primo racconto – all’uomo e al potere, e nel momento più crudele, quello dello stupro, con la loro stessa dignità feriscono l’aggressore; o figure come la Kunti dell’ultima storia, atemporale eppure viva creatura del mito.
Scrittrice da non confondersi con le indiane di lingua inglese le cui opere narrative pullulano sugli scaffali delle nostre librerie, Mahasweta Devi certo deluderà chi è alla ricerca dell’ultima Monica Ali, di un’altra Jumpa Lahiri o della prossima imitatrice di Arundathi Roy. Se le sue storie descrivono un mondo penosamente diverso da quello delle giovani scrittrici osannate dai recensori occidentali, e se il tessuto narrativo che le sostanzia, pur nel suo rimandare alla mitologia e al racconto popolare, è intrecciato di dati documentari, di fatti, di aspre denunce, la sua lingua non è solo “altra” dalla loro, in quanto lontana dall’inglese che esse adottano. È soprattutto – come sottolinea Anna Nadotti nella postfazione – un idioma in cui “lingue e dialetti, mescolandosi, assolvono allo stesso compito che i colori assolvono sulla tela”: raccontano, descrivono, rendono l’inesprimibile, danno voce (nel caso delle contaminazioni inglesi presenti nei testi) alla violenza del potere. Peccato che, nella traduzione, molto di questo vada perduto: non certo per difetto dell’ottima versione di Babli Moitra Saraf e Federica Oddera, ma per l’impossibilità di trasferire in un altro linguaggio la complessa intelaiatura linguistica del testo di Mahasweta Devi, dovendo operare, per forza di cose, riduttivamente. Così, se anche le traduttrici, invece che anteporre la leggibilità alla filologia, avessero agito in senso opposto, muovendo verso una resa filologica puntigliosa del testo, i risultati non sarebbero stati più in linea col dettato originario, né la fruizione dell’opera sarebbe risultata più agevole. Del resto, la scelta della leggibilità non si risolve, nel lavoro di Saraf e Oddera, in un appiattimento del racconto né in una serie di concessioni alla pigrizia del lettore occidentale, pronto a incasellare entro un immaginario orientalista (nel senso dato da Edward Said al termine) gli elementi della narrazione. Al contrario, nel testo di Devi l’attenzione è volta a sottolineare modi, situazioni e temi della narrativa della povertà e dello sfruttamento, comuni a ogni latitudine.
In questo senso, la traduzione di Mahasweta Devi assume per noi oggi un’enorme importanza. Non si tratta soltanto di prendere coscienza, attraverso i suoi racconti, delle miserie dei fuori casta indiani e neppure di comprendere la realtà tragica delle aree rurali del subcontinente. Se è vero che la narrativa di Devi riesce laddove hanno fallito i media, ovvero nel porre le grandi masse alfabetizzate a confronto con i mali della società tribale indiana, è ancor più certo che con le sue parole l’anziana scrittrice assolve in maniera emblematica a quello che, secondo Édouard Glissant, il grande scrittore e pensatore martinicano, è il ruolo fondamentale dell’artista: attirare l’attenzione su questioni che nessuno osa porre e verità che nessuno osa formulare.
ultima intervista a Tom Benettollo di Antonella Marrone
Giovedì scorso, al telefono. «Ciao Tom, devo fare un articolo piuttosto ampio sul movimento per la pace. Che mi dici? Come ti sembra che vadano le cose?». «Auguri!!», è la sua prima risposta. «Bene, comunque. Siamo di fronte ad un fenomeno veramente inarrestabile. Il movimento oggi è forte, autogovernato e in un certo senso irrapresentabile…»
In che senso?
«Nel senso della realpolitik, quella che vorrebbe farci fuori, negarci. Rappresentiamo un ostacolo al libro arbitrio della realpolitk, capisci? Ci vivono come un soggetto politico ingombrante. Eppure siamo stati in grado di cambiare le dinamiche politiche degli ultimi venti anni, dal 1981 ad oggi abbiamo costruito una grande rete nazionale ed internazionale che è riuscita a portare dentro anche componenti importanti di quella politica “realista” oggi molto legate al movimento. Questo movimento ha insegnato, per quanto lo si voglia negare, il valore politico e la forza di una cultura delle “differenze”. Certo c’è chi sostiene ancora che, dal punto di vista politico, non esistiamo…».
Beh, non è un problema del movimento…
«No, è un problema loro, infatti. Se vogliono negare l’evidenza, negare la presenza di movimenti forti – parlo di quello per pace, ma anche quello sindacale, ad esempio – facciano pure. A noi interessa il confronto diretto con le questioni, al primo punto ci interessano risposte concrete. Il movimento per la pace non si pone il problema di trovare un gruppo dirigente, ma lavora in profondità, come del resto ha sempre fatto, perché la sua grande forza abbia un peso. Che cosa fare oggi? Dobbiamo cercare forme di organizzazione per dare alla pace la caratura di un progetto politico. La vertenza si preannuncia infinita. Nononstante i saldi ancoraggi che abbiamo costruito con la società e la politica. Nonostante i milioni scesi in piazza contro la guerra e contro un sistema che per vivere ha bisogno della guerra».
Sarà possibile far capire che la pace va oltre la «piazza» e oltre la «guerra»? Che è uno «stile di vita»?
«Possibile, non facile, forse. Ma secondo me siamo in presenza di una rivoluzione culturale permanente ormai. L’obiettivo c’è, ed è proprio questo. I tempi del movimento sono lunghi, direi “geologici”, ma nessuno può pensare di tornare indietro o di dare un giudizio negativo sulla base di una politica che vuole essere “reale” ma che è invece lontana dallo sviluppo “politico” della società».
L’informazione dà una bella mano a questa politica «realista»…
«L’informazione la sostiene senza dubbio e senza dubbi. Non approfondisce, non va mai oltre il già noto. Eppoi tende, come la realpolitik, a negare la “piazza”. Dice «la politica estera di un paese non la può fare la piazza». Ma dietro la piazza ci sono persone, teste, passioni. Guarda Melfi… dietro quella vittoria c’è la piazza, e c’è un signore che non va a caccia di telecamere o protagonismo. Si chiama Rinaldini. L’informazione non ne parla, non ne ha parlato. Ma ci sono donne e uomini che stanno dietro alla piazza. E che fanno politica cercando il contatto con i problemi. Dovrebbero farlo anche i giornalisti, sai. Per fare informazione…».
Due sopravvissute alla tragedia di Bhopal, messe per la prima volta a confronto col mondo fuori di casa, hanno imparato molto. E sono diventate due vere leader nazionali.
La marcia su New Delhi organizzata da Rashida e Champa Devi (750 chilometri a piedi) è stata ripetuta due volte dalle donne di Bhopal, tutte e due le volte con successo. E il lavoro comune delle due signore, una hindu e l’altra mussulmana, ha evitato gravi disordini nel periodo più drammatico degli scontri fra comunità religiose in India.
di Marina Forti
Per Rashida Bee, la notte in cui esplose lo stabilimento della Union Carbide segna uno spartiacque personale: «Prima, non ero mai uscita di casa». Viveva a Jaiprakash Nagar, una grande borgata operaia che sta proprio di fronte ai cancelli della fabbrica, e suo marito faceva il sarto. Quella notte però nello stabilimento qualcosa andò storto, i macchinari si surriscaldarono e una cisterna esplose, lasciando uscire 40 tonnellate di un gas letale: isocianato di metile con cianuro idrogeno, mono metil-ammine e altre sostanze, ma questo si seppe solo parecchi giorni più tardi. Quella notte tutti furono presi di sorpresa. Portata dal vento, la nuvola di gas investì in pieno proprio Jaiprakash Nagar e gli altri poverissimi quartieri che costeggiano la fabbrica a nord: mezzo milione di persone la respirarono. Fu uno dei peggiori incidenti industriali della storia umana, migliaia di persone morirono soffocate quella stessa notte: 1.600, disse il governo – forse 6.000, sostengono le organizzazioni che da allora si occupano delle vittime e dei sopravvissuti. Molti di più sono morti in modo lento nei mesi e anni seguenti, di tumore ai polmoni e di altre malattie: il bilancio sfiora ormai le 20mila vittime. Ormai il nome di Bhopal, capitale dello stato del Madhya Pradesh, India centrale, sta all’industria chimica come quello di Hiroshima sta all’olocausto atomico.
Rashida Bee è sopravvissuta a quella notte, sia pure con problemi respiratori e alla vista, ma la gas tragedy ha lasciato suo marito incapace di lavorare. «D’improvviso, non avevamo più un reddito. Tutti gli uomini della famiglia erano malati, nessuno guadagnava». Sei dei suoi parenti sono in seguito morti di tumori provocati dal gas. Dunque, a lei non è rimasta scelta: ha dovuto cercare qualcosa da fare per vivere. «Così sono uscita. Avevo saputo che c’era qualche possibilità nei programmi di riabilitazione del governo». Già, i programmi di «riabilitazione economica, sociale e ambientale»: programmi di formazione professionale per qualche centinaio di persone dei quartieri investiti dalla tragedia – per lo più donne rimaste sole a mandare avanti la famiglia.
