(traduzione di Maria G Di Rienzo)
Le donne in Iraq stanno vivendo un incubo nascosto all’occidente. Una di esse e’ diventata regista proprio per aprire a noi una finestra su cio’ che le donne sopportano.
Rayya Osseilly, ad esempio, e’ una medica irachena che si prende cura delle altre donne nell’assediata citta’ di Qaim. Non e’ sorprendente che la sua testimonianza non sia felice. “Non provo mai la sensazione che l’oggi sia migliore di ieri”, dice nel filmato. Guardando ai resti bombardati dell’ospedale in cui lavora, e’ chiaro contro quali difficolta’ stia lottando.
Non e’ usuale che sia dia uno sguardo piu’ da vicino a cosa accade alle donne in citta’ come Qaim, che ha subito un pesante attacco dalle truppe americane l’anno scorso. L’accesso ai media occidentali e’ severamente ristretto. Ora, tuttavia, abbiamo uno squarcio di questa realta’ grazie ad
una donna irachena che ha viaggiato per l’intero paese e ha parlato con vedove e bambine, dottoresse e studentesse, cercando la verita’ delle vite delle sue connazionali.
*
La regista vive a Baghdad e vuole mantenere segreta la propria identita’ per timore di ritorsioni, percio’ la chiamero’ Zeina. Quando le ho parlato al telefono, la prima cosa che le ho chiesto era proprio perche’ sentiva il bisogno di nascondere il suo nome, e nella sua risposta non ha fatto alcuna distinzione fra il governo e gli ‘insorgenti’, nel modo in cui noi la facciamo. “Temo il governo e le milizie settarie”, ha detto, “I pericoli in Iraq vengono dagli statunitensi, dalle milizie settarie, e naturalmente anche dai criminali, le gang, i rapitori”.
Zeina ha deciso di realizzare questo film perche’ le cose che lei vede ogni giorno non sono viste dal resto del mondo. “Nessuno si accorge di cosa stiamo passando. Tutti gli iracheni sono psicologicamente traumatizzati da cio’ che sta accadendo. Conosco bambini che cominciano a tremare se solo sentono il suono di un aeroplano o vedono un soldato. Ho visto intere famiglie smembrate. Ho visto donne costrette a prostituirsi a causa della miseria delle loro famiglie”.
Zeina non era una sostenitrice del regime di Saddam Hussein. Durante quel periodo, lavorava come giornalista e traduttrice di critica letteraria. “A livello politico, prima della guerra, non ero contenta. Molte cose erano ingiuste. Non avevamo liberta’ di parola o di espressione. Ma non avrei mai immaginato che le cose cambiassero in peggio in questo modo. Non avevo mai immaginato una situazione del genere”.
Sin dall’inizio delle riprese, la cinquantenne regista sapeva che si sarebbe assunta dei rischi. “Viaggiavo in compagnia di altre due o tre persone, in un’automobile modesta. Quando viaggiavamo verso Qaim dovemmo attraversare il deserto, perche’ gli americani avevano bloccato la strada. Era buio quando arrivammo a destinazione, e proprio di fronte a noi si gonfiava una nuvola di polvere attraversata da lampi. Stavamo andando giusto incontro ai fucili.
La guidatrice si butto’ fuori dalla strada cosi’ in fretta che per poco non ci rovesciammo. Poi, mentre stavamo filmando l’ospedale bombardato ed eravamo saliti sul tetto, gli statunitensi cominciarono a spararci. Penso che non volessero ucciderci, ma solo spaventarci. Volevamo mostrarci chi comandava”.
Le riprese del gruppo che trova rifugio dalle fucilate in un ospedale distrutto sono nel film. Invero, il film che e’ il risultato del viaggio di Zeina non e’ un prodotto ripulito, ma piuttosto una serie di sguardi parlanti che entrano in profondita’ nelle vite delle donne. Spesso lo spettatore si sente frustrato, desideroso di maggiori spiegazioni di quel che succede, ma data la situazione in cui sono costretti i giornalisti, e che ha reso la maggior parte dell’Iraq invisibile, si perdonano volentieri alla pellicola tutti i suoi limiti.
Il film e’ particolarmente efficace nel catturare la struttura della vita familiare in condizioni di totale insicurezza, ed una delle sezioni si concentra sulla storia di una bambina di otto anni, sopravvissuta all’attacco dell’automobile in cui viaggiava con suo padre, sua madre ed altri iracheni. Fu trasportata a un ospedale militare, e per tre mesi se ne perdettero le tracce. La sua famiglia non fu informata di dove si trovasse, e nel frattempo la bambina subiva interrogatori in cui le mostravano fotografie di cadaveri chiedendole di identificarli. Il nonno riusci’ infine a rintracciarla a Baghdad, e quando nel film la vediamo singhiozzare in grembo all’uomo, sentiamo quasi fisicamente la frustrazione della famiglia: non vi e’ un’autorita’ che risponda di cio’ che e’ accaduto, e che possa dar risposta alla loro rabbia.
*
Zeina mostra anche, e in un modo che sicuramente dovrebbe suscitare una pausa di riflessione anche in coloro che qui in Gran Bretagna sostengono la guerra, come le vite delle donne siano state colpite dalla crescita dei fondamentalismi religiosi che hanno preso piede nel vuoto di potere imperante. “Alla tv e sui giornali c’e’ una propaganda continua sulle donne”, racconta Zeina, “E’ disgustosa, e non ha nulla a che fare con l’Islam, ma solo con il rinchiudere le donne nelle case e privarle dei loro diritti”. Per mostrare gli effetti negativi di questi sviluppi, Zeina ha viaggiato sino a Bassora. Per chi ha seguito l’evolversi della situazione nel sud dell’Iraq, il fatto che le donne vi vengano costrette ad indossare l’hijab e si impedisca loro di vivere liberamente le loro vite, non e’ una novita’. Ma il significato di questo stato di cose lo capisci veramente quando vedi giovani donne e i loro familiari narrare di minacce di morte e di pallottole inviate a scopo intimidatorio perche’ una ragazza faceva sport, o non indossava la sciarpa in testa.
Come Zeina sottolinea, questo tipo di esperienza e’ nuovo per la maggioranza delle donne irachene, che hanno goduto maggior liberta’ economica e sociale prima dell’occupazione. “Qualche tempo fa stavo riguardando le foto di mia zia al college, negli anni ’60. Indossa calzoncini corti e canottiera, e fa sport nei campi della scuola. E poi ho guardato le foto delle studentesse di oggi, nello stesso college, coperte di nero dalla testa ai piedi, con le facce nascoste”.
Zeina non ha dubbi nel ritenere l’occupazione la maggior responsabile di queste situazioni: essa ha dato ai settarismi l’opportunita’ di fiorire.
Ride, semplicemente, quando le chiedo se si sente grata per la democrazia irachena. “Democrazia? Quale? Non abbiamo democrazia, qui. La democrazia di cui parla Bush e’ una struttura completamente vuota, che ha le sue basi su interessi settari ed etnici. Che democrazia hai quando temi che la tua vita sia in pericolo, o che tuo marito venga ucciso, se solo esprimi te stessa liberamente? Questa democrazia e’ una brutta barzelletta”.
Rispetto all’occupazione, i pareri delle donne irachene sono divisi quanto quelli degli uomini, e nell’Iraq occidentale ho sentito io stessa donne inneggiare alla guerra statunitense. Ma e’ difficile resistere alla forza e alla passione con cui Zeina descrive il caos in cui la guerra ha precipitato l’Iraq.
E desidera molto continuare a documentare la situazione in cui si trovano le donne, nonostante gli strettissimi limiti in cui e’ costretta a lavorare.
“Mi sento molto impedita. Voglio davvero raccontare delle intere famiglie arrestate, dei corpi trovati, delle torture. Ma se non sei un giornalista che lavora con gli americani, con il loro permesso, la tua vita e’ in serio pericolo quando dai testimonianza su questi fatti”. Nonostante i pericoli, Zeina e’ ansiosa di comunicare la realta’ che vede, e vorrebbe che noi la ascoltassimo: “Vorrei che le persone in Gran Bretagna capissero che l’occupazione dell’Iraq non fa gli interessi ne’ del loro paese ne’ del nostro. I vostri soldati muoiono, e nulla migliora per il popolo iracheno. Al contrario, la situazione sta andando di male in peggio, in special modo per le donne”.
Franco Pantarelli
Quando il giudice ha pronunciato la frase fatidica: «Le imputate sono assolte», loro si sono prodotte in un un «Oh» di gioia, si sono «date il cinque» e poi si sono precipitate ad abbracciare il loro avvocato, Norman Siegel, un’icona delle battaglie per i diritti civili a New York. Magari proprio «precipitate» no: l’età delle diciotto imputate andava dai 67 ai 91 anni, molte di loro camminavano aiutandosi col bastone e una addirittura con il walker, cioè quella specie di gabbia metallica su cui quelli malfermi sulle gambe si appoggiano passo passo. Ma questo non aveva impedito loro di dare vita a una singolare protesta contro la guerra in Iraq durante la quale avevano compiuto il reato per il quale erano finite sotto processo: l’ostruzione, nell’ottobre scorso, dell’ingresso dell’ufficio di reclutamento militare (uno di quelli che negli ultimi tempi «piangono» come il piatto del poker quando i giocatori non puntano) che si trova proprio a Times Square.
I reclutatori chiamarono la polizia, gli agenti arrivarono e intimarono alle signore di sgomberare. «Siamo in fila perché vogliamo arruolarci», risposero loro con il candore imparato in tanti anni di sit-in e proteste varie (alcune avevano avuto il loro «esordio» addirittura ai tempi del processo, poi finito con la condanna a morte, contro Ethel e Julius Rosemberg). Un po’ sconcertati ma decisi a fare il loro dovere, gli agenti le ammanettarono e le portarono al commissariato. Un imbarazzato funzionario, sentito il racconto dei suoi uomini, comunicò loro il reato per cui sarebbero state processate e le lasciò andare. La settimana scorsa, sei mesi dopo il fatto, ecco il processo. Condanna possibile: quindici giorni di prigione e 250 dollari di multa. La linea di difesa scelta da Norman Siegel, che di processi come questo ne ha affrontati a centinaia, era semplice: le diciotto anziane signore non ostruivano un bel niente perché non c’era nessuno che volesse entrare e che non fosse riuscito a farlo. Una tesi che non implicava le «grandi questioni» e che consentiva una conclusione rapida di questa storia, anche se naturalmente Siegel non ha mancato di sostenere che l’intento delle imputate era di «risvegliare l’apatia del pubblico nei confronti dell’immoralità, l’illegalità, la distruttività della guerra in Iraq». Il giudice ha accolto la sua tesi, trovando perfino il modo di «assolvere» anche i poliziotti che «sul momento non sapevano bene che fare, mentre io ho potuto permettermi il lusso di pensarci su e di determinare che quella di arrestare le imputate non è stata una buona idea».
Dopo gli abbracci all’avvocato, le signore sono andate a ricevere quelli delle centinaia di sostenitori che le aspettavano fuori: c’erano le altre componenti del loro gruppo, chiamato Granny Peace Brigade, brigata delle nonnine per la pace, accompagnate da figli e nipoti, nonché una piccola rappresentanza di un gruppo parallelo dell’Arizona chiamato Raging Grannies, nonnine arrabbiate, venuta a testimoniare la propria solidarietà. Insieme hanno cantato il loro inno, «Dio aiuti l’America», una parafrasi del famoso «Dio benedica l’America», che (anche se la traduzione non rende perché mancano le rime) suona così: «Dio aiuti l’America/ ne abbiamo molto bisogno/ perché i nostri leader sono degli imbroglioni/ e stanno rendendo il mondo ancora più cattivo». Del resto l’avvocato Siegel glielo aveva detto: «Il giudice ha detto che avete il diritto di protestare pacificamente. Quindi protestate». Loro di sicuro non si fermeranno.
Oggi «Reading» a Gerusalemme est e a Rafah (Gaza sud) per ricordare Rachel Corrie, la giovane pacifista americana uccisa da un ruspa israeliana tre anni fa mentre cercava di impedire la demolizione di case palestinesi.
Usa, chiuso il sipario su Rachel Corrie
Autocensure. Due anni fa l’attivista americana veniva uccisa dalle ruspe israeliane. Ma i teatri di Broadway scelgono oggi di annullare il debutto dello spettacolo sulla sua storia per «evitare tensioni»
Irene Alison
Due anni proprio oggi. Da quando, il 16 marzo del 2003, Rachel Corrie veniva uccisa da un bulldozer israeliano sulla strada che porta a Rafah. Lei, sottile e bionda nei suoi 23 anni di ostinato impeto pacifista, era arrivata fin lì dall’America per impedire, col suo corpo di ragazza, alle ruspe di Israele di abbattere le case del campo profughi palestinese. Ma da lì non era più tornata indietro. La sua storia, raccontata a teatro dalla piece My name is Rachel Corrie (scritta dall’attore Alan Rickman e dalla giornalista del Guardian Katharine Viner intrecciando i diari e e-mail di Rachel) , è allora storia di un viaggio senza ritorno, ma anche, da qualche settimana, di un debutto mai avvenuto. Dopo aver raccolto applausi e premi dal palcoscenico del Royal court di Londra, My name is Rachel Corrie era infatti prevista nel cartellone del New York Theatre Workshop per la sua «prima» americana. Ma, all’inizio di marzo, la messinscena della piece è stata posticipata a tempo indeterminato. «Dopo l’annuncio della malattia di Sharon e della vittoria di Hamas in Palestina la situazione ci è sembrata troppo tesa per portare in scena una storia così controversa» – ha motivato il direttore artistico del teatro James Nicola. Di fronte a pressioni politiche subite e a temute inquietudini dell’audience, Nicola ha dunque preferito – come ha sottolineato Katharine Viner in una lettera sul Guardian – ricorrere all’autocensura preventiva. Non sarà allora il pubblico americano ad applaudire, piangere o protestare (come ha fatto nei giorni scorsi la comunità ebraica di Anchorage, in Alaska, davanti alla messinscena di The skies are weeping, altro spettacolo dedicato a Rachel) davanti alla storia di un’adolescente di Seattle che cerca il suo posto nel mondo, che si fa presto adulta maturando coscienza politica e curiosità famelica, che parte per scoprire dove porta la sua strada e per dare corpo e luogo alle sue idee. «My name is Rachel Corrie non è una piece contro Israele, è una piece contro la violenza» scrive la madre di Rachel nel sito dedicato a sua figlia (www.rachelcorriefoundation. org) e ricorda tutte le e-mail ricevute da chi, come un giovane ebreo newyorkese che ha visto lo spettacolo a Londra, ha avuto l’occasione di emozionarsi, capire, cambiare idea. Su un altro sito, (rachel.rickmansweb.net) l’attore e autore Alan Rickman ha invece indetto una petizione, che ha già raccolto migliaia di firme, perché sulla storia di Rachel si apra il sipario dei teatri americani. E perché anche negli Usa dove lei era nata e da dove era partita, possa arrivare la sua voce. Le parole limpide con cui raccontava la sua quotidiana scoperta del mondo: «Mi guardo intorno e vedo sempre più persone che cercano di resistere alla direzione nella quale il mondo sta andando, una direzione nella quale noi siamo senza alcun potere, il nostro futuro è già scritto e la più alta espressione della nostra umanità è scegliere che cosa comprare ai grandi magazzini».
La popolazione della Cisgiordania e gaza di fronte al ricatto del taglio degli aiuti internaionale, alla distruzione dei raccolti e al rischio del collasso dell’economia dell’ ANP.
Luisa Morgantini
“Al diavolo loro e i loro soldi, non siamo un paese di mendicanti, sappiamo lavorare, creare. Si mettono a posto la coscienza perchè ci aiutano a sopravvivere, ma perchè invece non fanno tutti gli sforzi per liberarci dall’occupazione militare, perchè lasciano fare al governo Israeliano cose immonde che non fanno bene neanche a loro. Sono anche loro che hanno fatto vincere Hamas e adesso ci ricattano, hanno voluto che votassimo e noi l’abbiamo fatto, non volevano Arafat e l’ hanno fatto morire, Mahmoud Abbas gli sembrava meglio, ha detto che vuole la pace e nessuna intifadah militare, noi l’abbiamo votato, ci aspettavamo qualcosa, invece l’ hanno lasciato solo, con gli israeliani che ogni giorno ci umiliano e ci chiudono sempre di più dentro prigioni a cielo aperto, ci portano via terra, vita, dignità. A Nablus i soldati entrano nelle case e terrorizzano donne, vecchi, bambini. Anche a Gaza, ci bombardano e cercano di farci impazzire con le bombe suono. Non ho votato per Hamas, ma quasi quasi mi dispiace, visto che ancora una volta ci vogliono imporre i loro punti di vista. Non ci vogliono dare più aiuti? Vedremo di cavarcela, non so come, ma siamo ancora qui dopo averne viste tante, e tanti sono passati, romani, crociati, turchi, ma noi siamo ancora qui, aggrappati a questa terra”.
Ayman , come la maggioranza dei palestinesi, di fronte al ricatto di non avere più aiuti internazionali perchè Hamas, inserito nella lista dei gruppi terroristici, ha vinto le elezioni e formerà il governo, inalbera la sua dignità.
Ayman, lo sento ogni tanto al telefono, l’ ho conosciuto all’inizio della seconda Intidafah, nell’ottobre del 2000, era tra i coltivatori che nei pressi del check point di Kyssufim a Gaza tentavano di impedire l’operazione denominata “Shave the land”: bulldozer israeliani che aiutati dai carri armati sradicavano chilometri di alberi e case per ripulire l’area e impedire possibili attacchi palestinesi ai coloni che transitavano per andare e tornare da Israele. Non è in nessun partito, ha un volto pacioccone e sorridente con baffoni, sa, come moltissimi palestinesi, scherzare e ironizzare sulle tragedie. Questa volta pero’ é arrabbiatissimo, sperava di riuscire a guadagnare qualcosa, invece è rimasto in fila per sette ore con un camion carico di cetrioli al passaggio di Karni nella striscia di Gaza. E’ dovuto tornare indietro, e i cetrioli sono rimasti a marcire sul camion.
E’ la sorte che tocca ai produttori e rivenditori di Gaza e di gran parte della West Bank. In questi mesi stanno marcendo tutti i prodotti agricoli di Gaza, compresi quelli delle famose serre, quelle lasciate dai coloni che erano stati evacuati da Gaza, lasciate non per generosità, ma perchè una donazione di privati, compreso quella dell’inviato internazionale Wolfhenson, di ben 14 milioni di dollari, li aveva ripagati lautamente. Naturalmente non hanno mantenuto i patti, avrebbero dovuto lasciarle intatte e consegnare i piani di irrigazione ai palestinesi. Hanno lasciato solo le strutture esterne, con i teloni di plastica che si devono cambiare ogni due anni, anche qualche palestinese ha contribuito allo sfacelo, portandosi via dei tubi . Ma altri fanno miracoli e sono riusciti a rimettere insieme il tutto, circa quattromila persone hanno ricominciato a lavorare nelle serre. Hanno fatto più in fretta possibile, i primi raccolti sono andati bene, ma i loro prodotti rimangono nelle serre.
