La rete delle Città Vicine
Le donne e gli uomini della rete delle Città Vicine esprimono la loro sofferenza dinnanzi alla morte dei sei militari italiani avvenuta a Kabul, ennesimo scempio di giovani vite di uomini, prevalentemente del Sud, che spesso scelgono la carriera militare per sfuggire alla disoccupazione e all’insignificanza del senso del maschile in questo preciso momento storico.
Soffriamo anche per lo spreco di vite umane degli abitanti di un paese come l’Afghanistan e di una città martoriata come Kabul dove donne, uomini e bambini coinvolti in un disastro bellico che si mostra estraneo e indifferente al trascorrere quieto dei giorni normali, perdono la vita in modo cruento.
Rifiutiamo in quanto donne e uomini che da decenni elaborano e praticano pensieri e pratiche di pace, le logiche che impongono linguaggi, commerci, azioni virili e guerrafondai con la scusa di voler esportare democrazia e civiltà che, sappiamo bene, si costruiscono con le mediazioni e le relazioni umane laddove esiste una volontà sincera di collaborazione e comunicazione con l’altro.
Se il sindaco Alemanno invita i romani ad esporre, il giorno dei funerali dei sei militari uccisi, ai balconi e alle finestre il tricolore italiano, noi, della rete delle Città Vicine, sicure/i del coro di donne e di uomini che si unirà alla nostra proposta invitiamo le/gli abitanti di tutte le città d’Italia ad esporre invece ai balconi e alle finestre la bandiera della pace per dire che ogni vita umana ha un senso e nella direzione di un agire amorevole, di comprensione e ascolto delle altre e degli altri.
Cara Michelle Obama,
siamo le donne del movimento “No Dal Molin” della città italiana di Vicenza, nota nel mondo per le sue bellezze artistiche e per Palladio. Ci rivolgiamo a te come donna autorevole, appassionata di politica, rispettosa della madre-terra, e sostenitrice dell’impegno del marito, presidente degli Stati Uniti d’America. Ci rivolgiamo a te sapendo che affidiamo le nostre parole e la nostra speranza in ottime mani. Pensiamo che nel mondo si stia assistendo a un grande e augurabile fenomeno: la crescita della presenza delle donne nella politica. Pensiamo che questa sia una grande occasione per il rinnovamento positivo della storia e dei valori a cui si ispirano i popoli e le nazioni. Noi vogliamo favorire questo fenomeno.
La nostra città ospita da sessant’anni una caserma statunitense e altri siti militari americani nelle colline circostanti. Ora sull’ultima area verde rimasta in città, l’aeroporto Dal Molin, il governo italiano acconsente alla costruzione di un’altra grande base militare americana, su richiesta del governo Bush che voleva collocare a Vicenza un’armata definita dai militari statunitensi “pugno di combattimento”, pronto ad essere impiegato in operazioni di guerra decise dagli USA.
L’area destinata alla costruzione della base si trova sopra la più importante falda acquifera del nord Italia e la realizzazione delle fondamenta richiede la perforazione degli strati di un territorio dall’equilibrio geologico delicatissimo, con rischi enormi non solo per l’ambiente circostante, ma per la riserva d’acqua a cui attingono gli abitanti di tutta la nostra regione. Una minaccia gravissima per la salute umana e del territorio.
Da tre anni migliaia di donne e uomini ci battiamo per la difesa della terra, per la salvaguardia dell’acqua e per esprimere una cultura della pace. Diciamo che non è indice di civiltà e di rispetto costruire una base militare dentro una città molto abitata. Vogliamo difendere la Costituzione Italiana che ripudia la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali, mentre il progetto della base è coerente con la strategia della guerra globale enunciata da Bush.
Questa strategia è già stata sconfitta negli Stati Uniti con l’elezione di Barack Obama e con la vittoria del partito democratico. Voi avete affermato la forza del cambiamento contro la politica di guerra di Bush, avete ribadito la priorità di valori come la libertà, il rispetto dei diritti umani, il dialogo e la condivisione, rigettando una politica di potenza unilaterale. Noi crediamo in voi e nel vostro impegno e infatti il nostro movimento vi ha sostenuto durante le elezioni americane. Abbiamo spedito anche migliaia di cartoline a Barack Obama chiedendogli di intervenire per fermare la costruzione della nuova base militare a Vicenza. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta.
Abbiamo pensato, da donne a donna, che tu possa sostenere le ragioni della nostra lotta perché ci battiamo condividendo i principi a cui si richiama la politica della nuova Amministrazione Obama che vuole collegarsi alla grandezza delle origini della democrazia americana.
Il progetto della base militare “Dal Molin” viola le norme europee che prevedono in casi come il nostro la consultazione dei cittadini e la valutazione dell’impatto sull’ambiente. L’una e l’altra ci sono state negate.
Noi donne ci opponiamo alla base militare perché amiamo i nostri figli e il nostro territorio e vogliamo salvaguardare il loro futuro, perché vogliamo per loro una città e una terra corrispondenti al nostro desiderio di convivenza pacifica e a un concetto di autentica dignità umana.
Noi vogliamo una città dove non siano presenti gli strumenti della feroce violenza militare.
Ti chiediamo di intervenire, in nome di quei valori di libertà e di pace che troppo spesso sono stati aggrediti e violati.
Da donne che lottano a donna che lotta ti chiediamo di intervenire con l’autorità che lo stesso Presidente Obama ti riconosce. Ti preghiamo di intercedere in nome della sapienza politica femminile molto più evoluta della politica che usa solo la forza e la violenza per imporsi.
In nome di questo ordine superiore, in nome della cultura della pace e delle differenze, in nome della speranza, dell’amore per il futuro dei nostri figli, ti chiediamo di essere la nostra portavoce presso l’Amministrazione Obama affinché venga sospesa la costruzione della base militare americana a Vicenza e la vostra Diplomazia venga a parlare con il nostro sindaco, con il nostro movimento e conosca così la realtà, la verità e vengano rispettati i diritti umani.