Quaderni per vivere
Rashida Bee, che aveva allora 28 anni, si è ritrovata con un centinaio di donne in un corso di formazione-lavoro di cartoleria. «Avevano preso un centinaio di donne, metà hindu e metà musulmane. Lavoravamo, il governo commercializzava i nostri quaderni, avevamo un piccolo stipendio», racconta. «Finché il governo ha detto che ormai potevamo cercarci un lavoro. Ma chi ci avrebbe dato lavoro? D’altra parte noi continuavamo a produrre. Insomma, abbiamo protestato».
Ormai era il 1986 e Rashida Bee si è trovata a organizzare un sindacato di lavoratrici.
E’ allora che Rashida ha incontrato Champa Devi Shukla, come lei operaia alla fabbrica di cartoleria. Nella gas tragedy Champa Devi aveva perso il marito e anche la sua stessa salute. Insieme – una musulmana, l’altra hindu – sono riuscite a organizzare le loro colleghe, donne di famiglie poverissime, spesso analfabete (come Rashida Bee), sempre vissute ai margini della vita pubblica: oggi Rashida Bee e Champa Devi Shukla, 48 anni e 52 rispettivamente, sono la presidente e la segretaria del Bhopal Gas Pedit Mahila Stationery Karmchari Sangh, nome complicato che significa «Unione delle lavoratrici di cartoleria vittime del gas». Le ho incontrate nella sede che il loro sindacato condivide con altre organizzazioni popolari, un minuscolo bungalow in una zona popolare di Bhopal, una domenica pomeriggio di gennaio: stavano preparando i cartelli e provando le canzoni che avrebbero cantato al Social forum mondiale di Mumbai, dove si preparavano ad andare con una numerosa delegazione. Tramite (e interprete) dell’incontro è Satinath Sarangi, attivista e fondatore della Sambhavna Clinic – una straordinaria esperienza di medicina popolare nata all’ombra della Union Carbide (vedi il manifesto del 3 giugno).
Rashida Bee racconta una storia di battaglie tenaci. La prima battaglia, quella per il posto di lavoro e per un vero salario, è culminata nel 1989 in una marcia a New Delhi, la capitale dell’Unione indiana, distante 750 chilometri da Bhopal. Ci sono andate tutte le cento operaie della cartoleria, con 25 bambini; hanno presentato al primo ministro la loro piattaforma – salario, condizioni di lavoro. Sono tornate vittoriose, il posto di lavoro era assicurato. Certo, la storia non era finita lì. Rashida Bee parla di una causa vinta presso il tribunale del lavoro di Bhopal nel settembre 2002. Sorride: spiega che fino a prima della tragedia molte di loro non erano mai andate in un ufficio pubblico, non sapevano neppure dove stesse il palazzo del governo o la residenza del chief minister, il capo del governo del Madhya Pradesh – non si erano mai spinte nella graziosa zona sulla collina che domina i due laghetti di Bhopal, tra giardini e residenze ufficiali. «Gli uomini dopo un paio d’anni hanno rinunciato a battagliare. Loro no. Loro sono ormai quelle che gestiscono gli affari della famiglia, guadagnano, vanno a visitare cliniche, tribunali, uffici», nota con ammirazione Satinath Sarangi.
Ritorno a New Delhi
Il punto è che il lavoro e il salario erano solo parte del problema. Nel 2002 le «donne della cartoleria» sono tornate a New Delhi, dove hanno organizzato uno sciopero della fame durato 19 giorni, questa volta con una piattaforma più ampia. Chiedevano l’estradizione in India di Warren Anderson, amministratore delegato della Union Carbide all’epoca dela tragedia, perché fosse processato a Bhopal (la realtà è che il governo indiano, parte civile in rappresentanza delle vittime, aveva accettato nel 1989 un patteggiamento extragiudiziario con l’azienda chimica americana, che ha versato 470 milioni di dollari di risarcimento e chiuso così la sua responsabilità).
Chiedevano anche e soprattutto un monitoraggio e cure sanitarie a lungo termine per i sopravvissuti, che continuano a soffrire di tumori, tubercolosi, febbri, difetti riproduttivi. Sostegno economico e sociale per i sopravvissuti che non sono più in grado di lavorare: perché a Bhopal le vittime ufficialmente riconosciute hanno ricevuto (parecchi anni dopo l’incidente, tra il `95 e il `96) circa 15mila rupie, suppergiù 400 dollari di allora: ma è stato un pagamento una tantum. Chiedevano infine la bonifica completa del sito dello stabilimento: nella carcassa arrugginita della vecchia Union Carbide, restano tonnellate di residui tossici che filtrano nel terreno e nelle falde idriche.
In altri termini, il sindacato delle «sopravvissute del gas» ha posto dei problemi che riguardano il bene comune di tutta la comunità – è per questo che il mese scorso Rashida Bee e Champa Devi hanno ricevuto il premio Goldman, il riconoscimento che la fondazione Goldman di San Francisco dà ogni anno a attivisti e leader di battaglie ambientali e sociali in tutto il mondo.
Raccontano tutto questo, Rashida Bee e Champa Devi, mentre ritagliano degli strani poncho neri su cui sono disegnati polmoni gialli – li porteranno in corteo a Mumbai. Ci spiegano anche che spesso si sono trovate a essere un punto di riferimento per la loro comunità, soprattutto quando in India sono cresciute tensioni tra comunità religiose. Ricordano i riots di Bombay (era il `93), quando sembrava che anche le povere borgate operaie e gli slum di Bhopal dovessero infiammarsi: allora loro, una hindu e una musulmana, sono uscite insieme tenendosi per mano, e con loro le altre lavoratrici, e hanno girato per il quartiere facendo appelli alla concordia. E quella volta il pericolo è stato sventato.
«Cosa ho perso con il purdah»
Rashida Bee insiste. «Prima non sapevo nulla su come i problemi ambientali rovinano la salute delle donne e anche dei bambini non ancora nati. Ora so queste cose. E siamo noi che andiamo in giro a dirlo alle altre». Soprattutto, dice, «quando sono stata costretta a uscire di casa, dopo la tragedia, ho capito cosa avevo perso a stare in purdah», il regime di segregazione osservato dalle famiglie musulmane più tradizionali, con le donne sempre chiuse in casa. «Ho capito che le donne possono fare cose importanti fuori casa. Quando noi parliamo e facciamo sentire la nostra voce, anche l’impensabile diventa vero. Così ora quando discuto ho un argomento pratico contro la tradizione di tenere le donne chiuse in casa».
Cara Redazione,
l’aspetto più interessante dell’esperienza descritta in questo articolo mi sembra l’attuazione nella realtà di un progetto di democrazia “partecipativa” in una cittadina di 14.000 abitanti.
Certo i meccanismi della delega e della rappresentanza restano, come non sparisce di certo il ruolo della Politica; ma questi e altri limiti (parlano solo uomini) non mettono in dubbio, per me, l’interesse per questa tentativo di pratica politica. Ed è questo che mi piace e che vi propongo.
Umberto Varischio
Vittorio Longhi
[…]
Mare blu
Oggi, Grottammare, 14 mila abitanti, non è solo una località turistica premiata dalla bandiera blu per il mare pulito e arredata da giganteschi e profumati oleandri, ma è una città simbolo di democrazia partecipativa, tanto che molti continuano a definirla «la Porto Alegre italiana». Senza dubbio si tratta del migliore esempio realizzato nel nostro paese di quel nuovo corso della politica che supera la crisi della democrazia rappresentativa per dare spazio alla reale e diretta partecipazione dei cittadini alla vita e alla gestione della cosa pubblica.
[…]
Liberi dalla Dc
[…] Dopo cinquant’anni di dominio incontrastato della Democrazia cristiana, infatti, in un territorio che ha sempre vissuto di turismo, senza grandi imprese e perciò senza classe operaia, c’è voluto un lungo e lento lavoro di preparazione per introdurre alcuni principi basilari di democrazia partecipativa. Nei primi anni `80, in pieno craxismo, un gruppo di ragazzi fonda la sede locale di Democrazia proletaria e inizia una serie di lotte, soprattutto ambientaliste, sensibilizzando e spingendo la popolazione alla partecipazione attiva. Nel 1993, dopo il crollo dei grandi partiti con gli scandali di Tangentopoli e dopo un’amministrazione di destra commissariata in pochi mesi, gli attivisti della sinistra radicale danno vita al movimento «Solidarietà e partecipazione» e si presentano con il Pds alle amministrative del 1994. La lista vince e a capo mette Massimo Rossi, insegnante e anima del gruppo locale Dp, che non mancherà di andare, e successivamente intervenire, al Forum sociale di Porto Alegre. Attraverso un apposito assessorato alla partecipazione, il comune avvia un progetto politico fatto di bilanci e di scelte urbanistiche sottoposti costantemente alla verifica democratica, con assemblee di quartiere e comitati spontanei di cittadini. Solidarietà e partecipazione è un movimento aperto, si può iscrivere chiunque e ogni settimana, di mercoledì (ancora oggi), ci si riunisce per discutere alla pari, cittadini e amministratori, «lasciando la casacca politica fuori della porta» ed elaborando ogni volta una sintesi delle discussioni e delle proposte che poi verranno presentate al consiglio comunale. Un movimento cittadino parallelo a quello politico che vuole contrastare la speculazione edilizia per riportare equilibrio ambientale e vivibilità, aumentare la spesa sociale, divaricare nettamente le aliquote comunali minime e massime per una maggiore equità.