Il Karni crossing è rimasto troppo a lungo chiuso e la perdita è stata calcolata in 57 milioni di dollari e i 4000 lavoratori temono di essere di nuovo disoccupati. Non è andata meglio ai fiori, in modo particolare ai garofani, a Gaza se ne producono di bellissimi, tempo fa li esportavano anche a Sanremo. La settimana scorsa in Israele era il giorno della mamma, chiamato in verità il giorno della famiglia e i palestinesi speravano di vendere un po’ della loro produzione, ma il perfido Ministro della Difesa, Mofaz, niente, non ha voluto riaprire il check point malgrado gli accordi che su pressioni internazionale aveva detto di accettare. Problemi di sicurezza, pare che qualche bomba fosse esplosa sotterraneamente nell’area. E Karni è solo il check point per le merci, le poche migliaia di lavoratori di Gaza che hanno il permesso di recarsi in Israele, comininciano ad affollare il check point di Erez anche dall’ una del mattino, ore e ore di attesa e di umiliazioni per poter guadagnare qualche shekel.
Questa è la liberazione di Gaza, i coloni hanno lasciato dietro di sé cumuli di macerie, naturalmente è bene che non ci siano più, solo che la libertà è lontana tutto è ancora nelle mani del governo israeliano che fa il bello e cattivo tempo sui movimenti delle persone e delle merci.
James Wolfhenson, nei giorni scorsi, ha lanciato un grido d’allarme per il pericolo di collasso dell’economia e dell’ Autorità Palestinese, cosi come ha fatto David Shearer dell’Ocha, perchè la chiusura impedisce il passaggio delle derrate alimentari per i profughi che solo a Gaza sono circa settecentomila. Si, perchè il cibo della Fao e dell’ Unrwa sta andando a male nel porto israeliano di Ashdod, e, beffa totale, le organizzazioni internazionali dovranno pagare salatissimo agli israeliani la merce giacente nei magazzini del porto.
L’ex direttore della Banca mondiale ha avvertito il Quartetto dei mediatori internazionali (Russia, Usa, Onu e Ue) che entro due settimane le finanze dell’ANP rischiano il collasso: nel mese di febbraio per le casse palestinesi si e’ aperto un buco di 100 milioni di dollari a causa della decisione di Israele di sospendere il trasferimento all’ANP dei fondi provenienti dai dazi doganali, riscossi dalle autorità israeliane per conto dell’amministrazione palestinese, con l’impegno di riversare il denaro all’ANP il primo di ogni mese.
Per Wolfensohn l’ANP avra’ bisogno di una cifra tra i 60 e gli 80 milioni di dollari gia’ dalla prossima settimana per poter pagare gli stipendi di febbraio dei circa 150.000 mila dipendenti pubblici e qualora non dovesse riuscirvi potrebbe salire ulteriormente la tensione nella popolazione.
L’Unione Europea si è parzialmente sganciata dal ricatto israeliano e statunitense e pur con i suoi limiti (il governo palestinese non si è formato per cui l’autorità palestinese è rappresentata da Mahmoud Abbas) ha disposto lo stanziamento di un pacchetto di 143 milioni di euro per venire incontro alle esigenze primarie dei Palestinesi. Un gesto considerato positivo da Hamas.
Ma anche il governo israeliano non si lamenterà troppo perchè avrà la sua parte, infatti, di questa cifra ben 48 milioni di euro andrà nelle sue casse per il pagamento delle bollette dell’elettricità usata dai palestinesi. I rimanenti fondi andranno all’istruzione e alla sanità principalmente all’Unrwa, e 21 milioni, una piccola fetta del budget dell’autorità palestinese che ammonta a 165 milioni al mese, in grande parte usato per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, compresi il personale della sicurezza e della polizia.
Riprendo l’appello di Wolfhenson: “la Palestina è sull’orlo di un collasso finanziario”, ma noi non possiamo far finta di non vedere le responsabilità di Israele e della Comunità Internazionale e sopratutto noi europei, come ci ricorda Ayman, non possiamo metterci a posto la coscienza perchè diamo aiuti umanitari ai palestinesi. Certo dobbiamo darli, ma dobbiamo generare le condizioni perchè i palestinesi non siano più alla mercè dell’occupazione militare israeliana.
E’ una soluzione politica che è indispensabile.
Mi si accuserà di non parlare delle responsabilità palestinesi, dalla corruzione alla mancata sicurezza interna, ai gruppi che ancora minacciano azioni armate o attacchi omicidi e suicidi (Hamas dall’accordo del Cairo rispetta il “cessate il fuoco”). Per una volta non voglio parlarne, i palestinesi ne parlano e ne discutono e troppo ne parlano i dirigenti Israeliani. E” la loro tattica, attaccare i palestinesi, fare le vittime per nascondere la loro politica di stampo marcatamente coloniale e di apartheid con il muro (definito illegale dalla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite) che cresce e si prende sempre più terra della West Bank Wolfhenson, e lo ha ribadito anche la commissaria Europea, Benita Ferraro Waldner, ha chiesto al governo israeliano di trasferire i fondi dei dazi doganali all’ANP. Mentre tutti i media parlano di “blocco” dei fondi da parte di Israele nei confronti dell’ANP, nessuno dice che di vero e proprio furto si tratta, per la verità in Israele, su un giornale autorevole come Haaretz, Amira Hass, lo dice, si’, sempre lei, giornalista molto premiata in campo internazionale ma molto osteggiata in patria. Furto perchè i fondi che il governo israeliano ha bloccato come ritorsione per la vittoria di Hamas alle ultime elezioni -tra l’altro tenutesi in un clima democratico e di legalità attestato dagli osservatori internazionali ed europei- rappresentano le rimesse fiscali mensili che di diritto e secondo gli Accordi di Oslo e il Protocollo economico di Parigi (1994), spettano legittimamente all’ANP. Quei soldi appartengono di diritto all’Autorità Nazionale Palestinese e il fatto che vengano raccolti ai transiti di frontiera da Israele, che per di più ne trattiene una percentuale per finanziare i costi delle operazioni, rappresenta la prova evidente dello stato di occupazione in cui si trova la Palestina.
Il congelamento dei fondi dei dazi doganali sono un prolungamento delle politiche di punizione collettiva praticate nei confronti della popolazione palestinese dei territori occupati dal 1967 dal Governo israeliano, e se ne possono citare infinità, dal coprifuoco imposto per settimane a intere città e villaggi, i bombardamenti e i rastrellamenti, la demolizione di case, le detenzioni amministrative, lo sradicamento di alberi, per non dire degli assassini mirati che ammazzano civili e bambini, ma si sa siamo in tempi di “effetti collaterali”.
Ora sarebbe non solo ”importante politicamente” che la comunità Internazionale imponesse ad Israele di sbloccare il trasferimento dei proventi doganali nei confronti dei palestinesi, sarebbe un piccolo doveroso passo verso il rispetto della legalità internazionale.
L’Unione europea, la Comunità Internazionale non può sottostare ai ricatti del governo Israeliano anche se è appoggiato dagli Usa. Spinga per il negoziato, faccia pressione su Israele perchè non continui nella politica unilaterale.
Ma si dice che ora non bisogna forzare, perchè si attende l’esito delle elezioni israeliane del 28 Marzo. Le dichiarazioni del facente la funzione di Primo Ministro, Olmert o della Ministra degli esteri israeliana Livni, che hanno definito, con l’accelerazione delle costruzione del Muro e la chiusura della Valle del Giordano, le annessioni territoriali, vengono prese come necessarie per non scontentare gli elettori oltranzisti e i coloni, per fare in modo che il partito voluto da Sharon e al quale si è aggregato Simon Peres, Kadima esca vincente nelle prossime elezioni. Anche le incursioni continue nei territori occupati, anche le uccisioni dei civili e la politica del pugno di ferro che viene ribadita e fatta in continuazione è accettata in nome delle prossime elezioni. Siamo al cinismo e alla follia.
Intanto tra i palestinesi regna molta confusione e incertezza. Ma non sono immobili. In qualche modo la nuova situazione ha dato una scossa che ha risvegliato molti dal torpore e dalla routine. Molte associazioni di donne si stanno riorganizzando per non perdere i loro diritti. Hamas ha finora dimostrato di voler restare nel gioco democratico e di non compiere attentati, e sta cercando di formare un governo di unità nazionale, non dirà formalmente ri riconoscere Israele, ma nei fatti si se accetta di formare un governo che riconosce gli accordi sottoscritti dall’Autorità Nazionale Palestinesi e la Costituzione votata nel 2003 che dice che lo Stato Palestinese è sui territori occupati del 1967.
Fatah è alla ricerca di una strada, divisi se entrare o meno nel governo di unità nazionale, cercando di ridare spazio al Consiglio Nazionale Palestinese e all’Olp. Tra i partiti della sinistra o laici e democratici che hanno avuto 9 seggi non si è ancora riusciti a trovare momenti unitari, anzi il Fronte Popolare pare deciso ad entrare nel governo di Hamas. Intanto, gruppetti di palestinesi armati che, come dichiarato dal Presidente Abbas, non hanno niente a che fare con il movimento di liberazione nazionale continuano a fare sentire insicura la popolazione di diverse città palestinesi, molti di loro sono delinquenti comuni che con le armi si mettono al soldo di chi li paga per compiere vendette o furti o per fare pagare tangenti o per fare sequestri. “E’ la nostra mafia” mi dicono due giovani di Nablus, in Italia per raccontare l’odissea dei giovani palestinesi che rifiutano la morse dell’occupazione e degli attentati suicidi e che vogliono semplicemente “vivere e avere un futuro senza paura”. Hanno paura, anche del buio, abitano a casa mia da più di tre mesi, ogni notte lasciano la luce accesa nel corridoio e la porta della camera socchiusa, ed io che ho sempre dormito con la porta della mia camera aperta devo chiuderla perchè la luce mi infastidisce.
Mahmoud Darwish un grande poeta, dice che i palestinesi sono costretti ad essere “malati di speranza”. Forse lo sono anch’io.
Sarebbe davvero grande se l’Unione Europea con una sola voce non pensasse di lenire qualche pena con aiuti umanitari ma decidesse di non avere due pesi e due misure ed imponesse il rispetto della legalità internazionale. Uniamo le nostre ragioni, la sinistra italiana (non considero sinistra chi inneggia all’uccisione di civili) nella sua varietà e differenze ha fatto molti errori, quello più grave, ovviamente a mio parere, è quello di non avere usato tutte le sue potenzialità ed energie per porre fine all’occupazione militare israeliana e portare in essere uno stato palestinese in coesistenza con lo stato israeliano e finalmente un po’ la pace e giustizia in Palestina e Israele.
Una ragazza giovanissima precipitata nella catastrofe della guerra, tra la violenza delle bombe nemiche e la follia degli amici. «Ci sentivamo come i partigiani»
Riccardo De Gennaro
No, non è la stessa guerra che vediamo in televisione. Nella guerra reale prima ci sono le sirene del coprifuoco, il rombo degli aerei nemici, il sibilo delle bombe. Poi le fiamme, le case distrutte, la paura di aver perso tutto, i morti, lo strazio. Chi ha conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale ricorda quei momenti, ma sono ricordi che risalgono a più di sessant’anni fa. Quelli di Dunja Popin, 30 anni, serbocroata di Belgrado, non ne hanno più di sette. Lei sa che cosa significa vivere per tre mesi sotto i bombardamenti senza un rifugio e con l’acqua razionata. Era il 24 marzo 1999. Per la prima volta dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale nei cieli di una capitale europea spuntava il muso ostile dei cacciabombardieri. L’obiettivo era Belgrado, gli aerei – impegnati in un’azione offensiva contro uno Stato sovrano, a dispetto della Charta dell’Onu – erano quelli della Nato. Dunja, un nome dolcissimo che in serbo significa «mela cotogna», come prima cosa aveva paura di perdere il suo mosaico. Il ’99 era per lei l’ultimo anno d’Accademia di Belle Arti, aveva disegnato un pesce enorme e lo stava ricoprendo di pietruzze variopinte. La guerra civile nell’ex Jugoslavia andava avanti da otto anni, ma Belgrado non era mai stata toccata. I serbi erano riusciti a tenere il teatro di guerra lontano dalla capitale, ma non dalle coscienze. «Vivevamo nel grigiore, eravamo convinti che non c’era futuro per noi. E allora io, che avevo 23 anni, mi costruivo un mio mondo tutto colorato. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma quando sentivo venire gli aerei tremavo per la paura che le vibrazioni del pavimento distruggessero le tessere del mio lavoro che non avevo ancora fissato con la colla». Chi se ne frega di Milosevic? A Dunja di Milosevic non gliene importava niente, sapeva che era un mascalzone, tanto è vero che nell’ottobre 2000 sarebbe scesa anche lei in piazza giorno e notte per denunciare i brogli della sua ultima elezione: «La Nato voleva colpire lui, ma ha colpito noi, lui l’ha rafforzato, prova ne sia che è rimasto al potere fino alla fine del 2000». Quando era cominciata la guerra civile, nel ’91, Dunja aveva 14 anni. «Non pensavamo che sarebbe durata tutti quegli anni, dicevamo: tra tre mesi finisce. Speravamo in qualche intervento esterno, qualche mediazione, qualcuno che dicesse basta. Pensavo anche che ci saremmo fermati da soli, mi sembrava una cosa impossibile, eravamo tutti fratelli fino a ieri». I bombardamenti della Nato in Serbia hanno fatto un migliaio di morti tra i civili, a causa anche di quei «danni collaterali» rigorosamente pianificati dagli americani e dai loro alleati per costringere la popolazione a rovesciare Milosevic: ne fecero le spese, tra gli altri, i passeggeri di un treno che si trovava a passare su un ponte della Serbia meridionale (55 N RICCARDO DE GENNARO o, non è la stessa guerra che vediamo in televisione. Nella guerra reale prima ci sono le sirene del coprifuoco, il rombo degli aerei nemici, il sibilo delle bombe. Poi le fiamme, le case distrutte, la paura di aver perso tutto, i morti, lo strazio. Chi ha conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale ricorda quei momenti, ma sono ricordi che risalgono a più di sessant’anni fa. Quelli di Dunja Popin, 30 anni, serbocroata di Belgrado, non ne hanno più di sette. Lei sa che cosa significa vivere per tre mesi sotto i bombardamenti senza un rifugio e con l’acqua razionata. Era il 24 marzo 1999. Per la prima volta dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale nei cieli di una capitale europea spuntava il muso ostile dei cacciabombardieri. L’obiettivo era Belgrado, gli aerei – impegnati in un’azione offensiva contro uno Stato sovrano, a dispetto della Charta dell’Onu – erano quelli della Nato. Dunja, un nome dolcissimo che in serbo significa «mela cotogna», come prima cosa aveva paura di perdere il suo mosaico. Il ’99 era per lei l’ultimo anno d’Accademia di Belle Arti, aveva disegnato un pesce enorme e lo stava ricoprendo di pietruzze variopinte. La guerra civile nell’ex Jugoslavia andava avanti da otto anni, ma Belgrado non era mai stata toccata. I serbi erano riusciti a tenere il teatro di guerra lontano dalla capitale, ma non dalle coscienze. «Vivevamo nel grigiore, eravamo convinti che non c’era futuro per noi. E allora io, che avevo 23 anni, mi costruivo un mio mondo tutto colorato. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma quando sentivo venire gli aerei tremavo per la paura che le vibrazioni del pavimento distruggessero le tessere del mio lavoro che non avevo ancora fissato con la colla». Chi se ne frega di Milosevic? A Dunja di Milosevic non gliene importava niente, sapeva che era un mascalzone, tanto è vero che nell’ottobre 2000 sarebbe scesa anche lei in piazza giorno e notte per denunciare i brogli della sua ultima elezione: «La Nato voleva colpire lui, ma ha colpito noi, lui l’ha rafforzato, prova ne sia che è rimasto al potere fino alla fine del 2000». Quando era cominciata la guerra civile, nel ’91, Dunja aveva 14 anni. «Non pensavamo che sarebbe durata tutti quegli anni, dicevamo: tra tre mesi finisce. Speravamo in qualche intervento esterno, qualche mediazione, qualcuno che dicesse basta. Pensavo anche che ci saremmo fermati da soli, mi sembrava una cosa impossibile, eravamo tutti fratelli fino a ieri». I bombardamenti della Nato in Serbia hanno fatto un migliaio di morti tra i civili, a causa anche di quei «danni collaterali» rigorosamente pianificati dagli americani e dai loro alleati per costringere la popolazione a rovesciare Milosevic: ne fecero le spese, tra gli altri, i passeggeri di un treno che si trovava a passare su un ponte della Serbia meridionale (55 non so perché c’è stata la guerra civile. Abbiamo fatto delle cose atroci». Durante la guerra Dunja e la sua famiglia hanno sofferto la fame. Un giorno vede il padre pittore uscire di casa con una sua tela ad olio sotto il braccio, un vaso di fiori. Quando rientra sotto il braccio ha un pezzo di lardo da sette chili. L’aveva scambiato con il quadro al mercato nero. «Sì, la cosa peggiore è stata la fame. Non avevamo niente. Non so come siamo riusciti a sopravvivere. Per gli otto anni della guerra ho mangiato lardo fritto e pane fatto con farina andata a male. Gli aiuti dell’Europa andavano soltanto ai rifugiati, i croati ricevevano cibo e armi dal Vaticano, noi niente. Se oggi sento l’odore di grasso di maiale muoio». La fame anche in Italia È un’esperienza, quella della fame, che farà anche in Italia. «Alla fine della guerra volevo soltanto fuggire dalla Serbia, non c’era lavoro, la vita era diventata carissima. Avere il visto per espatriare era difficile, qualcosa si trovava se si sceglieva l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda. Per fortuna ho vinto un concorso per un breve master in pittura a Firenze. Quando l’ho terminato ho deciso fermarmi qui in Italia. Sono venuta a Roma, dove avevo alcuni amici, per fare l’artista a tempo pieno. Come ho vissuto durante questi sei anni? Ho trascorso molti periodi difficili, ma ogni volta che rimanevo senza soldi o un tetto riuscivo miracolosamente a vendere qualche quadro e a tirare avanti. Il mio stomaco ricorda uno per uno questi momenti di tensione, ma se si tiene conto in quali condizioni e tempi ho vissuto nel mio paese per dieci anni non è difficile immaginare che per noi serbi la gastrite è come una bandiera nazionale, un segno di riconoscimento: chi ne è privo può tranquillamente essere considerato una spia, o almeno un intruso». Dunja dipinge acquerelli e fa mosaici marini. Quello che ha rischiato di andare a pezzi sotto le bombe, due metri per tre, l’ha venduto qualche anno fa. I più recenti si possono vedere sul suo sito on line (www.dunjapopin. com) e tra breve in una sua personale romana. A Roma si è fidanzata, dice di non avere nostalgia della Serbia, anche se le manca molto la neve. «Ogni volta che la vedo in televisione mi commuovo», dice. Torna raramente a Belgrado: «Costa troppo». Ma tutte le volte che ci va la sorprende vedere che negli occhi dei suoi concittadini c’è ancora la follia. «Io forse, grazie alla distanza, riesco a essere lucida e realista. Vedo che loro sono invece un po’ esaltati, oppure depressi cronici con cupi pensieri. Quegli anni ci hanno fatto diventare tutti un po’ matti. Siamo una generazione perduta. I nostri genitori erano ricchi e felici, viaggiavano all’estero, acquistavano appartamenti. Per noi solo fame e disoccupazione. Forse i nostri figli staranno meglio di noi. O forse i nostri nipoti». Quando riaccesero l’illuminazione delle strade a Belgrado dopo i mesi di bombardamento disse: «Guarda, Parigi!».
