Sono anti-Bush, anti-guerra e poco indulgenti con i democratici che fanno il gioco dei repubblicani. Sono avvocate, pr, consulenti finanziarie, agiate e di sinistra. Sono le “codepink”, il movimento delle donne in rosa che sta scuotendo i palazzi di Washington. Appuntamento il 17 settembre a Capitol Hill
Irene Alison – Washington

 

Al 712 della Quinta strada a Washington c’è una casa con le tendine rosa. Alla finestra, uno striscione, rosa anche quello, lascia pochi dubbi sulle idee degli inquilini: “Basta scuse. Fuori dall’Iraq adesso!”.
Dietro la facciata di mattoni chiari, un gruppo di donne si sta preparando per un appuntamento importante: magliette rosa, cappellini rosa, rosa pure i boa di struzzo delle più frivole. E il pizzo dei guanti con cui, alti sulla propria testa, terranno i grandi cartelli su cui hanno scritto – nero su rosa – i loro slogan: “Don’t buy Bush’s war” e “Troops home now”.
È tutto pronto, o quasi, per la marcia di protesta che il 17 settembre – due giorni dopo l’atteso report del generale David Petraeus davanti al Congresso Usa sui “progressi” nella guerra in Iraq – le porterà ancora una volta davanti al Campidoglio.
Tra il 712 e i palazzi del potere, infatti, la distanza è breve. E, dal 2002, anno della loro nascita, non è passato giorno senza che le Codepink – movimento pacifista al femminile con base a Washington ma con 250 sottogruppi sparsi in tutti gli States – la percorressero per dimostrare, davanti alla Casa bianca o al Congresso, il loro impegno contro la guerra. Avvocatesse, pr, scrittrici, consulenti politiche: donne che hanno in comune l’ottimo curriculum professionale, una solida fede democratica e una vera ossessione per il rosa, le Codepink sono nate – “quasi per gioco” ricorda Medea Benjamin, avvocato per i diritti civili e co-fondatrice del gruppo – alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, con l’intento di “contrastare il delirio securitario di un sistema politico machista e di spostare a sinistra l’asse del dibattito politico”.
Obiettivo non da poco, di fronte ai tamburi di guerra di un sistema mediatico compatto nel sostenere le ragioni dell’aggressione armata ai “nemici” degli Usa e a un governo impegnato a declinare le sfumature della paura in codici colorati. “L’amministrazione Bush si era appena inventata questa assurda gradazione dei livelli di allerta anti-terrorista: il giallo significava calma relativa, l’arancione preoccupazione, il rosso che potevi cominciare a tremare. Noi allora pensammo di rispondere con un “codice rosa”, un codice delle donne per dire che c’è una maniera non violenta per risolvere i conflitti”.
L’incontro-scontro con Rumsfeld
Dalle illuminate chiacchiere da salotto alla militanza attiva, per le Codepink il passo è stato breve. Ma l’impatto non dei più morbidi. “La nostra prima azione fu tentare di infiltrarci in Campidoglio mentre il segretario alla difesa Donald Rumsfeld esponeva le ragioni dell’invasione dell’Iraq. Volevamo porgli alcune semplici domande: è sicuro che non sia il petrolio il vero problema? Ci sa dire quanti civili moriranno in questa guerra? E quanti soldati? Con nostra grande sorpresa, arrivammo a un passo da lui e ci riuscimmo davvero. Ma la polizia ci portò via prima di ottenere una risposta…”. Oltre a una notte in cella, il risultato fu una foto in prima pagina sul Washington post e l’etichetta, appiccicata dai media, di “prime cittadine americane che avevano avuto il coraggio di opporsi al governo dopo l’11 settembre”. Niente male per quello che era cominciato come un gioco tra amiche.
In Italia, contro il Dal Molin
Da allora, in quasi sei anni di battaglie – da quella per l’impeachment di Bush all’ultima, per scongiurare un futuro attacco all’Iran, fino alla recente trasferta italiana per sostenere il comitato “No Dal Molin” nella sua lotta contro la nuova base militare Usa di Vicenza – le Codepink non sono riuscite ad ottenere il ritiro delle truppe dall’Iraq, ma qualche risposta alla fine l’hanno strappata.
Dopo aver bussato invano alle porte di molti senatori, aver trascorso svariati inverni al gelo di Pennsylvania avenue presidiando la Casa bianca ed essere state liquidate dai vari Bush, Condie e Rummie con un’alzata di spalle, le donne in rosa hanno cambiato strategia. “Certo – spiega Benjamin – i nostri avversari restano i repubblicani, ma ci siamo rese conto di avere molta più presa sui democratici: siamo la loro base, non possono dimenticarci. Bush e Cheney potevano voltarsi dall’altra parte, Hillary Clinton e Nancy Pelosi, invece, devono darci ascolto”.
E la dimostrazione sembra venire dal recente cambiamento, in materia di Iraq, della posizione della senatrice Clinton. Una metamorfosi di cui, come ha recentemente sostenuto il New York Times, le Codepink – con la loro campagna “Listen Hillary!” – sarebbero tra le maggiori ispiratrici.
In controtendenza con il voto a sostegno dell’invasione dato nel 2002, Hillary – che nel maggio 2007 ha votato a favore del calendario per il ritiro delle truppe e contro il rifinanziamento della missione in Iraq – ha infatti finalmente espresso, all’inizio di agosto, la sua volontà di porre fine alla guerra “non l’anno prossimo, non il mese prossimo, ma oggi”. Segno che, probabilmente, il pedinamento messo in atto dalle Codepink – che ne hanno seguito con striscioni e picchetti tutto l’itinerario pre-elettorale – ha dato i suoi frutti.
“Hillary resta una conservatrice”
Ma per le attiviste, i conti con la senatrice non sono ancora chiusi. “Le sue ultime dichiarazioni hanno convinto l’opinione pubblica che riporterà i soldati a casa. Ma, per quanto ci riguarda – chiarisce Benjamin – Hillary resta una conservatrice, sotto la sua presidenza l’America continuerà a comportarsi come un impero e probabilmente, centinaia e centinaia di soldati continueranno a restare in Iraq anche molto tempo dopo il suo insediamento. Dovrebbe scusarsi per il suo voto del 2002 come ha fatto John Edwards, ma non credo che lo farà: da donna e da democratica cerca di compensare la sua presunta debolezza dimostrando di essere “dura” su temi come la sicurezza nazionale”.
Lungi dall’abbatterlo, anche le candidate donne sembrano adattarsi alle regole del gioco del “sistema machista”: “Nel nostro paese c’è un ristretto gruppo di persone molto conservatrici che veicolano attraverso i media l’idea che i democratici non siano in grado di provvedere alla sicurezza del paese, spostando l’asse del dibattito politico sempre più a destra. Ormai i democratici hanno più paura di dimostrarsi deboli con i terroristi che dei terroristi stessi. Per questo finiscono col fare dichiarazioni come quelle di Hillary, Obama e Edwards sull’Iran: “in caso di minaccia nessuna opzione è esclusa””.
Più che gli ideali, ad ispirare la campagna elettorale del partito dell’asinello, sarebbero dunque, secondo le Codepink, alcuni incubi ricorrenti. “I candidati democratici sono preoccupatissimi di un nuovo attacco terroristico prima delle elezioni: temono di essere accusati di non essere stati previdenti, di aver fatto morire altri soldati perché non avevano l’equipaggiamento necessario o di aver provocato un ampliamento della crisi in Medioriente ritirando le truppe. Per questo non hanno il coraggio di votare contro la legge per il controllo della corrispondenza o contro il rifinanziamento della guerra”. Una corsa all’inseguimento delle paranoie stimolate nell’elettorato dalla retorica repubblicana della war-on-terror, per la quale i democratici sarebbero disposti anche a lasciare indietro la loro base.
Gli incubi dell’asinello
“Nel nostro sistema chi vince prende tutto. I democratici sanno che la loro base non basta, quindi la danno per scontata pur di strappare voti a destra. Ma così accrescono la percentuale di elettori che preferiscono votare per persone alternative come ad esempio Ralph Nader, rischiando di consegnare le elezioni ai repubblicani”.
Proprio per questo, dopo aver fatto recapitare a Cheney migliaia di slip rosa con sopra elencati gli articoli della costituzione violati manipolando le informazioni sulle armi di distruzione di massa ed essersi infiltrate in decine di apparizioni pubbliche di Condoleezza Rice gridando “Basta omicidi, basta torture e basta bugie” e chiedendo la chiusura di Guantanamo, le pink ladies hanno rivolto le loro attenzioni agli uomini, e alle donne, del loro partito.
“In cambio dei compromessi sulla guerra, il nuovo Congresso a maggioranza democratica non ha ottenuto niente: sono riusciti a diminuire pochissimo le spese per l’istruzione superiore, hanno esteso in maniera irrisoria i confini dell’assistenza sanitaria pubblica e, in compenso, non sono riusciti a chiudere Guantanamo e hanno contribuito all’ulteriore contrazione delle nostre libertà civili approvando la legge per il controllo della corrispondenza”. Un nuovo fronte di battaglia che è costato alle Codepink qualche tentativo di strumentalizzazione – “ai media repubblicani fa comodo mostrare il dissenso interno alla sinistra” – e un bel ritorno di immagine: “Improvvisamente, abbiamo tutti i riflettori addosso, probabilmente perché la maggior parte dell’opinione pubblica è ormai contro la guerra e molti giornali e tv hanno assunto una posizione più critica”.
Di certo, quando il 17 settembre marceranno compatte sul Campidoglio avvolte nei loro boa rosa confetto, sarà difficile che passino inosservate.


PROVINCIA DI CREMONA
GRUPPO CONSIGLIARE VERDE

AL PRESIDENTE
DEL CONSIGLIO PROVINCIALE DI CREMONA

Oggetto: Mozione del consigliere Andrea Ladina (Verdi) per la realizzazione a Vicenza di un Parco internazionale “Foresta di pace” in alternativa all’ampliamento dell’attuale base militare USA e come simbolica riparazione umanitaria ed ambientale alla dissennata guerra in Iraq decisa dal Presidente George Bush.

Vicenza, città italiana di grandi tradizioni civili, di arte, di storia e di ambiente merita di essere valorizzata a livello internazionale proprio in un momento storico come questo che la vede, suo malgrado, coinvolta in un progetto di mastodontica cementificazione con l’obiettivo di sottrarre al suo territorio aree per 450.000 metri quadrati di superficie per far posto all’allargamento dell’attuale base militare USA.
La natura di questa grande base militare è evidentemente offensiva e Vicenza dovrebbe diventare una base d’attacco per operazioni distruttive su scenari internazionali.
Non crediamo che la bella città del Palladio meriti un così catastrofico destino diventando, inevitabilmente, bersaglio militare di una qualsiasi controffensiva aerea.
Come ci ricorda Gregory Bateson in “Verso un’ecologia della mente”, la prima pulizia che si deve mettere in atto è quella di disinquinare la nostra mente dalle menzogne e dal ribaltamento della realtà che le strutture di potere, specie economico, diffondono e che vengono fatte poi passare come verità indiscutibili.
Ed il primo ribaltamento della realtà è stato quello di aver fatto credere al mondo che la guerra avviata in Iraq da Stati Uniti e Gran Bretagna rappresentasse una inevitabile tappa per battere il terrorismo internazionale mentre invece, demistificata questa propaganda, orami tutti sanno che si è trattato di una guerra criminale per il controllo strategico delle fonti di energia ( petrolio innanzitutto) e che ha causato una imponente e tragica distruzione di risorse soprattutto in termini di vite umane.
Non manifestiamo sentimenti anti-americani, anzi il popolo americano come tutti i popoli è nostro amico e lo stesso senatore John Kerry già candidato democratico nella corsa presidenziale per la Casa Bianca ha affermato di recente che senza il consenso dei cittadini del posto le basi militari USA all’estero non debbono essere realizzate. La maggioranza dell’opinione pubblica degli Stati Uniti, inoltre, ritiene che la guerra in Iraq sia stato un grave errore del Presidente George Bush fondata sulla certezza “fasulla” della presenza su suolo iracheno di armi di distruzioni di massa.
Tutto ciò premesso e considerato che, tra i compiti istituzionali della Provincia c’è anche quello di promuovere la pace
– considerato che la guerra in Iraq decisa unilateralmente dal Presidente Usa George Bush è stata una decisione criminale di rilevante gravita dal momento che ha provocato la morte di 654.964 civili (“La stampa del 12.10.06”) a cui vanno aggiunti alcune altre migliaia fino alla data odierna
( 31 gennaio 2007);
– considerato che si rende necessaria almeno una simbolica riparazione di un tale barbarico intervento militare;
– considerato che all’art. 11 della Costituzione italiana si dice che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”
– considerato che la città di Vicenza e l’Italia intera sono amici del popolo americano e vedono bene la presenza Usa a Vicenza se questa è finalizzata a “realizzazioni di pace”;

IL CONSIGLIO PROVINCIALE DI CREMONA DELIBERA

di chiedere, tramite l’Ambasciatore USA in Italia a Roma, al Presidente degli Stati Uniti d’America che il Governo americano realizzi nella città di Vicenza un Parco internazionale “Foresta di pace” con la piantumazione, nell’area dell’aeroporto Dal Molin, di centomila alberi destinando in tal modo le risorse economiche previste per l’ampliamento della base militare in opere per l’ambiente, la cultura, la pace e come campus internazionale di incontro per i giovani.