Fuori dal coro
Alle elezioni del novembre `98, dopo la rottura tra Rifondazione e il governo Prodi, la lista di Solidarietà e partecipazione, sempre guidata da Rossi, si separa dal centro sinistra terrorizzato da un sistema di governo che non prevede più deleghe assolute, ma il coinvolgimento costante del movimento cittadino. Con la copertura politica di Rifondazione, Rossi si riconferma sindaco con il 62 per cento delle preferenze. Per la prima volta, tredici consiglieri comunali (su venti) sono comunisti, ambientalisti, indipendenti e i grottesi sono ormai consapevoli che la partecipazione non è solo uno slogan propagandistico, ma una pratica possibile. Il comune studia e realizza il nuovo piano regolatore in due anni, passando per una serie di assemblee periodiche di quartiere in cui gli amministratori vanno a chiedere direttamente ai residenti come vorrebbero che si migliorasse l’area in cui vivono. Le decisioni non vengono prese a maggioranza ma per sintesi delle richieste e delle esigenze manifestate di volta in volta, dagli spazi verdi ai parcheggi, dalle strade ai centri sociali. I poteri legati alla speculazione immobiliare, che per oltre cinquant’anni ha rovinato la città con massicce dosi di cemento, non trovano più spazio nel nuovo sistema e lentamente scompaiono dalla scena politica.
Viene bocciato il «Piano regalatore» del 1975, enormemente sovradimensionato e basato sulla costruzione di un porto turistico, di un parco acquatico sulla collina, di alberghi-alveari e di centri commerciali. Il comune prosegue nelle scelte di sviluppo sostenibile: dal vecchio Piano taglia circa un milione di metri cubi potenzialmente edificabili e salva dai palazzinari oltre 20 ettari di terreno sul mare destinati ad alberghi per restituirli ai vivai che da oltre un secolo coltivano – e oggi esportano – piante di oleandro, pitosforo e alloro.
Qualità della vita
I lavori pubblici ricongiungono e attrezzano zone periferiche della città lasciate per anni senza servizi, recuperando il patrimonio edilizio esistente, oltre che spazi verdi e spazi dedicati alla socialità. Sei chilometri di pista ciclabile consentono di attraversare tutto il lungomare e di raggiungere la cittadina a nord, Cupra marittima, in una passeggiata circondata solo da mare e verde. Non meraviglia perciò che oggi i dissensi siano pochi, perché «l’amministrazione – dicono tutti – lavora bene», anche se in centro, rigorosamente chiuso al traffico, qualche commerciante si lamenta della mancanza di quel turismo di massa che, secondo alcuni, darebbe più ricchezza. «Magari avessimo il porto turistico e gli alberghi – dice un negoziante – , quelli porterebbero molta più gente e soldi, ma la sinistra è contraria per principio». Nella gestione della città, però, «non ci sono rigidità ideologiche – risponde Luigi Merli, ex assessore ai lavori pubblici e da un anno sindaco di Solidarietà e partecipazione -, c’è invece un approccio moderno, perché crediamo nella qualità di un’offerta turistica basata sul piccolo, sulla qualità della vita, sulla solidarietà e sulla socialità». Una ricerca di modernità che è visibile anche in altre operazioni: «Con la diminuzione di fondi dal governo, la maggior parte degli enti locali italiani continua a privatizzare i servizi – spiega il sindaco – mentre noi abbiamo aperto la nostra prima farmacia comunale e abbiamo ripreso in gestione il depuratore, producendo ogni anno utili per le casse municipali, a dimostrazione che il pubblico funziona e può essere più efficiente del privato». La giunta, inoltre, ha differenziato le aliquote dell’Ici, agevolando le prime case e spingendo invece i proprietari di più abitazioni e locali ad affittare.
Locale e globale
Se la spesa per gli stipendi degli amministratori è stata volutamente dimezzata, poi, la spesa sociale è triplicata in sette anni per dare nuovi spazi ai più giovani (due ludoteche, un teatro e diversi parchi) e agli anziani (tre nuovi centri sociali), per dare assistenza domiciliare e assistenza linguistica agli immigrati. Ma la «perla dell’Adriatico», come si legge nella pubblicità dell’ufficio turistico, brilla anche per alcune precise scelte di gemellaggio e iniziative di solidarietà internazionale. Dalla città brasiliana di Itiuba, dove ogni anno il comune manda artigiani in pensione a insegnare arti e mestieri, al centro culturale albanese di Argirokastro, dove i tecnici marchigiani lavorano al piano regolatore e al piano di recupero del centro storico basandosi sui principi di sviluppo sostenibile e rispetto ambientale. Non mancano i progetti di cooperazione e scambio con municipalità politicamente affini, dal Chiapas alla Palestina, altro segno che a Grottammare l’attenzione alle dinamiche locali si fonde con quella per le questioni e le problematiche globali. Tutti elementi, insomma, che continuano a fare della cittadina marchigiana un piccolo, prezioso laboratorio di quell’altro mondo possibile che tanto si teorizza nei movimenti e che ancora fa sperare nel poetico presagio di un «futuro iridescente».
Jonathan Shapira, pilota-obiettore: una mobilitazione internazionale contro il massacro dei palestinesi
Politica della paura:Il premier prova a convincere il pubblico che non abbiamo un partner con cui fare la pace e che quindi ci dobbiamo chiudere con un muro. Chissà che un domani non sia necessario anche un tetto, che ci isoli dall’alto
Michelangelo Cocco
«Non si può aspettare che i refusenik da 1000 diventino 10.000 e poi 100.000, perché intanto i palestinesi continuano ad essere ammazzati dall’esercito israeliano. Il nostro rifiuto non basta più: deve essere accompagnato da una forte mobilitazione internazionale contro quello che ormai è un regime di apartheid». Così Jonathan Shapira, l’ex capitano dell’aviazione israeliana che assieme ad altri piloti ed elicotteristi firmò la famosa lettera inviata lo scorso settembre al capo di stato maggiore israeliano. «Noi, piloti dell’aviazione – recitava la missiva – cresciuti nei valori del sionismo, del sacrificio e del servizio nei confronti dello Stato…» diciamo basta alle operazioni sui territori palestinesi. Abbiamo incontrato Jonathan giovedì sera al teatro Ambra Jovinelli di Roma, dove ha partecipato all’iniziativa «Israele-Palestina: il rifiuto di uccidere, il rifiuto di morire, promossa dall’Assopace e dall’europarlamentare Luisa Morgantini.
Nove mesi dopo il vostro clamoroso rifiuto, quali conseguenze pensi abbia prodotto la vostra presa di posizione?
Ha dato speranza alla gente, sia ai palestinesi, sia agli israeliani che credono nella pace e nella necessità di un accordo. Allo stesso tempo ha dato speranza anche a chi vive al di fuori di Israele, dimostrando che c’è la possibilità di costruire qualcosa di positivo invece di continuare a distruggersi a vicenda. Però, onestamente ti devo dire che oggi la vera speranza non è quella di convincere tutti i soldati israeliani a fare obiezione, perché ci vorrebbe un tempo infinito. La vera speranza è quella di creare una pressione di massa da parte della comunità internazionale e della comunità ebraica nel mondo sui leader del pianeta per costringere il governo israeliano a fermare i crimini di guerra che sta commettendo nei Territori.
Come è maturata la decisione di rifiutarti di servire nell’esercito?
Mi sentivo come schizofrenico, con due personalità. Sotto le armi ero un soldato, quando tornavo a casa invece partecipavo alle manifestazioni contro l’occupazione. Ora anche se la vita è più difficile – qualcuno mi guarda male, non ho più lo stipendio dell’esercito – mi sento una persona completa. Io non ho mai bombardato – facevo parte di un’unità di soccorso – ma mi sconvolgeva anche il dover trasportare le truppe a combattere nei Territori. Facevano delle cose orribili e io li conducevo lì, per me era inammissibile…quando ho capito che comunque ero parte di quell’esercito ho scelto la cosa giusta.
Quali sono state le conseguenze legali e sociali del tuo gesto?
La legge in Israele è dalla nostra parte: c’è una norma che vieta ai soldati di obbedire a un ordine illegale. Da un punto di vista del diritto nessuno può accusarci di aver commesso un crimine. Le conseguenze sociali sono state pesanti: c’è della gente che mi odia, altri mi considerano un traditore. Ma ho anche un mucchio di sostenitori, in ogni settore della società israeliana.
A che punto è il movimento dei refusenik?
È in crescita, ci sono diversi tipi di consapevolezza trai i giovani. Alcuni sono disposti ad andare in carcere anche per dare più forza alla loro lotta contro l’occupazione. Ci sono poi quelli che si fingono matti per evitare il servizio. Comunque la disaffezione per l’esercito è in forte aumento e il 46% dei giovani israeliani appoggia i refusenik.
Tuttavia con Sharon il movimento pacifista è più debole che mai…
All’inizio, anche noi, eravamo confusi per gli attacchi terroristici, gli uomini-bomba. Sharon ha convinto gli israeliani che la colpa di tutto ciò fosse solo palestinese. Questo ha chiuso i loro occhi, impedendogli di vedere che tutto ciò è iniziato molto prima, nel 1967, e anche negli anni degli accordi di Oslo, mentre parlavamo di pace sul terreno, nei Territori occupati, bombardavamo e costruivamo gli insediamenti. La gente è stata confusa.
Cosa ne pensano gli obiettori del piano di ritiro da Gaza?