Ti alleghiamo anche il timelineof major events marking the No Dal Molin movement,foto di vicenza e ti invitiamo nella nostra città: saremmo felici di farti vedere la sua bellezza, la bellezza del nostro movimento. Saremmo molto onorate se tu accogliessi il nostro invito come una tra le donne più autorevoli del mondo e come compagna di lotta che condivide i nostri valori.
Con affetto e stima, riponiamo in te e nel lavoro del presidente Obama fiducia e speranza.
Le donne del presidio “No Dal Molin”
Appello: alla vigilia del G8, tutte/i a Vicenza
Alla vigilia del G8 e dell’arrivo in Italia di Obama i No Dal Molin invitano tutte e tutti a Vicenza per liberare il Dal Molin dalla nuova base di guerra
Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo […] un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla secessione. [Incipit alla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America]
Vogliamo essere indipendenti nel costruire il futuro del nostro territorio; vogliamo che quest’ultimo sia sensibile alle opinioni di gran parte dell’umanità che rifiuta e, troppo spesso, subisce la guerra come strumento di controllo e oppressione. Vogliamo costruire l’Altrocomune come pratica di autogestione e autonomia dei cittadini, fondandolo sulla disobbedienza alle imposizioni e sulle pratiche condivise; vogliamo riprenderci la nostra terra come luogo del vivere bene collettivo e non come oggetto di scambio tra governi.
Dall’8 al 10 luglio, alla Maddalena, si terrà il vertice del G8; in un’isola volutamente scelta perché inaccessibile a ogni voce di dissenso, capi di stato e di governo si riuniranno per decidere le sorti del nostro futuro, senza di noi. Tra essi, ci sarà il Presidente statunitense Obama: come si giustificano le sue promesse sulla fine dell’arroganza militare statunitense quando a Vicenza fa base la guerra al Dal Molin?
La vicenda vicentina rappresenta, da questo punto di vista, una delle tantecontraddizioni nella politica estera statunitense che promette legalità, rispetto e trasparenza, ma pratica illegalità, sopruso e imposizione. Come annunciato da importanti esponenti dell’amministrazione nordamericana, il Dal Molin sarà oggetto di discussione del summit al G8, non per restituire la democrazia a coloro a cui è stata negata, bensì come oggetto di accordo segreto e scambio tra governi per la ridefinizione, a partire da Africom, della presenza militare statunitense in Italia.
Vicenza, patrimonio Unesco, è assoggettata alle servitù militari; la città che ha espresso la propria netta opposizione e ha ricevuto per questo la solidarietà di ogni angolo d’Italia, ha visto il bavaglio stringersi sulla sua bocca: palesi illegalità progettuali hanno accompagnato il tentativo di “sradicare alla radice il dissenso locale” prima impedendo alla città di esprimersi, poi perseguendo centinaia di cittadini con condanne pecuniarie e procedimenti penali.
Ma Vicenza è anche uno dei tanti luoghi di costruzione di quel mondo che non accetta il diktat di quanti, riuniti per pochi giorni nelle regge imperiali, vorrebbero scrivere a tavolino la nostra storia. Quello del movimento vicentino non è un romanzo romantico e triste; le donne e gli uomini di questa città vogliono riscrivere la storia reale, stracciando le pagine su cui politici e militari hanno già disegnato il suo futuro di asservimento e tacita accettazione.
Il 4 luglio, giornata in cui gli statunitensi festeggiano la propria indipendenza dall’impero britannico, vogliamo decretare la nostra indipendenza dall’impero militare statunitense, liberando la terra dalla presenza di una nuova base di guerra.
Nei tre anni di mobilitazione trascorsi abbiamo imparato che un sol giorno non cambierà le sorti della nostra città; ma sappiamo anche che la strada che abbiamo davanti non può che portarci a nuove sfide: per questo, alla vigilia del vertice del G8 e dell’arrivo in Italia di Obama, chiediamo alle donne e agli uomini che vogliono opporsi alla militarizzazione e alla guerra di tornare nelle strade di Vicenza e iniziare a costruire, dal basso e collettivamente, l’indipendenza dell’Altrocomune, ovvero un territorio libero e inospitale alla presenza militare perché vissuto e realizzato da un arcobaleno di diversità che, nel costruire un mondo di pace, liberano il territorio dalle servitù militari e dalle devastazione ambientale.
4 luglio 2009 a Vicenza, restituiamo il Dal Molin ai cittadini Indipendenza, dignità, partecipazione: la terra si ribella alle basi di guerra.
Per informazioni e adesioni: comunicazione@nodalmolin.it
www.nodalmolin.it
P.S. proprio nei momenti in cui diffondiamo l’appello è stata diffusa la notizia di un possibile spostamento del G8 all’Aquila.
Orsola Casagrande
Trenta minuti di domande. La commissione Usa vuole capire che cosa sta realmente accadendo a Vicenza. Ieri la consigliera comunale Cinzia Bottene è stata ascoltata dalla commissione Usa che dovrà decidere tra l’altro anche dei finanziamenti per la costruzione della nuova base militare al Dal Molin. Bottene ha avuto modo di esporre le numerose contrarietà legate al progetto. Grande impressione, ha rilevato la consigliera comunale, hanno destato in particolare alcuni punti della relazione, per esempio la vista della foto che riguarda l’area destinata alla nuova base e le foto della falda acquifera. I deputati hanno ammesso di non avere realizzato in precedenza che la base militare verrebbe costruita praticamente in città, cosa inconcepibile e inammissibile negli stessi Usa. Molto scalpore ha destato anche il fatto che manchi la valutazione di impatto ambientale che anche negli Usa, assolutamente obbligatoria anche negli Stati uniti. Il presidente a nome della commissione ha dato disposizioni di contattare il Pentagono per sapere se le oggettive ragioni illustrate erano state prese in considerazione e che spazio c’è per un’eventuale riconsiderazione del progetto. Cinzia Bottene ha affermato che si tratta di «un grande risultato, frutto di tre anni determinata opposizione e guardiamo fiduciosi alle decisioni che verranno prese». Interessante ancora una volta notare come le relazioni dirette con gli Stati uniti siano state allacciate e portate avanti soprattutto dalle donne. Una delle novità del movimento no Dal Molin è stata proprio quella della determinazione delle donne che oltre ad avere un proprio spazio anche all’interno del presidio sono state portatrici anche di un nuovo modo di «fare» politica.