Andrea Ladina capogruppo dei Verdi nel Consiglio provinciale di Cremona

Cara Silvia,
sono a Charlotte, in North Carolina, ospite di mia sorella che vive qui da alcuni anni.
Ho ripensato al nostro bell’incontro a Milano, desidero ringraziarti ancora per l’accoglienza e per l’opportunità che ci avete dato. Mi piacerebbe avere la registrazione degli interventi, Luisa Muraro ci ha valorizzate molto, le sue parole e
le vostre ci hanno incoraggiate.
Non ho avuto il tempo per commentare con le altre di parlarti della risonanza che l’incontro ha avuto per me, lo farò in seguito.
Io continuo anche qui ad impegnarmi per la causa delle donne del presidio.
Ieri ho avuto la fortuna di incontrare Cindy Sheehan, che è venuta a Charlotte per vedere un membro del congresso, un rappresentante democratico del North Carolina e chiedere l’impeachment di Bush e Cheeney. Raccoglie firme da consegnare a Nancy Pelosi per avviare la richiesta di impeachment. Sembra che questa iniziativa in realtà non abbia molte possibilità di successo, il giornale locale titola “Sheehan’s anti-war crusade picks the wrong target” … tuttavia si tratta di un’iniziativa che serve a unire le persone in un gesto dal valore simbolico, non è poco qui, in Carolina ci sono gruppi ben organizzati di conservatori filobush in favore della guerra.
Ho conosciuto la responsabile locale delle women CodePink e partecipato a una manifestazione per la pace con il veterans for peace e le donne del CodePink, così ho potuto parlare alla TV locale del NO al Dal Molin.
Tutti e tutte si sono dimostrati interessati e gli operatori mi hanno ripresa con la bandiera.
Cindy ha detto che conosce il problema di Vicenza ed è solidale con noi. Ha fatto una foto reggendo la bandiera del NO DAL MOLIN con me, appena posso ve la invio.
Come va alla libreria? Mi piacerebbe avere la ricetta dell’ottima pasta
che hai fatto in occasione del nostro incontro a Milano, la riproporrei volentieri alle amiche di qui.
Saluti a tutte!
un abbraccio
Antonella

Il 4 luglio festeggeremo, per la prima volta, l’indipendenza della nostra terra dalle servitù militari; lo faremo in anticipo, perché siamo convinti di vincere la lotta in difesa del nostro futuro, della nostra salute, della nostra sicurezza.

Il 4 luglio, per gli statunitensi, è una data molto importante; essi, infatti, festeggiano la loro indipendenza dal peso di un altro Paese nella loro vita quotidiana. Vogliamo che, anche per noi, il 4 luglio diventi una data importante: la giornata in cui festeggiare l’indipendenza del nostro territorio dal peso delle servitù militari.

La presenza di installazioni militari, infatti, condiziona pesantemente la nostra quotidianità; lo fa sottraendo e inquinando le risorse naturali, imponendo restrizioni ai cittadini e alla loro mobilità, costringendoci ad abituarci al clima della guerra. Noi, da più di un anno, ci battiamo per costruire una città diversa, che sappia costruire il proprio futuro non sulla militarizzazione del proprio territorio, ma sulla valorizzazione delle proprie risorse e della propria creatività.

Saremo in Piazza dei Signori a partire dalle 19.30. La serata vedrà esibirsi il gruppo donne del Presidio, con il loro spettacolo teatrale “Alla fiera del nord-est”, ed alcuni gruppi musicali. E’ previsto, inoltre, un omaggio a Luigi Meneghello con la presenza di Vitaliano Trevisan ed altri ospiti. Per tutti i presenti, inoltre, pastasciutta, anguria e bibite. Per i più piccoli, animazioni e giochi.

Vogliamo una città libera dal peso ingombrante degli eserciti e delle armi; il 4 luglio festeggeremo la città che verrà.

Presidio Permanente, Vicenza, 30 giugno 2007

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Presidio Permanente No Dal Molin
Via Ponte Marchese – Vicenza

www.nodalmolin.it

IL FUTURO è NELLE NOSTRE MANI
Difendiamo la terra per un domani senza basi di guerra

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Enrico Bonerandi
La signora dai capelli rossi è Cinzia Bottene, una tranquilla casalinga moglie di un dirigente d´azienda, che fino all´anno scorso si dedicava a tirar su i figli, e adesso tiene testa al ministro Parisi in tv o sale sul palco a Trento a cantarle a Prodi: «Io l´ho votata, sono tra quelle che l´ha votata. E mi sono sentita tradita. Non ci è stato concesso neppure di esprimere il nostro parere con un referendum. Ci stanno trattando in maniera ignobile. Chiediamo solo correttezza, il rispetto di un programma che parlava di riduzione delle servitù militari e democrazia partecipativa. Dove sono finite quelle parole? Non siamo antiamericani; non vogliamo che venga costruita una base a 15 metri dalle case e a 1.400 metri dalla Basilica Palladiana». Ha concluso il minuto che le era stato concesso, ma accanto in sala ci sono altri del comitato “Dal Molin”. Quell´altra signora un po´ in carne è Patrizia Balbo, dirigente di una cooperativa: era iscritta alla Margherita, ma la tessera l´ha bruciata da mesi. Il tipo con la pelle scura è Olol Jackson, figlio di un reduce dal Vietnam e di una signora somala, consigliere regionale dei Verdi, autosospeso dal partito. I ragazzi un po´ scalmanati fanno riferimento ai centri sociali del Nord Est, quelli di Luca Casarini, mentre la signora con i capelli arruffati e la voce tonante, Franca Equizi, sta in consiglio comunale a Vicenza per la Lega, che l´ha sconfessata, ed era la loro più acerrima nemica. Ora sono uniti nel gran cartello che dice no al raddoppio della base Usa, continuano a pensarla ognuno a modo suo, ma quando c´è da muoversi per l´obbiettivo comune, non mancano mai.
Hanno fondato un mensile, un foglio settimanale e una radio. Organizzano «pignattade», e cioè manifestazioni dove suonano le pentole con gran frastuono, e a tre mesi e mezzo dalla manifestazione dei 100mila che, con grande allarme del ministero degli Interni ma nessuna violenza, attraversò Vicenza portando in piazza genitori e bambini, no-global e dissidenti leghisti, sinistra radicale e cattolici di base, i «quattro gatti», come li ebbe a definire il sindaco Hullwech, Fi, sono ancora lì, e graffiano. Attorno a loro, si sono aggregate tante altre realtà, primi fra tutti i «fratelli» della No-Tav, con cui hanno stretto un patto di mutuo soccorso. C´è stata l´occupazione simbolica della basilica del Palladio e persino una delegazione negli Stati Uniti, per prendere contatto con i movimenti pacifisti. Alle elezioni per la Provincia, hanno pagato lo scotto soprattutto i partiti del centro-sinistra, che invano avevano tentato di mettere in lista qualche leader della protesta. Tra schede bianche, nulle e astensioni, il 51 per cento dei vicentini non ha espresso il proprio voto: un vero record negativo. Quelli del «No Dal Molin» non hanno cantato vittoria («Il centro-destra, se possibile, è ancora peggio») ma continuano sulla propria strada. E se c´è da contestare Prodi, ci vanno in 200.

Doriana Goracci

Avevo conosciuto Cindy Sheehan con internet, era arrivato il suo messaggio di dolore e di rabbia con la velocità della rete. Ne ero stata trafitta come tante nel mondo. Anch’io sono contro la guerra, totalmente. Anch’io sono madre. C’era una differenza, lei il figlio lo aveva perso. La sua protesta e
la sua lotta avevano una marcia in più e quel di più, che aveva significato l’infinita perdita, lo ammetto mi era parso un magico antidoto per sedare quella paura atavica della perdita, della morte.
Per motivi diversi ma sempre dolorosamente uguali nella sottrazione, dal 2001, da Genova dove ho camminato per tre giorni, iniziai quella ricerca negli altri e in me di lotta all’omertà, alla menzogna accomodante e senza sosta ho fatto scelte piccole e grandi di vita, mi sono data e ho preso, conoscenza e memoria, speranza e riflessione, energia ed amarezza. Conobbi nel 2002 a Genova, un anno dopo, a piazza Alimonda la madre di Carlo Giuliani, conobbi nel luglio 2006 la madre di Federico Aldrovandi sempre lì a Genova. Cindy era in mezzo dal 2004, quando perse il figlio Casey, così lontana e così vicina. Sapevo come tutti delle sue lotte estenuanti, della sua capacità e della sua ostinazione, lei, antipolitica per eccellenza, chiara come nessuna, toccante senza nessuna sbavatura. In queste manciate di anni, stasera mi si affolla la mente delle migliaia di donne senza nome che hanno perso la vita, il loro compagno, i figli, le persone più care. Mi si affolla la mente dei ricordi di quelle che ho avuto la fortuna di incontrare, che avevano un volto reale, madri della pace, donne curde, palestinesi, afgane, africane, turche, argentine, filippine, indiane, americane, cubane, venezuelane, israeliane, francesi, inglesi, spagnole, greche, tedesche, italiane e ancora ancora…
Non ho viaggiato per il mondo, sono stata a Parigi e ad Atene per due Social Forum, sono stata a Bruxelles una volta, per manifestare contro la Bolkestein, sono stata in Italia, nel mio paese, ho ascoltato le voci che mi arrivavano per la strada, al mercato, al lavoro, nella vita, ho letto i giornali, ho letto la posta in rete, ho guardato le immagini che oggi neanche arrivano più delle guerre quotidiane. Le emozioni di queste donne sono state come le mareee, alte-basse, flussi e riflussi, fragori di violenze e di sorrisi, silenzi sommessi di calme patte e rantoli di risacca, forza inaudita delle tempeste, carezze di onde che arrivano stanche, ma arrivavano, sempre.
Oggi è arrivata tradotta anche la lettera di addio di Cindy. Se ne va. Esce fuori dal sistema, come lei lo definisce. Si è usata, è stata usata, da tutte e da tutti.
Sembra rimanere tra le righe dei comunicati e delle notizie, solo la sua pazzia, quella folle lucida forza che l’ha spinta alla sfida dei signori della guerra. Ha scoperto di avere tanti amici e tanti nemici, ha scoperto le carte, il trucco di chi pensa possa contenere e mercificare il dolore
di una donna.
Ho saputo della sua decisione da un messaggio di un uomo, che trova nella sua lettera tante questioni comuni all’Italia, sono ore che aspetto un comunicato femminile, femminista, per ora non c’è. Ci sarà magari nella notte, domani, nei prossimi giorni. Per ora ci sono io, che come una
scema, continuo a scrivere e chiedo come far giungere a lei, a Cindy tutta la gratitudine per quello che ha insegnato, per quello che ci ha fatto sognare, per quello che ha reso possibile. Cindy ha messo a nudo tutta la corruzione e la devastazione del sistema globale, del paese mondo dove i nemici sono anche amici, dove si gioca a Mercante in fiera con la pace e la guerra, Cindy ha corso come un uragano, capace di correre e sparire. Ma Cindy, passando, non ha fatto del male a nessuno, è solo stanca e passa il testimone.
Grazie per averci fatto partecipi della tua vita e di non aver avuto paura.
Ti definiranno una pazza, lo sei, sei malata d’amore, come solo una donna sa esserlo.