Non credo a Sharon. Adesso il governo parla di un ritiro nel 2005…forse intendono andare via dalla Striscia nel 3005. Parlano di ritiro da Gaza ma entrano a Rafah e uccidono gente innocente. Quindi credo sia una manovra per evitare le critiche internazionali per i crimini di guerra che stiamo commettendo nei Territori.
Come mai in Israele si parla di «barriera di difesa», «piano di disimpegno» emai di pace?
È il frutto di una politica della paura. I politici provano a convincere il pubblico che non abbiamo un partner per la pace, per questo ci dobbiamo chiudere con un muro. E chissà che un domani non sia necessario anche un tetto, che ci protegga dall’alto. Il problema è che oggi non possiamo più aspettare. Pensa cosa significa essere sotto occupazione: non poter andare a scuola perché c’è un muro tra la tua casa e la scuola. Avresti la pazienza di aspettare che nascano altri Jonathan? O urleresti al mondo di fermare questa apartheid? Dobbiamo pensare ad abbattere al più presto questa apartheid.
L’ultima parte del tuo discorso ha commosso: la gente ti ha applaudito a lungo. Puoi ripeterla?
È arrivato il momento di smettere di usare il potere dei missili, dei proiettili e delle bombe e iniziare ad usare la parola «no», questa parola ha un potere enorme. Se un numero sempre maggiore di persone, non solo in Israele ma anche in Italia – il vostro governo ora sta facendo la guerra all’Iraq – impareranno ad usare la parola «no» forse potremo costruire un mondo migliore.
Regista, militante nei movimenti pacifisti, Keren Yedaya, autrice di «Or», rappresenta le nuove generazioni del cinema israeliano. Che metabolizzata la lezione dei più «grandi», guerra, occupazione, violenza la raccontano nella cifra segreta e implacabile del vissuto quotidiano
Cristina Piccino
Aconquistare la platea del festival di Cannes, nella serata finale, quella ragazza giovane, emozionata, praticamente sconosciuta ci ha messo un attimo. Quando salita sul palco per ritirare la Caméra d’or, con le lacrime agli occhi, ha ringraziato in nome della pace tra il suo paese, Israele, e la Palestina chiedendo a tutti di aiutare chi come lei nella pace ci crede e mette in gioco tutto per arrivarci. I tanti militanti israeliani che rischiano la galera se non la vita come suo padre o sua sorella, che ha solo diciannove anni, ha rifiutato di fare il servizio militare e ogni giorno aiuta i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Ma Keren Yedaya nei giorno precedenti aveva già colpito chi aveva visto il suo film. Perché Or – scoperto nella Semaine de la critique – è cinema emozionante, politico, che non rinuncia al respiro libero rifiutando per questo le immagini facili (a volte quasi imposte) della propria realtà. Or vive nel rapporto viscerale tra una madre prostituta e la figlia adolescente. È la città di Tel Aviv oggi, dove è stato girato, è la violenza di uomini e donne in una società che sembra avere metabolizzato nel profondo la logica della sopraffazione. La guerra c’è in Or ma fuori campo, dunque ancora più forte perché raccontata attraverso il vissuto. A Roma, dove la incontriamo (grazie al passaggio romano della Semaine, che da anni organizza con cura Francesco Martinotti) Keren Yedaya ci trasmette subito la stessa passione di quella sera. La pace per lei è tutto, è la vita e il solo futuro possibile per il suo paese. E il suo cinema è fatto anche di questo. Una passione scoperta da ragazzina, appena sedicenne, la scuola fino ai vent’anni, i cortometraggi tra cui Elinor, spietata critica dell’esercito israeliano nel ritratto di una ragazza soldato che ha come solo compito la pulizia dei gabinetti. Racconta: «non so se è arrivato prima il cinema o il lavoro politico. Direi che le due cose vanno insieme, le storie che racconto arrivano dai miei incontri». Già perché Keren lavora in molte associazioni che aiutano le prostitute, le donne che subiscono violenza familiare, i bimbi che vivono in strada.
Mattina di sole. Caffè, sigarette fatte col tabacco, la gioia di essere a Roma, città che trova bellissima.
Il tuo lavoro nelle associazioni che aiutano le donne: come entra nel tuo cinema?
On the edge, che ho girato coi ragazzini che vivono in strada, nasce dal lavoro che abbiamo fatto insieme. Visto che nessuno di loro va a scuola, quando venivano al centro li facevo giocare con la telecamera. Così hanno imparato a girare, abbiamo realizzato dei videoclip… Penso che sia importante usare i miei film e il mio mestiere in questo modo, il cinema deve essere qualcosa di vitale, che interagisce col mondo. Il mio secondo cortometraggio era sulla prostituzione. Cercavo di dare voce ai problemi di queste donne, e era possibile perché avevamo lavorato insieme. Non riesco a fare i miei film senza conoscere le persone di cui parlo, soltanto un legame intimo mi permette di trasformare l’esperienza in cinema. È come se nelle immagini scivolasse anche una componente personale, non pubblica. Perché poi è anche vero che quando conosco persone in situazioni complesse non posso stare senza far nulla.
Parlavi di ragazzini che vivono in strada. È strano, all’esterno percepiamo Israele come un paese ricco.
La società israeliana, e credo che sia lo stesso qui in Italia, è fatta di ricchi e di poveri. Abbiamo molti problemi economici anche se non si tratta solo di questo. Se appartieni alle classi alte, al di là della ricchezza, puoi prenderti maggiori libertà. Una donna come Ruthie, la madre di Or, viene messa subito ai margini. È ovvio poi che la miseria riguarda soprattutto i palestinesi. Oggi sono la fascia sociale più bassa, non possono lavorare, la guerra impedisce lo sviluppo di una loro economia. Ecco, la guerra. È il nostro problema principale. Assorbe tutto, denaro, energie, possibilità di essere felici. Come si fa a vivere bene in uno stato permanente di guerra e di occupazione? La gente in Israele soffre di depressione, è paranoica.
È la forza di «Or». Cioè il conflitto resta fuori campo, non ci sono armi, eserciti ma si percepisce una violenza che è quasi uno stato d’animo.
È vero che la storia raccontata in Or può accadere ovunque, visto però che siamo in Israele ci sono aspetti legati in modo specifico alla società israeliana. Non credo che un film sia politico perché fa vedere occupazione o guerra. A me interessava di più trovare una linea tra la vita di Or e di sua madre e la guerra. Non si tratta insomma dei problemi di due donne, in questo c’è anche il senso di un paese che ha scelto finora di vivere occupandone un altro. Ti faccio un esempio. Nel ristorante dove Or lavora, la sola persona gentile con lei è il lavapiatti palestinese. Entrambi sono al livello sociale più basso, sono schiavi messi in gabbia. Eppure – per questo li ho filmati così – stanno in quella cucina voltandosi le spalle. La tragedia del nostro paese per me è proprio questa. Le minoranze non lavorano insieme ai palestinesi, preferiscono girare le spalle. Mi piace pensare che la gente guardando il film, capisca di vivere nella stessa situazione. E che per questo è importante cambiare.
«Or», come altri film israeliani visti di recente, penso a «Alila» di Gitai o a «Campfire» di Joseph Cedar, evidenzia una forte aggressività verso le donne.
La nostra società sacrifica gli esseri umani per nulla. C’è una teoria femminista che traccia una connessione tra la presenza dell’esercito e la prostituzione. In un paese dove prevalgono armi e soldati, le ragazze diventano il regalo agli uomini. Che sono anche loro delle vittime. Se infatti avessero il coraggio di capire la sofferenza fuggirebbero via dalle guerre. Ma non possono. Da noi si dice che chi non fa la guerra non è un uomo. È assurdo perché Israele avrebbe potenzialità magnifiche, è un paese giovane, bello, insieme alla Palestina sarebbe il nostro piccolo paradiso. E invece è un inferno. Per questo non c’è altra soluzione che vivere insieme fermando l’occupazione. Non puoi esistere se il tuo vicino non esiste più.
La pace. Quale pensi che sia oggi la strada possibile per realizzarla?
Quarant’anni sono moltissimi per chi soffre ma sono anche pochi di fronte alla Storia. Sono ottimista, anche se è difficile. Il prezzo da pagare è alto, ma la guerra costa molto di più. Il problema è soprattutto nella testa della gente, per questo bisogna aiutare in ogni modo chi lavora per la pace e contro l’occupazione da entrambe le parti.
In Europa da qualche tempo si tende a sovrapporre la critica a Sharon all’antisemitismo. Cosa ne pensi?
È chiaro che si sono differenze enormi tra criticare la politica di Sharon e essere antisemiti. Anzi credo che sia necessario criticare Israele, la sua politica, per spiegare cosa accade. La connessione con l’olocausto è sempre molto forte, eppure non ci si può fermare a questo. Così come non basta per giustificare la violenza la paura del terrorismo. A volte mi chiedo che differenza c’è tra un attentato e il terrore che diffonde uno stato «democratico» con un’occupazione che uccide la gente ogni giorno. È molto facile odiare quando si è spaventati.
dall’intervista dal titolo “La Spectre dell’ordine mondiale” a Tzvetan Todorov.
Graziella Durante
[…]
Al Festival di Filosofia di Cosenza in un contesto in cui si è discusso di «Utopia ed Eresia», lei ha tenuto una lezione sulla «Potenza dell’Amore». Può spiegarci i motivi di questa scelta?