Intanto mercoledì sera si è svolto un campeggio anomalo a Vicenza. Centocinquanta persone hanno infatti piantato le loro tende di fronte alla caserma Ederle. L’iniziativa era stata lanciata per sostenere la delegazione vicentina che ieri è stata ascoltata dalla commissione Appropriations Subcommittee on Military Construction, Veterans Affairs and Related Agencies della Camera del Congresso degli Stati uniti. «Siamo qui – hanno detto i manifestanti – per passare la notte nelle nostre tende e difendere il territorio vicentino dall’espansionismo statunitense che vorrebbe militarizzare l’intera città; vogliamo restarci fino a domani, quando la nostra delegazione sarà ascoltata da una commissione del Congresso statunitense dove esporremo le nostre ragioni». Perché da mercoledì sera si è aperta «una nuova campagna di mobilitazione contro la base statunitense», hanno detto i no Dal Molin. Ieri, mentre la delegazione veniva ascoltata negli Usa, i no Dal Molin hanno diffuso l’appello per la manifestazione nazionale del 4 luglio. Che sarà preceduta da una serie di altre iniziative. I no Dal Molin invitano tutte e tutti a Vicenza alla vigilia del G8 e dell’arrivo in Italia del presidente Obama.
Un accordo «storico» sulla definizione dei confini è stato firmato dal presidente della Bolivia Evo Morales e quello del Paraguay Fernando Lugo, a Buenos Aires. Lo riferisce il quotidiano argentino Clarin secondo cui i due presidenti hanno formalmente sottoscritto un rapporto stilato nel 2007 dalla Commissione mista, che sancisce la definizione della frontiera in comune, oggetto negli anni Trenta di un conflitto, «la guerra del Chaco» che provocò oltre 100.000 morti.
Il documento è stato consegnato ai due capi di stato dal presidente argentino, Cristina Kirchner, garante dell’accordo, in una cerimonia svoltasi alla Casa Rosada a Buenos Aires. «Questo atto rappresenta un ulteriore passo nel processo di integrazione regionale, e conclude un cammino storico verso la fratellanza, la cooperazione e la democrazia, che oggi vive la nostra gente» ha detto il ministro degli esteri argentino Jorge Taiana, mentre il suo omologo boliviano David Choquehuanca, ha ricordato che «c’è stato un tempo nella storia, in cui i confini sono serviti per dividere», ma ora «i limiti sono concepiti per incoraggiare l’integrazione». Secondo gli storici, il conflitto per il controllo del Chaco boreale, considerato strategico per i due paesi, è stato incoraggiato dalle società petrolifere erroneamente convinte, all’epoca, che la zona attraversata dal fiume Paraguay fosse ricca di riserve di idrocarburi. Il trattato di pace «Amicizia, libertà e confini» firmato nel 1938 tra Bolivia e Paraguay, che pose fine al conflitto in atto tra il luglio del 1932 e il giugno del 1935, prevedeva la creazione di una commissione mista per definire la frontiera tra i due paesi.
SI ANCHE SE TARDI – PAGINE DAL MOLIN
Anche quest’anno l’8 marzo non è per le donne vicentine la festa delle mimose,
ma una giornata di mobilitazione per difendere la terra dalla rapina incombente
nel progetto di militarizzazione
della città…..
Ti invitiamo
SABATO 8 MARZO alle ore 13.30
davanti all’ingresso dell’Aeroporto Dal Molin
via S. Antonino
Sarà con noi Patricia Zanco.
Da lì poi si partirà, possibilmente in bicicletta, per congiungersi alla catena
di donne che percorrono la città costruendo la rete di donne per la pace.
Alle ore 20.30: cena* al presidio
da prenotare telefonando a Ersilia 3337956245 o Paola 3338867598.
Parteciperà Monica Lanfranco, scrittrice e giornalista della rivista pacifista
“Marea” .
*Non produciamo rifiuti! Ciascuna porti piatto e posate e…dolci!
Alleghiamo il volantino.
Vieni e porta le tue amiche, figlie, sorelle, mamme, nuore, suocere!
LE DONNE DEL PRESIDIO NO DAL MOLIN
Parla la scrittrice Suad Amiri
Giuliana Sgrena
Qual è stata la reazione dei palestinesi della West bank di fronte al massacro perpetrato da Israele a Gaza? Lo chiediamo alla scrittrice palestinese Suad Amiry, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, a Roma per presentare il suo ultimo libro Niente sesso in città . «Per due giorni tutti i palestinesi sono rimasti incollati davanti alla televisione, senza nemmeno andare al lavoro, paralizzati dalle immagini trasmesse dalla tv al Jazeera», ci risponde. «C’è stata fin dall’inizio grande solidarietà umana, senza politica. La politica ha cominciato a emergere con l’intervista rilasciata dal leader di Hamas Khaled Meshal a Damasco che, con un tono molto arrogante, invitava a manifestare a favore di Hamas. Questo appello ha allarmato le autorità palestinesi. Va aggiunto che Abu Mazen si trovava all’estero e, sbagliando, non è rientrato subito».
La gente era ammutolita dagli eventi, ma quando ha cominciato a scendere in piazza?
Fin dalla prima sera, il 27 dicembre, vi è stata una fiaccolata, tutte le chiese hanno sospeso le loro cerimonie. Il giorno dopo, alle 13, senza nessuna convocazione, ci siamo ritrovati tutti in piazza, nel centro di Ramallah: c’erano tutti i partiti con le loro bandiere, ma non c’era nessun leader politico. C’era molta polizia e quando dal check point di al Bireh sono arrivati un centinaio di militanti – molte donne – di Hamas con le loro bandiere, la polizia voleva fermarli, ma gli altri gruppi lo hanno impedito urlando slogan unitari. C’era chi proponeva di eliminare le bandiere di partito e portare solo quelle palestinesi. Piccoli scontri sono scoppiati tra Hamas e Fatah, per i vecchi rancori. C’era molta depressione, finché Amal Khreshe, ex militante comunista, è riuscita a rianimarci urlando slogan unitari e dietro a lei, in prima fila le donne, un corteo ha percorso la città.