“L’azione su se stessi, l’azione sugli altri, consiste nel trasformare i significati”
Simone Weil, Quaderni, IV

Da un anno camminiamo insieme e in questo percorso comune siamo cambiate.
Si è modificata la scansione del tempo quotidiano, siamo uscite dalle case e dai luoghi di lavoro e abbiamo cominciato a mobilitarci per difendere il nostro territorio, minacciato dal progetto di costruzione di un’altra base di guerra.
La nuova base militare americana devasterebbe un ambiente ora verde, sconvolgerebbe la fisionomia del paesaggio e il nostro stesso futuro.

 

 

Le nostre storie sono diverse, così come le nostre età: siamo lavoratrici e casalinghe, studentesse e insegnanti, precarie e pensionate. Ci muoviamo in contesti molto diversi: fra noi ci sono attrici, impiegate, animatrici, artiste, operaie, donne che vengono da lunga militanza politica e donne nuove a questo tipo di esperienza.
Al nostro interno si incrociano le generazioni, perché ci sono madri, figlie, nonne; ci sono italiane e donne straniere, e vicentine e donne che provengono da altre regioni, portatrici di differenti modelli culturali.
Tutte queste differenze costituiscono la nostra ricchezza.
Infatti all’interno delle differenze, durante il nostro percorso abbiamo scoperto una specificità: la nostra determinazione a resistere si alimenta di una forza che alcune di noi conoscono bene, che appartiene al genere femminile e si consoliderà perché è caratterizzata da un desiderio tenace di perseverare e di espandersi.
La scelta della lotta implica per noi, insieme alla determinazione nel promuovere le azioni insieme a tutto il movimento, anche una disponibilità a prenderci cura dello spazio, il nostro e quello delle altre e degli altri, il luogo fisico in cui sorge il presidio: la tenda e la terra circostante, per noi luogo emblematico, luogo in cui si è generato, si sviluppa e si confronta il pensiero.
La disponibilità a prendersi cura dello spazio comune non è per noi un aspetto riduttivo, un’attività marginale, perché questo lavoro di cura permette poi a tutti e a tutte di sentirsi accolti in uno spazio all’interno del quale si costruiscono i progetti e le azioni di tutto il movimento che qui converge.

 


Lavorare insieme per un obiettivo comune ci ha rese consapevoli di una forza che avevamo potenzialmente, che si esprime con voce più forte e che cresce nel camminare insieme.
La caratteristica che ci accomuna è il desiderio di riflettere e di lavorare anche su di noi e sulla nostra emotività: di non avere paura, a volte, di dire che si ha paura, perché le nostre paure sono accolte e contenute dalle altre; di parlare anche delle nostra fragilità; di valorizzare le emozioni, dare voce all’entusiasmo, ma anche al dubbio, dare legittimità all’indignazione, alla rabbia… perché tutto questo fa parte della passione che alimenta la ribellione e dà forza alla lotta per il futuro.

 

 

Come donne, in quanto generatrici del vivere, guardiamo il mondo con la testa ma anche e soprattutto con il cuore. Con questo atteggiamento siamo riuscite a costruire un agire solidale e a disegnare una prospettiva comune nel segnare/tracciare la strada della pace.

 

 

Lo stare insieme ci ha aiutate ad allargare lo sguardo su tutti gli aspetti della realtà, ci ha rese consapevoli della guerra globale, ci ha rese più capaci nell’analisi delle strategie che stanno dentro al progetto di militarizzazione mondiale.
Attraverso il confronto siamo passate dall’intuizione a una migliore comprensione del gioco di potere che si svolge sopra le nostre teste per il controllo delle risorse, alla consapevolezza della lotta feroce che è in atto, mascherata dalla cosiddetta “politica del sorriso”, per l’egemonia degli USA sulla scena mondiale.
Noi non vogliamo essere complici di chi utilizza la guerra come strumento per affermare la propria visione del mondo, per accaparrarsi le risorse del pianeta, di chi porta distruzione e morte nei Paesi più diversi in nome di un modello, per molti astratto, di democrazia.

 

 

Con le nostre pentole, le nostre bandiere, con un vaso di terra in mano, abbiamo contribuito a far emergere le contraddizioni dell’amministrazione cittadina e della politica nazionale.
La nostra mobilitazione ha coinvolto altre realtà femminili che difendono i valori che stanno alla base di una diversa qualità della vita, abbiamo messo in primo piano i valori della pace e della salvaguardia del territorio e dell’ambiente, anche altrove.

 

 

Noi non vogliamo rimanere fra le persone che dicono che questa vicenda non le riguarda: noi ci sentiamo personalmente coinvolte, ci assumiamo la responsabilità delle nostre scelte, continueremo la lotta per la difesa e l’affermazione dei nostri valori, per impedire che il nostro mondo venga stravolto, e per mettere al mondo, invece, un progetto che si costruisce nel percorso comune.

 

 

“Non ha alcuna importanza che li si chiami incontri di testimonianza o di scambio spirituale come è stato nel movimento per i diritti civili; gruppi di autocoscienza come è stato all’esordio del femminismo contemporaneo; circoli di donne o nidi d’ape, come è stato nella storia del movimento delle donne; o infine cellule rivoluzionarie, consigli delle anziane o “gruppi di amarezza” come è stato per movimenti e culture diversi dai nostri.
La cosa che veramente conta è che siano liberi, non più grandi di una famiglia allargata, personali/politici ed estesi ovunque”
Gloria Steinem, Autostima

 

 

Il Gruppo Donne del Presidio

 

 

Antonella Cunico
Daniela Capraro
Nicoletta Dal Martello
Anna Faggi
Ersilia Filippi
Eufrosine Messina
Paola Morellato
Roberta Munaro
Agnese Priante
Annetta Marie Reams
Paola Rigoni
Nora Rodriguez
Petra Wilmer
Paola Ziche

Il movimento per la pace americano perde la sua icona più rappresentativa “Questa è la mia lettera di dimissioni da volto del movimento anti-guerra americano”. Tradita, insultata, malata, divorziata, la “peace mom” Cindy Sheehan scrive al “suo” sito: basta, raccolgo i cocci e torno a casa
Cindy Sheehan

Dopo che Casey è stato ucciso ho dovuto sopportare un sacco di calunnie e di odio, soprattutto dal momento in cui sono diventata la cosiddetta faccia del movimento americano contro la guerra. Ma soprattutto da quando ho rinunciato anche ai pochi legami che mi erano rimasti con il partito democratico, altro fango mi è stato gettato addosso da blog “liberal” come Democratic Underground. Essere chiamata “puttanella egocentrica” e sentirmi dire “che liberazione” sono stati tra gli insulti più teneri.
Oggi, il Memory day per i veterani, sono arrivata ad alcune strazianti conclusioni. Non sono il frutto di riflessioni del momento ma di una meditazione che va avanti da almeno un anno. Le conclusioni alle quali sono lentamente e con estrema riluttanza giunta sono davvero strazianti per me.
La prima conclusione è che sono stata la beniamina della sinistra finché mi sono limitata a protestare contro Bush e il partito repubblicano. Certo, sono stata diffamata ed etichettata dalla destra che mi ha definito uno strumento del partito democratico per emarginare me e il mio messaggio. Come potrebbe una donna avere un pensiero originale o lavorare al di fuori del sistema bipartito?
Ma quando ho cominciato a trattare il partito democratico con lo stesso metro di giudizio usato per quello repubblicano, il sostegno alla mia causa ha cominciato ad erodersi e la “sinistra” ha cominciato a gettarmi addosso gli stessi insulti della destra. Suppongo che nessuno mi abbia ascoltato quando ho detto che la questione della pace e di coloro che muoiono senza ragione non è questione di “destra o sinistra” ma di “giusto e sbagliato”.
Mi ritengono una radical perché credo che le politiche partisan dovrebbero essere accantonate quando centinaia di migliaia di persone muoiono a causa di una guerra fondata su bugie, sostenuta allo stesso modo da democratici e repubblicani. Mi meraviglia che persone così acute nelle argomentazioni e precise come un raggio laser quando esaminano le menzogne, i travisamenti e gli espedienti politici di un certo partito, rifiutino di riconoscerle nel loro proprio partito. La cieca lealtà di partito è pericolosa da qualunque parte venga. I popoli del mondo ci considerano, noi americani, come delle caricature perché consentiamo ai nostri leader politici tanta libertà omicida. Se non troviamo alternative a questo corrotto sistema bipartitico la nostra repubblica rappresentativa morirà e sarà sostituita da quello verso cui stiamo rapidamente discendendo senza incontrare resistenza: il deserto fascista delle corporations. Io vengo demonizzata perché quando guardo una persona non ne vedo il partito o la nazionalità ma il cuore. Se qualcuno sembra, veste, agisce, parla e vota come un repubblicano, perché dovrebbe meritare sostegno solo perché si definisce democratico?
Sono anche arrivata alla conclusione che se faccio quel che faccio perché sono “una puttanella egiocentrica” allora c’è davvero bisogno che mi impegni di più. Ho investito tutto quel che avevo nel tentativo di portare pace e giustizia a un paese che non vuole né l’una né l’altra. Se una persona vuole entrambe, normalmente non fa niente di più che passeggiare in una marcia di protesta o sedere al computer criticando gli altri. Io ho speso ogni centesimo che avevo, quel denaro che un paese “grato” mi ha dato quando hanno ucciso mio figlio, e ogni penny guadagnato da allora con conferenze o vendita di libri. Ho sacrificato un matrimonio durato 29 anni e viaggiato a lungo dalle sorelle e dal fratello di Casey. La mia salute ne ha risentito e sono in arretrato con i conti dell’ospedale dall’estate scorsa (stavo quasi per morire), perché ho usato tutte le mie energie per cercare di fermare il massacro di innocenti compiuto da questo paese. Sono stata chiamata con ogni nome spregevole che una mente miserabile può pensare e sono stata più volte minacciata di morte.
La conclusione più devastante raggiunta questa mattina, tuttavia, è che Casey è davvero morto per nulla. Il suo prezioso sangue versato in un paese lontano dalla sua famiglia che lo amava, ucciso dal suo stesso paese che è legato e guidato da una macchina da guerra che controlla anche quel che pensiamo. Da quando è morto ho tentato di tutto per dare un senso al suo sacrificio. Casey è morto per un paese che si preoccupa più di chi sarà il prossimo american idol che di quante persone saranno uccise nei prossimi mesi mentre democratici e repubblicani giocano alla politica con le vite umane. E’ davvero doloroso rendermi conto di aver creduto a questo sistema per tanti anni, e Casey ha pagato il prezzo di quella obbedienza. Ho ingannato il mio ragazzo, ed è ciò che mi fa più male.
Ho anche cercato di lavorare all’interno di un movimento pacifista che spesso pone gli ego al di sopra della pace e degli esseri umani. Questo gruppo non lavorerà con quell’altro; lui non parteciperà se ci sarà anche lei; e perché Cindy Sheehan ottiene tutta quell’attenzione? Difficile lavorare per la pace quando il movimento che a questa si richiama è così diviso.
I nostri coraggiosi giovani uomini e donne in Iraq sono stati abbandonati lì indefinitamente da leader codardi che li muovono come pedine su una scacchiera di distruzione, e il popolo iracheno è destinato alla morte e a un destino peggiore della morte da gente a cui stanno più a cuore le elezioni che le persone. Tuttavia in cinque, dieci, quindici anni le nostre truppe torneranno a casa zoppicando dopo un’altra abietta sconfitta e dieci, venti anni dopo i figli dei nostri figli capiranno che i loro cari sono morti per nulla, perché anche i loro nonni avevano creduto in questo sistema corrotto. George Bush non sarà mai sottoposto a impeachment perché se i democratici scavano troppo, potrebbero dissotterrare anche i propri scheletri. E il sistema si perpetuerà all’infinito.
Io riprenderò tutto ciò ho lasciato e tornerò a casa. Tornerò a casa per fare da madre ai figli sopravvissuti e cercare di riguadagnare qualcosa di ciò che ho perduto. Cercherò di mantenere e alimentare alcuni rapporti positivi trovati nel corso del viaggio al quale sono stata costretta dalla morte di Casey, e tenterò di ripararne alcuni altri tra quelli che sono andati in pezzi da quando ho iniziato questa solitaria crociata per cercare di cambiare un paradigma che ora, temo, è scolpito in inamovibile, inflessibile e menzognero marmo.
Camp Casey è servito allo scopo. Ora è in vendita. C’è nessuno che vuole cinque splendidi acri a Crawford, Texas? Esaminerò ogni ragionevole offerta. Sento dire che anche George Bush traslocherà presto… il che incrementa il valore della proprietà.
Questa è la mia lettera di dimissioni da “faccia” del movimento americano contro la guerra. Questo non è il giorno della mia sconfitta, perché non rinuncerò mai a tentare di aiutare i popoli del mondo danneggiati dall’impero dei buoni, vecchi Stati uniti d’America. Ma ho finito di lavorare dentro, o fuori, questo sistema. Questo sistema resiste con forza a ogni aiuto e divora chi cerca di aiutarlo. Io ne esco prima che consumi totalmente me o ogni altra persona che amo, e quel che resta delle mie risorse.
Good-bye America. Non sei il paese che io amo, e alla fine ho capito che per quanto mi sacrifichi non posso fare di te quel paese, a meno che non lo voglia anche tu.
Ora, tocca a te.