Parto dalla considerazione che l’utopia deve sempre guidarci nella nostra esistenza di singoli e nei progetti politici che gli stati pensano di realizzare. Ma non credo alla concretizzazione reale di un’utopia. Non è possibile realizzare il paradiso terrestre perché la specie umana è imperfetta esattamente come il «giardino imperfetto» di Montaigne. Montaigne spera che la morte lo raggiunga mentre lavora al suo giardino. Ciò che voglio dire è che l’amore è certo la dimensione più bella dell’esistenza umana. Oggi si può essere un po’ scettici rispetto a quest’idea. La vita pubblica, infatti, non è organizzata secondo il principio dell’amore ma della giustizia o dell’uguaglianza che non è esattamente la stessa cosa. Ecco perché insisto sulla «potenza» dell’amore. La «potenza» non è banalmente la forza ma la «possibilità». Un costante «tendere a» che non si può arrestare esattamente come non è possibile arrestare la forza che scaturisce dalla possibilità utopica d’immaginare un mondo altro da questo.
Estate `72, Jane Fonda e il marito Tom Hayden, attivisti-bandiera contro la guerra in Vietnam, vengono in Europa per delle conferenze. E passano anche dalle stanze del manifesto…
Da noi si cantava «C’era un ragazzo/ che come me…», in California i pacifisti battevano la West Coast insieme ai reduci dell’Indocina contro Nixon e la sua «sporca guerra». Luciana Castellina racconta la campagna per il Vietnam con «Barbarella» e la visita di Jane, «una bella compagna», al nostro giornale
Luciana Castellina
Aveva un tailleur-pantaloni in gessato, scarpe basse, camicetta bianca. I capelli biondi lunghi, ma non eccessivi. Era bellissima; e sobria. Era seduta proprio qui, nella redazione del manifesto, via Tomacelli 146 (le piccole stanze a metà corridoio, all’ultimo piano). Dove belle ragazze non mancavano, ma certo erano un’altra cosa. Lei era Barbarella, come l’aveva ribattezzata il suo primo marito, il regista francese Roger Vadim; ora finalmente di nuovo se stessa, Jane Fonda (grande cinema anche nella famiglia originaria, perché figlia di Henry e sorella di Peter), futura signora Hayden. Hayden Tom, leader degli Sds (Students for a democratic society ), uno di quelli che nel `69 finì in galera per aver pesantemente disturbato la Convention democratica di Chicago.
Quello era l’anno in cui il Vietnam, negli Stati uniti, aveva cominciato a scottare. Jane era venuta da noi come ambasciatrice del movimento americano per raccontare al manifesto, in quel tempo il gruppo politico più conosciuto fra le generazioni sessantottine del mondo intero, cosa stavano facendo e cosa si proponevano per bloccare l’aggressione all’ex colonia ereditata dalla Francia.
La malafemmina
L’improvviso riemergere dai fondi della memoria di questo paese aggredito – ora, come gli altri di Indocina, avviato ai commerci globali, ma utile parametro per stabilire i record dell’orrore della guerra moderna e della civiltà occidentale – mi ha riportato il ricordo di Jane Fonda, militante pacifista americana, la più nota, certo, e anche la più invisa ai militari, proprio perché incarnava assieme il mito della donna che ogni soldato sognava di avere come fidanzata e il simbolo di una spavalda rivolta. Una malafemmina, insomma, che disturbava non poco la mitologia americana. E la disturba tuttora, se si pensa alle grida della stampa neocon quando il volto quasi imberbe del candidato democratico John Kerry è apparso dietro a quello di Jane nella vecchissima foto di un tribunale allestito dal movimento pacifista americano per denunciare torture e vessazioni compiute dall’esercito nella piana del Mekong. E cui partecipavano – lo racconta con straordinarie testimonianze in diretta un film di trent’anni fa, «Winter Soldier» – gli stessi che quelle atrocità avevano compiuto e ora si rendevano conto di quel che erano stati indotti a fare dalla brutalità della guerra. Anche questa foto ha contribuito a rilanciare la memoria del Vietnam: il parallelo con l’Iraq è ogni giorno più stingente. Ma in questa campagna elettorale americana sembra che possa levare una parola critica sugli ammazzamenti di iracheni solo chi ha ammazzato almeno una buona dose di vietcong, altrimenti gli tolgono la parola.
Quando Jane venne in via Tomacelli doveva essere l’inizio del `72 e con noi restò a parlare a lungo, come una compagna qualsiasi. Una bella compagna. La rividi mesi dopo, nel viaggio in America per seguire la campagna elettorale che opponeva Nixon allo «scandaloso pacifista» McGovern, il mio primo viaggio negli Usa e il primo reportage oltreoceano del manifesto. Approdai a casa sua a Los Angeles, una villetta sulle pendici alte di Beverly Hills, sacco in spalla e dopo un certo numero di bus pieni solo di domestici neri, perché a quei tempi il giornale non poteva permettersi taxi né alberghi e in giro per gli Usa io andavo grazie alla catena di solidarietà dei compagni, dormendo a casa dell’operaio di Detroit o in quella, a La Jolla, di Herbert Marcuse, il biglietto aereo pagato grazie a qualche conferenza in università americane dove docenti progressisti introducevano presso famelici allievi le glorie della nuova sinistra europea. Nella catena, un anello era anche la casa di Jane e di Tom. Una casa nel quartiere delle star. Mi sembrò un accampamento, come tante delle nostre case di militanti in quell’epoca: nelle stanze piene di disordine, sacchi a pelo sparsi dovunque e libri e giornali accatastati negli angoli, alla parete la carta degli Usa, bandierine nei luoghi dove si era tenuta una manifestazione pacifista, perché, mi spiegarono, «abbiamo voluto privilegiare il Middlewest, l’America profonda delle piccole città, mai lambite dal movimento, più stravolte dall’informazione deformata».
Jane stava partendo per uno dei suoi «raid» serali lungo la costa californiana: una serie di conferenze, tenute assieme a reduci del Vietnam. Non stava bene, Jane: aveva la nausea. Solo dopo mi disse che credeva di aspettare un bambino. Ma partì lo stesso e io l’accompagnai giù per le lucenti autostrade fino ai grandi agglomerati urbani a ridosso di Hollywood. Non capitava spesso agli abitanti dei suburbi d’incontrare una come Jane Fonda e perciò le sale dei cinema erano affollate. Jane sapeva bene che ad averli mossi non era la preoccupazione per il Vietnam ma la curiosità per la diva famosa e il suo famosissimo clan. E proprio di là partiva per attrarne l’attenzione e condurli via via a capire.
Dal palco, microfono in mano, cominciava a raccontare di quando era piccola e suo padre Henry, assieme a Gary (Cooper), a John (Wayne), a Glenn (Ford) la sera giocavano a poker, sempre in stivali, il pistolone a fianco, i modi dei loro western, come se si trovassero in un saloon all’epoca della costruzione della ferrovia e non in un domestico salotto di amici. Incapaci di uscire dai loro personaggi, anche dopocena, a casa. La forza della mimica, dell’autosuggestione, del teatro, sicché alla fine non è più possibile discernere fra la realtà e finzione. Anche con lei era stato così, raccontava seducendo la gente in platea che seguiva, passo passo, ogni suo gesto: Hollywood l’aveva rifatta, alterata. Rifatto i seni perché non abbastanza grossi, le labbra perché troppo sottili, i capelli, i vestiti, il modo di camminare. Stravolgimento delle persone, delle cose, della storia. Non era forse andata così con i pellirossa? Gli indiani d’America erano ormai diventati quel che ne avevano fatto i film di Hollywood, così come suo padre e i suoi amici.
E’ solo dopo questa preparazione, seguendo un accorto crescendo, in cui ogni frase politica nasceva da un ricordo, da un’annotazione che veniva dalla Hollywood più esclusiva, è solo allora che Jane tirava fuori il Vietnam. Quando la gente era ormai dentro la sua rete.
La vicenda del Vietnam mistificata, i vietcong come gli indiani, gli eroi di Nixon come le marionette di Hollywood, gli uni barbari e cattivi, gli altri sempre coraggiosi, civili, vincitori. L’America inventata. Come ora.
L’accoglienza del pubblico era singolare: nemmeno un soffio che disturbasse il suo recital-comizio, tecnici, impiegati, quadri medio bassi dell’industria cinematografica più potente del mondo e del suo indotto affascinati dalle parole della compagna Fonda. Poi, appena lei lasciava il proscenio ai reduci e la realtà entrava in diretta un gran freddo che calava. Ma alla fine il bilancio della serata era positivo. Ricordo il discorso, ripetuto a ogni tappa ma sempre stravolgente, di un ex prigioniero dei Viet: in guerra c’era andato volontario, per comprarsi un’automobile. Poi il fronte, l’orrore, la vergogna, la paura quando era stato preso prigioniero e alla fine, però, aveva capito che i vietcong erano capaci di intendere quel che gli americani non avevano ancora afferrato: la distinzione fra popolo e governo degli Stati uniti.
Jane Fonda non è più una militante pacifista. E’ capitato a tanti, non le si può muovere particolare sermone. Ha sposato in ulteriori nozze Ted Turner, l’inventore-padrone di quella cosa da cui tutti dipendiamo: la Cnn. Almeno all’inizio, la tv globalizzata meno indecente. Proprio come attiva collaboratrice e non solo moglie di Turner ho reincontrato Jane qualche decennio dopo, in una buona conferenza dell’Onu sull’informazione. Mi domando cosa pensi adesso, quando la Cnn non è più nemmeno di suo marito e lei non è più sua moglie; e comunque la Cnn non è più quella che era.