Però alla televisione abbiamo visto la polizia che attaccava i manifestanti.
Sì, i giovani che volevano dirigersi ai check point dove c’erano gli israeliani sono stati bloccati, picchiati e anche arrestati.
Perché non c’era nessun leader politico?
Perché in Palestina non esiste nessuna leadership, Fatah si è disintegrata, e questo è il risultato prima degli attacchi e dei bombardamenti di Israele contro Arafat nel 2002-2003 e poi della «guerra civile» scoppiata a Gaza. La gente è confusa, l’impressione era che Abu Mazen non volesse opporsi, solo dopo cinque giorni ha chiamato tutti a manifestare imponendo la partecipazine dei dipendenti pubblici. La brutalità di Israele era contro il popolo palestinese e la solidarietà era con il nostro popolo, non con Hamas.
Si può dire che il massacro compiuto da Israele, al di là delle dichiarazioni di intenti, alla fine abbia rafforzato Hamas?
Hamas adesso ha una grande responsabilità, quella della ricostruzione, che sicuramente non potrà fare senza l’aiuto internazionale e per ottenerlo dovrà fare concessioni. Quale percorso si può immaginare? Ci sono due strade possibili: o un governo unitario con Abu Mazen, oppure Hamas ripercorre la strada fatta dall’Olp negli anni ’70 per arrivare al riconoscimento di Israele.
Il problema degli aiuti però è urgente, c’è chi propone una forza di controllo alla frontiera egiziana…
Israele è riuscito a spostare l’attenzione dal blocco del valico di Erez, che doveva essere tolto dopo l’accordo per la tregua con Hamas, a quello dei tunnel che invece aveva tollerato. L’Europa con il boicottaggio imposto al popolo palestinese ha assunto un atteggiamento stupido e ora si propone di controllare la frontiera di Rafah invece di controllare il valico di Erez da dove provengono tutti i prodotti consumati dai palestinesi. Così tutta la pressione si trasferisce sull’Egitto come se il responsabile non fosse Israele.
Qual è il futuro di Abu Mazen?
Non potrà restare al potere senza un processo di pace che peraltro Hamas ha eluso. Forse l’elezione di Obama potrà aiutarci, il modo di pensare nel mondo può cambiare a partire dalla maggiore potenza. Altrimenti saranno gli islamisti fondamentalisti a guadagnare terreno perché sono gli unici che resistono all’occupazione e i giovani conoscono solo quel modo di resistere. Noi laici abbiamo perso gli strumenti per sostenere una giusta causa, non abbiamo articolato un modo di resistere che non sia violento, la resistenza pacifica è considerata da Israele violenza e repressa allo stesso modo, il prezzo da pagare è troppo alto.
Ma Israele vuole il processo di pace?
No, sono convinta che Israele voglia tutta la nostra terra, ma siccome non può buttarci a mare deve fare di tutto per farci sentire degli sconfitti – questo è l’obiettivo dichiarato da diversi esponenti politici e militari israeliani – umiliandoci e istituzionalizzando il sistema dell’apartheid.
Mail di Anna Faggi
Vicenza è una città violata che non vuole né piegarsi né rassegnarsi. Per questo il Coordinamento nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani promuoverà la costruzione di una Rete delle “Città amiche di Vicenza”. La decisione è stata assunta ieri dalla Presidenza nazionale che si è riunita per la prima volta nella sede del Comune di Vicenza “La base americana di Vicenza non si deve fare e la città di Vicenza che si oppone alla sua costruzione non sarà più sola.” Così il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, riunito ieri, venerdì 23 gennaio 2009, nella città del Palladio, ha deciso di promuovere la costruzione di una rete delle “Città amiche di Vicenza “. “Da oggi Vicenza non sarà più sola” ha dichiarato Giulio Cozzari, Presidente del Coordinamento e della Provincia di Perugia. “Raccogliamo l’appello del sindaco e invitiamo tutti gli enti locali a stringere la città di Vicenza in un grande abbraccio di solidarietà. Il progetto di costruzione della nuova grande base americana nel cuore di Vicenza pone gravi problemi alla città. Vicenza chiede di essere ascoltata. Ne ha diritto. E il diritto di Vicenza è anche il nostro diritto”. “Mentre a Vicenza, ha replicato il sindaco Achille Variati, si stanno esaurendo le vie istituzionali del confronto e dell’approfondimento, questa manifestazione di solidarietà riaccende in noi la speranza. Quella della base è una vertenza che ci impegnerà per lungo tempo e avere accanto delle città amiche ci sarà di grande aiuto. Vicenza è una città violata che però non vuole né piegarsi né rassegnarsi.” “La decisione di trasformare Vicenza nella più grande base militare americana in Europa è tutt’altro che irreversibile, ha affermato Flavio Lotti, direttore del Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani. La politica militare americana ha fallito ed è destinata a cambiare anche sotto la pressione della crisi economica che sta sconvolgendo negli Stati Uniti. Se il nuovo Presidente degli Stati Uniti manterrà le sue promesse molte cose dovranno cambiare anche nella gestione degli affari del mondo e tutti dovranno riconoscere che costruire una nuova grande base militare americana nel cuore dell’Europa, al di fuori dell’Onu e della stessa Nato, è una scelta anacronistica. Dunque sbagliata.” Nelle prossime settimane prenderà dunque il via una campagna tesa a portare la “Questione Vicenza” nelle città italiane ed europee e a promuovere un rinnovato impegno delle città per la pace e la costruzione di una nuova politica della sicurezza comune fondata sul disarmo, la prevenzione e soluzione pacifica dei conflitti e la promozione di tutti i diritti umani per tutti. In questo contesto, il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani ha inoltre deciso di tornare presto a Vicenza con un importante evento nazionale. Ufficio Stampa Coordinamento nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani Floriana Lenti 338/4770151 – tel. +39 075 5734830 Fax +39 075 5721234
Nota redazionale: Per i bambini palestinesi
Giornata della Memoria 2009
Auditorium “Verdi” Milano, 24 gennaio 2009
di Hans Krasa
con il coro dei Pueri Cantores di Vicenza e l’ orchestra “Verdi” di Milano
Direttore: Roberto Fioretto
Cecoslovacchia, 23 settembre 1943, nella cittadina di Theresienstadt si mette in
scena l’operina per bambini “Brundibar” di Hans Krasa.