Toni Fontana

Maggy Barankitse è una donna straordinaria. Sorridente, solare, vestita con coloratissimi abiti burundesi, raffigura un’Africa carica di speranze, che non si arrende davanti alle tragedie. Quando si è trovata dentro la “guerra dei machete” è stata tra i pochi che hanno rifiutato la violenza etnica. Maggy non solo non si è schierata, ma ha scelto di abbattere gli steccati ed ha teso la mano alle piccole vittime dell’odio. Più di 10mila bambini di tutte le etnie sono passati dal 1994 nella “casa Shalom”, la struttura di accoglienza creata da Maggy in Burundi. Questo il suo racconto.

 

“Quando il presidente Ndadaye venne assassinato abitavo nel mio villaggio natale, sono tutsi come l’80% della popolazione di quella parte del Burundi. Subito, fin da giovane, mi ribellai alle ingiustizie sociali. Ero una privilegiata, ho potuto studiare. Quando diventai insegnante mi accorsi che gli alunni erano in maggioranza tutsi, denunciai questa ingiustizia e mi cacciarono dalla scuola. Quando sono tornata dalla Svizzera dove avevo studiato, ho iniziato a lavorare nei servizi sociali della Chiesa a Ruyigi, presi con me dei bambini, sia hutu che tutsi, non li avevo adottati ufficialmente, pagavo i loro studi. Iniziò la repressione (dei militari Nrd) andai all’arcivescovado, incontrai intellettuali hutu che vivevano nel terrore. Allora non capivo la profondità dell’odio che mi circondava. Ho nascosto degli hutu all’arcivescovado. Tutti fuggivano, il terrore si diffondeva anche a Ruyigi. Ho detto agli hutu di nascondersi. Una mattina sono venuti per uccidere, dapprima hanno lanciato le pietre, poi sono entrati. Mi hanno legato ed hanno versato benzina ovunque. Ho detto loro: “Il fatto che abbiano ucciso dei tutsi non giustifica la vostra vendetta. La vita è sacra”. Davanti a me hanno assassinato 72 persone. Erano quasi tutti hutu, ma tra loro c’erano due donne tutsi. Una era una mia amica. Era sposata con un hutu, gridò: “non uccidete mio marito”. Le dissero: “Morirai anche tu”. In braccio aveva Lidya, una bimba di tre anni, me l’ha gettata tra tra le braccia. Poi è stata decapitata”.

 

Maggy si alza, cerca il telefonino, mostra la foto di una bella ragazza sorridente: “Ora vive con me”. Poi riprende il suo racconto: “Ho nascosto altri 25 bambini nella sacrestia del vescovado. In quella ore tragiche ho capito che avevo una missione da compiere, noi, hutu e tutsi dobbiamo vivere assieme; in Burundi si deve affermare una nuova generazione, la protezione reciproca deve prevalere sulla separazione. Quel 24 ottobre sono fuggita come gli altri, sono andata da alcuni cooperanti tedeschi per chiedere aiuto. All’indomani sono arrivati alcuni bambini, anche tutsi, feriti con i machete. I cooperanti tedeschi ci aiutavano: la gente sapeva che mi avrebbe trovata da loro, il governo della Germania ha inviato un elicottero in soccorso. Con me c’era ormai 100 bambini, il vescovo mi ha dato una scuola abbandonata, noi l’abbiamo restaurata con l’aiuto di molti, anche italiani. Poi ho aperto la “casa della pace”: i volontari italiani che partivano mi hanno lasciato le loro abitazioni. Ho creato altri piccoli centri dove accoglievo bambini hutu e tutsi. La prima casa l’abbiamo chiamata “maison Shalom”, la seconda “casa della pace”, la terza “oasi della pace””.

 

“Successivamente abbiamo aperto un centro nella capitale Bujumbura e in altre città. Nelle nostre strutture i bambini trovano un’occasione per recuperare un’identità, apprendono un messaggio di riconciliazione, vengono educati alla pace. Noi non vogliamo creare nè ghetti nè orfanotrofi. Ora – prosegue Maggy mostrando alcune foto che riprendono una struttura in costruzione – vogliamo realizzare un grande ospedale per dare alle donne la possibilità di vivere, di non morire, di salvare i loro bambini. Noi cerchiamo di creare una “colonna vertebrale” della società civile, di ridare dignità a chi ne è stato privato, il nostro obiettivo è la riconciliazione, alcuni bambini sono andati dai loro genitori ed hanno detto loro: perdonate. Nel film che abbiamo realizzato gli “attori” sono Gandhi, Mandela, Martin Luther King. Gli aiuti che riceviamo servono solo ed esclusivamente per far sì che i bambini possano vivere dignitosamente, diventino i protagonisti della riconciliazione. Noi dobbiamo voltare pagina, avere speranza. In Burundi abbiamo 800mila orfani della guerra e dell’Aids, su una popolazione di 7 milioni”.

 

Qual è – chiediamo – l’origine dell’odio? “La cattiva gestione politica, io sono tutsi, ma mi sono sempre opposta all’umiliazione degli hutu. In un Paese nel quale l’80% della popolazione è hutu, per 40 anni vi sono stati presidenti imparentati tra loro”.

 

Crede – chiediamo – che il colonialismo porti responsabilità per quanto è accaduto nel suo paese? “Sì, quaranta anni dopo abbiamo finalmente capito di essere stati ingannati, i colonialisti hanno considerato noi tutsi la “razza eletta”, dicevano che sono belli ed intelligenti e che dunque non meritavano di essere neri. I tutsi si sono convinti che ciò era vero, gli hutu hanno maturato un complesso di inferiorità, dunque alla base di tutto vi è una gestione politica errata che ha puntato sulla appartenenza etnica. In Ruanda il presidente (hutu ndr) Habyrimana ha osato dire, prima del genocidio, che i tutsi non potevano tornare perchè il Paese era troppo piccolo. In Burundi, 13 dei 15 governatori delle province provenivano dalla stessa regione. E poi, ma non da ultimo, ci sono le ingiustizie profonde che permangono nel nostro Paese. Se la gente ha di che vivere, se può mandare i figli a scuola e può permettersi le cure negli ospedali non pensa ad uccidere il proprio vicino. Nelle nostre strutture ci sono bambini hutu ruandesi, bambini tutsi ruandesi, bambini congolesi. Alla ripresa delle scuole, in settembre, noi manderemo più di 15mila bambini, permetteremo ai bambini poveri di frequentare le lezioni, abbiamo sviluppato piccole attività, una panetteria, un atelier per parrucchiera”.

Sono note le vicende legate al ” Dal Molin” di Vicenza, ma bisogna sapere che il programma in merito all’ espansione dei siti bellici in Italia, prevede un’analoga misura anche nei riguardi di Sigonella, la base militare americana installata sin dagli anni ’50 alle porte di Catania, dotata di armamenti ed attrezzature da guerra tra le più sofisticate d’Europa. Sigonella quindi, per una serie di commistioni e contraddizioni che hanno avuto luogo a causa della sua presenza in Sicilia, stende un’ombra di dolore e di morte sulla nostra città e rappresenta uno dei rimossi più grossi della coscienza dei/delle catanesi e degli abitanti dell’intero territorio.
Il progetto per l’ulteriore allargamento della base, prevede la costruzione su una superficie di 93 ettari, di oltre 1500 strutture abitative e servizi vari, destinati ai e alle militari e alle loro famiglie. L’amministrazione comunale di Lentini e buona parte degli abitanti delle contrade di Xirumi, Tiritò e Cappellina, nel cui territorio dovrebbe estendersi la base, storditi dal miraggio dei guadagni in vista dell’arrivo degli e delle americane, hanno dato il loro assenso e vorrebbero che al più presto i lavori avessero inizio. Non sono dello stesso avviso il resto degli abitanti, il popolo della pace, donne e uomini che pratichiamo con “Città Felice” la politica delle relazioni a Catania, sindacati e piccoli partiti che oltre ad affermare il loro diniego ad ogni logica di guerra, hanno messo in evidenza le speculazioni in atto ad opera di alcuni ben noti imprenditori e costruttori. Nella storia di Sigonella si è verificato, infatti, che l’acquisizione dei terreni adibiti alla realizzazione della base e l’attribuzione degli appalti sia stata portata avanti secondo logiche illegali e mafiose. Ci sono altre motivazioni sicuramente non di minore importanza, per cui le pacifiste e i pacifisti stanno lottando affinché il dissennato progetto che oggi si prospetta non coincida con la violazione estrema del territorio. La prima è che sotto buona parte di quelle terre sono sepolte le antiche mura della città greca di “Leontinoi” che rischierebbe di scomparire definitivamente se vi venisse costruita sopra un’altra cittadina. La seconda è che nei rimanenti terreni sono presenti degli agrumeti, coltivazioni molto care ai siciliani, anche se al momento scarsamente produttive, a causa delle politiche agricole che hanno vanificato la fatica e l’amore investiti in questo genere di produzione. Sottolineo questo perché se il lavoro di cura e la memoria che sta alla base dell’esistenza degli aranceti dovesse essere sradicato, non rimarrebbe nemmeno la speranza di poter pensare un diverso impiego per i frutti che caratterizzano l’eccellenza della nostra terra.
Riflettendo sugli scritti apparsi di recente su questo sito in merito alle vicende del Dal Molin, vorrei poter cominciare a condividere motivazioni e pratiche politiche con le donne e gli uomini di Vicenza che tanto bene hanno saputo affrontare la questione, scambiando con loro presenza, analisi e coraggio. Vorrei inoltre riuscire a comunicare con qualcuna delle donne americane che all’ombra dei missili, dei bombardieri e del filo spinato cucinano, accudiscono i figli e ammirano la stupenda natura che circonda Sigonella, per esplorare insieme le contraddizioni e far decantare le reciproche tensioni.

 

Per la pace in medio oriente
Brenda Gazzar (trad. M.G. Di Rienzo), giornalista indipendente, corrispondente per We News, vive a Gerusalemme.

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo [per contatti: sheela59@libero.it] per averci messo a disposizione questa sua traduzione.