Un gruppo di European jews for a just peace è andato a vedere il villaggio della Cisgiordania spaccato in due dal Muro
Paola Canarutto
Bi’lin è un villaggio agricolo, a cui la “barriera di separazione” confisca metà del terreno coltivato. Il motivo ufficiale addotto dalle autorità israeliane è che la “barriera” viene costruita per motivi di sicurezza, ma il movente reale è quello di impadronirsi di terra per la colonia ebraica ortodossa di Modi’in Illit. Gli abitanti del villaggio lottano da diversi mesi in modo non violento, e Ejjp (European Jews for a Just Peace), una confederazione di gruppi ebraici di 10 paesi europei, ha deciso di dimostrare loro solidarietà.
E’ così che, la mattina del 16, siamo partiti in aereo per Tel Aviv, per tenere la nostra riunione del comitato esecutivo nel municipio di Bi’lin. Ma le cose non sono andate lisce. All’aeroporto Ben Gurion, il nostro segretario, Dan Judelson, è stato fermato ed interrogato per 5 ore, per aver dichiarato di far parte di un gruppo ebraico per la pace, che intendeva parlare con ebrei e palestinesi. L’agente gli ha chiesto: “Perché un buon ebreo vuole parlare con palestinesi?”. Così pure è stata fermata per 5 ore l’anziana Paula Abrahams, il cui “reato” è l’aver sposato un palestinese. Peggior sorte ha avuto Houria, figlia di madre ebrea e moglie di un ebreo (il cui cognome è riportato sul passaporto), per il fatto di avere padre musulmano e nome arabo (Houria in arabo significa libertà): è stata trattenuta all’aeroporto per 10 ore e interrogata per 9, da 7 agenti diversi. Per liberarli hanno dovuto intervenire un avvocato e la bravissima giornalista israeliana Amira Hass.
A Bi’lin abbiamo manifestato con gli abitanti contro il Muro (Dror Feiler, il presidente di Ejjp, ha suonato il sassofono davanti ai soldati in assetto di guerra, che non sapevano bene come reagire a tale insolito comportamento). Il giorno dopo ci siamo uniti al migliaio di israeliani che è andato a piantare ulivi nelle zone in cui erano stati divelti dai coloni. I palestinesi erano felici della nostra dimostrazione di solidarietà, benché almeno in una zona questi siano stati dopo pochi minuti divelti dai coloni medesimi.
Siamo transitati diverse volte, a piedi e in auto, dall’orrido posto di blocco al Muro di Qalandya: due alti muri concentrici, interrotti da torrette, e in cima ai quali c’è il filo spinato: l’unico commento possibile è che ai costruttori del Muro manca ogni memoria storica di quel che hanno subito gli ebrei in Europa, poco più di 60 anni or sono. Si passa in corridoi senza contatto con i soldati, che impongono ordini dagli altoparlanti; sbarre parallele rotanti permettono loro di fermare il transito dei pedoni ogni qual volta lo desiderano. “Come galline in un pollaio”, ha commentato una di noi, che si è trovata bloccata. E Houria, a cui all’aeroporto non era stato apposto il timbro di ingresso sul passaporto, è stata di nuovo fermata dai soldati: mancando il timbro, a Gerusalemme Est, che Israele ha annesso, è “illegale”. Ma non vi è controllo routinario delle borse, né delle auto: che i controlli siano “per la sicurezza”, come sostengono gli israeliani, lascia per cui alquanto a dubitare.
All’università palestinese di Al Quds i dipendenti sono in sciopero bianco da tre settimane, in quanto non sono pagati da due mesi; la situazione sul versante “paghe” è la stessa all’ospedale Makassed, a Gerusalemme Est (che ora i pazienti trovano difficile raggiungere: Gerusalemme Est è separata dal resto della Cisgiordania dal Muro, e i palestinesi che non hanno la carta blu dei residenti a Gerusalemme devono chiedere ogni volta un permesso della durata di 24 ore allo Shabak, la polizia israeliana, per poter passare). Abbiamo visto la miseria in cui vivono i palestinesi cisgiordani (e nella Striscia di Gaza la situazione è ancora peggiore) – questo ancora prima che si manifestino le conseguenze della confisca degli introiti doganali e dell’Iva palestinesi, voluta dal governo israeliano per punire gli abitanti del voto a Hamas.
Dopo decenni di occupazione israeliana, le strade in Cisgiordania sono in condizioni pessime, ciò che non può che rallentare l’economia. Le confische di terra e di acqua, aggravate dalla distruzione degli olivi, impedisce l’attività agricola, e le centinaia di posti di blocco (all’interno della Cisgiordania medesima, onde difendere le colonie e le strade che le collegano) impediscono a chiunque di recarsi al lavoro, se questo non è prossimo all’abitazione; la conseguenza è la fame.
Nel campo profughi di Jenin, Dror e Jonathan Stanczak hanno inaugurato il Teatro della Libertà, ispirato al teatro di “Arna’s Children”, distrutto nell’invasione israeliana di Jenin nel 2002. Altri di noi hanno partecipato alla conferenza sui metodi non violenti di lotta, tenuta a Bi’lin il 20 e il 21; fra i temi trattati, c’è stato quello di come opporsi alla costruzione di linee tranviarie da Gerusalemme Ovest alle colonie (per la prima delle quali, Pisgat Zeev, si progetta una connessione in atto già fra due anni): è un sistema per consolidare l’annessione di terre palestinesi, rendendo così la nascita di uno stato di Palestina sempre più improbabile (se con il termine “Stato” non si vogliono indicare bantustans disconnessi fra di loro dalle colonie e dalle strade che le collegano).
Abbiamo avuto modo di incontrare diversi gruppi israeliani che, in modi diversi, combattono l’occupazione: i giovanissimi anarchici, Ta’ayush, i Rabbini per i diritti umani, l’Alternative Information Center (l’unica organizzazione in cui israeliani e palestinesi sono allo stesso livello, condiretta da Michel Warschawski e Majed Nassar), l’Icahad (International Committee against House Demolitions), Machsom Watch (le donne che ai posti di blocco cercano di ridurre la violenza dei soldati), Bat Shalom, l’Arcobaleno democratico mizrahi (degli ebrei di origine africana, discriminati da decenni nello Stato di Israele). Alla conferenza a Bi’lin ci è stato riferito che la grande maggioranza dei partecipanti erano ebrei, come pure che sono ebrei la maggior parte degli aderenti allo Ism, l’International Solidarity Movement. Questo fa ben sperare per il futuro, benché attualmente la stupefazione di noi tutti sia che, in queste condizioni, la maggioranza dei palestinesi riesca a sopravvivere senza emigrare. Un’opzione apertamente auspicata in Israele dal partito di destra Moledet, ma portata avanti da tutti i partiti al governo.
* Ebrei per una pace giusta a Bi’lin
“In che modo elaborare un rifiuto della guerra non neutro ma sessuato, cioè segnato dalla complessità di approcci con cui la soggettività femminile e l’esperienza femminile del mondo si sono espresse e si esprimono sulla guerra?”.
E’, questo, l’interrogativo che ha orientato il percorso di ricerca delle dieci autrici – e un autore – del testo La guerra non ci dà pace. Donne e guerre contemporanee, curato da Carla Colombelli (edizioni Seb 27, pp. 240, euro 12,50).
Un interrogativo che non è più possibile eludere, nel momento in cui, accanto all’immagine della donna estranea alla guerra, assente dai combattimenti, madre-moglie-sorella-figlia-vittima da proteggere, si stagliano quelle – non certo nuove, ma rese più visibili dai media – delle donne in armi, soldate, terroriste, kamikaze. Rappresentazioni, le une e le altre, stereotipate, che rendono difficile leggere la realtà complessa della presenza-assenza delle donne negli scenari bellici, non riducibile all’estraneità. Non solo: le nuove, diverse modalità con cui la guerra viene combattuta, facendo venir meno la linea del fronte e la divisione tra combattenti e non combattenti, coinvolgono la popolazione civile, costituita, oltre che da anziani e bambini, dalle donne, appunto. E le donne, i loro diritti, la loro libertà, sono diventati pretesto, giustificazione ideologica per alcune delle guerre
più recenti, prima fra tutte quella in Afghanistan. E’ indispensabile decostruire i ruoli e gli stereotipi, giocati sull’ambiguità tra estraneità e partecipazione, che alle donne sono stati attribuiti e che, più o meno consapevolmente, esse hanno ricoperto, per far emergere la molteplicità delle loro posizioni, ma, soprattutto, per restituire autorevolezza alle loro parole sulla pace, spesso non udibili e relegate nella sfera dell’impolitico dai discorsi dominanti.
Carla Colombelli, con le autrici e l’autore che hanno collaborato al progetto, individua un importante nodo problematico nella strutturazione e colonizzazione dell’immaginario individuale e collettivo da parte della guerra: essa, che lo vogliamo o meno, entra prepotentemente nella nostra realtà quotidiana, informando di sé valori, ruoli, comportamenti, sentimenti, forme del vivere sociale e dell’agire politico. E’ importante che i discorsi sulla guerra, articolati secondo il punto di vista dei due generi, entrino nelle aule scolastiche.
E che rendano evidente la messa in ombra della presenza femminile nella storia.
E’ un’ottica che va oltre l’egemonia maschile nel campo dei saperi – come della politica – e si apre al riconoscimento dell’Altro, delle differenze, della molteplicità. “C’è un filo di autorità femminile – è una frase di Luisa Muraro, citata nel libro – che percorre la storia politica dell’occidente.
Intendo: autorità di donne dotate di indipendenza simbolica dal sistema del potere. Questo filo corre dall’antichità fino ai nostri giorni”.
La ricca bibliografia curata da Luisa Peisino costituisce, certamente, una parte molto importante di questo lavoro: è posta, contrariamente alle consuetudini, all’inizio del testo, e incita immediatamente il lettore e la lettrice ad approfondire l’argomento. Cristina Giudice indica l’esistenza di uno sguardo femminile sulla guerra molto particolare: quello di artiste che si sono interrogate sui conflitti contemporanei. L’autrice utilizza categorie proprie del pensiero femminista, che consentono di mettere in luce, nelle opere presentate, la pratica del “partire da sé”, l’attenzione
per le differenze di genere e per gli stereotipi con cui queste vengono irrigidite e, soprattutto, per i corpi sessuati, per il loro utilizzo, sfruttamento e strazio nella materialità della guerra e nella sua
costruzione simbolica. Molto utili, come punti di partenza per l’elaborazione di progetti a scuola, i due saggi di Emma Schiavon, dedicati, rispettivamente, alla rielaborazione del pensiero di due studiose, Jean Bethke Elshtain e Rada Ivekovic, sulle connessioni tra genere, guerra, nazionalismo e cittadinanza, e all’analisi dei testi giornalistici allo scoppio della guerra del Golfo, riguardanti gli accaparramenti alimentari in Italia.
Emerge “come un discorso mediatico fortemente segnato dagli stereotipi di genere abbia inciso in modo molto profondo, proprio perché inavvertito, sull’auto-rappresentaione delle italiane e degli italiani”. Anche il contributo di Graziella Gaballo, orientato alla decostruzione di ruoli e stereotipi, insiti nei discorsi sulla guerra e, specialmente, nel linguaggio della guerra, si presta allo stesso scopo. Da segnalare anche gli interventi di Carla Bausone e Grazia Corrente, sul pensiero di Virginia Woolf, Simone Weil e Etty Hillesum; di Giorgio Belli, sulle auto-rappresentazioni dell’identità maschile nei film Apocalypse Now e Full metal jacket; di Enrica Panero, Laura Poli, Laura Porceddu, sulla storia delle Donne in Nero, arricchiti dagli appunti di Franca Maglietta.
Il libro si rivolge, in particolare, ad insegnanti di scuola media e superiore, propone percorsi didattici. Ma è interessante per chiunque voglia approfondire la propria conoscenza dell’elaborazione teorica e delle pratiche femminili sui conflitti e contro la guerra e per chi intenda, come si diceva, “dare al rifiuto della guerra un carattere sessuato”.
A. PA.
Rose Gentle, madre di un soldato scozzese morto in Iraq nel 2004, ha deciso di iniziare la propria battaglia contro la guerra, sull’esempio dell’americana Cindy Sheehan. Rose ha annunciato ieri di voler creare un campo della pace installato in permanenza davanti a Downing Street. Con lei, altre donne che hanno perso figli o mariti in guerra e intendono in particolare protestare contro il rifiuto di concedere aiuti alle famiglie che vogliono denunciare il premier iracheno Tony Blair per il conflitto iracheno. Quella consistente parte di britannici che non ha mai digerito la guerra e mai si è rassegnata torna dunque a mobilitarsi. Il momento non potrebbe essere più opportuno, visto quel che accade ai soldati inglesi in Iraq. Un vento di rifiuto si sta alzando, mentre le truppe sul fronte di guerra sembrano sul’orlo del crollo psicologico, come titolava ieri a tutta pagina il quotidiano inglese The Independent («Are British troops at breaking point in Iraq?»). La domanda è d’obbligo, quando si prendono in considerazione tutti i fatti che il quotidiano enumera. A partire dal gesto compiuto dal soldato semplice Troy Samuels, decorato solo sette mesi fa con la Military Cross per il coraggio mostrato in azione in Iraq, e che ora ha deciso di abbandonare la carriera militare non sentendosela più di tornare in guerra. Con lui, altri 70 soldati del suo battaglione, il Princess of Wales Regiment, hanno preferito dire addio all’esercito piuttosto che tornare al campo di battaglia. Episodi che si aggiungono all’apparente suicidio avvenuto a Bassora di un inquirente militare, il capitano Ken Masters, trovato impiccato nel suo alloggiamento; a al deferimento alla corte marziale del primo soldato inglese «refusnik», Malcolm Kendall-Smith, che si è rifiutato di andare a combattere una guerra che considera «illegale».
Secondo Combat Stress, un’organizzazione militare di assistenza ai soldati in difficoltà psicologica da servizio, a provocare la più grave crisi morale che mai abbia afflitto le truppe inglesi nell’ultimo decennio, è l’indefinitezza di orizzonte di questa guerra difficile e pericolosa, i cui tempi si stanno allungando oltre misura. Né certo hanno contribuito a migliorare la percezione i recenti commenti del ministro degli esteri Jack Straw, secondo il quale le truppe inglesi potrebbero restare impigliate in questo conflitto per altri dieci anni. Per il commodoro Toby Elliot, capo esecutivo di Combat Stress, interpellato da The Independent, la fuga anticipata dall’esercito è innescata dalla speranza che gli effetti psicologici delle guerra – flashback, incubi, sensi di colpa – vengano in tal modo ridotti.
Assai esplicite in questo senso le dichiarazioni degli stessi soldati, raccolte dal quotidiano. Come quella dell’anonimo caporale che confida: «Questo è stato un duro, duro turno. Sarei contento di non tornare in Iraq per un po’» o dell’altro soldato che dichiara: «Mr Blair continua a dire che tutto sta andando meglio là. Forse dovrebbe prendersi il disturbo di venire a vedere lui stesso. E’ facile mandare i figli degli altri in Iraq».
Anche la misteriosa morte del capitano Ken Masters, 96esimo caduto britannico, spedito in Iraq per esaminare le accuse di abusi sui civili iracheni da parte delle truppe britanniche, presenta più di un aspetto inquietante. Il carico di lavoro cadutogli addosso era immenso, e spinoso quant’altri mai, perché immense erano anche le pressioni cui era sottoposto. Cercare i veri responsabili delle violenze era un compito arduo, soprattutto volendo evitare, come Masters a detta dei suoi colleghi intendeva fare, che fossero i soldati semplici a fare da capro espiatorio per colpe che non erano solo loro. Masters, si dice oggi, era anche consapevole del sentimento dominante nell’ambiente militare: che i soldati imputati si addossano la colpa di una guerra sempre più impopolare.
Ma c’era anche dell’altro, a premere su Masters. Pochi giorni fa era arrivato un pesante avvertimento del procuratore generale, Lord Goldsmith, contro i militari che indagano sui crimini dei militari. Alcuni alti ufficiali avevano infatti tentato, di comune accordo, di bloccare un inchiesta sull’uccisione in Iraq del sergente Steve Roberts, morto per un colpo d’arma da fuoco pochi giorni dopo aver dovuto riconsegnare un giubbotto anti proiettile, per scarsità di equipaggiamento.
Era davanti alla Casa Bianca. Attorno a lei si è coagulato il movimento contro la guerra
S.D.R.
La polizia di Washington non deve avere un gran senso dell’opportunità. Ieri ha deciso di arrestare, davanti a un gran pubblico e alle telecamere, Cindy Sheehan, la madre di un giovanissimo militare morto in Iraq – ovvero, la donna attorno a cui si è coagulato e rivitalizzato negli Stati uniti un movimento contro la guerra. Cindy Sheehan è stata arrestata nel pomeriggio di ieri fuori dalla Casa Bianca. Era con decine di altre persone: avevano camminato giù per Penssylvania Avenue e poi si erano seduti sul marciapiede, sul lato nord della residenza presidenziale. La polizia si è subito fatta avanti per avvertire che il sit-in era illegale, e ha seguito le regole a puntino: poiché i manifestanti non si muovevano, al terzo avviso ha cominciato ad arrestarli. Ha cominciato proprio dalla signora Sheehan, che si è alzata ed è stata portata a un veicolo della polizia mentre gli altri scandivano: «Il mondo intero sta guardando».