I piccoli artisti e l’orchestra sono ottimi, la sala è gremita, il pubblico applaude
entusiasta, ma….tutto ciò si svolge in un campo di concentramento; il pubblico, gli artisti, lo stesso Krasa, sono prigionieri ebrei, deportati da Cecoslovacchia, Austria, Germania, Danimarca.
Theresienstadt, Terezin in ceco, nel sistema dei lager nazisti rappresenta
un’eccezione. Nonostante l’inverosimile addensamento di prigionieri e l’uso del
terrore come sistema di potere (sia pure in termini meno espliciti che altrove) si
mantenne un certo ordine sociale. Questo avvenne, tra spaventose difficoltà e
nell’incessante pericolo, grazie alla presenza di autorevoli personalità capaci di
irradiare attorno a loro l’idea di un’esistenza ancora possibile, sostenuta dall’arte
e dalla cultura.
I piccoli deportati ebrei, interpreti o spettatori di questa vita artistica ricevettero un aiuto fondamentale per la loro breve esistenza. Attraverso l’arte, si liberarono nelle persone forze animiche nascoste che crearono momenti di gioia, vitalità e coraggio.
Una resistenza spirituale nel dramma che si stava compiendo.
Una presentazione teatrale composta da sette scene collegate da un filo musicale, introduce il contesto da cui poi nasce l’operina “Brundibar”. Rivivono le espressioni artistiche, i giochi e le attività culturali che rappresentarono l’opposizione al “Regno di Brundibar”. Su un piano morale è il Male stesso che viene sconfitto.
Rappresentata ora in un contesto assai diverso da quello nel quale è nata, l’opera di Hans Krasa rimane un’altissima testimonianza di umanità.
La regista Silvia Brunello
www.laverdi.org
www.vicenzapuericantores.it
Silvia Brunello – mail: dognifiaba@libero.it
Francesca Marretta
I giornalisti israeliani lo hanno ribattezzato “il Grossman palestinese”, paragonandolo al celebre scrittore israeliano che due anni fa, durante la guerra tra Israele ed Hezbollah, perse suo figlio Uri, soldato ucciso al fronte, a poche ore dal cessate-il-fuoco.
Il dr. Ezzeldeen Abu al-Aish è il medico palestinese che parla perfettamente ebraico ed inglese, diventato famoso in tutto il mondo per la “morte in diretta” delle sue tre figlie alla televisione israeliana, che lo intervistava ogni giorno.
A Gaza il dr. Esseldeen Abu al-Aih, è conosciuto e rispettato da tutti.
Aveva partecipato alle elezioni del gennaio 2006 correndo come indipendene. Ginecologo, master ad Harvard in management delle strutture sanitarie pubbliche, ex dipendente dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Ezzeleen Abu al-Aish, vedovo, ha lavorato per diversi ospedali israeliani, con i quali ancora collabora a progetti di ricerca sulla fertilità. “Amo i miei amici israeliani. Amo gli esseri umani e questo insegno ai miei figli”, dice il medico, seduto su una panchina nel cortile dello Sheba Medical Centre, il grande e moderno Ospedale di TelHashomer, dove si trova, tenuto in vita dalle macchine, l’ex premier israeliano Ariel Sharon.
Un celebre medico di Gaza era al telefono con una tv ebraica quando la bomba ha colpito casa sua
“AMO ISRAELE CHE HA UCCISO TRE FIGLIE MIE”
Ha spesso la forza di sorridere, anche se gli trema la voce il dr. Esseldeen Abu al-Aih. E’ circondato da un cordone di amici israeliani, molti sono medici.
Gli amici gli chiedono se se la sente ancora di raccontare.
Dice:”Voglio parlarvi, ma voi avrete poi la responsabilità di dire la verità.
“Ero tornato a Gaza il 25 dicembre. Ero impegnato in Israele con i miei progetti di ricerca. Il sabato è cominciata l’operazione militare israeliana e non ci siamo potuti spostare.
La mia casa si trova a Jabalya, a pochi chilometri dal valico di Eretz. Non potevamo uscire. Avevamo scorte di cibo, ma tutto quello che avevamo nel congelatore era andato a male ed abbiamo usato le scorte di scatolame.
Mia figlia Shana, che ha diciassette anni ed ora è qui all’ospedale, aveva molte batterie, così siamo riusciti a ricaricare i cellulari. Mi ero consultato con i figli prima di decidere di restare quando avremmo potuto andare in una scuola, ma le mie figlie sapevano che nei rifugi non ci si può lavare, non ci sono bagni. E’ umiliante. Anche per questo siamo rimasti, ma soprattutto perchè ci sentivamo sicuri per il fatto che io ero diventato il corrispondente di guerra di radio e televisioni israeliane.
Pensi che due giorni prima della tragedia, si erano avvicinati a casa mia due carri armati. Ci eravamo spaventati. Ho chiamato i miei amici alla televisione e la radio israeliana. Gabi Gabitz è un presentatore molto famoso. Ha interrotto la trasmissione per aiutarmi. Ho chiamato anche un colonnello dell’esercito israeliano che era ad Eretz. Mi hanno detto: non preoccuparti, dacci le coordinate esatte di casa tua, descrivi l’edificio e il colore. Io ho detto: siamo in Salah al-Din, è il palazzo con la pietra bianca come quella di Gerusalemme con portone e finestre rossi.