ABU DIS, West Bank. “La libertà è femmina”. Questo il messaggio che Nida Awine ha scelto di dipingere, in caratteri arabi, sulla struttura che gli ufficiali israeliani chiamano “cinta di separazione” o “cinta di sicurezza”, e che i palestinesi chiamano “il muro dell’apartheid”. Il messaggio di Awine appare sulla sezione della struttura collocata in questo villaggio della West Bank che confina con Gerusalemme. L’imponente torre di cemento era bianca, prima che Awine ed altre donne la dipingessero con disegni politici, inclusa una porta che reca la scritta: “Da aprire”, ed una sfera di giallo splendente che recita: “Il sole un giorno sorgerà”.
Nida Awine, studentessa universitaria, è una delle 350 donne provenienti da 30 diversi paesi che si sono unite per il pellegrinaggio femminile in bicicletta che si ripete da tre anni, e che tocca Siria, Giordania, Libano e la West Bank. Lo scopo delle organizzatrici è mantenere alta l’attenzione sul conflitto israelo-palestinese e promuovere pace e libertà nella regione. Persino la first lady siriana Asma al-Assad si è unita a loro, percorrendo in bicicletta il proprio paese.
Quest’anno l’iniziativa, che si chiama “Seguite le donne”, è durata 12 giorni ed è terminata il 18 aprile, giusto pochi giorni prima che la nota attivista pacifista Mairead Corrigan, che ha condiviso il premio Nobel per la pace nel 1976 per il suo impegno contro il conflitto nel Nord Irlanda, attirasse ancora maggior attenzione sulla barriera che divide israeliani e palestinesi.
Corrigan è stata infatti ferita da una pallottola di gomma il 20 aprile, assieme ad altri attivisti, mentre protestava contro il muro di separazione nei pressi di Ramallah nella West Bank. Due poliziotti di confine israeliani sono rimasti invece feriti da pietre lanciate dai dimostranti. Gli organizzatori hanno dichiarato nonviolente queste dimostrazioni, che si tengono settimanalmente, ma pare che ci siano quasi sempre dei manifestanti che lanciano pietre con le fionde o tentano di abbattere la barriera, e quasi sempre le forze israeliane rispondono con gas lacrimogeno, granate da stordimento e pallottole di gomma.
“Lo stato del conflitto, attualmente, è ai massimi livelli.”, dice Naomi Chazan, membro della Commissione Internazionale delle Donne per una pace giusta e sostenibile fra Israele e Palestina, “Persino coloro che lottano per la pace risentono di questa situazione.”
Iniziative della società civile e delle donne, in tutto il mondo, stanno diventando sempre più direttamente coinvolte negli sforzi per risolvere il conflitto, mentre lo stato di Israele celebra il 59° anno dalla sua nascita il 24 aprile, e i palestinesi commemorano il “naqba”, o “disastro”, in cui circa mezzo milioni di profughi palestinesi fuggì dalla guerra arabo-israeliana del 1948.
“Non faccio conto sui politici, uomini o donne che siano, per la libertà della Palestina, il mio paese.”, dice la ventenne Nida Awine, la cui sola arma è un pennello e che sogna di diventare scrittrice, “Conto sugli esseri umani, sulle persone, perché le persone hanno il potere, hanno la volontà, e conoscono il valore di vivere come liberi esseri umani.
Dall’inizio della seconda intifada palestinese, nel settembre 2000, circa 4.040 palestinesi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, principalmente nei territori occupati, mentre 705 civili e 316 membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi da palestinesi: i dati coprono sino al marzo 2007 e provengono da B’Tselem, il Centro di Informazione per i diritti umani che ha base in Gerusalemme.
Più uomini che donne vengono uccisi nel conflitto, ma le donne soffrono in numerosi modi indiretti che possono essere ulteriormente complicati dai costumi culturali, dice Fabrizia Falcione, funzionaria per i diritti umani delle donne di Unifem, il Fondo di sviluppo delle NU per le donne. Per esempio, una donna palestinese che ha perso terra e lavoro a causa del muro di separazione, dei checkpoint dell’esercito o del diniego dei permessi, avrà più difficoltà a trovare un altro impiego rispetto ad un uomo. “Spesso, non avendo lo stesso spettro di opportunità ne’ la stessa libertà di movimento degli uomini, finiscono per lavorare sulle terre di questi ultimi. E’ l’unica possibilità che viene loro offerta.” Falcione aggiunge che la violenza contro le donne sta aumentando nei territori occupati. Il conflitto ha indebolito la forza delle leggi e la capacità delle donne di chiedere e ricevere giustizia, un giudizio che richiama quello del rapporto 2006 di Amnesy International sullo stato delle donne palestinesi.
Sin dall’ottobre 2006, l’ong israeliana “Isha L’Isha – Centro femminista di Haifa” ha tenuto seminari e conferenze per incoraggiare dialoghi sulle donne, sulla pace e la sicurezza, sui costi economici ed emotivi del conflitto. Il gruppo ha anche istruito donne a divenire negoziatrici e mediatrici, rifacendosi alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle NU 1325, che chiede con urgenza agli stati membri di includere donne a tutti i livelli decisionali relativi alla prevenzione, il maneggio e la risoluzione dei conflitti.
Usando un’altra tecnica, la Commissione Internazionale delle Donne, un gruppo composto da prominenti donne israeliane, palestinesi e di altri paesi, tutte impegnate per la costruzione di pace, ha di recente chiamato Israele e la comunità internazionale a normalizzare le relazioni con il governo palestinese.
Quando Hamas, formazione politica islamista, vinse la maggioranza al Consiglio legislativo palestinese nel 2006, e rifiutò di riconoscere lo stato di Israele o di rinunciare alla violenza, gli Usa e molti stati europei tagliarono tutti i fondi all’Autorità nazionale palestinese. In marzo, Hamas e la formazione laica Fatah, che precedentemente era stato il partito di maggioranza per 12 anni, hanno dato vita ad un governo di unità nazionale nello sforzo di far ritirare le sanzioni internazionali. Il Primo Ministro israeliano, Ehud Olmert, ha boicottato il nuovo governo adducendo le stesse ragioni per il rigetto di quello precedente, ma almeno ha accettato una nuova serie di incontri con il Presidente palestinese Mahmoud Abbas e la speranza è che questo possa dar vita ad un processo di pace.
“Noi crediamo che senza negoziati, senza parlare con il governo palestinese, non si muoverà nulla.”, dice Aida Touma-Suleiman, palestinese-israeliana, membro della Commissione Internazione delle Donne. La Commissione, fondata con gli auspici di Unifem per implementare la Risoluzione 1325, terrà la sua prima conferenza locale a Gerusalemme il 13/14 maggio prossimi. La conferenza, spiega Touma-Suleiman, intende trattare due punti chiave: rimettere in moto le negoziazioni di pace ed integrare le donne in tali negoziazioni.

Orsola Casagrande
Ha la voce squillante Cinzia Bottene, anche se è una di quelle che ha occupato per tutta la notte la basilica palladiana e quindi che «non ha dormito». Scherza questa signora diventata tra i volti più noti della protesta contro la nuova base militare che gli americani, con il placet del governo Prodi, vorrebbero costruire al Dal Molin. «Dovevamo fare qualcosa di eclatante – dice Bottene – per tornare a far parlare di noi. C’è una pesantissima lastra di cemento posta sopra la questione Dal Molin a dimostrazione del fatto che il problema scotta». Che scotti e sia destinato ad esplodere ancora una volta lo dimostrano anche le dichiarazioni delle deputate dell’Unione di ritorno dagli Stati uniti, dove hanno svolto un tour per spiegare ai politici Usa perché Vicenza non vuole la base.
«Il governo italiano – dice Luana Zanella dei Verdi – ha ancora la possibilità di trattare amichevolmente con l’amministrazione Bush sul raddoppio della base, perché il Congresso non ha ancora dato il voto definitivo agli stanziamenti per le basi americane nel mondo». La lastra di cemento di cui parla Cinzia Bottene dunque comincia, grazie ai vicentini, a creparsi. Non è vero come continua a sostenere il premier Romano Prodi che la «decisione è stata presa e non c’è più nulla da dire». Le deputate sostengono che si può e si deve ridiscutere. Lo ripete Deiana, «La partita è ancora aperta: i margini per rivedere la decisione, se vuole, il governo italiano ce li ha». I cittadini che hanno occupato la basilica e che ieri hanno nuovamente manifestato per le vie del centro lo hanno sempre sostenuto. «Noi non molliamo». Lo slogan del movimento no Dal Molin, «resisteremo un minuto di più» è dunque più attuale che mai. La domanda, che si facevano ieri molti cittadini, è un’altra, «i politici, anche alla luce del viaggio in Usa, sapranno resistere un minuto di più?» Le deputate italiane dicono che «i membri del congresso Usa non erano molto contenti di sapere che a Vicenza c’è in atto una rivolta. Non avevano molte informazioni». Nei prossimi giorni faranno interrogazioni e chiederanno al governo di riaprire la partita. Intanto i cittadini, come dice Francesco dell’assemblea permanente «continueranno per la loro strada». Che passa anche attraverso l’occupazione della basilica palladiana di mercoledì. Gli occupanti sono usciti quando, ieri sera, è arrivato il corteo di oltre mille persone partito da piazza Matteotti. In corso nell’edificio di fronte il consiglio comunale. Anche questa volta «disturbato» dal chiasso delle centinaia di cittadini che si sono riversati in piazza. La partecipazione della città è sempre alta. Non appena si è sparsa la voce che un gruppo di cittadini del presidio era entrato nella basilica palladiana, la piazza ha cominciato a riempirsi di gente. Sono arrivati quelli degli altri comitati contro la base, il mondo dell’associazionismo, cittadini contrari alla ulteriore militarizzazione della città. In un attimo sono state allestite mostre fotografiche per ribadire il perché del no alla nuova base. La piazza si è trasformata in una sorta di palcoscenico dove si sono esibiti per ore giocolieri e acrobati, si sono tenuti piccoli comizi improvvisati, si è volantinato sempre mantenendo, grazie ad un impianto di amplificazione montato davanti alla basilica, il contatto con gli occupanti all’interno dell’edificio del Palladio. Il sindaco Enrico Hullweck ha cominciato a tuonare contro i cittadini autori della protesta che ha definito facinorosi, chiedendo l’intervento delle forze dell’ordine. Ma il questore di Vicenza ha preferito evitare sgomberi. Ieri mattina verso le 6.30 invece, gli occupanti della basilica hanno potuto assistere ad una esercitazione dei militari americani.
In piazza dei Signori una squadra di soldati ha svolto la sua ginnastica mattutina. Vista non insolita, dato che i militari della Ederle escono ogni mattina per i loro esercizi. Alcuni sono in maglietta e pantaloncini grigi, ma ci sono anche le squadre in divisa, elmetto e zaino in spalle. «Neanche fossimo a Baghdad», dice Marco Palma del presidio permanente che conferma che «la ginnastica in centro la fanno soltanto da qualche mese, cioè da quando la questione Dal Molin è diventata oggetto della protesta dei cittadini». Una sorta di atto di sfida. Contrastato ogni mattina da un gruppo di cittadini del comitato contro la base di Vicenza est, che alle sei puntuale si piazza davanti ad una delle uscite della Ederle con striscioni che denunciano la guerra, oltre a dire no Dal Molin. «Oggi – dice Palma – la questione della nuova base è fortemente legata, da tutti i cittadini, al no alla guerra».
Una consapevolezza che è cresciuta nel movimento che respinge al mittente le accuse di localismo, o peggio di essere pronto a sbaraccare se solo la base venisse fatta qualche chilometro più in là.

Giuliana Sgrena

Daniele è libero! Finalmente. Le ultime ore d’attesa sembrano una eternità, per tutti, ma soprattutto per chi deve essere liberato e sa benissimo che si avvicina un momento estremamente delicato: speranze e timori si sovrappongono fino all’ultimo. Sono le sensazioni che ho rivissuto in queste ore. Mentre giravo per gli Stati uniti sfasata negli orari con l’Italia e con Kabul, cercavo di comunicare ai miei accompagnatori la mia inusuale ossessione per gli sms. Poi finalmente il risveglio con la buona notizia. Così ieri ho potuto raccontare nella conferenza ai pacifisti di Los Angeles che il collega rapito in Afghanistan era libero e gli amici di Emergency, che si sono organizzati anche qui, potranno essere orgogliosi che Gino Strada e la sua organizzazione hanno potuto contribuire a questa liberazione. Daniele è libero, anche se questa esperienza sarà dura da superare, ma il nostro mestiere è sempre piu pericoloso. Occorrerebbe una riflessione sulla informazione nei luoghi di guerra: ieri l’Istituto per la sicurezza dell’informazione internazionale ha reso noto che dall’inizio della guerra in Iraq sono stati uccisi 187 giornalisti e collaboratori (di questi 157 erano iracheni). Non si puo rinunciare ad informare, in modo indipendente, sui conflitti che insanguinano questa terra. Ma come, se non si può lavorare sul terreno? Daniele, io e molti altri che sono stati rapiti, e purtroppo non tutti sono sopravvissuti, stavamo semplicemente facendo il nosto lavoro, come deve essere fatto. La mancanza di informazione o una informazione surrogata dai giornalisti embedded dovrebbe essere un problema di tutta l’opinione pubblica che vuole essere informata.
E’ un problema che si discute molto anche qui negli Stati uniti, almeno negli ambienti dove presento il libro «Friendly fire» (Fuoco amico). Nel paese ritenuto un esempio di libertà di informazione ci si accorge che la censura è invece molto forte sui temi cruciali come la guerra e l’Iraq. Ma anche l’Afghanistan emerge ormai con forza. E la manifestazione del 17 marzo a Washington partendo dalla necessita di ritirare le truppe Usa dall’Iraq, rivendicava la fine di tutte le occupazioni: dall’Afghanistan fino alla Palestina. Questo movimento è tuttavia fragile, anche se suscita molte speranze anche dalla nostra parte dell’oceano ben sapendo che solo gli Usa potranno cambiare veramente la situazione visto che la macchina da guerra piu potente e quella di Bush. Nel momento in cui la maggioranza della popolazione statunitense sembra aver preso coscienza della necessita del ritiro dall’Iraq e che il numero dei veterani impegnati contro la guerra aumenta, si acuiscono anche le divisioni: l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali paradossalmente sembra ridurre la mobilitazione. C’è chi spera in un cambiamento con l’elezione alla presidenza di un democratico e chi ritiene che questo cambiamento non ci sarà, o comunque non sarà tale da realizzare gli obiettivi del movimento no-war. Del resto le dichiarazioni sia di Hillay Clinton che di Obama sull’Iraq non sono certo confortanti. E il movimento sembra per molti versi poco incline alla mediazione politica. Quindi si assiste da un lato alla radicalizzazione e dall’altra a una attesa che rasenta la smobilitazione. Le manifestazioni del quarto anniversario dell’inizio della guerra in Iraq lo hanno dimostrato.