Cindy Sheehan, 48 anni, californiana, è diventata un simbolo di un nuovo movimento contro la guerra quando ha deciso di trasformare in protesta la sua tragedia personale. Suo figlio Casey, 24 anni, è stato ucciso l’anno scorso a Sadr City, in Iraq. Lei ha reagito. La scorsa estate è andata a piazzarsi davanti al ranch del presidente George W. Bush a Crawford, in Texas, con un piccolo gruppo di madri come lei e di sostenitori. L’accampamento di fortuna, chiamato «Camp Casey», è cresciuto, qualcuno ha messo a disposizione un terreno, e le madri pacifiste hanno avuto l’attenzione dei media: ostinate, sono rimaste là per settimane. La loro semplice domanda – «perché i nostri figli vano a morire in Iraq» – ha innescato una reazione molto ampia. «Mio figlio è morto per niente, e George Bush con le sue politiche senza scrupoli lo ha ucciso», ha dichiarato e scritto Sheehan: «Mio figlio è stato mandato a combattere una guerra che non aveva fondamento nella realtà ed è stato ucciso per questa».
«I nostri figli muoiono ogni giorno per una bugia», hanno detto le madri divenute pacifiste: è una carneficina senza senso, non stiamo portando democrazia né pace in Iraq. «L’unico modo di sostenere le nostre truppe è riportarle a casa subito», ha ripetuto Cindy in innumerevoli interviste.
E’ così che un movimento contro la guerra si è messo in moto, come uscendo dal torpore. Nelle ultime due settimane una carovana ha attraversato 27 degli Stati uniti. Infine la manifestazione dell’ultimo fine settimana a Washington: sabato c’erano forse 150mila persone a marciare davanti alla casa Bianca; per unanime opinione è stata la più grande manifestazione del suo genere da quando la guerra in Iraq è cominciata nel marzo del 2003.
Le circa 250 madri raccolte dalla signora Sheehan erano anche sabato le protagoniste della marcia – insieme alla rete che va sotto il nome United for Peace and Justice, a gruppi di «Veterani dell’Iraq contro la guerra», a collettivi di giovani no-global, a frange sindacali e ai pochi esponenti politici che si siano finora schierati apertamente contro l’avventura in Iraq: tra i pochi c’era il reverendo Jesse Jackson. Interessante: gli slogans contro la guerra in Iraq si sono mescolati a quelli sulla cattiva gestione del disastro Katrina, «usate le risorse per i soccorsi, non per la guerra».
L’amministrazione Bush ha finora cercato di combattere il movimento delle «madri contro la guerra» schierando altre madri e padri di soldati impegnati in Iraq: anche domenica ne ha mobilitati 500, che hanno manifestato a Washington «a sostegno delle nostre truppe» che combattono per la patria. Ma non sono molto convincenti, a giudicare dai sondaggi d’opinione.
Vittorio Zucconi
Il granello di senape che la madre di un caduto buttò davanti al ranch di Bush in agosto, mette radici in settembre a Washington davanti alla Casa Bianca. Cresce nelle migliaia di persone venute qui a raccontare il malessere di un´America che non marcia più compatta al suono dei tamburi di guerra. Non è la presa della Bastiglia, la folla che vedo marciare e scandire “Bush lies, thousands dies”.
Bush mente e migliaia muoiono, attorno alla casa vuota del presidente. Non è ancora la sollevazione popolare che per giorni e notti assediò Lyndon Johnson e Richard Nixon. E non c´è neppure Bush, portato dalle sue baby sitter in un bunker militare del lontano Colorado per seguire l´uragano Rita a distanza di sicurezza. Ma è la prima manifestazione visibile, tangibile, televisivamente reale di quello che l´effimero dei sondaggi ci ripete da settimane, che l´America dell´autunno 2005 non è più quella del 2003 che Bush poteva mobilitare e compattare con la promessa di giustizia armata per i martiri dell´11 settembre. Quel link, quel cordone cruciale fra l´aggressione delle Due Torri e l´occupazione dell´Iraq si sta spezzando e nessun discorso davanti alle truppe riesce ormai a ricucirlo Non so dire con approssimazione realistica quanti fossero gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi e i cani, come il bellissimo golden retriever paralizzato e spinto dal padrone su una carrozzella artigianale. Forse erano 100 mila, forse di più o meno, nella solita fisarmonica di numeri che segnano tutte le manifestazioni di piazza. Ma erano certamente di più, e diversi, da quelli che gli organizzatori, i media e gli scudieri della presidenza speravano o temevano. Nel torrente di persone che escono dalla Farragut Square, la stazione del metrò di Washington più vicina alla Ellissi, il grande prato dietro la Casa Bianca, ci sono gli immancabili revenents del Vietnam. Si riconoscono le pantere grigie di tutte le proteste contro “il sistema”, i sindacalisti organizzati, i patetici trotskisti che tentano di vendere la loro letteratura d´antiquariato, i gruppi che appendono le loro cause al balcone altrui, come tre donne che chiedono “libertà per i consumatori thailandesi di droga”, un dramma che era sfuggito ai più.
Ma se anche sul palco passano i soliti noti per recitare il loro copione standard, Jesse Jackson, l´uomo per tutte le stagioni di protesta che per l´occasione invoca “manifestazioni di massa come queste anche in Italia e in Europa”, le ragin´ granmas, le nonne furiose che invocano pace per i nipotini, le madonne pellegrine di tutti i comizi anti-guerra nel mondo, la sempre più fragile, esile e piccola Joan Baez che lancia ponti di musica fra generazioni che non sembravano più ascoltarsi, lo stupore viene da quei ragazzi e da quelle ragazze che i sociologi vorrebbero indicarci come generazione dissipata e interessata soltanto alla Mtv, ai reality show e al successo. Si distinguono dai loro padri e madri per i cartelli, che sono scritti a mano, inventati, in una timida riedizione della formidabile fantasia del maggio francese.
I loro vecchi inalberano la sloganistica d´ordinanza, spesso stampata dalle lito-tipografie, “La Guerra non è la soluzione, la Guerra è il problema”, “La sola cosa bella di ogni guerra è la sua fine”, citazione da Abramo Lincoln, l´immancabile “No Blood for Oil”, un po´ fuori posto, visto che la realtà è esattamente il contrario, poco petrolio in cambio di molto sangue.
Gli studenti, dai liceali che arrivano battendo sui bidoni di plastica vuoti come orchestrine giamaicane, agli studenti delle università che devono giustificare le scellerate rette pagate dei genitori e dunque essere più creativi, sfoggiano più humour, più originalità. Soprattutto le femmine, sfacciate, che non temono totem e tabù. “Clinton era meglio. Lui se ne scopava una, Bush ci fotte tutte”. “Meglio un pompino che un missilino”. Più casto, un plotone di signore arrivate in bus dal Tennessee, un viaggio di un giorno intero, si chiede devotamente: “E Gesù chi avrebbe bombardato?”. Le “madri dal North Carolina”, certo mica tutte, chiedono di “Sostenere i nostri soldati: non mandateli a morire”. La bellissima sorella di un soldato morto esibisce una gigantografia della bara del fratello coperta dalla bandiera. “Parlate a nome della maggioranza silenziosa”, implora la scritta. “Parlate a nome dei morti”.
I padri girano con le foto dei figli morti. Jesus Suarez del Solar ha i baffi e il volto da cafè Paulista, è messicano come il figlio che portava avanti e indietro marijuana attraverso la frontiera di Tijuana. Lo arrestarono e fu liberato dai reclutatori che gli diedero un permesso di soggiorno e la promessa di un posto nella polizia di frontiera. Morì a Falluja, con l´uniforme dei Marines.
Non so dire se questo sia l´inizio della fine per l´unanimismo patriottico che Bush aveva saputo cavalcare per portare l´America in un´invasione che ormai quasi il 60% della gente trova ingiustificata e sbagliata. Non lo sa dire neppure il seme di senape al centro del campo, la donna alta, scialba, loquace, manipolata, maldiretta, troppo chiacchierona, dalla quale tutto questo è nato: Cindy Sheehan che parla senza sosta, con la loquacità nevrotica dei funerali. È vestita con i pantaloni di cotone bianchi a mezzo polpaccio e con la immancabile maglietta gialla, che in America è il colore del rimpianto, della nostalgia, del ritorno. E della senape.
Le chiedo se si renda conto che sarà attaccata, svillaneggiata, insultata dai crociati della nuova ortodossia bellicista che la raccontano come una povera marionetta tirata da radicali estremisti, e lei fa un gesto silenzioso, indicando la folla attorno: “Fin qui siamo arrivati, no?”. Appunto, dalla California, dove era nato suo figlio Casey ucciso in Iraq, dal Texas, dove si era accampata per 26 giorni davanti al ranch di Bush, circondata da più telecamere che supporters, è arrivata fino ai cancelli della Casa Bianca: dunque la controffensiva delle marionette di Bush sarà ancora più violenta.
Risponde citando Gandhi, un altro che sembra avere detto una frase per ogni occasione della storia: “Prima ci ignorano, poi ci ridicolizzano, poi ci attaccano, poi sono costretti ad ascoltarti”. Ha la faccia piena di efelidi, gli occhi eccitati. Nel coro di “Where have all our children gone?”, dove sono finiti i nostri figli? che la folla intona con sgangherata commozione per seguire Joan Baez, lei si copre gli occhi, per nascondere non lacrime, ma un sorriso. Quante madri possono dire di avere avuto 100 mila sconosciuti al funerale del proprio figlio e di averlo trasformato nella speranza, o nella illusione, che da qui sia cominciato anche il funerale di una guerra?
Cindy Sheenan
I media si sbagliano. Le persone che sono venute a Camp Casey a darmi una mano per coordinare la stampa e gli avvenimenti non mi stanno mettendo le parole in bocca: è il contrario. Sono conosciuta da un pò come una persona che dice la verità e la dice forte e chiara, ho sempre chiamato un bugiardo bugiardo e un ipocrita ipocrita. Adesso devo usare un linguaggio più pacato per rivolgermi ad un pubblico più vasto.
Perchè i miei amici a Camp Casey pensano di essere lì? Come mai è nato un movimento così grande da un’azione così piccola il 6 agosto 2005? Non ho avuto molto tempo per analizzare il fenomeno di Camp Casey. Leggo che avrei rilasciato 250 interviste in meno di una settimana, e ci credo. Vado a letto con la gola secca ogni sera e sono abbastanza stanca di rispondere a domande tipo «cosa vuoi dire al presidente?» o «pensi davvero che ti riceverà?». Però da quando mia mamma è stata male ho avuto la possibilità di fare un passo indietro e pensare un po’ alla diga che ho aperto a Crawford, Texas.
Questo è il miracolo di Camp Casey. I cittadini americani contrari alla guerra, che non hanno mai avuto una valvola di sfogo per il loro disgusto e la loro costernazione, stanno mollando tutto per venire a Crawford e stare qui in solidarietà con noi, che ci siamo presi l’impegno di accamparci fuori dal ranch di George per tutta la durata del tremendo agosto texano. Se non possono venire in Texas stanno partecipando a veglie, scrivendo lettere ai loro rappresentanti e ai giornali locali, stanno organizzando branche di Camp Casey nelle loro città. Siamo molto grati per tutto il loro supporto e penso che anche loro, gli americani pro-pace, siano grati per avere finalmente qualcosa da fare. Una cosa che però non ho notato o di cui non mi sono accorta è un aumento, tra le persone favorevoli alla guerra dall’altra parte della recinzione, del numero di quanti si arruolerebbero per andare a combattere la guerra per l’imperialismo e l’insaziabile avarizia di George Bush. La parte pacifista ha alzato i propri sederi apatici per diventare guerriera per la pace e la giustizia. Dove sono quelli favorevoli alla guerra? Ogni giorno a Camp Casey abbiamo un paio di persone contro la pace dall’altra parte della strada, sventolando cartelli che mi ricordano che «la libertà non è gratuita», ma non li vedo mettere i loro soldi dove mettono bocca. Non penso che abbiano intenzione di pagare neanche un centesimo per la libertà sacrificando il loro stesso sangue o la carne dei loro figli. Li sfido ancora ad andare in Iraq e lasciar tornare a casa un altro soldato, magari uno che è al terzo turno, o uno/a che ha servito il proprio paese nobilmente e altruisticamente solo per ritrovarsi ostaggio in Iraq per colpa di ipocriti assetati di potere, gente molto allenata a evitare di mettere in gioco la propria pelle.
Al contrario di ciò che i principali media pensano, non sono piovuta dal cielo a Crawford quel giorno di caldo terrificante due settimane fa. Ho scritto, parlato, testimoniato di fronte a commissioni del Congresso, partecipato a conferenze e rilasciato interviste per più di un anno. Sono conosciuta piuttosto bene nella comunità pacifista e avevo già tantissimi supporter prima ancora di lasciare la California. Le persone che mi hanno appoggiata l’hanno fatto perchè sapevano che su questa guerra io dico tutta la verità senza compromessi. Mi sono alzata e ho detto: «mio figlio è morto per niente, e George Bush e la sua malefica congiura e la loro politica spericolata l’hanno ucciso. Mio figlio è stato mandato a combattere in una guerra che non aveva basi reali ed è stato ucciso per questo». Non ho mai detto mi raccomando, per favore o grazie. Non ho mai detto niente di annacquato come fa lui con la sua retorica patriotica. Dico che mio figlio è morto per delle bugie. George Bush ci ha mentito e sapeva che stava mentendo.
Adesso vengo diffamata e infangata dai destroidi e dai cosiddetti media «giusti ed equilibrati» che hanno paura della verità e non sono in grado di affrontare qualcuno che la dice. Devono storcere, distorcere, falsare e controllare qualsiasi cosa io abbia mai detto, quando non hanno mai controllato niente di quello che George Bush ha detto o sta dicendo. Invece di chiedere a George o a Scott McClellan se mi incontreranno, perchè non fanno le domande che avrebbero sempre dovuto fare? Tipo «perché i nostri giovani stanno combattendo, morendo ed uccidendo in Iraq? Qual’è la nobile causa per cui li state mandando in Iraq? Cosa sperate di ottenere laggiù? Perché ci avete detto che c’erano armi di distruzione di massa e legami con Al Quaeda quando sapevate che non ce n’erano?»
Camp Casey è cresciuto, prospera ed è sopravvissuto a tutti gli attacchi e a tutte le sfide, perché l’America è stanca e nauseata di bugiardi e di ipocriti. Vogliamo le risposte alle secche domande che sono stata la prima ad avere il coraggio di fare. Questo è il momento della responsabilità e Bush e sta fallendo miseramente. Lui e i suoi consiglieri mi hanno seriamente sottovalutata quando hanno pensato di potermi intimare di andarmene prima di avere delle risposte, o prima della fine di agosto. Posso resistere a qualsiasi cosa sia gettata addosso a me o a Camp Casey: se questo accorcia la guerra di un solo minuto o salva anche una sola vita, ne vale la pena.
Penso che abbiano seriamente sottovalutato tutte le madri. Mi chiedo se nessuno di loro abbia mai avuto un rapporto madre-figlio autentico e se sono così sorpresi che ci siano così tante madri in questo paese che sono irremovibili quando si tratta di chiedere la verità, che vogliono dare un significato alla morte non necessaria e apparentemente insignificante dei loro figli. Il movimento di Camp Casey non morità finché non avremo un resoconto genuino della verità e finchè le nostre truppe non verranno riportate a casa. Facci l’abitudine, George. Non ce ne andiamo.
Soprannominata «peace mom» dalla stampa, Cindy Sheehan è la madre di un caduto in Iraq che si è accampata all’inizio di agosto davanti al ranch di Bush in Texas. L’accampamento pacifista ha rivitalizzato come per miracolo l’intero movimento pacifista americano.
Traduzione di Barbara Visentin
Tali Fahima, la pasionaria ebrea amica dei palestinesi
Michel Warschawski
Tali Fahima è una figura molto inusuale nel paesaggio politico israeliano. Voi sapete che in Israele le fasce popolari sono normalmente schierate a destra e l’élite economica e intellettuale a sinistra. Tali Fahima è un caso eccezionale. È una giovane donna di 27 anni nata a Dimona, una città povera del sud, in una famiglia di origine marocchina, molto povera. Non ha mai studiato ed è stata anche una militante del Likud, il partito di destra. Per caso, ha visto un film su Jenin. È un film molto bello che si intitola «I bambini di Arna». Racconta la storia di una donna israeliana meravigliosa che, durante la prima Intifada, venne tra i palestinesi per garantire l’educazione dei bambini più piccoli, nelle scuole materne e nelle scuole elementari, per aiutarli a scrivere e a disegnare. In questo film, si vedono i bambini di Arna nel 1988-89. Sono bambini piccoli di otto, nove, dieci anni, uguali ai bambini che si incontrano in Israele, Palestina, Europa, Africa, e tra loro, un gruppetto di cinque parlano del loro avvenire, di ciò che vorrebbero essere in futuro. Uno racconta di voler diventare attore, un altro medico. Quegli stessi bambini sono mostrati dieci anni dopo. Li si vede durante la seconda Intifada, tutti morti. Questo, di cui vi sto parlando, è un documentario, non una fiction cinematografica. Tutti loro sono morti in combattimento o negli attentati, tranne uno che si chiama Zakaria A. Z che oggi è tra le persone più ricercate dai militari israeliani. Questo film testimonia la volontà di vivere e l’umanità che c’è nei bambini, negli adolescenti, poi negli adulti. Una straordinaria forza di vivere che finisce nella morte.
L’umanità di Jenin
Tali Fahima, che aveva guardato il film in televisione, ha poi potuto vedere con i suoi occhi quello che è il campo di Jenin. Tra quello che vede tutti i giorni e quello che ha visto nel film c’è come una frattura, perché ciò che si ascolta per strada o alla televisione o si legge sui giornali di quanto avviene nel campo è il racconto di un nido di terroristi, una popolazione di terroristi, tutti quelli di Jenin sarebbero terroristi, dal vecchio di 86 anni fino al neonato o al bambino piccolissimo. Tutti, in quel luogo, sarebbero terroristi e tutti hanno un’unica motivazione nella vita: uccidere gli ebrei. Invece quel film dimostra il contrario: si vedono giovani che vogliono vivere, che non nutrono odio, giovani che non desiderano altro di poter essere medici, attori, poter essere come tutti i bambini che pensano a quello che faranno da grandi, poter essere bambini che hanno dei sogni.
Tali Fahima è andata a Jenin. È una cosa rarissima tra i giovani israeliani, siano essi di destra o di sinistra. Lei è andata a Jenin ed è diventata amica dei giovani di Jenin e degli amici e dei compagni di Zakaria A. Z. Quando è tornata in Israele ha raccontato che ciò che si diceva era tutta una bugia, che Jenin è una città piena di vita e di volontà di vivere, che è falso che ci sono solo kamikaze che non pensano altro che alla morte. Ha cominciato a raccogliere dei soldi per la gente di Jenin e ha tentato di convincere i giovani ad andarvi per conoscere la situazione in modo diretto.
I Servizi di sicurezza di Israele hanno deciso di usare Tali Fahima. Hanno pensato che una ragazza che non ha studiato, che vive in una famiglia povera, che non è l’intellettuale invasata di Tel Aviv, si potesse raggirare a piacimento e, attraverso di lei, avrebbero potuto trovare Zakaria A. Z. Per molte settimane è stata trattenuta in arresto e interrogata e minacciata perché lavorasse per i servizi segreti. Lei ha sempre risposto: «Andate a quel paese!». Sebbene abbiano continuato a minacciarla e a interrogarla, lei ha continuato a dire: «Quelli sono miei amici e io non li tradisco. Visto che voi dite che io sono una terrorista e lavoro con dei terroristi, portatemi in tribunale. Non avete nessuna prova, perché non ho fatto niente di male. L’unica cosa illegale che ho fatto è stato andare a Jenin».