Dopo poco abbiamo visto i tank indietreggiare ed abbiamo pensato: nessuno ci toccherà mai in questa casa. Mio fratello che avevo convinto a venire da me con la moglie ed i figli, mi ha detto che eravamo salvi.
Poi, il venerdì alle cinque, la tragedia. Quattro delle mie figlie, Bisan di vent’anni, Shan, diciassette, Mayar, quindici, Aya, tredici, e le mie due nipoti, Gaida e Nur, erano nella stessa stanza quando quattro di loro sono state uccise. I carri armati non c’erano, ma sapevamo che era fuoco israeliano. Lo stesso tipo di missili che hanno colpito tante altre case. Il colpo ha centrato la finestra. Sono entrato nella stanza, ho visto le mie figlie fatte a pezzi. Ho urlato, come un pazzo. Sono accorsi quelli che c’erano. Ho chiamato i miei amici alla televisione. Vi prego fate venire le ambulanze a salvarci. Loro mi hano risposto mentre erano in diretta, hanno capito che qualcosa non andava perchè li chiamavo incessantemente.
Così mia figlia Shada, mia nipote Nur e mio fratello Nasser, si sono salvati. Ci sono volute almeno tre ore per l’arrivo delle ambulanze con cui abbiamo raggiunto Israele. I primi soccorsi li abbiamo avuti a Gaza, all’ospedale Kamal Adwan, che non è attrezzato per le emergenze. Quando sono andato via, uno dei miei figli mi ha trattenuto e mi ha detto, ti prego papà, non andare, resta per noi Ti uccideranno. Sono in debito con tutti i miei amici israeliani per la vita di mia figlia, di mio fratello e mia nipote”.
Fa una pausa, il dr. Esseldeen Abu al-Aih. Tira il fiato. Poi ricorda le ore che hanno preceduto la morte tragica delle figlie.
“Il giorno in cui la cannonata ha ammazzato le mie figlie avevamo passato, nonostante tutto, una bella giornata. Avevamo fatto una torta. Io stavo giocando con mio figlio Abdallah quando mia figlia Bassam, la maggiore, è venuta da me e mi ha detto, papà fai le congratulazioni ad Aya (13 anni, morte entrambe nell’attacco israeliano, ndr.), ha avuto il ciclo.
Essendo ginecologo abbiamo riso, le ho chiesto dove se ne fosse accorta, se aveva avvertito dolore. Quello stesso giorno era arrivata, prendendosi un grosso rischio, una delle figlie di mio fatello che nei giorni precedenti era rimasta rifugiata in una moschea. L’abbiamo rimproverata per aver camminato fino a casa. E’ tornata come se fosse stata chiamata al suo destino (la giovane è morta nell’attacco assieme alle figlie del medico, ndr). Quel giorno con le mie figlie avevamo parlato anche del futuro. Dell’offerta pervenutami dalla Toronto University.Anche mia figlia Bassam aveva avuto un’offerta di borsa di studio dalla stessa Università. A Gaza era la prima studentessa universitaria ad aver finito in tre anni la laurea in business management alla Islamic University, che avrebbe conseguito a giugno. Avevamo anche parlato al telefono con l’unica mia figlia che non era a casa, rimasta con la zia dall’inizio della guerra. Ci abbiamo messo almeno 15 minuti per prendere la linea. Le ragazze avevano insistito per parlarle. Come se sapessero che sarebbe stata l’ultima volta. Da quando mia moglie è morta, coi miei ragazzi non siamo solo padre e figli, ma anche amici.
Bisan, avrebbe potuto già trasferirsi in Canada. Era rimasta perchè i miei figli sono molto legati. Mi aveva detto, ci andiamo tutti insieme. Era bravissima. Tutti i miei figli sono bravi, intelligenti. Il più piccolo, Abdallah, è così divertente. Le mie figliei lo coccolano sempre, per non fargli mancare la mamma. Il giorno in cui le mie figlie sono state uccise avevamo parlato anche del cessate-il-fuoco. Ho tirato fuori le foto fatte con Ehud Barak quando era primo Ministro. Venne con sua moglie all’ospedale di Beersheva dove lavoravo. Non avrebbe mai pensato di incontrare un medico palestinese di Gaza tra lo staff.
Disse che il mio lavoro all’ospedale era un bellissimo esempio di convivenza.
Io ci voglio ancora credere, ma per poterlo fare è necessario fare chiarezza su quello che è accaduto a Gaza. I governanti israeliani devono dire la verità. I soldati israeliani hanno detto che da casa mia sparavano dei cecchini. Questa cosa mi fa male, mi fa arrabbiare. Non è vero. Se ci fossero stati cecchini a sparare avrei capito, avrei accettato parte della responsabilità. Ma a casa mia non c’era nessun cecchino. Se pure ci fosse stato perchè non hanno ucciso lui? Non voglio sentire false scuse. Io chiedo che il governo israeliano, in cui ho fiducia, dica: scusate, abbiamo sbagliato. E che si sappia che a Gaza i morti civili di questa guerra sono il 90%. Poi si deve lavorare per tornare a convivere. Altrimenti altri padri, israeliani e palestinesi soffriranno quello che sto soffrendo io. Spero che il sangue versato dalle mie figlie non sia stato versato invano. La morte delle mie fiiglie ha rafforzato in me la convinzione che non c’è altra via che la ricerca della pace. E’ l’unica soluzione. Continuerò a crescere i miei figli insegnandogli questo.
La mia tragedia è entrata in ogni casa. E io mi auguro che questo serva ad aprire il cuore della gente. Lo sa che al funerale delle mie figlie a Jabalya ci sono andate quarantamila persone? E crede siano tutti terroristi? Era gente come noi Gente di Gaza. Io sono medico. Un medico palestinese che lavora in Israele. Qui, dove mia figlia ferita è stata portata e grazie alle cui cure sopravviverà, conosco tutti. Abbiamo un progetto sulla fertilità a cui, io come ginecologo con esperienza internazionale, contribuisco. In questo ospedale ci sono anche tanti bambini palestinesi. Se possiamo convivere qui, perchè non possiamo vivere insieme in altri posti? Per conoscerci, dobbiamo avere rapporti umani. Solo così si costruisce un futuro di vita e non di morte”.