Fervono i preparativi, al presidio permanente, per l’8 marzo delle donne contro il Dal Molin. «Governo e comune – scrivono le donne dell’assemblea – sappiano che continueranno ad avere una gatta vicentina da pelare». La festa delle donne sarà anche una giornata di lotta, creatività e incontri. Molte le iniziative in programma, tutte pensate in questi giorni alle affollate assemblee di donne (ottanta, cento ogni volta) che si svolgono al presidio. Le attività decise sono la presenza in consiglio comunale dove «la madre terra e le sue sorelle consegneranno alla giunta il frutto della loro svendita della città». Alle 18.30 un corteo si snoderà per le vie del centro, liberamente «interrotto da monologhi, suoni di guerra, azioni teatrali». Quindi alla sera, «la gatta sulla base che scotta», cena al presidio e spettacolo.
Nel loro appello le donne vicentine rivendicano il loro essere «per la tutela del territorio e la preservazione delle risorse e pronte a difendere la nostra terra anche con i nostri corpi, se necessario». «I nostri corpi – continua l’appello – sanno dare vita ma sanno anche essere determinati e mettersi in gioco. Siamo per la pace non come semplice “assenza di guerra” ma come condizione sociale che ci permetta di vivere meglio, come cittadine e come donne. Se c’è pace c’è più spazio per la tutela dei diritti delle fasce deboli, a cui noi, purtroppo, sappiamo di appartenere. Quando scoppia una guerra le prime a risentirne sono donne e bambini, perché la guerra ha la capacità di ribaltare i valori tradizionali di una società e ne mette in crisi i ruoli. Siamo per il futuro perché vogliamo consegnare una città e un mondo migliore ai nostri figli e alle generazioni future, ma anche a noi stesse; vogliamo la libertà di poterci riprendere il nostro tempo, di poter vivere una città a misura d’uomo e di donna». Ci sono donne di tutte le età al presidio, studentesse e casalinghe, lavoratrici e pensionate. E tutte ribadiscono che questa esperienza, questa lotta ha cambiato la loro vita. Per molte si è trattato della prima volta in politica, o comunque impegnate in una situazione che ha sconvolto orari, ritmi, rituali. Per altre è stato il naturale proseguimento di un impegno che dura da anni, contro le servitù militari, contro la guerra. Per tutte adesso c’è più che mai la convinzione che fermare la costruzione della nuova base al Dal Molin è possibile. Nonostante gli ostacoli, nonostante un governo che ha già dato il suo assenso agli americani. E nonostante a breve potrebbero iniziare i lavori preliminari nell’area dell’aeroporto. Almeno questo è quello che si vocifera. Al presidio permanente vogliono rispondere al presidente del consorzio cooperative costruzioni, Collina, che nei giorni scorsi rivendicava il diritto a partecipare alla gara d’appalto per il Dal Molin. «Creare lavoro per la guerra – dicono al presidio – è eticamente inaccettabile. Fa a pugni con i principi a cui una cooperativa dovrebbe ispirarsi». Ma non c’è stupore, del resto «prese di posizione come questa erano più che attese da un mondo che, evidentemente, ha fatto del denaro l’unico riferimento». Le donne e gli uomini dell’assemblea permanente ribadiscono che «il movimento ha appena iniziato il suo cammino. Se il governo non retrocederà dalla propria posizione impediremo con strumenti legali e mobilitazioni pacifiche la realizzazione dell’opera. E nei confronti di quelle aziende e cooperative che dovessero rendersi complici di una scelta scellerata costruiremo forme di boicottaggio pubblico, denunciando le loro responsabilità».

Parla il soldato Mark Wilkinson, sotto processo negli Stati uniti per essersi rifiutato di tornare a combattere in Iraq
Patricia Lombroso
New York

“Dopo il caso del sergente Camillo Mejia e quello dell’ufficiale Watada, ora spetta a me affrontare in questi giorni il processo davanti alla corte marziale come “disertore”. Siamo colpevoli di un crimine inesistente. La guerra in Iraq è illegale ed è nostro diritto rifiutare di partecipare a questa aggressione americana. I comandi militari non vogliono sentirsi dire apertamente in questo momento che questa guerra ingiusta e illegale è sempre più impopolare proprio tra i soldati. Non è molto difficile dimostrarlo anche davanti ad una giuria militare. Comunque sono pronto a pagare. Io non tornerò mai più nell’inferno dell’Iraq”. A raccontare la sua esperienza di resistente alle pressioni del Pentagono, è Mark Wilkinson di 22 anni, di stanza in Iraq dal marzo 2003 al maggio 2004, già intervistato allora in clandestinità come disertore (il manifesto del 21 giugno 2005), ora in attesa del processo davanti alla corte marziale della base militare di Forthood in Texas. La base militare di Forthood è una delle basi militari da dove partiranno i nuovi 21.000 soldati che Bush ha deciso di inviare in Iraq per l’escalation militare in Iraq.
A Washington i politici discutono ma a lei risulta che alcune truppe siano già partite?
La prima unità militare di cavalleria e già partita da qui per Baghdad. Il mio plotone, per la terza volta, dovrà tornare in Iraq, a maggio. Così ha deciso Bush.
Cosa pensano i soldati a Forthood per questa decisione del presidente?
La stragrande maggioranza dei soldati qui alla base militare è contraria alla continuazione della guerra. Dicono che la decisione di Bush non ha alcun senso né motivazione. I soldati della mia unita militare sostengono che non c’è per loro “nessuna missione” in quel fronte. Pensano soltanto di cercar di restar vivi e svolgere il lavoro assegnato. Hanno paura di rendere pubblica la loro opposizione a questa avventura militare, sanno che ora la guerra è diventata più impopolare, e sono consapevoli che i processi delle corti marziali che prima Watada e ora io stesso stiamo subendo, vengono seguiti attentamente. Apertamente i soldati ci dimostrano tutto il loro appoggio per il coraggio che dimostriamo e che loro ancora non riescono ad esprimere. Il Pentagono, due anni fa, ha ufficialmente reso pubblico il dato che dall’inizio della guerra sono 8000 i disertori che non tornano al fronte. A me risulta che siano 40.000 i soldati che in gergo militare sono definiti “absents of war”, non tutti certo motivati politicamente. L’indice dei suicidi fra i soldati nel 2005 è salito al 19.9% dal 10% dell’anno precedente. Un dato che non comprende i suicidi di marines, nell’aviazione e nella Guardia nazionale. Nel 2005 sono stati 22 i soldati che si sono suicidati al fronte. Il Pentagono occulta tutti questi dati e questi problemi. Qui a Forthood sono tanti i casi di soldati devastati da alcoolismo e droga per quello che chiamano “post traumatic stress”. Il Pentagono, alla disperata ricerca di “uomini” da inviare al fronte, non ha il benché minimo interesse rendere pubblico il fenomeno che si sta estendendo nelle basi militari tra i soldati che tornano dall’Iraq.
Qual è stata la sua esperienza di soldato in Iraq dal 2003 al 2004, se poi è finito davanti ad una corte marziale come disertore?
Sono andato in missione in Iraq dall’inizio dell’invasione nel 2003 fino al 2004. Sono stato a A Tikrit, Samarra e in tutto il resto del paese come poliziotto militare. Quando son tornato negli Stati uniti nel 2004 quella esperienza sul campo mi aveva convinto a non andare mai più in quell’inferno. Inoltrai la richiesta come obiettore di coscienza. Come fece il sergente Mejia. Mi venne rifiutata dai militari, perché era “fondata su motivi politici”, mi risposero. Allora i superiori mi ordinarono di tornare in Iraq per il secondo turno di servizio militare. Rifiutai di partire con la mia unità, nel gennaio del 2005. Entrai “in clandestinità” e fui classificato dal Pentagono come “absent of war”, cioè come disertore. Ad agosto dello stesso anno decisi di costituirmi alla mia base militare a Forthood, consapevole di incorrere in punizioni disciplinari. Così i comandi hanno deciso di processarmi come disertore.
La sua esperienza di soldato in Iraq ha radicalmente cambiato le sue idee sulla guerra americana in Iraq?
La missione di polizia militare al fronte è stata la mia prima esperienza al di fuori della piccola comunità in Colorado dove sono cresciuto fino a quando, a 17 anni, venni spedito a Tikrit, dopo un addestramento militare di una sola settimana. Le regole d’ingaggio militare impartiteme alla partenza si sono poi rivelate inesistenti nel teatro di guerra. Venivo da una cittadina di tradizioni militari, dove non ci sono altre minoranza etniche né principi ed idee diverse da quelle grette dei cristiani evangelici. In Iraq mi sono confrontato con valori culturali e religiosi che ho trovato validissimi. Mi sono subito reso conto che la nostra missione era quella di distruggere tutto quello che incontravamo sulla rotta dei nostri convogli di humvee. Stavamo saccheggiando quel paese. Tra i soldati,esisteva quasi una gara di sadismo verso la popolazione. Contrariamente alla retorica dei “liberatori”, mi resi conto che la popolazione irachena era ostile alla nostra presenza di occupanti. Gi ordini impartiti dai comandanti di irruzione nelle case di civili iracheni, costituivano spesso un passatempo sul tragitto per andare allo spaccio a comprare patatine fritte. Gli ordini di arresto ed irruzione non avevano alcun senso né giustificazione, se non quello di terrorizzare la popolazione irachena.
Il Pentagono, consapevole che scarseggiano i soldati da inviare per continuare l’occupazione, potrebbe risparmiarle il carcere purché lei torni in Iraq?
È possibile. Anche se non sono il soldato che a loro conviene mandare al fronte. Comunque non accetterò mai di tornare in Iraq. Sono pronto ad assumere le mie responsabilità e pagare per la mia opposizione a partecipare a qualsiasi guerra. Questa in Iraq è ingiusta e illegale.

* (Dal Molin è il nome di una vasta area alle porte di Vicenza, che l’aeronautica italiana ha deciso di lasciare e che il Pentagono vorrebbe trasformare, in parte o tutta, in una nuova base militare, che andrebbe ad aggiungersi alla Caserma Ederle, alla base sotterranea di Arcugnano, alla base sotterranea “Pluto” di Longare, e ad altri insediamenti di carattere logistico, aggiungendo servitù a servitù, pericolo a pericolo.)