In effetti, non avevano nessuna prova contro di lei. Cosa fare se non si hanno prove ma si vuole ugualmente punire qualcuno? In Israele esiste una procedura che viene detta «detenzione amministrativa». In Francia, c’era qualcosa di simile durante l’ancien régime. Al tempo della monarchia assoluta, si parlava di «lettera d’arresto», un ordine che permetteva di fermare qualcuno senza nessun processo, nessuna prova, ma solo perché il re lo ordinava. Quelli attuali sono ordini d’arresto di sei mesi, rinnovabili di sei mesi in sei mesi indefinitivamente senza che vi sia mai nessun intervento da parte della Giustizia. Tali Fahima è stata colpita da una detenzione amministrativa, cui ha fatto seguito, in Israele, una campagna di opinione per dire che quello era troppo, che si stava passando il limite.
I servizi di sicurezza israeliani hanno voluto comunque questa detenzione amministrativa e hanno voluto anche aprire un processo inquisitorio. Durante tutto questo tempo, Tali Fahima ci ha spedito lettere e ci ha fatto sapere, tramite i suoi avvocati, di non preoccuparci perché lei non voleva diventare un problema per noi; il problema più importante è la gente di Jenin. Hanno deciso di accusare Tali Fahima del reato più grave che esiste nel codice penale israeliano: sostegno al nemico nel tempo di guerra. Il reato è talmente grave che, durante la prima udienza del processo che si svolge a Tel Aviv, il giudice ha chiesto al Procuratore se avesse intenzione di richiedere la pena di morte. Da quanto posso ricordare io, in Israele l’unica volta che è stata chiesta la pena capitale, è stato contro Adolf Heichmann, criminale di guerra nazista, responsabile di milioni di morti.
Quali sono le prove che possono giustificare la pena di morte? Dal nostro punto di vista, nessuna, zero assoluto. Ma quali prove il Procuratore ha presentato in Tribunale contro Tali Fahima? Nell’atto di imputazione ha scritto che Tali Fahima ha tradotto a Zakaria A. Z. un documento militare ultra segreto e molto importante, che faceva parte di un piano riservato dell’esercito israeliano per compiere un’operazione contro il campo di Jenin. È un reato molto grave, ma come potrebbe avere tradotto dal momento che Tali Fahima non conosce l’arabo e Zakaria A. Z. non conosce bene l’ebraico? In secondo luogo, come si è procurata questo documento militare riservatissimo? Finalmente, adesso sappiamo com’è la giustizia in Israele!
Punita perché «fuori posto»
In tribunale hanno presentato questo importante documento e l’esercito ha affermato che Tali Fahima lo ha trovato per terra, nel campo, due giorni dopo l’operazione. Questo documento, che abbiamo, e che circola anche in internet e che si può trovare ovunque, è una fotografia di vent’anni fa di Zakaria A. Z. e di cinque suoi amici, fisicamente molto diversi da come sono adesso, sotto cui c’è scritto: «Wanted». Come si fa a dire che una fotografia è stata tradotta in arabo o in ebraico?
Adesso non chiedono più la pena di morte, chiedono l’ergastolo. Ma perché? Cosa c’è in Tali Fahima che li rende folli? Il fatto che abbia rotto due muri, mentre, oggi, si devono costruire muri dappertutto. Prima di tutto, ha rotto il muro di classe: non capiscono che ruolo possa avere questa marocchina, che non ha nemmeno avuto una buona educazione, negli ambienti d’élite di Tel Aviv. Fare politica, andare nel campo di Jenin è un lavoro per chi studia, per chi è nella classe elitaria, non per una marocchina. Ma soprattutto, Tali Fahima ha rotto quel muro che deve dividere ebrei e arabi, israeliani e palestinesi. Quando una ragazza, una giovane donna di Dimona, dice agli agenti dei servizi segreti, alla polizia che va ad arrestarla, al procuratore che la interroga, al giudice che la sta giudicando, che i suoi veri amici sono quelli del campo di Jenin, che si chiamano Mustafà, Hama, Hassan, nasce un problema grave, che va punito gravemente, perché, ora, viviamo in un mondo dove ognuno deve stare al suo posto a livello sociale, etnico, nazionale, confessionale. Ci vogliono imporre un mondo dove il senso di umanità non ha più significato e dove ognuno è rinchiuso entro la propria tribù, e guai a chi volesse scavalcare i muri fra le tribù! Ma finché ci saranno dei giovani e delle giovani ragazze come Tali Fahima, noi abbiamo il diritto di avere una speranza.
Per maggiori informazioni e il sostegno economico alla difesa legale di Tali Fahima si può consultare il sito www.freetalifahima.org
Salma Yacoobi, leader di Stop the War, parla da Birmingham dei timori delle comunità islamiche britanniche
Orsola Casagrande
Salma Yaqoob è una donna minuta e dall’aria timida. Ma la sua voce e la sua personalità l’hanno resa una delle più carismatiche leader di Stop the War Coalition, la coalizione nata dopo l’11 settembre 2001. Lei della coalizione è presidente a Birmingham, la città dove abita. E alle scorse elezioni, come candidata di Respect, è stata battuta per soli tremila voti dal candidato Labour a Sparbrook e Small Heat (che vanta una presenza musulmana pari al 37%). Salma ha tre figli piccoli ed è una psicoterapeuta. Dall’11 settembre però la sua vita è cambiata e lei, inglese musulmana (come sottolinea), è diventata una delle voci più note e apprezzate del movimento contro la guerra.
Cominciamo dagli arresti di oggi (ieri per chi legge, ndr) a Birmingham. Sembra che uno dei quattro arrestati sia uno dei presunti attentatori del 21 luglio. Cosa sai?
Più o meno quello che dicono i media. E cioè che in due case di un quartiere della città sono state arrestate quattro persone. L’uomo che sembrerebbe essere uno dei ricercati per i falliti attentati del 21 luglio è stato arrestato dopo una collutazione: i poliziotti hanno usato una pistola a scariche elettriche. Penso che inevitabilmente questi arresti aumenteranno la pressione sulla comunità musulmana della città. Dopo la morte del giovane brasiliano, ucciso `per sbaglio’ dalla polizia a Londra la paura è aumentata ed è tangibile. Naturalmente tutti ci auguriamo che i responsabili degli attentati falliti il 21 luglio siano arrestati al più presto, ma non possiamo accettare che le nostre libertà siano limitate o barattate in cambio della sicurezza.
Parliamo del clima che si respira a Birmingham
C’è una grande paura tra le gente in generale e nella comunità musulmana in particolare. C’è paura a salire sui mezzi pubblici, ad andare al supermercato. Ma quando atti atroci come queste bombe accadono l’indice viene puntato contro i musulmani. Ad ogni singolo musulmano si chiede di condannare gli attentati, che è comunque quello che ognuno di noi fa. Ci si chiede però anche di scusarci, di farlo pubblicamente. E questa è una cosa che non si chiede alle altre comunità. Voglio dire che quando l’Ira metteva le bombe in questo paese nessuno si aspettava che ogni singolo cattolico o ogni singolo prete si alzasse per chiedere scusa. In un certo senso veniamo comunque associati alle bombe, anche se ci dissociamo dagli attentati. Credo comunque che dobbiamo essere realisti e accettare che da parte dei non musulmani ci sia una genuina paura. Dobbiamo accettare che ci venga chiesto cosa pensiamo. Sarebbe più semplice dire che non dobbiamo giustificarci perchè anche noi siamo contro questi attentati, anzi anche noi ne siamo vittime. Ci sono molte emozioni e sentimenti contraddittori in questo momento, e molta gente pensa seriamente a dove potrebbe andare se fosse costretta dalle circostanze a lasciare questo paese. La paura maggiore è non sapere dove tutto ciò andrà a finire.
Cosa sta accadendo dentro la comunità musulmana?
C’è decisamente un grande risentimento. Soprattutto perché ci viene posta costantemente una domanda: sei musulmano o sei inglese? Come se le due cose fossero incompatibili, anzi come se una escludesse l’altra. Ma è come se mi chiedessero se sono una donna o se sono una inglese. Sono entrambe le cose. Il fatto stesso che si continui a porre questa domanda dimostra che l’essere musulmano, che dovrebbe essere una scelta privata di ciascuno, non è riconosciuto come tale. Eppure questa è una società che si dice non razzista, e in parte è assolutamente vero. In confronto a molti altri paesi, questo ha probabilmente un modello migliore di multiculturalismo. La realtà è che ci troviamo in questo singolare dilemma a causa della politica estera del governo. Il nostro governo ha scelto di percorrere la strada della guerra al terrore, alleandosi con George Bush. E per giustificare questa guerra deve identificare un nemico in termini chiari. L’islam integralista è il nemico. E quando Tony Blair si ostina a dire che le bombe di Londra non hanno nulla a che fare con l’Iraq o con l’Afghanistan ripete lo stesso refrain di Bush, e cioè che tutto questo accade perché ci sono persone che odiano il nostro modo di vita. E queste persone sono i musulmani. Negando qualsiasi legame con l’Iraq, Blair sta cercando di salvare se stesso: ammetterlo equivarrebbe ad accettare una parte di colpa. E’ indubbio che ci siano degli estremisti che giocano e usano le emozioni e i dolori della gente per quanto accade in Iraq, ma l’Islam dice chiaramente che non si deve togliere la vita a un innocente. Noi condanniamo il terrorismo nel nome della democrazia ma condanniamo anche il terrorismo nel nome della religione.
Il deputato Labour musulmano Shahid Malik ha detto ai Comuni che la scelta è una: togliere voce a chi è stato tollerato fino a questo momento, cioè agli estremisti. Insinuando così che la comunità musulmana ha chiuso gli occhi di fronte agli estremisti. Che ne pensi?
Che è falso: noi non abbiamo mai dato voce agli estremisti. Questa gente non va solo contro ai non musulmani. Colpisce, direi quasi in primo luogo, i musulmani. Ci danneggiano. Non hanno rispetto per la vita, dei musulmani e dei non musulmani. Per questo nessuno di noi lascia spazio a queste idee. L’idea che in qualche modo sia colpa nostra perchè li abbiamo lasciati all’interno della nostra comunità è da rigettare. Questi estremisti sono gli stessi che la Cia e i governi occidentali hanno aiutato in Afghanistan, quando combattevano contro l’Urss. Hanno reclutato in tutto il mondo, hanno dato vita a questo concetto estremo di jihad e l’hanno fatto con l’appoggio o comunque con il placet dei governi occidentali. Quello che stiamo vivendo oggi ha radici profonde, non è nato oggi, o dopo l’11 settembre 2001.
Come cambierà il dibattito all’interno della comunità musulmana dopo questi avvenimenti?
Rimane il problema reale dei ghetti. Le comunità sono divise in ghetti. Anche a Birmingham ci sono zone in cui c’è una unica etnia, ma in generale le cose stanno cambiando. La gente si sta mescolando. Ci sono zone miste. La comunità musulmana qui è molto giovane. E i giovani vanno all’università, ai college e si mescolano molto più che in passato. Quello che mi preoccupa è che tutto questo parlare di estremismo islamico diventa un parlare dell’intera comunità, considerata luogo di criminali. Bisogna stare attenti a cosa ciò può provocare, all’identità di questi giovani, alla loro autostima. Non sono stupidi, vedono cosa succede nel resto del mondo. Vivono una realtà in cui i cittadini sono trattati in modo diverso. Da una parte i cittadini di serie A e dall’altra quelli che possono essere trasformati in capri espiatori. Ci sono due possibilità: qualcuno continuerà a nascondere la testa nella sabbia, e s isolerà ancora di più. «tanto ci odiano comunque». Oppure ci sarà chi cercherà dicoinvolgersi ulteriormente nel tentativo di cambiare questa situazione, e troverà altre persone che condividono questo senso di ingiustizia. La linea non verrà tracciata sulla base di appartenenze religiose o etniche, perché quello che è in gioco è la giustizia, le libertà individuali. A livello interno e internazionale. La gente ha paura di parlare, questa è la realtà in molte aree. La pressione è così pesante che la gente preferisce stare a casa. Io sto organizzando incontri ovunque con la comunità, ma anche con i non musulmani, proprio per favorire il dialogo e per continuare a lavorare sulle rivendicazioni comuni, come facciamo in Stop the War. Che ha cambiato qualcosa nella cultura politica di questo paese, io credo.
Segregazione silenziosa, mondi paralleli e incomunicanti, la realtà anfibia degli immigrati di seconda generazione. La crisi del modello di convivenza olandese nel racconto di uno scrittore nato in Marocco ma cresciuto in Olanda. Come Mohammed Bouyari, condannato ieri all’ergastolo per aver ucciso il regista Theo van Gogh
Abdelkader Benali
Sono cresciuto a Rotterdam, la città in cui ha avuto inizio l’ascesa irresistibile del populista Pim Fortuyn, il politico olandese assassinato nel 2002. Da due anni vivo ad Amsterdam, la città di Theo van Gogh, il regista ucciso barbaramente il 2 novembre da Mohammed Bouyari. Quando ho letto la storia di questo ragazzo, come me di origine marocchina, ho pensato: ha solo due anni meno di me e mi somiglia più di quanto non voglia ammettere. Chi lo conosce lo descrive come un tipo lavoratore, ubbidiente, ambizioso, che si sforzava di creare un ambiente migliore per sé e per gli altri. Anch’io sono così, ho pensato. Su di lui un giornalista ha scritto: «È uno dei tanti marocchini che riescono quasi ad agguantare il successo, ma se poi qualcosa va storto entrano in crisi». Ce ne sono molti di ragazzi così. Questo vuol dire che io ho avuto successo?
Sono nato in Marocco nella metà degli anni Settanta e all’età di tre anni mi sono trasferito in Olanda come figlio di un lavoratore immigrato. Gli immigrati erano sempre uomini, le donne non venivano selezionate per lavorare all’estero. I primi immigrati erano consapevoli del fatto che non avrebbero avuto successo, e lo accettavano; l’importante era poter offrire ai loro figli un’esistenza migliore. Si accontentavano di quello che ricevevano (era già un grosso passo avanti rispetto ai poveri paesini di montagna da cui provenivano) ed esprimevano gratitudine all’Olanda tenendo la bocca chiusa e lasciando la parola ai loro rappresentanti.
Oggi le seconde generazioni hanno violato quel tacito accordo: parlano perfettamente l’olandese e sanno mettere il dito nella piaga, si ribellano ai tabù e vogliono essere accettati come cittadini a pieno titolo. Il fatto che siano diventati così non dipende dai loro genitori, ma dall’Olanda. È l’Olanda che li ha emancipati. Mohammed Bouyari, paradossalmente, è un prodotto dell’Olanda. Per spiegarlo bisogna fare un piccolo passo indietro.
Mia madre mi ha portato in Olanda all’epoca del ricongiungimento familiare. Mi ha dato in affidamento alla società olandese e in poco tempo questa madrina ha superato mia madre su tutti i fronti (solo nell’amore materno nessuno poteva batterla). L’Olanda si è occupata della mia formazione intellettuale: leggere, scrivere, fare di conto. Mi ha riempito di idee, divine e diaboliche, esaltanti e inquietanti.
Molta libertà, poca storia
La cosa più difficile per me era che in Olanda bisogna sempre dire quello che si pensa, è considerato un gesto sportivo, un segno di spontaneità; ma ogni volta che ci provavo mi mettevo nei guai, sia a casa, che in strada, che a scuola. Col tempo ho capito che bisogna dire quello che si pensa in modo da non finire nei guai; così non solo la passi liscia, ma puoi contare sull’apprezzamento generale. Insomma, ho scelto di diventare scrittore.
Mohammed Bouyari invece era uno che voleva aiutare la gente, faceva volontariato in un centro sociale. Era avviato al successo, e diceva quello che pensava.
L’Olanda dà spazio al talento: ti offrono un’opportunità e se te la giochi, te ne danno un’altra. Siamo fatti così, e ne andiamo orgogliosi, ti rispondono gli olandesi, abbiamo lottato per arrivarci.
Ma se provi a chiedere quand’è successo, se vuoi sapere come stanno le cose esattamente, non sanno cosa risponderti. L’Olanda ha moltissima libertà, ma poca storia.
C’è stato un momento in cui Mohammed Bouyari ha rinunciato alla libertà per andare in cerca della storia e prenderne parte. Io invece volevo diventare scrittore: ero convinto di avere qualcosa da dire che nessuno aveva mai detto o fatto prima. Sentivo la necessità di sfruttare tutte le possibilità della lingua e la cosa veniva incoraggiata, era lecito. Il pubblico non aspettava altro.
È questa l’Olanda in cui sono cresciuto io, ma anche Mohammed. L’Olanda delle buone intenzioni che ha fatto dei propri ideali una bandiera, che voleva a tutti i costi essere progressiva e tollerante, a volte anche a discapito di grosse fette di popolazione. Ma ad un certo punto l’insoddisfazione è cominciata a crescere, era un po’ che covava sotto la cenere, e alla fine si è manifestata con violenza. La gente vedeva che la classe dirigente non affrontava i problemi sociali, specie quelli delle grandi città. Era evidente che molti immigrati vivevano ammassati uno sull’altro, ma perché all’Aia nessuno ha detto niente? Si sapeva che la criminalità all’interno della popolazione marocchina era più alta che tra gli olandesi, perché nessuno si è mosso? Domande che forse in un altro tipo di società sarebbero state poste ad alta voce, qui venivano solo sussurrate. Non se ne poteva parlare apertamente, perché era una cosa poco olandese, poco tollerante. E a partire dall’11 settembre 2001 c’è stata un’improvvisa accelerazione: i musulmani sono diventati il bacino di raccolta delle critiche e del risentimento.
La libertà olandese era messa in pericolo dalla presenza di un gruppo crescente di musulmani conservatori, intolleranti e tradizionali. C’era incomprensione. Rotterdam e poi tutta l’Olanda si schierò al fianco di Pim Fortuyn. I dubbi sulla società multiculturale venivano espressi ad alta voce, e i decibel aumentavano sempre più, fino a spaccare i timpani. Ma io non me la prendevo. L’Olanda è così liberale, c’è spazio per idee diverse e magari era un fatto positivo che le utopie socialiste venissero controbilanciate un po’ – giovava al dibattito. La società cambiava a ritmo forsennato e bisognava reagire in modo adulto. Insomma, anch’io pensavo che la classe politica avrebbe trovato una soluzione. E invece ha continuato a dormire, così sembrava, mentre le critiche crescevano a dismisura.