[…]
La visita di Jane Fonda al manifesto non fu una bizzarria ma un segno della famosa altra America che c’era e per fortuna, almeno un po’, c’è ancora.
Paolo Moscogiuri
Sono consapevole del fatto che il fare architettura non termina con la realizzazione di spazi più o meno qualificati, ma che prosegue con lo «stratificarsi» delle azioni, delle emozioni, dei sentimenti di chi li abita, che li renderanno vivi e unici. Sono consapevole che la casa, umile che sia, non è mai costituita dalle sole mura che «contengono», ma dalla vita che vi si svolge dentro; dalla storia delle vicende umane; dalle speranze di futuro, dai simboli che vi si raccolgono; dagli odori che vi si impregnano; dalla luce che la illumina; dal calore che la riscalda; dai suoni che la ravvivano. Sono consapevole di questo e in qualità di artefice dell’architettura, non posso accettare che Israele, nella sua pur giusta difesa dal terrorismo, adotti come metodo di «difesa» la demolizione delle case palestinesi. Dal 2000, in Palestina, questa «difesa» ha creato ben 12 mila profughi. Questo metodo barbaro, è più umiliante e repressivo della stessa eliminazione fisica, perché riguarda non una sola persona, ma l’intera famiglia che ci vive. Toglie ai padri l’orgoglio di aver dato un riparo alla famiglia, alle madri la protezione necessaria a un sereno accudimento dei figli, ai figli la speranza di un futuro migliore. Per questo chiedo che gli Ordini degli architetti, quali rappresentanti dei professionisti e quali custodi dei valori dell’abitare, condannino pubblicamente l’uso deliberato dell’abbattimento delle case palestinesi da parte dell’esercito israeliano.
I dati del mese di aprile indicano una ripresa economica e la creazione di nuovi posti di lavoro negli Stati uniti, numeri che il presidente Bush sta usando per la sua campagna elettorale, ostentando ottimismo e una fede incrollabile nel liberismo. La giornalista Naomi Klein, dalle colonne del britannico Guardian (www.guardian.co.uk) sferra un duro attacco a questa ripresa, e per smascherarne gli aspetti deteriori la collega allo scandalo delle torture commesse nel carcere iracheno di Abu Ghraib. «Più dell’82% dei posti di lavoro creati in aprile – dice la Klein – sono nelle industrie dei servizi, inclusi ristoranti». I datori di lavoro, d’altra parte sono per la maggior parte agenzie di lavoro temporaneo, mentre nell’ultimo anno sono andati perduti 272.000 posti nell’industria manifatturiera. Ma i nuovi assunti non sono tutti venditori di hamburger e impiegati a tempo determinato: «Con due milioni di americani dietro le sbarre il numero di guardie carcerarie è cresciuto in maniera verticale, da 270.317 nel 2000 a 476.000 nel 2002». «Guardare Bush col pollice alzato di fronte a tale miseria economica mi fa ricordare alcune delle fotografie fatte in Iraq dai soldati e circolate in tutto il mondo», dice la Klein. Sì, perché secondo l’autrice del best seller No logo, c’è un collegamento tra la misera crescita economica statunitense e le sevizie ad Abu Ghraib: i torturatori sono «Mc workers», lavoratori da McDonald’s. Come la soldatessa Sabrina Barman, di Lorton, Virginia, ex impiegata nel locale Papa John’s Pizza. Il mercato secondo Bush ha prodotto un divario crescente tra una ristretta minoranza di ricchi e una gran maggioranza di poveri. Ed è in questo gap – spiega la Klein – che s’inserisce l’esercito americano, che è diventato come un ponte che permette di accedere a determinati servizi necessari ad elevare il proprio status: soldi per pagare le tasse in cambio del servizio militare.«Ha funzionato esattamente così per Lynndie England, la più infame tra gli accusati di Abu Ghraib. È entrata nell’esercito per pagarsi il college. La sua collega Sbarina Barman s’è arruolata per lo stesso motivo».
Ida Dominijanni
Leggo che Lynndie England si è divertita, lo giura e lo rivendica. Si è divertita a fare – «nulla di grave, cose di routine » – e si è divertita a fotografare, in allegra combutta con Sabrina Barman, altra simpatica figurina femminile del carnaio di Abu Ghraib. Divertita, ecco. Invece che stare a fare la contabilità dell’orrore a cavallo fra la foto della dolce Lynndie col prigioniero iracheno al guinzaglio e quella dello sgozzamento islamico del cittadino americano Nicholas Berg, potremmo applicarci utilmente ad analizzare questo aggettivo, «divertente», applicato alla tortura. Perversione di una mela marcia? O effetto estremo dell’insensatezza in cui l’edonismo occidentale può precipitare, quando cade ogni tabù e ogni confine fra il lecito e l’illecito? Per una non tanto strana coincidenza, la dichiarazione giurata di England ci arriva dalla stampa americana in contemporanea con la ricostruzione dettagliata delle tappe che hanno portato i falchi dell’amministrazione americana, dopo l’11 settembre, a ritenere « obsolete » le regole della convenzione di Ginevra, divieto di tortura compreso, nel trattamento dei prigionieri prima a Guantanamo poi in Iraq, e a incoraggiarne l’umiliazione fisica e sessuale. Il tutto in nome della illegalità del terrorismo, che giustificherebbe metodi altrettanto illegali per combatterlo. Vi pare troppo grande il salto fra questo teorema di stato e l’idea che Lynndie England s’è fatta del lecito e dell’illecito, della routine e del divertimento a Abu Ghraib?
Leggo che invece la contabilità dell’orrore fra le due immagini di cui sopra va fortissimo sulla stampa nostrana (a differenza che su quella americana). L’ultima trovata, firmata Galli Della Loggia sul «Corsera» di ieri, è che d’accordo, le responsabilità dello sgozzamento non elidono quelle delle torture e viceversa, ma la scala dei due fatti resta distantissima: la tortura, che ha una sua perversa ratio («per quanto sia orribile ammetterlo, funziona»), sta suscitando la rivolta dell’opinione pubblica occidentale, mentre lo sgozzamento, che non ha ratio alcuna ed è un puro messaggio dimostrativo di odio, non riesce a far muovere paglia nell’opinione pubblica islamica. Ancora una volta, la democrazia si salva l’anima? Magari. L’ottimismo dei fautori nostrani dello scontro di civiltà, ben più zelanti di Samuel Huntington che non da oggi ha realizzato che in Iraq era meglio non andarci, è davvero invidiabile.
Senonché ci sono soglie in cui non sono in gioco i sistemi politici, ma i livelli antropologici. Gli orrori che arrivano dall’Iraq non si elidono : si sommano, e sommandosi alludono a qualcosa che assomiglia ogni giorno di più non a un derby fra l’occidente e l’islam ma a una regressione antropologica. Dalla quale non è chiaro come usciremo, se ne usciremo: «noi » e «loro».
Quanto c’entra l’homo videns, ovvero l’abitatore della civiltà del visuale che è palesemente globale e bypassa i confini fra occidente e islam, in questa regressione? Tanto che forse ne è la chiave. Gode Lynndie a fotografare e farsi fotografare. Godono i carnefici incappucciati di Nicholas Berg a farcelo vedere sgozzato in differita. Godono come quelli che vanno a sposarsi in tv, perché l’essere è l’apparire, senza visibilità non si esiste e al confine col virtuale la vita diventa più vera. E noi, gli spettatori? E’ vero, c’è chi vede e si sveglia. Ma c’è anche chi vede e distoglie lo sguardo e continua a fare quello che faceva prima, come se accendendo e spegnendo un video anche la realtà si potesse accendere e spegnere. Si chiama virtualizzazione del reale e produce robot schizoidi. Il divertimento è salvo. La paranoia non abita solo a Abu Ghraib o nei covi dei terroristi islamici.
Vittorio Melandri
Caro Barenghi, è vero, «i cattivi sono anche inferiori» (La risposta di sabato). E nei panni della iena, la soldatessa Lynndie ci si è messa con le sue mani ben prima che ce la mettesse jena. E la favola del buon generale e del cattivo soldato si trova in ogni antologia che si rispetti. E potrei continuare, solo reiterando (magari una volta sola), questo esercizio così simile, alla scoperta dell’acqua calda. Quello che mi pare più difficile da praticare è la manifestazione di un sentimento di «pena» misto a «com-passione» per la soldatessa Lynndie (oggi in particolare), e per tutti i disgraziati che come lei, partendo da una condizione «inferiore», se una spinta la ricevono, la ricevono verso una condizione morale e materiale ancora più inferiore al posto di un aiuto utile a cercare di riscattare la propria «cattiveria». I tanti esseri umani che riescono a rimuovere la propria «inferiore cattiveria», dovrebbero essere chiamati a soccorso per «interesse», non per melenso buonismo. Capita invece che ci si attardi di più a coprirli di «inutili» decorazioni, come si faceva nella vecchia Unione sovietica. Intanto una ragazza, di cui non ci si prende nemmeno cura di fornire l’età esatta (si legge 21 o 24, come fosse la stessa cosa), si trova esposta alla gogna su tutti i giornali del mondo con ben in vista il fardello della sua miserabile ignominia, quasi che il «male», del quale si trova ad essere alfiere, fosse tutto farina del suo sacco. Eretta così a simbolo dell’onore violato dell’America o del suo disonore a seconda del punto di osservazione. Antico quanto il mondo, lo spettacolo a cui stiamo assistendo. Non è rivoltante solo per quello che «si vede», ma anche per quello che maldestramente si vuole nascondere: le responsabilità di tutti i capi della soldatessa Lynndie. Dal caporale di giornata sino al comandante supremo dell’esercito degli Usa. Sino a investire anche tutti i corifei scandalizzati e muti. Dispiace (almeno a me dispiace) che anche il manifesto, con la parziale eccezione di Luciana Castellina, si acconci al «linciaggio» di una che si è già linciata da sé; una legata alla sua vittima con lo stesso guinzaglio, che sembra impugnare ma che in realtà lega anche lei. Intanto che i carnefici se ne stanno fuori campo a lodarsi e a scannarsi fra loro.