Vicenza si oppone al progetto del Pentagono (che i nostri governanti non hanno saputo contrastare al momento giusto) con una lotta pacifica, tenace, capillare, libera da politicismi, che vede una forte presenza di donne e la partecipazione di alcuni cittadini americani. La chiamano “politica dal basso”, io la considero politica vera e propria, anzi per me e chissà quante altre/i, oggi è l’unica in cui vale la pena impegnarsi. Grazie ai vicentini e a quelli che li appoggiano, il paesaggio politico ha preso vita e si è colorato di speranza. I mass-media hanno smesso di dare notizie imprecise o false sul progetto Dal Molin. La manifestazione del 17 febbraio ha mostrato la ricchezza umana del movimento, in contrasto con gli allarmismi interessati del governo. Non sono risultati da poco. Sta capitando qualcosa di nuovo e positivo anche su un altro piano. L’argomento dei favorevoli alla base Dal Molin (“ci sarà lavoro, faremo affari, ci sarà da guadagnare per tutti”), vero o falso che sia (certi pensano che, a conti fatti, sia falso), NON HA FATTO PRESA sulla popolazione. Dunque, una moltitudine di persone pensa che non si può inseguire l’arricchimento ad ogni costo, a costo cioè di prestarsi come territorio e come popolazione ad una politica di guerre aggressive (“guerre preventive” questo vuol dire). Politica che è contraria al diritto internazionale, all’Onu, alle dottrine religiose più sante. C’è un limite agli affari, non si può dar via la civiltà, la coscienza, il territorio e mettere a rischio la vita di innumerevoli persone.
Il movimento di Vicenza si alimenta alle sorgenti autentiche della passione politica e si vede: c’è voglia di riunirsi, di mettersi in rapporto con altri, c’è fiducia reciproca, c’è la capacità di parlare e di contagiare. Ma è un’impresa umana e come tale, fragile. In questi casi, si sa, i politici di professione contano sullo spegnersi dell’entusiasmo per riprendere la loro vecchia strada: aiutiamoli a sbagliarsi di grosso e a trovare la strada giusta! Scrivo queste righe per invitare chi le legge a entrare in rapporto con donne e uomini di Vicenza e a fargli sentire che la loro lotta è anche la nostra: che a loro arrivi il nostro sostegno, che a noi arrivi il loro esempio, che si estenda e rinforzi la rete in cui circolano le idee e le energie.

Pierluigi Sullo

Cara Cinzia,
sono molto contento di averti conosciuto, domenica scorsa, quando insieme abbiamo discorso, davanti a 350 tuoi concittadini, del movimento contro la base, di democrazia e di pace, con Paul Ginsborg e altri (…). E scusa se, quando ti ho incontrato, al presidio di fronte al Dal Molin, ho quasi gridato “ah, tu!”, e mi sono comportato come se ci conoscessimo da anni. Avevo proprio voglia di conoscerti, dopo averti visto in tv e letto, anche su Carta. Il fatto è che da decenni mi mescolo a movimenti della società cercando di raccontarli, di affiancarli con modestia, di trasmetterne parole e umori. Il mio giornale è nato per questo: siamo convinti, e la cosa pare assurda a molti di sinistra, che la “grande politica”, come dice Mraco Revelli, sta in quel che voi state facendo, mentre loro, i politici, sono dei “nani”. Figurati: ci immaginiamo questo paese come una gigantesca Valle di Susa con capitale Vicenza.

 

La ragione per la quale ti scrivo è che ti ho sentito dire, a quella folla che ti ascoltava, un concetto che mi ha colpito. Che, diciamo così, sapevo in teoria, avendo io costeggiato il movimento femminista degli anni settanta e seguenti, visto le fiere donne indigene del Messico e le forti donne africane. Sapevo, vedevo, che lì, tra le donne imponenti e colorate di Bamako, tra le “insurgentas” zapatiste, tra le molte compagne del nostro paese, fermentava qualcosa di veramente eversivo di tutto ciò che, nei secoli maschili, ha preso il nome di “politica” e di “economia”. Insomma, non sono nato ieri né sono un “imilitante”, abbiamo scelto con Carta la nonviolenza, il “cambiare il mondo senza prendere il potere”, la decrescita intesa come disarmo dello “sviluppo”, eccetera. Ma la parte delle donne restava, nella mia testa (e nel mio cuore, direi se non restasse retorico) una sospensione, forse un’attesa.

 

Non voglio esagerare, naturalmente, ma quando hai parlato di te e delle donne come te, delle madri, nel movimento di Vicenza, forse quell’attesa è finita. Tu hai detto, in molto molto piano, che se in un movimento come il vostro assumono un ruolo forte le donne, allora la faccenda cambia profondamente. Perché le donne guardano al futuro dei loro figli, e quindi sono capaci di durare di più. Hai aggiunto che “inoi siamo più determinate”. E hai detto queste cose interpretando quasi fisicamente quella cosa che Gramsci chiamava, in un altro contesto e con altri scopi, “la connessione sentimentale” tra te, faccia pubblica e voce del movimento, e la gente che era lì, persone molto diverse per età e orientamenti, e tra loro molte donne. Ovvero: non lo dicevi in astratto, come un’aspirazione o un dovere, ma come un semplice e definitivo fatto, che avveniva in quel momento, così come avviene ogni giorno, al presidio, nei concerti di pentole davanti alla caserma Ederle, o nelle assemblee.

 

E la circostanza più sorprendente, mi è parso, è che in questo tuo ruolo pubblico non vi è la minima ombra di “leaderismo”, come diciamo noi di sinistra. Al contrario, si vede una affermazione semplice, ed eversiva dei modi di “far politica”: qui, state dicendo, è in gioco non un conflitto tra “potenze”, quali che esse siano, ma la tutela della vita in ogni sua forma: la famiglia e la comunità, il loro ambiente e la loro possibilità di decidere su se stesse, la necessità di sottrarsi alla guerra. Già la guerra. Se si guarda alla situazione da questo punto di vista, si vede chiarissimo come il governo e il comune di Vicenza, il parlamento e i media che oggi tentano di diffamare e terrorizzare i cittadini ribelli, stiano banalmente giocando a un “war game” di cui solo loro conoscono le regole, anche se le vittime, poi, siamo noi. E la stessa chimica dentro il movimento contro la base, che tende ad essere inquinata dalle azioni e reazioni e dalla concorrenza tra organizzazioni e partiti di ogni genere, rischia a volte di sembrare un “Risiko”. Perché gli uomini – tutti – sono guerrieri, si concentrano sulla tattica, sull’esito della prossima “battaglia”. Mentre le donne, che creano e tutelano la vita, guardano alla “strategia”, ossia alle generazioni che si susseguono e che hanno diritto tutte, le presenti e le future, a un mondo in pace, sano, amichevole.

 

Va bene, qualche volta mi lascio andare, e invece di badare ai rapporti di forza, al flipper in cui ci muoviamo come palline impazzite, ai deliri sul “terrorismo che torna”, ecc., come un giornale di sinistra dovrebbe fare, mi immagino un mondo che non c’è (ancora). Ma noi non siamo un giornale di sinistra, non precisamente, perché cerchiamo di trasferirci in un altro secolo. Perciò ti chiedo, per favore, come chiedo a tutte le donne come te, di dirci che cosa dobbiamo fare.

 

In fondo, tutti vorremmo vivere sulla “madre terra” e non su un “pianeta padre”, non è vero?

Geraldina Colotti
«Chiediamo l’intervento delle Nazioni unite nei territori occupati», dice la scrittrice palestinese Suad Amyr, nativa di Ramallah, conosciuta in Italia per il romanzo «Sharon e mia suocera». Suad è intervenuta ieri a Piazza Farnese nella serata di solidarietà con la Palestina ridotta allo stremo. Il primo atto pubblico di una campagna europea che prevede il sostegno concreto alla popolazione sotto assedio, mediante una raccolta di fondi che verrà consegnata direttamente agli abitanti. Un’idea che ha preso corpo nei mesi scorsi per far fronte all’emergenza umanitaria dovuta al taglio dei fondi deciso dall’Unione europea, e che adesso assume carattere d’urgenza. Fra i progetti previsti, l’acquisto di un generatore per l’ospedale, sostegno all’agricoltura, acquisto di materiali per la scuola.
«Il cartello di associazioni, sindacati ed esponenti politici che appoggia la campagna ha un obiettivo prevalentemente pratico: aiutare la popolazione. Ma essenziale è anche un’informazione corretta sull’occupazione in Palestina», dice Simonetta Cossu di Liberazione, che ha promosso la campagna insieme al manifesto, Left, Carta, La Rinascita. «E non si tratta solo di una questione umanitaria – afferma l’europarlamentare Luisa Morgantini – dobbiamo aiutare i palestinesi a essere liberi di decidere, fermando l’occupazione militare. Non si può stilare ogni giorno la lista dei morti. Ci vuole una forza di interposizione internazionale».
«Il governo di Hamas – dice ancora Suad Amyr – ha costituito un arretramento per la libertà delle donne e per la laicità – ma è stato il prodotto di un’elezione democratica. E poi perché punire un intero popolo per il rapimento di un solo soldato? I nostri morti contano dunque così poco?». A Piazza Farnese, c’erano anche i 7 giovani calciatori di Gaza che, venuti in Italia per partecipare al torneo Altrimondiali, ora non possono più tornare a casa. Revoca dell’embargo e sanzioni contro Israele – sia ad opera dei governi europei o mediante il boicottaggio dei prodotti da parte della società civile – è stata anche la richiesta dell’International solidarity mouvement, che ha manifestato ieri in un sit-in davanti a Palazzo Chigi.
E a Torino, sit-in in Piazza Castello, promosso da un cartello di associazioni umanitarie: «a Gaza, migliaia di malati cronici sono in imminente rischio di morte per la mancanza di cure causata dall’embargo israeliano, statunitense ed europeo», diceva il comunicato degli organizzatori. Identica richiesta alla comunità internazionale: «Fermiamo la mano di Israele».

Un gruppo composto da 120 refusnik israeliani e 120 ex prigionieri politici palestinesi cerca di spezzare il cerchio della diffidenza e degli istinti suicidi. «Siamo diversi, ma abbiamo lo stesso obiettivo»