Dalla porta a vetri del reparto esce una collega medico israeliana. Abbraccia il medico palestinese, che si scioglie in un pianto disperato.
Davide Frattini
Yonit Levy presenta ogni sera il telegiornale più seguito del Paese. In questi giorni di guerra, è circondata da generali e analisti militari, politici e soldati della riserva. È accusata di mostrare troppa compassione per le vittime palestinesi e troppo poca per i connazionali bersagliati dai Qassam. «Perché nessuno le tappa la bocca – attacca il manifesto che circola online -, quando si domanda in diretta com’ è possibile che noi abbiamo un solo morto e loro trecento? È inaccettabile che una giornalista televisiva esprima un eccesso di pietà per il nemico e sostenga le sue idee estremiste davanti a tutti. Boicottatela, non guardate il Canale 2». Levy, 32 anni, è criticata anche da parte della sua redazione. Qualche giorno fa sarebbe scoppiata a piangere dopo la diretta, per una discussione con i produttori. «È il simbolo delle news in Israele – la difende Guy Soderi -. Fa le domande che vanno fatte». «La gente le crede, ha fiducia in lei», commenta Ilana Dayan, una delle più famose giornaliste investigative. «Sta pagando il prezzo di essere una donna che parla con voce gentile. È equilibrata, in uno studio dove niente sembra abbastanza nazionalistico», scrive Yehuda Nuriel, critico televisivo del quotidiano Yedioth Ahronoth. Nuriel denuncia la «caccia alle streghe». Che ha colpito anche il poeta Yonatan Geffen. Maariv, il giornale per cui scrive da quarant’ anni, ha accettato di pubblicare un annuncio a pagamento per dirgli «siamo stufi di te» e invitarlo «ad andare a farsi…». Firmato e pagato da Oded Tirah, fino al 2005 presidente della Confindustria israeliana. «Prima di essere sionista, e lo sono, io sono un umanista – replica Geffen, che ha ricevuto minacce di morte -. È giusto partecipare al dramma della popolazione israeliana colpita dai razzi palestinesi, non possiamo certo dimenticare i cadaveri delle vittime civili a Gaza». Il Paese (e i suoi media) avvolti nella bandiera preoccupano un veterano delle guerre e del giornalismo come Nahum Barnea, prima firma di Yedioth. «L’ armonia nazionalista è ammissibile nella gente, non nella stampa, la televisione o i politici. Amira Haas, giornalista di Haaretz, ha detto di essere contenta che i suoi genitori siano morti, perché così non devono assistere ai crimini israeliani nella Striscia. A differenza di lei, io sono dispiaciuto che i miei non ci siano più e a differenza di lei, non credo che Tsahal sia un esercito di criminali di guerra. Ma le immagini da Gaza sono inquietanti. Non c’ è niente di patriottico in un bambino ucciso dall’ artiglieria o in una famiglia seppellita sotto le macerie. Hamas non si preoccupa per loro, noi dovremmo». Gideon Levy, giornalista di Haaretz come Amira Haas, in passato è stato accusato dal ministero degli Esteri di danneggiare l’ immagine di Israele. Nell’ email riceve messaggi come questo: «Va istituito l’ esilio interno, alla russa. Ti devono spedire a Sderot, senza passaporto». Scrive Levy: «Uno spirito malvagio è calato sulla nazione. Un editorialista, cosiddetto illuminato, descrive il fumo nero che si alza da Gaza come uno spettacolo. Questo non è il mio patriottismo. Il mio patriottismo è criticare, fare le domande fondamentali. Questo non è solo il momento dell’ uniforme e della fanfara, ma dell’ umanità e della compassione».
Stefano Sarfati Nahmad
Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame. A distanza di una generazione in nome di ciò che hai subito, hai fatto lo stesso ad altri: li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera.
Ascolta Israele!
Io non rinnego la mia storia, la storia della mia famiglia, che è passata dalla Shoah. Però rinnego te, lo Stato di Israele, perché hai creduto di poter far valere il credito della Shoah per liberarti del popolo palestinese e occupare la sua terra. Ma non è così che vanno le cose, non è così la vita. Il popolo di Israele deve vivere di vita propria e non vivere della morte altrui.
Ascolta Israele!
Io non rinnego la mia storia, la storia della mia famiglia che è passata dalla Shoah, ma io oggi sono palestinese. Io sto dalla parte del popolo palestinese e della sua eroica resistenza. Io sto con l’eroica resistenza delle donne palestinesi che hanno continuato fare bambine e bambini palestinesi nei campi profughi, nei villaggi tagliati a metà dai muri che tu hai costruito, nei villaggi a cui hai sradicato gli ulivi, rubato la terra. Sto con le migliaia di palestinesi chiusi nelle tue prigioni per aver fatto resistenza al tuo piano di annessione.
Ascolta Israele!
Non ci sarà Israele senza Palestina ma potrà esserci Palestina senza Israele, perché il tuo credito, ormai completamente prosciugato dalla tua folle e suicida politica, non era nei confronti del popolo palestinese che contro di te non aveva alzato un dito, ma era nei confronti del popolo tedesco, italiano, polacco, francese, ungherese e in generale europeo; ed è colpevole la sua inazione.
Asolta Israele, ascolta questi nomi: Deir Yassin, Tel al-Zaatar, Sabra e Chatila, Gaza. Sono alcuni nomi, iscritti nella Storia, che verranno fuori ogni qualvolta si vedrà alla voce: Israele.