La novità era proprio questa critica diretta. Se nei primi anni Novanta dicevi che l’identità olandese doveva acquistare un significato più profondo per gli olandesi e per gli immigrati, se dicevi che il ricongiungimento familiare per gli immigrati aveva anche conseguenze negative, se puntavi il dito sul degrado, la gente ti guardava con commiserazione. In Olanda non si era abituati a parlare così apertamente e allegramente di certe cose. Viviamo in un paradiso, no?
La cosa strana è che i miei genitori sono stati i primi a rimpiangerel’Olanda dei bei tempi. Molto prima dell’ascesa politica di Pim Fortuyn, a tavola mi era capitato di sentirli dire: con l’arrivo degli immigrati l’Olanda è cambiata, in questo paese molti marocchini perdono la bussola, l’Olanda dovrebbe badare di più ai propri interessi.
Commenti di gente semplice, diretta. Ex immigrati che esprimevano le loro critiche all’Olanda, mentre gli olandesi non se ne accorgevano (o forse non venivano a dirlo a me). Non avrei mai pensato che i miei genitori potessero cogliere nel segno. Ora riconosco che avevano ragione, anche se con l’amaro in bocca. E ovviamente i miei genitori dicevano pure che in Olanda tutto è permesso e che non capivano bene perché dovesse essere tutto lecito. A casa mia di omosessualità non si è mai parlato. Non si parlava mai di sesso, se non in termini molto cauti e velati.
I tempi della coesistenza pacifica stavano finendo in fretta. Alle critiche degli olandesi nei confronti della società multietnica hanno cominciato a replicare i marocchini di seconda generazione. Si è aperto il dibattito, anche se a volte è un dibattito tra sordi.
La causa principale d’insoddisfazione tra i nuovi cittadini è che gli olandesi non capiscono quanto li ferisca nel profondo essere considerati sempre degli stranieri. Ogni discussione si riduce a questo punto. Il termine «alloctono» (che in Olanda è sinonimo di straniero, extracomunitario, contrapposto ad autoctono) viene considerato da tutti come molto negativo. Essere definiti «alloctoni» è la prova dell’esistenza della segregazione. È un marchio d’infamia, una condanna, un insulto nascosto. Forse non sarebbe una cattiva idea eliminarla, questa parola. Per molti olandesi è diventata sinonimo di problemi causati da Altri, che Noi non volevamo.
Com’è possibile che la coesistenza pacifica degli anni passati si sia trasformata in un dibattito così spietato, a tratti superficiale, che ha addirittura provocato delle vittime? Uno dei motivi è che l’Olanda è rimasta ferma dov’era, è rimasta troppo a lungo fuori dagli eventi mondiali. Per tutto il tempo ha pensato di poter tenere il suo giardinetto bello pulito e tranquillo, bastava accordare ad ogni gruppo la sua autonomia, favorendo la frammentazione delle culture e la pacificazione delle minoranze (la ricetta collaudata), nel clima di tolleranza per cui è famosa in tutto il mondo. Ma le cose non sono andate nel modo desiderato. La tolleranza si è rivelata sinonimo di miopia. A volta è una palla al piede. Ovviamente di per sé la tolleranza è un obiettivo ideale, ma non può essere usata per camuffare la realtà.
L’Olanda sembrava progressiva, ma adesso che l’imperatore gira nudo per la città ci accorgiamo che per tutto il tempo è rimasta immobile. Non ha mai pensato a come impiegare il suo capitale giovane, a volte di opinione diversa; non ha mai pensato a come affrontare la presenza dell’islam in Olanda. Perché ci vuole tanto per arrivare alla creazione di un islam olandese? Perché da noi ogni cultura ha sempre avuto la sua autonomia riconosciuta dal sistema, ti rispondono gli olandesi, perché noi sosteniamo il principio della sovranità all’interno del proprio gruppo. Ma questo significa ragionare solo a partire dai propri parametri storici. In Olanda non esiste un solo islam, come non esiste una sola tipologia di marocchini. Da quello che si sente negli ultimi tempi sembra che i marocchini formino un fronte compatto. Non c’è niente di più falso: metti insieme cinque marocchini e nel giro di dieci minuti escono fuori sei opinioni diverse. Ma gli olandesi non se ne accorgono. Com’è possibile? Pura ignoranza, da entrambe le parti. Adesso ho scoperto che l’Olanda è una paese pieno di società separate. Per educazione e signorilità le minoranze vengono lasciate in pace, se la devono vedere all’interno del proprio gruppo. E gli olandesi sperano in silenzio che ogni gruppo riesca effettivamente a risolvere i propri problemi dall’interno.
C’è tuttora poco scambio culturale nei due sensi. Da venticinque anni in Olanda c’è un gruppo crescente di musulmani e nessuno sa niente delle loro usanze. Com’è possibile che la classe dirigente non abbia mai fatto niente? Avevano troppo da fare?
Dopo l’uscita del mio primo romanzo (Matrimonio al mare, Marcos y Marcos, ndr), ho cominciato a fare presentazioni in giro per il paese. Mi accorgevo che il pubblico era impaziente di sentirmi parlare del Marocco, di come sono cresciuto, di come mi sento, di che cosa penso. La curiosità è grande. Per cui mi chiedo: i musulmani non dovrebbero essere più spesso quelli che portano le notizie invece di continuare a fare notizia? Sarebbe un modo per eliminare l’ignoranza, ma gli scivoloni sono sempre in agguato. Dopo l’assassinio di Theo van Gogh i portavoce dei musulmani turchi si sono affrettati a dichiarare che si sentivano in colpa per un fatto di cui non avevano alcuna colpa (una sana abitudine olandese). Gli olandesi ne erano molto felici. Ma invece di essere felici, avrebbero dovuto vergognarsi della loro ignoranza. Un musulmano turco è diverso da un musulmano marocchino come un cattolico palermitano da un libero pensatore svedese. I marocchini non pregano nelle moschee turche e i turchi non lo fanno in quelle marocchine. Per quanto possa sembrare strano, questo tipo di comportamento alimenta la segregazione. Ma allora, ti senti chiedere, com’è la storia dello scontro di civiltà? L’assassino di Theo van Gogh non è un musulmano che nel regista vedeva tutto il male rappresentato dall’Occidente: decadenza, senso di superiorità ingiustificato, ateismo, opulenza crassa? Senza volerlo, Theo van Gogh era diventato per i fondamentalisti la caricatura esemplare dell’Occidente ricco e corrotto; con la sua pancia e le sue provocazioni rientrava perfettamente nella loro teoria della guerra tra Islam e Occidente.
Viviamo in un’epoca di teorie monolitiche, ognuna cerca di soppiantare l’altra nella lotta al predominio. Ogni teoria cerca di ricondurre la realtà a una serie di presupposti perfetti. La teoria dello scontro di civiltà parte dal presupposto che le guerre future verranno combattute nelle zone di confine di queste civiltà. Tuttavia, nel suo pamphlet dal titolo La forza della ragione, Oriana Fallaci è del parere che il musulmani siano venuti in Europa (secondo la sua visione su invito della sinistra) per farci la guerra in casa utilizzando il loro numero crescente. La guerra verrà combattuta con l’arma della demografia e la soluzione della Fallaci è cacciare dall’Europa tutti i musulmani. A me le teorie piacciono da morire, ma non amo granché certe conclusioni. Ad un certo punto l’Europa dovrà convincere i suoi cittadini che una teoria del genere non può affermarsi. Ad essa va contrapposta la pratica. L’Europa è un esempio di come dovrebbe funzionare un’open civil society, il suo potere di assorbimento è all’apparenza infinito. Ma i suoi valori sono in pericolo e ciò richiede più Europa e meno etnocentrismo, più coraggio di predicare tali valori e meno scenari apocalittici come quelli che ci vengono scodellati a ripetizione.
La lingua dell’odio
Il 2 novembre scorso tutti noi, olandesi, musulmani, marocchini, abbiamo visto il pericolo dell’odio. La lingua del sangue ha parlato. La lingua di quest’odio si è sviluppata grazie anche alla crescente segregazione silenziosa, e l’unico modo per contrastarla è dire basta alla segregazione. In questo momento sembra che ogni decisione politica (la legislazione in materia di asilo, l’obbligo di identificazione, una linea più dura verso i nuovi immigrati) non faccia altro che favorirla ancora di più. La classe politica è priva di qualunque visione, pensa di poter far ritornare l’Olanda a com’era prima dell’arrivo degli immigrati, vende sogni in quantità industriali e inganna il popolo.
E la comunità marocchina come reagisce?
La mia è una famiglia silenziosa, una famiglia del nord del Marocco che non è abituata agli estranei. Hanno vissuto così per migliaia di anni, e non è cambiato niente. Non sentono la necessità di relazionarsi con chi è diverso da loro, di riflettere e accettare le differenze. Anzi, la prima generazione di marocchini si è abituata, quando le tornava comodo, a voltare le spalle alla società olandese. La società olandese non ha avuto niente da ridire e ha addirittura mostrato comprensione. Una bella cosa. Un segno di civiltà. Vivere vite parallele, per tanti anni, può essere un segno di civiltà. Gli olandesi si sono persi il cuscus, i marocchini il museo Van Gogh, ma in compenso c’era una bella tranquillità.
All’inizio pensavo, forse la mia frase d’apertura dovrebbe essere: Perché quest’assassinio non è successo prima, così forse a quest’ora avremmo già fatto un passo avanti. La segregazione silenziosa è il terreno più fertile per la malerba del fondamentalismo.
Agli olandesi non resta che uscire dal loro stato confusionale e rendersi finalmente conto che gli immigrati sono parte integrante della società, e vanno trattati di conseguenza.
I marocchini, dal canto loro, devono sforzarsi di capire il paese in cui vivono e imparare a non voltargli le spalle; devono assumersi le proprie responsabilità, come cittadini a pieno titolo, prendere posizione e, quando l’altro lo richiede, impegnarsi a creare unità. E sarà una liberazione: non saremo più degli estranei gli uni per gli altri, perché il destino ci ha fatto vivere insieme.
Traduzione di Claudia Di Palermo
Giuliana Sgrena
L’introduzione della sharia in un sistema laico passa sempre attraverso il codice della famiglia. L’Iraq non fa eccezione. Saranno i diritti delle donne i primi ad essere sacrificati dalla costituzione del dopo-Saddam, in nome dell’islam. E su questo si metteranno facilmente d’accordo sciiti, sunniti e kurdi, divisi quasi su tutto. Le bozze che stanno circolando del testo della nuova costituzione, che dovrebbe essere varata il 15 agosto, non lasciano dubbi. L’articolo 14 stabilisce infatti che le materie relative al matrimonio, al divorzio e all’eredità saranno regolate in base alla legge religiosa (sharia, secondo l’interpretazione sunnita o sciita). Quindi è facilmente immaginabile l’introduzione del tutore (o permesso familiare) per il matrimonio, il diritto di ripudio per il marito e l’eredità dimezzata per le donne. Poco importa se un altro articolo della stessa costituzione stabilisce uguali diritti per le donne, perché poi aggiunge: quando questi diritti non «violano la sharia». Anche l’escamotage è classico, vedi Algeria, per fare un solo esempio. La sharia non è, finora, l’unica fonte della legislazione irachena, ma tutte le leggi – trattati internazionali compresi – non possono entrare in contraddizione con l’islam. Resta da vedere quali tribunali religiosi giudicheranno i cristiani, che peraltro sono sempre meno (erano circa 700.000) in Iraq vista la caccia che è stata scatenata contro di loro.
La nuova costituzione dunque segnerà la fine di un codice della famiglia varato negli anni cinquanta che, per i diritti riconosciuti alle donne, era considerato uno delle più progressisti del mondo arabo-musulmano. Questo è il risultato della guerra, dell’occupazione e delle elezioni di gennaio che hanno visto la vittoria della lista confessionale sciita sponsorizzata dal grande ayatollah Ali al Sistani, il quale ha indotto i suoi seguaci a recarsi alle urne con una fatwa (sentenza religiosa). Del resto quello che si sta realizzando con la nuova costituzione non è il primo tentativo di cancellare il codice della famiglia, considerato troppo permissivo dai leader religiosi – tutti, sciiti e sunniti – nonostante le modifiche introdotte negli ultimi tempi da Saddam, come l’obbligo per le donne di età inferiore ai 45 anni di essere accompagnate da un maschio nei viaggi all’estero. Già nel dicembre del 2003, Abdelaziz al Hakim, leader dello Sciiri (Consiglio superiore per la rivoluzione islamica in Iraq), durante il suo mese di presidenza del Consiglio governativo provvisorio, aveva varato la «misura 137» che aboliva il codice della famiglia e al suo posto introduceva la sharia. Solo una immediata e forte mobilitazione delle donne aveva impedito che la misura passasse.
Nel frattempo nell’Iraq senza legge la condizione delle donne è notevolmente peggiorata, la violenza – rapimenti, stupri, minacce – è all’ordine del giorno e per le donne che hanno subito violenze l’«onore» della famiglia viene salvato, in base a ordini impartiti da leader tribali e religiosi, con la morte della donna. I delitti d’onore, peraltro impuniti, sono aumentati notevolmente dopo la caduta di Saddam, come sostiene anche l’istituto di medicina legale di Baghdad. E non tutti i corpi delle donne uccise arrivano a questo istituto. Non solo delitti d’onore. Le donne sono minacciate da gruppi islamisti se non portano il velo, se si truccano, se escono per strada.
Nonostante queste minacce le donne irachene abituate a una partecipazione alla vita politica, sociale ed economica del paese non si arrendono. Sfidando i problemi di sicurezza, martedì hanno manifestato per i loro diritti in piazza Firdaus (che di paradiso ha solo il nome). Riusciranno a respingere i tentativi degli islamisti? Nel Comitato che sta preparando la costituzione, su 71 membri le donne sono meno di dieci e ad essere minacciata è anche la quota del 25 per cento garantita alle donne negli organismi parlamentari dalla costituzione provvisoria. Ipocritamente c’è chi sostiene che essendo le donne oltre il 50 per cento, non è giusto prevedere una presenza femminile del 25 per cento. E visto che la costituzione prevede uguali diritti per uomini e donne … non servono le forzature, se non per far rispettare il Corano (naturalmente secondo l’interpretazione dei gruppi islamisti al potere).
Soldati statunitensi che terrorizzano, saccheggiano, uccidono civili innocenti. Parla uno degli oltre 6.000 disertori americani che hanno detto no alla guerra di Bush
Patricia Lombroso
“In Iraq non ho più intenzione di tornare. Per il Pentagono sono nella lista dei 6.000 “disertori”. In gergo militare ci indicano con la sigla “Aow”, Absent of war. Durante la mia esperienza in Mesopotamia ho visto che per i nostri soldati e comandanti lì non esistono regole. Tutti si comportano come nell’avamposto del nuovo Far west americano. Politici e militari ci hanno detto una valanga di bugie sulla missione a Baghdad. La mia esperienza è stata decisiva per farmi maturare la convinzione che non sarei mai tornato in Iraq”. Mark, 20 anni, vive in clandestinità dal marzo del 2004. Dopo l'”Active duty” alla base militare di Forthood, nel Texas, venne spedito in Iraq a 17 anni. Recentemente è entrato nelle file dei disertori alla guerra in Iraq. Come nel caso della guerra in Vietnam, il numero dei “resistenti” all’avventura bellica si sta estendendo in modo preoccupante per il Pentagono, incapace di trovare soldati, marines e forze speciali – anche dispensando bonus pecuniari dai 40.000 ai 150.000 dollari – disposti a riarruolarsi volontariamente per la guerra. Mark, nell’intervista al manifesto, ci racconta dalla clandestinità la sua esperienza.
Quando è stato spedito in Iraq?
Nel marzo del 2003, la mia unità da Forthood in Texas è stata spostata in Iraq. Facevamo parte della polizia militare. Son rimasto fino al marzo 2004. Avevo 17 anni. Addestramento militare di una settimana con regole d’ingaggio che poi si sono verificate inesistenti sul teatro di guerra. Trattavamo tutti gli iracheni come dei criminali. I nostri comandanti pattugliavano le strade di Tikrit, la città dove ero assegnato: quando si annoiavano impartivano a noi soldati l’ordine di fare irruzione in ogni casa privata di un determinato quartiere da loro indicato. Spargendo terrore dovevamo far uscire ogni singolo membro di ogni nucleo familiare, arrestarlo e sbatterlo in prigione.
Quali erano le motivazioni per l’arresto e sequestro di civili innocenti?
Non esisteva alcun motivo, né sospetti concreti che facessero parte della resistenza irachena. Dovevamo eseguire questi ordini, terrorizzare donne e bambini con il pretesto di dover sequestrare armi e munizioni, anche se non trovavamo nulla nelle case.
Venivate informati che questo faceva parte di una missione militare?
Non esisteva nessun motivo, né missione. Ai check point bloccavamo le auto di civili iracheni sul nostro percorso e li derubavamo di tutto il denaro in loro possesso. Tra i soldati si era stabilita una gara, quasi un gioco sadico nei confronti della popolazione locale. I giovani soldati gareggiavano a chi riusciva a distruggere il maggior numero di auto irachene sparando dai nostri gipponi “Hunvees”. Era diventato un passatempo. Per ogni veicolo iracheno distrutto, il soldato appostava uno sticker sul proprio cruscotto. Si scommetteva anche su quante donne nude potevamo rinvenire quando di notte effettuavamo irruzione nelle case degli iracheni. Quante persone si riusciva a terrorizzare al punto di urinarsi addosso per la paura. Fu questo il primo segnale che destò in me l’orrore per quanto stavamo facendo.
Come venivano puniti i soldati protagonisti di questi atti di sadismo ingiustificati?
In Iraq, i soldati hanno completa mano libera da parte dei loro comandanti e generali. Possono fare quello che vogliono senza essere puniti. Civili innocenti iracheni venivano uccisi impunemente, derubati e gettati nel Tigri.
Lei ha partecipato, durante le irruzioni in case private, a questi atti di terrorismo da parte dei soldati americani?
Rifiutai di eseguire questi ordini. Cominciai a capire che la guerra era contro un nemico inesistente. Stavamo semplicemente saccheggiando un paese, distruggendo scuole, ospedali. Non era vero che eravamo in Iraq per aiutare la ricostruzione, presto ho verificato le balle che hanno detto a noi e all’opinione pubblica: eravamo stati mandati in guerra per abbattere il regime di Saddam Hussein che minacciava di distruggere gli Stati uniti. Presto abbiamo appreso che non esistevano armi di sterminio in Iraq. Eravamo degli invasori che saccheggiavano il paese. L’informazione a disposizione era il giornale militare Star and stripes. L’accesso all’informazione televisiva era limitata ad un solo canale: la Arm force network, tv militare. Molto spesso non avevamo accesso ad internet.
Gli altri soldati del suo plotone la pensavano come lei?
Lei non può immaginare la reazione individuale dei soldati quando viene menzionato l’attacco terroristico dell’11 settembre. È patriottismo cieco. Loro sono convinti di essere in Iraq per vendicarsi dei morti americani dell’11 settembre. Non possono psicologicamente ammettere il contrario. Serve loro per giustificare tutto l’orrore che fanno in Iraq.