Bia Sarasini
Sorridente e carina la ragazza fa capolino sulla sinistra della foto, guarda l’obiettivo e alza i pollici, in segno di vittoria. Come una qualunque coetanea in giro per il mondo. Vestita casual ma alla moda, cioè maglietta e pantaloni nei colori militari/mimetici così diffusi in questo tempo di guerra. Solo che lei è proprio un soldato, lo si capisce perchè al centro della fotoricordo non c’è un monumento, ma il corpo nudo e scuro di un uomo incapucciato, che alza la mani sulla testa. Un prigioniero irakeno, uno di quelli torturati nella prigione di Abu Ghraib. Questa ragazza graziosa e dall’aspetto da “ragazza della porta accanto” vuole ricordare come ha “vinto” (umiliato, ridotto a cosa) questo nemico. A capo della prigione era, come si sa, una donna, la generale di brigata Janis Karpinsky. Sospesa dall’incarico, ha dichiarato di essere rimasta sconvolta, quando ha visto le foto, e di ignorare tutto di quanto avveniva nella prigione: “Ho pensato che quelle erano persone cattive”. Sul Manifesto di oggi Ida Dominijanni scrive: “Il caso Karpinsky vanifica qualunque visione essenzialista della differenza fra i sessi, esattamente come vanifica qualsiasi fede feticista nella democrazia”.
Sottoscrivo. Ma intuisco qualcosa di peggio: mi ci spinge quella ragazza così incosciente, nel suo sorriso. Che nella mia testa non so proprio tenere insieme con il corpo umiliato del prigioniero, e mi provoca una deflagrazione, un vuoto di senso. Ancora più delle kamikaze, di cui almeno riesco a percepire la determinazione della vittima alla vendetta. E’ un punto di non ritorno. Fare la guerra, il perseguire fino alle estreme conseguenze gli obiettivi di emancipazione e parità, per cui partecipare alle azioni in prima persona diventa una meta da raggiungere , è un’esperienza pericolosa. Non si tratta solo di donne “cattive”. Mi chiedo cosa succede quando donne scelgono sempre più numerose di sperimentare il lato maschile dell’identità, di assumere la forza in prima persona. E’ un mutamento devastante. Per l’assetto del mondo, temo.
P.S.
Il Washington Post pubblica in prima pagina una nuova foto delle torture ai prigionieri irakeni. Inguardabile. La giovane donna, la stessa che abbiamo già visto in altre foto, tiene al guinzaglio un prigioniero nudo, buttato per terra. Ora sappiamo tutto di lei. Si chiama Lynndie England, ha 21 anni, viene dal West Virginia, è divorziata. Un’altra che, come la “buona” Jessica Lynch, era partita per l’Irak con l’obiettivo di pagarsi il college. E’ agli arresti come il suo boy-friend Charles Garner, con cui compare abbracciata in una delle foto davanti ai prigionieri-trofeo. Sappiamo che ha una madre, che la difende. E un padre che ha avuto lo shock di riconoscerla nelle foto. Sono molti i commenti alle immagini e alle torture. E dure le conseguenze politiche. Nell’editoriale di oggi il New York Times chiede le dimissioni del segretario alla difesa Rumsfield; è a rischio la popolarità del presidente Bush. Ma se tutti, nelle cronache e nei commenti, registrano la presenza di questa ragazza minuta e sorridente, solo Donna Britt, sul Washington Post, affronta il tema della donna torturatrice e crudele. L’analisi è dura, parla della fine dell’equivoco, sulla pretesa azione civilizzatrice delle donne nell’esercito, dei tanti uomini pacifisti, e conclude: “Forse la festa della mamma non rimarrà a lungo una prerogativa delle donne”
Ida Dominijanni
“Prima i nostri nemici hanno creato l’attentatore suicida. Ora noi abbiamo il nostro attentatore suicida digitale: la macchina fotografica”. Così Robert Fisk sull’Independent di venerdì, ripreso dal manifesto e tradotto dall’Unità di sabato. Il paragone fra l’icona totale degli aerei che si schiantano sulle torri gemelle e le foto delle torture a Abu Ghraib, in particolare quella della giovane Lynndie England con il prigioniero iracheno al guinzaglio, è un’ottima intuizione e merita di essere sviluppata per più di un verso. Non c’è solo l’analogia nel peso dell’impatto simbolico. Nè solo la sinistra analogia che lo stesso Fisk giustamente evoca, fra quello che venne definito “lo stupro” di Manhattan a opera dei maschi kamikaze di Al Quaeda e lo stupro della sessualità maschile islamica a opera delle torturatrici americane. C’è il fatto che allora come adesso, l’assolutamente Altro, il Nemico Diverso, si manifesta in realtà come assolutamente simile: tanto i kamikaze di Al Queda maneggiavano l’arte dell’immagine spettacolare made in Usa, quanto i torturatori americani si muovono perfettamente a loro agio nel carcere delle sevizie che fu di Saddam Hussein. E c’è, allora come oggi, l’effetto straniante dell’immaginario che diventa realtà, anzi iperrealtà: l’immaginario hollywoodiano della catastrofe annunciata nel caso dell’11 settembre, l’immaginario sessuale della vendetta sadica femminile sul maschio vinto e degradato nel caso di Abu Ghraib. E nell’un caso e nell’altro, l’immaginario dimostra di non avere confini: è il primo ingrediente del mondo a essersi globalizzato, trasmesso, contaminato. Aiutato da una tecnica anch’essa senza confini: la diretta tv nel caso delle torri, la sequenza ossessiva (e voyeur) delle foto nel caso di Abu Ghraib trasmettono e moltiplicano la catastrofe dell’ordine simbolico. La quale raddoppia, anche e in primo luogo dal punto di vista della posizione dei due sessi nell’ordine simbolico medesimo. L’11 settembre si parlò, acutamente, di catastrofe del fallocentrismo, ben rappresentata dal clash dell’aereo-uccello suicida contro la potenza verticale e binaria delle torri. Ma adesso, siamo alla catastrofe simbolica del primato e dell’alterità femminile sulla specie e sulla relazione con l’altro, implacabilmente rappresentata dalla foto “donna con uomo strisciante al guinzaglio”. Confesso di avere sottovalutato questa catastrofe, ancora pochi giorni fa, scrivendo che bisognava abbassare i punti esclamativi per la presenza di donne fra i torturatori e prendere atto dei danni portati alla differenza fra i sessi, e dunque all’umanità, dall’imperativo occidentale all’omologazione delle donne all’ordine fallocentrico in forma di emancipazione e diritti di accesso paritario a tutto, guerra e carriera militare comprese. Non avevo ancora visto la foto di Lynndie con il prigioniero iracheno al guinzaglio. La quale foto cambia il senso dell’accaduto. Le responsabilità dell’ideologia omologante dell’emancipazione forzata restano; come pure restano le responsabilità del discorso che ha legittimato la guerra all’Iraq come guerra al patriarcato islamico, con ciò certamente autorizzando l’umiliazione inferta dalla giovane Lynndie al suo trofeo. E però in quella foto c’è qualcosa di più. Un di più femminile – lo sguardo, il sorriso, l’abbigliamento – che non si lascia ricondurre e ridurre a un comportamento omologato o imitativo dei muscoli e della sopraffazione virile.
Un caso isolato, o due o tre, di sadismo femminile? Può darsi, ma noi non possiamo farci complici del discorso del potere sulle mele marce, riducendo quella foto a un caso di sporadico sadismo. E non possiamo neppure contemplare con costernazione, come si limitano a fare alcuni filosofi, l’eterno ritorno su questa terra della banalità del male. C’è un male determinato che ci chiama in causa qui e ora: noi donne dico, anzi noi femministe che in un tempo determinato, secondo `900 e dintorni, abbiamo fatto della sessualità, della sessuazione e della relazione fra i sessi un campo di osservazione e di sapere privilegiato. Quell’immagine dice di un immaginario sessuale degradato e reificante, ancorché corredato di postmoderna trasgressione trans e drag, che nasce – quasi fosse l’altra faccia del moralismo bacchettone – nelle viscere dello stesso paese che pochi anni fa si scandalizzava per il sexgate di Bill Clinton. Un immaginario che corre nelle vene di società peraltro smaterializzate, dove più il sesso si esibisce meno il desiderio si esprime, e dove anche il discorso femminista sorvola ormai volentieri sulla sessualità, la sua opacità, le sue contraddizioni. E dice ancora, quell’immagine, di un immaginario post-femminista sul femminismo, che trasfigura quello che è stato e resta un movimento di libertà dalla fissità dei ruoli sessuali in una competizione per il potere e per la sopraffazione, in un gioco di rivalsa dell’ex sesso debole sull’ex sesso forte, in una sfida fallica all’ultimo respiro che intrappola le donne quanto e più degli uomini. Bisogna indugiare su quella foto, e fare spazio al lavoro del lutto. Come dopo l’11 settembre, dopo Lynndie England più niente è come prima.