Giuliana Sgrena – Inviata a Tel Aviv

Abbiamo incontrato Zohar Shapira sul lungomare di Tel Aviv durante una pausa del suo lavoro di insegnante. 36 anni, sposato con una bambina di poco più di un anno, che deve andare a recuperare all’asilo appena finita l’intervista, è uno dei fondatori – israeliani – del gruppo «combattenti per la pace». La composizione del gruppo – 120 refusnik israeliani e 120 ex-prigionieri politici palestinesi, di cui 24 donne – costituisce senza dubbio una novità sullo sfondo del sempre più bloccato conflitto israelo-palestinese. L’organizzazione, che oltre al nucleo centrale – volutamente limitato – gode di molti sostenitori sia israeliani che palestinesi, è nata l’anno scorso dopo anni di incubazione e riflessione ma è apparsa ufficialmente sulla scena politica solo da qualche mese.
Zohar Shapira, per quindici anni nell’esercito, comandante di una unità d’élite incaricata delle missioni speciali (le più sporche) nei territori palestinesi, come è arrivato alla decisione di lasciare l’esercito e di rifiutarsi di tornare in servizio nei territori occupati? «Dopo l’inizio della seconda intifada – racconta – nel 2002, ero impegnato nell’operazione shield of defence e dopo l’attacco a Jenin ho deciso che non potevo più continuare a fare quello che facevo, era immorale, soprattutto dopo aver sparato sopra la testa di una bambina sbucata improvvisamente da dietro una casa. Entravamo nelle abitazioni dei palestinesi e quando uscivamo portando via qualcuno di loro sospettato di essere un terrorista vedevo gli occhi dei bambini che ci guardavano e capivo che ci avrebbero odiato per tutta la vita. Eravamo noi a seminare l’odio».
Refusnik, altro che traditori
Nel frattempo il movimento dei refusnik si stava allargando… «Sì, allora eravamo 6-800 – prosegue Shapira – ma soprattutto tra i refusinik non c’erano più solo soldati di leva ma anche piloti, comandanti. Tanto che il movimento dei refusnik arrivò ad imporsi come un punto di discussione nell’agenda del governo israeliano. Non potevamo più essere indicati semplicemente come traditori da Sharon, i refusnik erano diventati una realtà accettata dalla gente. Ora circa il 40 per cento dei riservisti, quando richiamati, si rifiutano di andare a servire nei territori occupati. Il problema era però come andare al di là delle manifestazioni e diventare più incisivi. Non sapevamo se c’erano palestinesi disposti a parlare con noi, poi abbiamo contattato Tayush (un’organizzazione di palestinesi e arabi di Israele, ndr). All’inizio eravamo molto sospettosi, diffidenti, da entrambe le parti».
In Tayush militava anche Suleiman al Himri di Betlemme, con alle spalle quattro anni e mezzo passati nelle carceri israeliane (prima a Hebron e poi a Ansar III), condannato per azioni contro Israele quale leader locale durante la prima intifada. Suleiman al Himri, militante di Fatah e funzionario del ministero degli interni, conferma la diffidenza iniziale. Lo abbiamo incontrato in un albergo di Betlemme dove i suoi compagni stavano preparando le schede degli iscritti in vista del sesto congresso di Fatah, che dovrebbe tenersi entro l’anno.
Ci sono state molte riunioni, molte discussioni prima di arrivare alla formale costituzione del gruppo «combattenti per la pace». Su quali basi lo chiediamo a Suleiman. «Abbiamo raggiunto un accordo su diversi punti: il riconoscimento del diritto dei palestinesi ad avere uno stato con Gerusalemme est come capitale; la dimostrazione al popolo, soprattutto quello israeliano, che esiste un partner palestinese; il rifiuto della violenza contro la popolazione civile, sia palestinese e israeliana».
Teoria e pratica della non-violenza
La non-violenza è senza dubbio la scelta più impegnativa per entrambi i componenti, posto che la violenza è alla base della militarizzazione della società, dovuta al conflitto, che non risparmia nessuno e si insinua fin dentro le mura domestiche. Ma proprio gli effetti devastanti della violenza, soprattutto dopo la seconda intifada, nei territori palestinesi si sta diffondendo la pratica della non violenza con corsi di formazione organizzati da ong. Ma a sostenere la non violenza contro i civili, a condannare gli attentati suicidi sono anche persone come Suleiman, che non rinuncia a combattere l’occupazione. o Zohar, che in passato ha comandato una delle unità più aggressive dell’esercito israeliano, o Elik Elhanan, la cui sorella è rimasta vittima dell’attentato commesso da un kamikaze.
«Solo la non violenza può spezzare il cerchio della morte», afferma Zohar che racconta l’emozione e anche i timori provati quando per la prima volta ha varcato il muro ed è entrato nei territori palestinesi senza armi: mi guardavo in giro per vedere se c’erano soldati per proteggermi, ma poi, quando sono entrato nella casa di Suleiman e ho conosciuto la sua famiglia, non ho più avuto nessun timore. Ora io e i miei compagni andiamo nei territori palestinesi e i palestinesi vengono nelle nostre scuole per dimostrare che un partner c’è, per far conoscere l’altro. Non vogliamo dire che siamo uguali: siamo diversi, ma abbiamo lo stesso obiettivo della pace ed è importante conoscersi», sostiene Zohar. Il progetto che vede palestinesi e israeliani tenere insieme lezioni nelle scuole e nelle università palestinesi e israeliane è senza dubbio una delle azioni più importanti ed efficaci dei «combattenti per la pace».
In che cosa si distingue questo gruppo da altri costituiti insieme da israeliani e palestinesi? Risponde Suleiman: «L’obiettivo è diverso: noi non vogliamo la normalizzazione dei rapporti, vogliamo lavorare insieme per un obiettivo concreto: la fine dell’occupazione».
E questa impostazione diversa rispetto al passato sembra aver segnato tutti i gruppi israelo-palestinesi, anche quelli nati contro il muro o i blockwatchers, che controllano i posti di blocco. Nel week i militanti israeliani organizzano visite guidate: «Gli israeliani non conoscono il muro, non l’hanno mai visto, quindi possono credere alla propaganda del governo… ma basta farglielo vedere da vicino perché capiscano che non serve alla sicurezza ma solo alla divisione dei territori palestinesi in bantustan», sostiene Jeff Halper, coordinatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (Icahd), che ora ha allargato il proprio obiettivo promuovendo una campagna anti-apartheid. Un obiettivo ancora più difficile da raggiungere. «Ci riusciremo, il problema – aggiunge – è come e quando. Ci è riuscito Mandela …».
Ha vinto Hamas? Niente panico
A Jeff Halper chiediamo anche se la vittoria di Hamas abbia cambiato i loro rapporti con i palestinesi. «In Israele – risponde – non c’è stato nessun panico per la vittoria di Hamas. Noi non abbiamo rapporti con Hamas, ma continuamo a lavorare con i palestinesi come prima e vedremo che cosa veramente farà Hamas. Dopo gli accordi di Oslo avevamo avviato un dialogo, ma l’inizio della seconda Intifada aveva scioccato tutti e gli israeliani erano spariti, ora i palestinesi hanno realizzato che per porre fine all’occupazione hanno bisogno degli israeliani».
Tuttavia non sembra ci siano molti israeliani favorevoli a uno stato palestinese… «Gli israeliani – prosegue Halper – non pensano alla pace come a qualcosa di positivo, partono dal principio che gli arabi sono nemici e che non ci sarà mai pace. Per gli israeliani la pace è solo una sorta di “pacificazione”. In Israele le parole hanno un senso “orwelliano”: pace vuol dire suicidio, la guerra corrisponde alla pace, così come ritirarsi in realtà vuol dire espansione e rafforzamento».
Quindi c’è poco da sperare in un cambiamento della politica di Israele. «Penso che l’ingiustizia sia insostenibile a lungo andare – aggiunge ancora Halper – perché contiene i semi della distruzione. Alla fine ci sarà il collasso, e questo non vuol dire che dopo l’ingiustizia ci sarà giustizia, ma che Israele non potrà mantenere a lungo questa situazione».

«Mai più guerre, con o senza Onu. L’Afghanistan? Come l’Iraq. Il 2 giugno? Senza parata. Stop alle sanzioni alla Palestina». Parla Sentinelli, viceministra agli Esteri
Cinzia Gubbini – Angelo Mastrandres

Desidera essere chiamata viceministra, non «per una questione di puntiglio» ma perché «la mia esperienza mi ha insegnato a dare una grande importanza al linguaggio e al simbolico». L’«esperienza» di Patrizia Sentinelli è quella di militante del Pdup prima e del Pci poi, fino al Prc, partito in cui ha ricoperto la carica di segretaria della Federazione romana e, fino a ieri, di capogruppo al comune di Roma. Insegnante di economia aziendale fino a qualche anno fa in una scuola del ghetto ebraico della capitale, ha capeggiato la federazione romana della Cgil scuola. Ma la cifra della sua storia politica sta nel rapporto privilegiato con i movimenti, tanto da essere considerata a Roma la «cerniera» tra Rifondazione e l’area ex Disobbediente, nonostante la rottura a seguito della mancata elezione al Parlamento europeo di Nunzio D’Erme. Da ieri è il braccio destro (o forse sarebbe meglio dire sinistro) di D’Alema, con delega alla cooperazione internazionale.
Dunque, Sentinelli, lei parla spesso di democrazia partecipata, rapporto con i movimenti e «relazioni orizzontali». D’Alema ha invece tutt’altra concezione della politica. Non sarà facile.
Io sono una donna molto solare. Credo ai corpi che si abbracciano e che si muovono insieme. D’Alema ha probabilmente un’altra concezione delle relazioni, ma questo non mi spaventa. Credo fermamente nella parità dei diversi punti di vista e credo che l’autorevolezza derivi dalla convinzione in ciò che sei e in quello che hai costruito negli anni. Dunque penso di non avere nulla da temere.
Negli ultimi anni lei ha sfilato con il movimento pacifista che chiedeva il ritiro immediato delle truppe dall’Iraq e prima ancora dall’Afghanistan. Come si comporterà ora?
Prodi ha dato oggi (ieri, ndr) quel segnale di discontinuità che gli veniva chiesto: il governo considera sbagliata la guerra in Iraq e si metterà subito al lavoro per il ritiro delle truppe con i tempi che verranno concordati. Non abbiamo paura a parlare di guerra e di forze di occupazione. Questa è la cosa fondamentale, al di là degli annunci di ritiro già fatti dal precedente governo.
Intanto bisognerà votare entro il 30 giugno il rifinanziamento delle missioni, a partire da quella in Afghanistan.
Ci sarà certamente una discussione serrata. Ma io credo che proprio su questo punto la scelta di prevedere una delega agli esteri per la cooperazione è essenziale: potremmo dire, con uno slogan, meno militari e più civili. L’obiettivo deve essere quello di ridare corpo e gambe alla cooperazione come strumento di prevenzione dei conflitti. Il governo deve essere impegnato in politiche di pace a partire dal ripudio della guerra sancito dalla Costituzione.
Anche se ci si dovesse trovare di fronte a una copertura delle Nazioni unite o comunque a un intervento multilaterale e non a un’iniziativa autonoma degli Stati uniti come per l’Iraq?
Credo che l’intervento armato non debba mai entrare nell’agenda della politica estera italiana. La Costituzione deve essere la Bibbia, come hanno detto tanto il presidente della Repubblica Ciampi che il suo successore Napolitano. Penso che la cooperazione internazionale imponga un altro modello di pensiero, un’altra lente attraverso cui guardare le cose. Lo stesso termine cooperazione si pone agli antipodi del termine competizione, abusato ai giorni nostri.
La «guerra al terrorismo» non ha lasciato immune il mondo della cooperazione, che ha subito una progressiva militarizzazione negli ultimi anni.
Vedo due principali rischi nell’azione della cooperazione internazionale. Da un lato la deriva securitaria, e cioè sia l’utilizzo della cooperazione come strumento di controllo sociale che la commistione con le Forze armate. Dall’altro quella assistenzialista, e quindi il rischio di privilegiare, anche attraverso i finanziamenti, quelle ong che hanno un atteggiamento autoreferenziale. Per capirci, quelli che pensano di sapere benissimo come si deve agire e cosa si deve fare, assumendo una prospettiva che definirei neocolonialista e paternalista. Io vorrei, invece, promuovere una cooperazione che sia in grado di valorizzare le esperienze di autorganizzazione, le relazioni sociali, la società civile dei paesi con cui si stringono rapporti, mettendo a frutto tutto quello che abbiamo imparato dai movimenti che abbiamo incrociato nel mondo in questi anni. Ricordo, ad esempio, l’incontro al Forum sociale mondiale di Bombay con delle donne straordinarie che poi abbiamo ritrovato al governo indiano. Mi piacerebbe inoltre fare da ponte per alcuni modelli politici sperimentati altrove. Ad esempio, quello che stanno facendo in Sudamerica per l’acqua come bene comune.
Intanto l’Italia è agli ultimi posti al mondo per aiuti allo sviluppo.
La cooperazione è stata malmenata e manomessa in questi anni, forse per questo percepisco una grande attesa dal mondo delle ong e dell’associazionismo. L’obiettivo, dal punto di vista finanziario, è arrivare a quell’impiego dello 0,7% del Pil stabilito dall’Unione europea. Oggi siamo molto indietro, destiniamo soltanto lo 0,1%. Si tratta di fare uno sforzo vero, ma il programma dell’Unione è molto chiaro su questo punto. Credo inoltre che sia necessario ripristinare quella Direzione generale allo sviluppo smantellata dal passato governo. E prevedere una serie di istituti che diano spazio alla democrazia partecipata: non soltanto tavoli di consultazione, ma un vero strumento di confronto continuo.
Un’altra questione a dir poco spinosa è quella del Medio Oriente. Appoggerete la scelta delle sanzioni al governo di Hamas in Palestina?
La ritengo una scelta sbagliata. La politica dovrebbe avere un sussulto di fronte al blocco degli aiuti che colpisce la popolazione civile, donne e bambini che muoiono di fame. Il primo passo della Russia contro le sanzioni mi sembra un inizio, ma credo che gli interventi finanziari dovrebbero arrivare dall’Onu ed essere gestiti dall’Autorità nazionale palestinese.
Intanto la prima grana è all’angolo. Lei e il suo partito hanno sempre contestato la parata militare del 2 giugno. Da che parte starà quest’anno?
Non vedo l’esigenza di una parata militare, tanto più che, come ho già detto, il nostro programma è chiaro sul ripudio della guerra.

Il retroscena
«Brava Sentinelli», l’esultanza dell’Onu
Con il precedente dicastero guidato da Fini, che come documentato dal manifesto aveva azzerato i «contributi volontari», le Nazioni unite non avevano avuto buoni rapporti. Sarà per questo che ieri la portavoce della Campagna del millennio Onu Eveline Herfkens si è sperticata in elogi per la neo viceministra degli Esteri con delega alla Cooperazione Patrizia Sentinelli. La Herfkens si augura che la vice di D’Alema «sia messa nelle migliori condizioni per poter gestire tutte le risorse finanziarie destinate dall’Italia alla lotta alla povertà e, nell’ambito di una necessaria e ampia coerenza governativa, partecipare ad ogni decisione che abbia un impatto sulle politiche di lotta alla povertà, contribuendo al raggiungimento degli otto Obiettivi di sviluppo del millennio nel rispetto della scadenza fissata per l’anno 2015». «Siamo molto felici che nella sua prima dichiarazione abbia rinnovato l’impegno per il raggiungimento dello 0,7% del Pil da destinare all’aiuto pubblico allo sviluppo», ha concluso.