Ma nell’ultimo anno di guerra è lo stesso Pentagono ad ammettere che il numero dei disertori è salito da un numero esiguo a 6.000 soldati. Altri chiedono asilo in Canada.
Il rifiuto da parte dei soldati di tornare a combattere in Iraq per una guerra che non trova giustificazioni è una evoluzione recente. Ma la maggioranza dei soldati che sono in Iraq preferisce pensare che è ok. Eseguono ordini e si rifiutano di pensare.
Vittorio Longhi
Partirà in primavera la nuova campagna globale contro gli abusi della Coca-cola. La rete internazionale di associazioni che da anni denunciano i crimini della compagnia ha scelto il mese di aprile per avviare manifestazioni, eventi e azioni di boicottaggio. Proprio negli Stati uniti, con il sostegno dei metalmeccanici di Uswa, è prevista una serie di conferenze “Speaking tour” sulla politica antisindacale in Colombia e sui danni ambientali in India. «Sarà un anno difficile per la Coca-cola» annuncia Amit Srivastava, dell’India Resource Center. «Hanno avuto molto tempo per adottare un comportamento diverso, etico – aggiunge – ma finora si sono limitati a fare pubbliche relazioni, tentando di nascondere i problemi». Dalle conferenze che toccheranno le prestigiose New York university e il Massachusetts institute of technology, si arriverà a una grande manifestazione di protesta, il 19 a Wilmington, nel Delaware, dove è prevista la riunione annuale degli azionisti Coca-cola. Il coinvolgimento delle università americane è forse la novità più importante dell’azione globale di boicottaggio, soprattutto dopo che alcuni movimenti studenteschi, analogamente a quanto sta avvenendo in Italia, sono riusciti a bandire dai distributori automatici e dai caffè le bevande del gruppo, tra cui – lo ricordiamo – ci sono anche Fanta, Sprite, Nestea, Bonaqua, Kinley, Beverly, Minute Maid, Powerade, Ice Lemon. È successo nel campus dello Union theological seminary di Manhattan e alla Rutgers university con l’adesione alla campagna di oltre 50 mila studenti. Lo stesso giro di conferenze attraverserà gli atenei britannici e, anche in questo caso, il coinvolgimento del sindacato è determinante: la maggiore sigla del pubblico impiego, Unison, ha già annunciato un’intera settimana di iniziative.
Il consenso alla lotta contro le violazioni di diritti umani si estende anche grazie all’azione delle organizzazioni del nord e dei movimenti nel sud del mondo. Negli stessi giorni dello Speaking tour, infatti, si celebrerà in India la vittoria della piccola comunità di Plachimada, nel distretto di Palaghat, nel Kerala, che un anno fa è riuscita a far bloccare dalla Corte suprema l’estrazione di acqua in uno dei 52 stabilimenti del gigante americano. La mobilitazione di aprile farà eco alle proteste che le donne di Plachimada tengono da tempo contro il prosciugamento delle falde acquifere e che questa settimana sono state rinnovate per la giornata mondiale dell’acqua. É nei paesi come l’India che i gravi danni ambientali si sommano e si intrecciano più direttamente a quelli sociali: l’attività degli stabilimenti che pompano acqua dalle falde, infatti, sottrae quantità enormi di prezioso “oro blu” ai più poveri, visto che per fare un litro di Coca-cola sono necessari ben nove litri di acqua potabile. Inoltre, secondo gli ecologisti, i rifiuti tossici prodotti verrebbero dispersi nell’ambiente o rivenduti ai contadini come fertilizzante, senza parlare della qualità delle bevande che conterrebbero livelli di pesticidi 30 volte superiori a quelli permessi in Europa. Ma gli abusi più impressionanti restano quelli della Colombia. Da lì sono partite la rete e la campagna globale antiCoca-cola per le denunce dei sindacalisti del Sinaltrainal, da sempre vittima di intimidazioni, rapimenti, torture e omicidi commissionati ai gruppi paramilitari. Tuttavia, dopo anni di impunità sotto il governo Uribe, sembra che il Sinaltrainal si stia finalmente prendendo qualche rivincita. Alla fine di novembre i giudici colombiani hanno riconosciuto la libertà di organizzazione e lo statuto del sindacato, nonostante la Coca-cola ne avesse presentato richiesta di revoca. Con la complicità del ministero del Lavoro quella revoca era stata concessa, negando alla sigla anche il diritto di appello. «Questa sentenza dimostra che non è facile annientarci, nonostante la prepotenza della Coca-cola e del governo – ha commentato il leader sindacale Luis Suarez – e che la solidarietà internazionale ci rende più forti».
Marco Guarella
Scriveva nel 1649 di Gerrard Winstanley, un membro del gruppo dei diggers inglesi (fautori dell’abolizione della proprietà privata che, con azioni esemplari, incoraggiavano i poveri a rivendicare il diritto alle terre comuni): «pensieri e parole mi sovvengono secondo cui frasi e libri non sono nulla, devono morire, poiché l’azione dà vita a tutto e, se non si agisce, non si realizza niente».
Sono mesi, oramai, che si discute della crisi irreversibile del movimento globale. L’interrogarsi, in difesa e indifesi, su percorsi e strategie nuove per liberare energie contro neoliberismo e guerra, mostra i limiti e i sintomi della paralisi e della cristallizzazione politica. Nonostante questa impasse, al di là della capacità di prevedere i ritmi «carsici», dimensione etica e centralità dell’agire comunicativo rappresentano e costituiscono un tessuto comune, un punto di non ritorno.
Tuttavia proprio la dimensione simbolico-mediatica è stata occasione propizia e limite: garantendo accumulazione di energia ma differendone, all’infinito, nella sua applicazione. Come elemento di novità nel quadro socio-politico, l’entrata sulla scena del Movimento ha sicuramente rotto un «quieto vivere» dello sviluppo neoliberale o imperiale che si voleva libero da contraddizioni interne: una forza dirompente che nelle ultime stagioni è stata capace di (ri)modificare il linguaggio (bio)politico, sconvolgendo sostanzialmente «il mondo politico».
Parlare di Movimento, tuttavia, suggerisce un fenomeno univoco; sarebbe più corretto parlare di «movimenti» o di molteplici istanze ed obiettivi; oggi (al pari di come gli storici scrivono di les années ’68), possiamo parlare di movimenti al plurale, riproponendo la necessità di valutare Seattle non come un evento – in un passaggio analogo alla lettura storica del «Sessantotto» – ma considerarlo parte di un processo storico, che inizia prima del ’99 e prosegue sino ad oggi. Ridurre questo ad una esplosione improvvisa, non permetterebbe di capirne le origini e di indagarne gli esiti. Lo stesso Forum di Porto Alegre, concluso da pochi giorni, pur conservando la sua autorevolezza di «spazio dialettico», mostra la corda e la fine, o il cambio, di un ciclo.
Cinque anni fa, diffondendo il suo messaggio e il suo metodo in ogni angolo del pianeta, cominciò un processo che si è articolato e consolidato in modo vertiginoso: un insieme di forze produttive alternative che voleva dare visibilità a una molteplicità di pratiche e stili di vita dimostrativi di altri mondi possibili. Ma oggi, in una dimensione di guerra permanente, all’interno di qualsiasi Forum o assemblea «programmatica», in centinaia di spesso auto(ec)citanti, seminari di «nuova politica» (che «tifino» Lula o Chavez), non possiamo eludere lo sfondo della natura bloccata dei sistemi politici.
È lecito domandarsi quale sia per i movimenti il rapporto tra «riforme» e «antiglobalizzazione»?
Ridurre i cosiddetti no global a pura opposizione, che nasce e si sviluppa su molteplici sollecitazioni per poi inaridirsi nella riproposizione dell’anticapitalismo tout court, non permette di comprendere il fenomeno degli ultimi anni. Possiamo vedere, infatti, come comportamenti, gusti e valori affermati nell’ultima stagione, a differenza di altri cicli, non siano entrati in conflitto con la tradizione e i valori consolidati della Sinistra: questi movimenti pur nella loro radicale alterità hanno accettato se non il dialogo, almeno il confronto a distanza. La sinistra ufficiale, semmai, nell’incertezza se «recuperare» e convincere del proprio realismo (politico), ne ha sussunto una parte rilevante di linguaggio estetico. Tutto questo con timori, contraddizioni e paradossi perché, se, da un lato, nelle esperienze e nella pratica dei movimenti si consuma una riaffermazione dell’individuo sulla società, dall’altro, si pone il rifiuto di ogni retaggio di autoritarismo statale del XX secolo e la rottura dei fili che nel passato avevano avvinto gli uomini al tessuto fordista.
Ma l’opposizione al neoliberismo è anche una rivolta fatta di storie non raccontate. Il potere politico e mediatico ne ha spesso fornito, nei suoi canali maggioritari, una rappresentazione semplificata, monocromatica, tralasciandone le diversità. Si avverte la necessità, di una storia sociale assai più articolata e complessa di quella tradizionale, costituita da momenti quotidiani e storici, intimi e al tempo stesso pubblici, pregni di umori, timori e ispirazioni. Di fonti capaci di narrare una congerie di soggettività. Prendendo come punto di partenza le esperienze delle persone coinvolte, troviamo un testo che tenta di sovvertire il modo tradizionale di raccontare le proteste dei movimenti: è Siamo Dappertutto (Marco Tropea Editore) libro, con la prefazione di Naomi Klein, che raccoglie 55 storie del movimento New Global, con 150 fotografie che documentano ben 10 anni del movimento di protesta anti-Globalizzazione.
Siamo dappertutto si situa a metà strada fra un’antologia del movimento e una storia raccontata dal basso, fra un collage delle varie forme di protesta e un manuale di azione diretta. Il volume si divide in sette sezioni, ognuna sulle caratteristiche principali del movimento, cui segue, più o meno in ordine cronologico, una serie di storie che ne evidenziano lo sviluppo dal suo sorgere fino alla maturazione.
Tra le storie, alcune divertenti, come, quella a Londra, di «Tactical Frivolity»: ragazze che vanno (in)contro alla polizia in tenuta supersexy; o il gruppo «Torte armate» che colpisce a torte in faccia i rappresentanti del mondo degli affari (lo hanno fatto, ad esempio, al direttore della Banca Mondiale); e, ancora, «Culture jamming», le guerriglie mediatiche che hanno portato a modificare il dispositivo vocale di centinaia di bambole Barbie e G.I. Joe in commercio negli Usa, facendo dire a Barbie: «I morti non mentono», e al soldato Joe: «Vuoi andare a fare shopping?».
Ci sono, ovviamente, anche Agende Nere, gli eventi segnati dalla violenza della repressione degli apparati di sicurezza statali, come quelle del G8 a Genova nel 2001. Quelle giornate, sappiamo, sono state sistem(at)icamente archiviate nell’indifferenza di questo Paese.
Ma tra queste pagine troviamo ancora la dignità e la speranza che la figura di Carlo Giuliani corra ancora veloce per il Mondo.
Questo volume, in libreria, non passa inosservato soprattutto per la sua forma a mò di mattone, da scagliare, nella sua sostanza, contro il silenzio e l’indifferenza.
Il libro inizia con la rivolta zapatista, postulando come l’insurrezione del 1° gennaio 1994 abbia inaugurato una nuova epoca per i movimenti di resistenza; il «cerchio» si chiude, con la rioccupazione di San Cristobal de las Casas, avvenuta il 1° gennaio 2003.
Poche settimane dopo avremo, segno forse di un cambio d’epoca, la più grande e simultanea manifestazione mondiale contro la guerra all’Iraq che raccontò l’ottimismo di un’altra, almeno linguistica, «superpotenza».
Ma questo non è solo un libro sui movimenti ma, «autenticamente», dei movimenti: le esperienze assumono immediatamente un valore emblematico, come una serie di istantanee che però non diventano mai una ricostruzione impersonale ed oggettiva. Questi materiali sono i presupposti ad un’indagine sui gruppi che si articolano nella trama complessiva della continuità sociale; la stratificazione sociale e culturale, la ricostruzione della mentalità, l’individuazione dei miti e dei valori su cui si regge la convivenza e l’osservazione dei consumi costituiscono un insieme di motivi ispiratori della globalità storica.
Rispetto alla tradizione francese (che segue un cammino logico dal materiale, all’economico, al sociale, fino ai comportamenti collettivi e al politico) il libro «assume lo sguardo» anglosassone dell’immediatezza e dell’intuitività, cogliendo il «gruppo» per i suoi tratti specifici: una attribuzione di valore all’intimità, alla soggettività e alla diversità, dove alcune storie personali raccontano, spesso, di più di qualsiasi manifesto politico. Se un libro può essere un carnevale di storie anziché un racconto lineare, questo ne è un esempio capace di parlare di uno sforzo tenace e oscuro di persone la cui unica ricompensa è la consapevolezza. Più che tranquillizzare i diversi e nuovi allievi (dove la comunicazione fonde allievo e spettatore) i movimenti si servono e necessitano di affermazioni paradossali incerte e di un senso di riverente timore a riflettere. I filosofi dell’antica Grecia chiamarono tutto questo aporie. La parola significa in effetti, mancanza di poros – un cammino – di una via, di un passaggio.
Questa aporia dei movimenti, fatta di sconcertanti paradossi, dovrebbe porre ogni soggetto della moltitudine ad assumere la responsabilità di stesso.
In questo momento di silenzio rispetto all’antiglobalizzazione (nel silenzio dei movimenti stessi), si può, inequivocabilmente, negli albori di un (di)battito storiografico, cominciare a percepire l’eco dei numerosi accenti, delle diverse voci – lingue e sfumature – con cui sì e definito e narrato «l’epos no global». Il rinnovamento della storia sociale dei movimenti riguarda soprattutto la metamorfosi dello sguardo, l’allontanamento da un mero approccio economico e l’avvicinamento a una storia culturale, essa stessa in evoluzione.
Si ricercherà il modo di documentare, divulgare e amplificare le storie inascoltate che i movimenti di base hanno intrecciato nelle lotte globali dell’ultimo decennio.
Seguendo alcune linee di una rete complessa, diffusa e priva di centro, nel dipanare esperienze personali, sappiamo persistere – a causa delle barriere linguistiche, culturali e geografiche – ancora numerosi luoghi irraggiungibili che impediscono di ascoltare molte «altre voci»; ma il Sud del pianeta ha tradotto le sue lotte anche grazie alle testimonianze, ai mezzi, degli attivisti occidentali. Sembrerebbe l’adagio di un antico Manifesto, una emozionante conferma di quanto presumiamo da sempre: movimenti separati convergono e si riconoscono come alleati in una lotta comune, mettendo in atto una rivolta capace di ascoltare.
Ripercorrendo l’insieme delle azioni ritroviamo una rivolta globale senza precedenti, una ribellione in continuo divenire che ha mutuato idee e tattiche dalle diverse culture e dai vari continenti, raccogliendosi in sciami per poi dissolversi. Ma solo per volare altrove.
Se un altro mondo non solo è possibile ma si sta avvicinando, in questo rumoroso silenzio sentiremo il suo respiro.
«Atlante di un’altra economia», da oggi in libreria per manifestolibri. Una mappa delle politiche e delle pratiche «del cambiamento», alternative possibili al modello liberista, come l’altro mondo riunito in questi giorni a Porto Alegre. I «senza potere» indicati dalla studiosa delle città globali come i protagonisti del futuro
SASKIA SASSEN
«La storia ci insegna che gli esclusi e i deboli sono un importante fattore nello sviluppo di nuove fasi storiche. Gli accademici hanno incontrato e incontrano notevoli difficoltà nello spiegare il cambiamento sociale, in parte perché c’è la tendenza a concentrarsi su ciò che è «incluso», che fa parte dei sistemi formali: i governi, gli elettori, il mercato del lavoro formale, il sistema di difesa di un paese, ecc. I grandi sconvolgimenti sociali ci colgono impreparati – che si tratti della caduta di regimi poderosi come le dittature dell’America Latina negli anni `70 e di Marcos nelle Filippine, o l’estensione del diritto di voto alle donne e alle persone di colore, o la firma del trattato per la messa al bando delle mine antiuomo, o le mobilitazioni contro il Wto a Seattle nel 1999. Per quanto la Cia si sforzi di tenere sotto controllo i «sobillatori», non è mai stato possibile prevedere correttamente il sopraggiungere del cambiamento sociale, o prevederlo affatto. Una delle ragioni è che quel che può apparire come un cambiamento improvviso è in realtà il risultato di una lunga storia di lotte organizzate, portate avanti da attori invisibili e «senza potere». I grandi eventi e cambiamenti sociali sono spesso costruiti nel corso di decenni dalle pratiche degli esclusi. Le donne hanno lavorato per un secolo per ottenere il diritto di voto, prima che, negli anni `60, diventasse una realtà nei paesi ricchi del Nord del mondo. Ma la storia ne parla come se un giorno, in alcuni casi verso la metà degli anni `60, i legislatori avessero improvvisamente deciso di concedere il diritto di voto alle donne. Oggi stiamo attraversando, ancora una volta, una congiuntura storica molto particolare. Vale la pena dunque di esaminare le tendenze chiave che stanno ridisegnando la mappa politica; niente di quanto dirò è del tutto nuovo, ma la scala del fenomeno e le tattiche impiegate sono in una certa misura estreme e danno vita a una nuova mappa politica. In questo contesto, c’è spazio perché le forze sociali informali rafforzino il proprio impegno e lavoro politico.
Nuovi attori e percorsi
Vorrei evidenziare due questioni chiave, relative entrambe al sistema politico formale, che sono un chiaro indicatore del degrado di questo sistema politico e quindi dell’importanza delle forze politiche informali.
In primo luogo, in tutti i paesi la globalizzazione ha indebolito il sistema legislativo e, benché vi si presti poca attenzione, ha rafforzato il potere del ramo esecutivo. Non è una cosa di cui stare allegri. Per quanti limiti le democrazie liberali possano avere, il sistema legislativo è il luogo in cui si esercita il potere del popolo, in cui possiamo far sentire la nostra voce attraverso i nostri rappresentanti eletti. È anche il ramo del governo in cui possiamo porre i politici di fronte alle loro responsabilità: chiedere ai legislatori e, cosa ancor più importante, al governo – presidente/primo ministro, ministri, agenzie e commissioni operanti all’interno dell’esecutivo – di rendere conto del loro operato. Il numero di commissioni e agenzie governative è aumentato considerevolmente nel corso del tempo: una parte sempre maggiore delle attività di governo è sotto il controllo dell’esecutivo e sottratta alla supervisione dei cittadini. Nel contempo, il ramo legislativo è stato indebolito, al punto che in molti paesi oggigiorno è in uno stato di degrado, proprio perché il sempre minor potere di cui gode lo rende vulnerabile alle mire degli interessi privati. Tutto questo emerge con estrema chiarezza negli Stati uniti dove, come sostengo nel mio ultimo libro, abbiamo un governo sempre più «privatizzato». Gli Usa sono a malapena quella democrazia liberale caratterizzata dall’equilibrio tra i poteri che si suppone che siano. Non è mai stato un sistema perfetto, né è mai stato implementato alla perfezione, ma quel che è avvenuto negli Stati Uniti nell’ultimo decennio è davvero senza precedenti. Credo che stiamo entrando in una nuova era: il punto è che l’apparato formale della politica – il governo, i partiti politici, le lobby ufficiali – sono sempre meno rappresentativi del corpus politico nel senso più generale del termine. Questo significa che gli attori politici informali – i movimenti sociali, gli esclusi, i «senza potere» – assumono un ruolo ogni giorno più importante.