Ida Dominijanni
Abituato dall’inflazione del visuale a posarsi sulle immagini veloce e distratto, lo sguardo certe volte non basta: quando bisogna andare sui dettagli è sempre meglio la parola scritta. E nel caso delle sevizie “occidentali” sugli iracheni a Abu Ghraib, è sui dettagli che bisogna andare, per evitare che quel nome sommario, “tortura”, ci esima dal fare dettagliatamente i conti con quello che comporta per la nostra democratica civiltà il ritorno di questa pratica nel lessico quotidiano (già sinistramente anticipato, e con troppo scarso allarme, dai non tanto accademici dibattiti successivi all’11 settembre sulla possibilità di riattivarla contro il terrorismo). Dunque andiamo sui dettagli, e invece che distogliere lo sguardo da quelle insopportabili immagini fermiamolo sulle minute descrizioni del rapporto Taguba e delle testimonianze dei detenuti. Pestaggi con sedie e bastoni. Sodomizzazioni maschili con manici di scopa e lampade al fosforo; stupri femminili con foto. Masturbazioni obbligate. Sesso orale per forza. Uomini travestiti con lingerie femminile, very drag. Ammucchiate. Morsi di cani. Elettroshock ai genitali. Trattamento al ghiaccio dei corpi nudi. Nel dettaglio, il catalogo è questo. Con esecutori e esecutrici,un’orgia di sadismo bisex. Sconvolta da tanto orrore autoprodotto, l’opinione pubblica occidentale stupisce che a perpetrarlo ci fossero anche donne: soldatesse che incitano, ridono, fotografano, godono, coperte da una generalessa che sostiene di non aver saputo e punta il dito contro responsabilità più alte ma chissà. Funziona sempre così, in base a un collaudato dispositivo dell’immaginario e del senso comune: se il mondo (perlopiù edificato da uomini) diventa tanto orrendo, che almeno le donne si salvino e lascino aperto uno spiraglio di salvezza per l’umanità. Non fu così anche con la prima kamikaze palestinese? Stupore, scandalo, punti esclamativi.
Andrebbero tolti, quei punti esclamativi, e non certo per assolvere le secondine di Abu Ghraib, né solo perché di analoghi precedenti la storia è sinistramente lastricata dalle kapò naziste in giù. Ma perché più urgenti sarebbero alcuni punti interrogativi da rivolgere a quanti, in occidente, hanno fatto della “guerra al terrorismo”, in Afghanistan prima in Iraq poi, una guerra ideologica e politica sulle relazioni planetarie fra i sessi. Con la libertà e la democrazia, si doveva esportare in quei paesi anche l’emancipazione femminile. Liberare le donne arabe e islamiche dal velo, dall’oppressione, dal dominio di sistemi tardopatriarcali e tardomaschilisti. Ricoprirle di pari diritti, come noi qui a ovest.
Missione compiuta: abbiamo esportato emancipazione femminile. Soldatesse che torturano come i soldati e meglio, e guardano e fotografano e ne godono altrettanto. Sono i danni collaterali dell’uguaglianza, del pari diritto a arruolarsi e a fare carriera nell’esercito, del body building che gonfia i muscoli femminili quanto quelli maschili. Di che ci meravigliamo allora? E perché piuttosto non spegniamo radio e tv, quando sentiamo aleggiare l’ipotesi che quelle immagini di Abu Ghraib rappresentino la rivalsa del femminismo occidentale sul maschilismo islamico – come se questo fosse il femminismo, una ritorsione sadica e umiliante del gentil sesso sul sesso forte, neanche avessimo preso lezioni di sfida fallica alla scuola di Bush e dei neocons?
La differenza fra i sessi non è un dato: è un progetto, che rema contro la tendenza globale, spinta da ovest, a omologare, parificare, assimilare le donne al peggio della storia maschile, dei suoi miti e dei suoi riti. Per una che tortura, ce ne sono milioni che lavorano ogni giorno e dappertutto, a ovest e a est, per aprire il presente a un salto di civiltà. Fanno meno notizia, ma hanno un’altra economia del godimento e non ridono dei corpi martoriati. In fondo è sempre anche su questo, sul tipo di trattino che mettiamo fra il corpo e il piacere, che le guerre si combattono, si perdono o si vincono.
Monica Lanfranco
Julia Ward Howe. Fu lei a proporre, nel 1870, l’idea originale per il “Giorno della Madre” la protesta di donne che avevano perduto i loro figli contro il massacro della guerra
Julia Ward Howe, femminista nordamericana, nacque il 2 7 marzo nel 1819 a New York; scrittrice, moglie di Samuel Gridley Howe di Boston, medico, dopo la guerra civile si attivò in campagne contro la schiavitù, per i diritti economici e sociali delle donne e per la fine delle guerre. A lei, sbocciate grazie al suo impegno antischiavista e pacifista, si devono le parole dell’inno nonviolento del 1862, John Brown’s Body. Morì nel 1910, in tempo per evitare di vedere le due grandi guerre mondiali. Parte del suo lavoro arriva a noi perché suo è l’appassionato primo discorso, pronunciato nel 1870, in occasione della proclamazione dei Giorno della Madre.
Non una festa commerciale creata per vendere cioccolatini, o per partecipare a trasmissioni in cui si può ancora garantire che oltre i 50 anni le rughe si tengono a bada ed è possibile e onorevole fare a gara con le figlie nel rimorchio, ma l’idea originale della giornata: la protesta di donne che avevano perduto i loro figli contro il massacro della guerra.
In questi giorni, in concomitanza con l’incombenza della festa della Mamma, l’organizzazione Save the Children ha reso noto il suo rapporto annuale sui posti migliori e peggiori al mondo per essere madri. Lo studio ha comparato il benessere delle madri e dei loro bambini e bambine in 117 paesi, 43 dei quali stanno sperimentando un conflitto armato o sono appena emersi da una guerra civile. I migliori sono Svezia, Danimarca, Norvegia, Svizzera, Finlandia, Canada, Olanda, Australia e Gran Bretagna. Al fondo troviamo Niger, Burkina Faso, Etiopia, Guinea-Bissau, Angola, Ciad. Gli Stati uniti sono all’undicesimo: una ulteriore sconfitta della grande democrazia occidentale armata.
Se non ne potete più della retorica sul materno degli spot, ecco le parole di Julia Ward Howe, diciannovesimo secolo: “Alzatevi, dunque, donne di questo giorno? Si alzino tutte le donne che hanno cuore, sia che abbiano avuto un battesimo d’acqua, sia che abbiano avuto un battesimo di paura. Dite con fermezza : Non permetteremo che le grandi questioni siano decise da forze estranee dalla nostra volontà. I nostri mariti non torneranno da noi con addosso la puzza del massacro, per ricevere carezze applausi. I nostri figli non ci verranno sottratti affinché disimparino quello che noi siamo state grado di insegnare loro sulla carità, la pietà e la pazienza. Noi donne di qui proviamo troppa tenerezza per le donne un qualsiasi altro paese per permettere che i nostri figli siano addestrati a ferire i loro. Dal seno di una terra devastata una voce si unisce alla nostra. Dice: Disarmo! Disarmo !’. La spada dell’assassinio non è la bilancia della giustizia. Il sangue non lava il disonore né la violenza indica possesso. Poiché, gli uomini hanno spesso abbandonato l’aratro e l’incudine alle prime avvisaglie di guerra, che le donne ora lascino a casa tutto ciò che può essere lasciato e si uniscano per una giornata nella quale si discuta insieme”.
“Si incontrano dapprima, le donne tra loro, per riflettere sul dolore e la devastazione della guerra e commemorare i morti. S uniscano poi agli uomini in un comune consiglio per trovare i mezzi con cui la grande famiglia umana possa vivere in pace, e ognuna porti nel tempo che mette a disposizione la sacra impronta, non di Cesare, ma del suo dio. In nome delle donne e dell’umanità io chiedo seriamente che un congresso generale delle donne, senza limiti di nazionalità, venga indetto nel luogo più conveniente e nel più breve tempo possibile, per promuovere l’alleanza di differenti nazionalità, la risoluzione amichevole delle questioni internazionali, il grande e generale interesse della pace”.
Per favore chi può inoltri questo a Condoleza, forse potrebbe esserle utile.
(il titolo è nostro – sito della Libreria delle Donne di Milano)
Da “L’antieroe che viene dal vuoto”
Ida Domijanni
…… Non resta che invertire questa logica e questa retorica. Sgonfiare i muscoli, non per debolezza ma per decisione; senza irrigidirsi e senza piegarsi, senza fermezza e senza trattative, ma lasciando il tavolo della guerra e provando a riaprire la partita della politica e a ripopolare il mondo di uomini senza qualità. Genere Zapatero, l’antieroe.