In secondo luogo, esiste oggi un sistema politico-economico strategico interamente nuovo, che in parte funziona attraverso i mercati elettronici, e in parte è integrato in una rete di circa quaranta città globali sparse per il mondo. È un sistema che sfugge alla legge territoriale degli stati-nazione e, ciò che forse è ancora più importante, che riesce a far entrare elementi del proprio programma nelle leggi nazionali. Lo concepisco come la privatizzazione del potere di dettare legge, che era un tempo di dominio pubblico. Questa tendenza a inserire l’interesse privato nel sistema politico pubblico avviene attraverso le commissioni specializzate nella «regolamentazione», che operano a fianco del ramo esecutivo del governo; attraverso dipartimenti chiave del ramo esecutivo (come i ministeri delle finanze e le banche centrali); e attraverso le lobby private che influenzano i rappresentanti in parlamento (soprattutto negli Stati Uniti, molto meno in Europa). È un processo insidioso, perché gli interessi privati vengono spacciati per politiche pubbliche e difesi come il modo migliore di governare il paese. Chiaramente, non stiamo parlando di corruzione, come quando un esponente politico di alto livello viene pagato da privati perché appoggi un oscuro provvedimento: il tutto, invece, viene fatto apparire legale. Di conseguenza, assistiamo oggi a nuove forme di potere e autorità private che agiscono globalmente, al di fuori del dominio della politica nazionale; e impongono le loro politiche attraverso i nostri governi, facendole apparire legali. Ancora una volta, nella misura in cui il sistema politico formale è coinvolto in questo processo, gli attori delle lotte politiche informali assumono un’importanza del tutto nuova.
Voglio sostenere che è soprattutto in tempi come questi che le pratiche dei movimenti sociali e degli esclusi diventano sempre più influenti. Ce l’hanno dimostrato i Forum di Porto Alegre e di Bombay. Gli spazi di lavoro politico degli attori informali sono diversi da quelli dei partiti politici: stiamo parlando, per esempio, degli spazi meno formali delle città e dei territori (anziché i sistemi nazionali di voto) e, cosa interessante, delle nuove reti informatiche che collegano fra loro punti diversi del mondo, creando una zona pubblica globale sempre più ampia. Questo non significa rinunciare allo Stato; significa solo che le forze politiche informali assumono maggior potere e quindi, si spera, possono entrare nell’apparato politico formale, trasformandolo sia dall’esterno, attraverso le proteste, sia dall’interno. È grazie a queste pratiche di resistenza e costruzione del cambiamento che le forze politiche informali si rafforzano e acquistano visibilità, esperienza e potere (speriamo che si tratti di potere «buono» e che tale rimanga, una questione non priva di rischi).
Lo spazio urbano
Le città e i territori sono uno spazio di gran lunga più adatto alla politica di quanto non sia lo Stato. Diventano un luogo in cui gli attori politici informali possono far parte della scena politica secondo modalità molto più difficili da praticare a livello nazionale, dove la politica deve essere gestita attraverso sistemi formali: quello elettorale, quello giudiziario (citando le agenzie in tribunale), ecc. Nello spazio politico nazionale, gli attori politici informali sono ridotti all’invisibilità. Lo spazio delle città accomoda un’ampia gamma di attività politiche – occupazioni, manifestazioni contro la repressione brutale della polizia, lotte per i diritti degli immigrati e dei senza tetto, la politica della cultura e dell’identità, attivismo gay, ecc. – che assumono particolare visibilità nelle piazze. Gran parte delle pratiche politiche urbane sono reali, portate avanti da persone anziché essere dipendenti da costose tecnologie mediatiche. La politica di piazza facilita la creazione di nuovi tipi di soggetti politici che non devono necessariamente passare per il sistema politico formale.
Ma non si tratta solo di attivismo. La città e il territorio sono anche uno spazio in cui chi dispone dipoche risorse può accumularne di collettive, siano esse relative al sapere, politiche, culturali e sociali. Il progetto di Roma di fare della regione metropolitana uno spazio per le economie alternative è un esempio dei modi più profondamente strutturali di usare le risorse collettive e le politiche delle aree urbane densamente popolate. Il lavoro di «Sbilanciamoci!», teso a una revisione critica del bilancio statale per analizzare come vengono impiegati i soldi dei contribuenti, è un altro esempio; ripetere lo stesso esercizio a livello metropolitano e urbano sarebbe ancora più rilevante, dal momento che le voci del bilancio cittadino sono più vicine alle questioni di interesse quotidiano per la gente. È importante ripensare chi è l’attore politico in questi contesti: non è più semplicemente l’elettore. Include altri soggetti, protagonisti della vita quotidiana, a prescindere dal fatto che godano o meno dei diritti di cittadinanza, che votino o meno alle elezioni politiche. Tutto questo è ovviamente importante ma, nello spazio politico cittadino, altre questioni, altre esigenze hanno la precedenza; sono questioni reali, e anche un immigrato irregolare può prendere parte alla lotta. La crescita del movimento del diritto alla città è un buon esempio di questo potenziale; evidenzia anche come reclamare tali diritti faccia della politica un processo reale e partecipativo, dal momento che riguarda risorse collettive e infrastrutture, e il riconoscimento della diversità nelle rivendicazioni di alloggi, parchi, lavori, accesso a cure sanitarie e strutture per l’infanzia, ecc. Il tutto diventa ancor più significativo in un contesto in cui il sistema politico formale assorbe una percentuale sempre minore delle energie politiche di un paese.
Quando la città ha dimensioni globali, queste possibilità politiche assumono un carattere ben diverso, perché questo tipo di città è di importanza strategica per il capitale globale. Queste città, e i legami geografici strategici che le collegano tra loro attraverso i confini nazionali, possono essere considerate parte dell’infrastruttura per una società civile globale, a cui contribuiscono dal basso, attraverso una molteplicità di micro-siti. Tra questi micro-siti e queste micro-transazioni ci sono una varietà di organizzazioni impegnate in questioni transnazionali, come l’immigrazione, il diritto d’asilo, le lotte per un’altra globalizzazione… Sebbene tali organizzazioni non siano necessariamente urbane per nascita o orientamento, la geografia delle loro operazioni è in parte inserita in un gran numero di città.
Ironicamente, le nuove tecnologie informatiche, soprattutto Internet, hanno rafforzato la mappa urbana di questi network transnazionali. Per quanto non sia strettamente necessario, le città (e i network che le tengono insieme) in questa fase fungono da ancora e facilitano le lotte globali; questi stessi sviluppi agevolano, però, anche l’internazionalizzazione del terrorismo e dei traffici illegali. Le città globali, quindi, sono ambienti complessi che stimolano questi tipi di attività, anche se i network stessi potrebbero non essere urbani. E il ciberspazio è, ironicamente, uno spazio politico per gli esclusi molto più importante del sistema politico nazionale.
Attivisti digitali
A seconda dell’uso dei media informatici in questo nuovo tipo di impegno transnazionale, possiamo individuare due ampie categorie di attivismo digitale: il primo consiste in gruppi di attivisti localizzati sul territorio che si collegano con altri gruppi simili sparsi per il mondo. L’evidenza empirica disponibile suggerisce che tali gruppi sono presenti principalmente, anche se non esclusivamente, nelle città. Gli attivisti creano network non solo per diffondere informazioni (su questioni politiche, ambientali, abitative, ecc.) ma anche per elaborare strategie politiche e promuovere vari tipi di iniziative. Esistono molti esempi di questa attività politica transnazionale: Sparc, per esempio, creato da donne e per donne, è nato come un tentativo di organizzare gli abitanti degli slum di Bombay per aiutarli a trovare casa; ben presto, si è trasformato una rete di gruppi simili presenti in tutta l’Asia e in alcune città dell’America Latina e dell’Africa. Questa è una delle più importanti modalità di politica alternativa resa possibile da Internet: un politica sul territorio, ma con un’importante differenza – si svolge su territori collegati fra loro attraverso regioni, paesi, o in tutto il mondo. Il fatto che il network sia globale non significa che tutto debba avvenire a livello globale.
Uno degli esiti di questo stato di cose è che i «senza potere», gli svantaggiati, gli emarginati, leminoranze discriminate, possono acquisire una presenza nelle città globali, sul territorio e nel ciberspazio, e possono farlo rispetto a chi detiene il potere e gli uni rispetto agli altri. Questo, per me, è il segnale della possibilità di un nuovo tipo di politica, basata su nuovi tipi di attori. Non è più semplicemente questione di avere il potere o di non averlo. Queste sono le nuove basi ibride sulle quali agire. Le pratiche informali e gli attori politici non totalmente riconosciuti come tali possono comunque partecipare allo scenario politico. Se poi torniamo alla storia e vediamo in che misura i cambiamenti importanti siano stati generati non dai poderosi al potere, ma proprio dai «senza potere», allora le nuove condizioni oggettive cui assistiamo oggi acquistano nuovi significati. Ma perché si realizzino a pieno, dobbiamo impegnarci; non cadranno come manna dal cielo.
Ventotto anni, sefardita, elettrice del Likud, oggi agli arresti per «collaborazione con il nemico». La sua colpa, aver visto in faccia e denunciato gli orrori dell’esercito israeliano a Jenin
Luisa Morgantini
Tali Fahima da qualche mese è un nome noto in Israele e nel campo profughi di Jenin. Tali ha 28 anni, ebrea sefardita, dal 9 Agosto scorso è la prima cittadina ebrea israeliana in detenzione amministrativa; cioé incarcerata, fino a poco fa senza accuse formali e senza condanna, come migliaia di palestinesi in questi anni di occupazione militare. Cresciuta a Kiryat-Gat, una città d’immigrati orientali ai bordi del deserto del Negev, lavorava come segretaria in uno studio legale di Tel-Aviv, ed è stata licenziata per le posizioni politiche recentemente assunte contro l’occupazione militare israeliana. Tali non proviene dall’area pacifista o degli intellettuali israeliani, di norma askenazi, né dalla classe media. Ha votato, anche l’ultima volta, per Sharon, è stata sostenitrice del Likud e, come la sua famiglia, una fervente nazionalista, ma ha cambiato le sue posizioni. Punto di svolta nella sua vita è stato il documentario di Giuliano Mer, I bambini di Arna, su un progetto teatrale per i bambini di Jenin, condotto nella prima Intifadah da Arna, una donna israeliana che ha dedicato la sua vita alla costruzione della pace tra palestinesi e israeliani, che è deceduta qualche anno fa ed era la madre di Giuliano. Nel film si vede la devastazione provocata dalle invasioni dell’esercito israeliano a Jenin e il percorso di sei palestinesi che nella prima Intifadah partecipavano al progetto di Arna, alcuni dei quali uccisi durante questa seconda Intifada.
L’ingiustizia in faccia
Tali vuole vedere davvero che cosa succede. E fa qualcosa di imperdonabile e proibito agli israeliani: va a Jenin, conosce Zakaria Zubeidi, un tempo uno dei «figli» di Arna, oggi capo locale delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa e tra i ricercati. Tra loro nasce un’amicizia, basata sul confronto. Come dichiara lei stessa: «Mi hanno sempre insegnato che gli arabi erano qualcosa che semplicemente non doveva esistere. Sono sempre stata di destra. Fin dall’infanzia mi hanno insegnato a odiare gli arabi, a non fidarmi di loro e a pensare che l’occupazione fosse giusta. Ho cominciato a perdere le mie illusioni prima delle elezioni, ma ho votato Likud perché avevo ancora una paura primordiale degli attentati terroristici e perché sapevo che Sharon era un buon guerriero».
Tali comincia a lavorare in progetti educativi nel campo profughi di Jenin; vive con i palestinesi, ospite nelle loro case. Nel marzo 2004 viene arrestata una prima volta, a causa delle sue dichiarazioni alla stampa, in cui si diceva pronta a proteggere con il suo corpo Zakaria, come gesto di protesta nei confronti della prassi delle esecuzioni mirate ed extraterritoriali, costantemente applicata dall’esercito israeliano. Dopo il rilascio é contattata dai servizi segreti israeliani, che vogliono convincerla a collaborare come informatrice e, dopo il suo rifiuto, il 9 agosto viene arrestata ancora. Rimane per mesi in detenzione amministrativa, senza accuse formali né un’effettiva condanna. Il tribunale continua per settimane a rimandare le udienze, per lasciare più tempo di investigare su quelle che i servizi segreti interni in Israele considerano le sue attività illecite. Il 26 dicembre viene infine pronunciata l’accusa: «Collaborazionismo con il nemico in tempo di guerra, trasmissione di informazioni al nemico, contatti con agenti stranieri, detenzione illegale di armi, sostegno di organizzazioni terroristiche e violazione dell’ordine legale». Il processo inizia l’11 gennaio, con un’audizione procedurale in cui il giudice ha lasciato i presenti senza parole domandando all’accusa se intendesse richiedere la pena di morte. Non é mai accaduto, neppure nel sistema legale israeliano, che un giudice facesse una domanda del genere, alla presenza del pubblico, dei media e dell’accusata stessa, di fatto incitando l’opinione pubblica contro di lei. E con questo si arriva al 25 gennaio, quando il giudice Zvi Gurfinkel decide di rilasciare Tali dalla detenzione amministrativa mettendola agli arresti domiciliari nella casa di sua madre a Kiryat Gat, con una cauzione di 15.000 shekel, con la motivazione che le prove contro di lei non sono sufficienti a giustificarne la detenzione; aggiunge pero’ che la custodia di Tali é motivata da altro: se infatti non ci sono prove sufficienti per arrestarla, l’aver creato legami evidenti con «agenti esterni», anche al fine di proteggerli (come ha fatto Tali con Zakaria Zubeidi), è contro la legge; così come è considerato reato, seppure minore, l’aver tradotto a Zubeidi i documenti persi da un ufficiale delle Forze di Difesa Israeliane durante un’operazione a Jenin, nei quali si indicavano chiaramente gli obiettivi dell’operazione e le modalità per portarla a termine. Curioso é il fatto che non avendo però Tali «consegnato» il materiale a Zubeidi, ma essendosi limitata a leggerlo ad alta voce, questo non implicherebbe un livello di rischio tale da giustificare la sua detenzione; questo, anche perché molti tra i ricercati da Israele, secondo il giudice Gurfinkel, sono in grado di leggere in ebraico, pertanto la traduzione di Tali non avrebbe fatto alcuna differenza (Tali ha negato il fatto e comunque Zakaria Zubeidi parla ebraico).
Se però il giudice da un lato ha deciso di non trattenerla in prigione e di spostarla ai domiciliari, ha in ogni modo ritardato di 24 ore la messa in atto della decisione, per dare tempo all’accusa di protestare ed andare in appello. E così è accaduto, l’accusa si è appellata e Tali, per il momento, resta in prigione. Malgrado le condizioni psicologiche e fisiche di Tali non siano delle migliori, sia per lo stato di detenzione prolungata, sia per le pressioni a cui é stata sottoposta per costringerla a confessare reati che non ha commesso, Tali ha mantenuto un comportamento straordinariamente dignitoso e non ha mai smesso di parlare delle condizioni di vita dei palestinesi.
Accusata di «tradimento»
Le pressioni usate non si discostano dal solito metodo: presunte dichiarazioni di un prigioniero palestinese (rilasciate con ogni probabilità sotto tortura), per le quali durante la sua permanenza a Jenin Tali avrebbe visto del materiale esplosivo nelle mani di combattenti palestinesi. Ma, come dichiara la sua avvocata, se anche così fosse, e Tali ha fermamente smentito, questo non può costituire un motivo sufficiente per essere accusata di collaborazionismo nell’organizzazione di attentati terroristici in Israele.
Così come Mordechai Vanunu, anche lui di origine sefardita, tecnico della centrale nucleare di Dimona, nel deserto del Negev, in Israele, arrestato nel 1986 con l’accusa di spionaggio e tradimento allo stato per aver denunciato all’opinione pubblica internazionale l’attività illegale di Israele in materia di armamenti nucleari, anche Tali Fahima é vittima di quella che prende le forme più di una vendetta tribale che dell’applicazione della giustizia e del diritto; Tali e Vanunu sono entrambi attaccati dal governo israeliano, perché mettono in pericolo l’ordine sociale e politico. Le loro comunità (entrambi, come si è detto sono ebrei sefarditi) potrebbero venire influenzate dalle loro esperienze, e cominciare a fare domande scomode. Per questo sono presentati come traditori, dipinti come una minaccia alla sicurezza e integrità nazionale. In questo senso il nuovo arresto di Vanunu lo scorso 12 novembre, così come la detenzione prolungata di Tali nonostante le decisioni del giudice, testimoniano un atteggiamento persecutorio del governo israeliano nei confronti di chi sceglie di non giustificare come esigenza di sicurezza per Israele, le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale dell’esercito israeliano, l’occupazione militare, la distruzione delle case, i rastrellamenti, i bombardamenti di civili.
Lo sanno e lo denunciano i militari israeliani che hanno scelto di dire «No» e di condannare pubblicamente i crimini commessi dall’esercito israeliano. Come dice spesso Jonathan Shapira, pilota refusnik: «Ho detto no per amore verso Israele e i miei vicini palestinesi, e vedo ogni giorno di più restringersi nel mio paese gli spazi di democrazia».
Tali, il cui caso, quindi, non é ancora risolto, è di fatto vittima delle manovre del sistema, come evidenzia Yehudith Harel, di Gush Shalom e cofondatore della Palestinian Israeli Joint Action for Peace, «per spaventare tutti noi e dimostrare cosa può accadere a chi supera il limite. Beninteso, non il limite di `collaborare con il nemico’, ma la linea di sfiducia che quasi quarant’anni di occupazione ed espropri dal 1948 si è sedimentata tra noi e i nostri vicini». In questo senso, la libertà per Tali Fahima, sarà un piccolo passo per la convivenza e la democrazia.
Ibrahim, tassista, Amneh, venditrice di frutta, Ahmed, venditore di falafel, Adnan venditore di caffè, Um Khaled e tanti altri palestinesi di Jenin che hanno imparato ad amare Tali, in carcere le hanno fatto pervenire un messaggio di sostegno; la stanno aspettando e le dicono che le vogliono bene e che il suo amore per la giustizia e il suo coraggio corrono in tutta la Palestina.