Vittorio Arrigoni
Sfilano timorosi con gli occhi rivolti in alto, arresi ad un cielo che piove su di loro terrore e morte, timorosi della terra che continua a tremare sotto ogni passo, che crea crateri dove prima c’erano le case, le scuole, le università, i mercati, gli ospedali, seppellendo per sempre le loro vite. Ho visto carovane di palestinesi disperati sfollare da Jabiliya, Beit Hanoun e da tutti i campi profughi di Gaza, ed andare ad affollare le scuole delle Nazioni Unite come terremotati, come vittime di uno tsunami che giorno per giorno sta inghiottendo la Striscia di Gaza e la sua popolazione civile, senza pietà, senza alcuna minima osservanza dei diritti umani e delle convenzioni di Ginevra. Soprattutto senza che nessun governo occidentale muova un solo dito per fermare questi massacri, per inviare qui personale medico, per arrestare il genocidio di cui si sta macchiando Israele in queste ore.
Continuano gli attacchi indiscriminati a ospedali e a personale medico. Ieri dopo aver lasciato l’ospedale di Al Auda a Jabiliya ho ricevuto una telefonata da Alberto, compagno spagnolo dell’Ism, una bomba è caduta sull’ospedale. Abu Mohammed, infermiere, è rimasto seriamente ferito al capo. Giusto poco prima, con lui, comunista, davanti a un caffè, ascoltavo le eroiche gesta dei leader del Fonte Popolare, i suoi miti: George Habbash, Abu Ali Mustafa, Ahmad Al Sadat.
Gli si erano illuminati gli occhi al sapere che le prime nozioni di cosa fosse l’immensa tragedia della Palestina mi erano stati impartiti dai miei genitori, comunisti convinti. Mi aveva chiesto quali erano i leader di sinistra italiani davvero rivoluzionari, del passato, e gli avevo risposto Antonio Gramsci, e quelli di oggi, mi ero preso tempo, gli avrei risposto oggi. Abu Mohammed giace ora in coma nell’ospedale dove lavorava, si è risparmiato la mia deludente risposta.
Verso mezzanotte ho ricevuto un’altra chiamata, questa volta da Eva, l’edificio in cui si trovava era sotto attacco. Conosco bene anche quel palazzo, al centro di Gaza city, ci ho passato una notte con alcuni amici fotoreporters palestinesi, è la sede dei principali media che stanno cercando di raccontare con immagini e parole la catastrofe innaturale che ci ha colpito da dieci giorni. Reuters, Fox news, Russia today, e decine di altre agenzie locali e non, sotto il fuoco di sette razzi partiti da un elicottero israeliano. Sono riusciti a evacuare tutti in tempo prima di rimanere seriamente feriti, i cameramen, i fotografi, i reporter, tutti palestinesi dal momento in cui Israele non permette a giornalisti internazionali di mettere piede a Gaza. Non ci sono obbiettivi “strategici” attorno a quel palazzo, né resistenza che combatte l’avanzata dei mortiferi blindati israeliani, ben più a nord. Chiaramente qualcuno a Tel Aviv non riesce a digerire le immagini dei massacri di civili che si sovrappongono a quelle dei briefing, con rinfresco offerto ai giornalisti prezzolati.
Tramite queste conferenze stampa stanno dichiarando al mondo che gli obbiettivi delle bombe sono solo terroristi di Hamas, e non quei bambini orrendamente mutilati che tiriamo fuori ogni giorno dalle macerie. A Zetun, una decina di chilometri da Jabaliya, un edificio bombardato è crollato sopra una famiglia, una decina le vittime, le ambulanze hanno atteso diverse ore prima di poter correre sul posto, i militari continuano a spararci a contro. Sparano alle ambulanze, bombardano gli ospedali. Pochi giorni fa una “pacifista” israeliana mi avevo detto a chiare lettere che questa è una guerra dove le due parti contrapposte utilizzano tutte le loro armi a disposizione. Invito allora Israele a sganciarci addosso una delle sue tante bombe atomiche che tiene segretamente stivate contro tutti i trattati di non proliferazione nucleare. Ci tiri addosso la bomba risolutiva, terminino l’inumana agonia di migliaia di corpi maciullati nelle corsie sovraffollate degli ospedali che ho visitato. Ho scattato alcune fotografie in bianco e nero ieri, alle carovane di carretti trascinati dai muli, carichi all’inverosimile di bambini sventolanti un drappo bianco rivolto verso il cielo, i volti pallidi, terrorizzati.
Riguardando oggi quegli scatti di profughi in fuga, mi sono corsi i brividi lungo la schiena. Se potessero essere sovrapposte a quelle fotografie che testimoniano la Naqba del 1948, la catastrofe palestinese, coinciderebbero perfettamente. Nel vile immobilismo di stati e governi che si definiscono democratici, c’è una nuova catastrofe in corso da queste parti, una nuova Naqba, una nuova pulizia etnica che sta colpendo la popolazione palestinese.
Fino a qualche istante fa si contavano 650 morti, 153 bambini uccisi, più di 3000 i feriti, decine e decine i dispersi. Il computo delle morti civili in Israele, fortunatamente, rimane fermo a quota 4. Dopo questo pomeriggio il bilancio sul versante palestinese va drammaticamente aggiornato, l’esercito israeliano ha iniziato a bombardare le scuole delle Nazioni Unite. Le stesse che stavano raccogliendo i migliaia di sfollati evacuati dietro minaccia di un imminente attacco. Li hanno scacciati dai campi profughi, dai villaggi, solo per raccoglierli tutti in posto unico, un bersaglio più comodo. Sono tre le scuole bombardate oggi. L’ultima, quella di Al Fakhura, a Jabiliya, è stata centrata in pieno. Più di 40 morti. In pochi istanti se ne sono andati uomini, anziani, donne, bambini che si credevano al sicuro dietro le mura dipinte in blu con i loghi dell’Onu. Le altre 20 scuole delle Nazioni Unite tremano. Non c’è via di scampo nella Striscia di Gaza, non siamo in Libano, dove i civili dei villaggi del Sud sotto le bombe israeliane evacuarono al nord, o in Siria e in Giordania. La Striscia di Gaza da enorme prigione a cielo aperto, si è tramutata in una trappola mortale. Ci si guarda sconvolti e ci si chiede se il consiglio di sicurezza dell’Onu riuscirà questa volta a pronunciare un’unanime condanna, dopo che anche le sue scuole sono prese di mira. Qualcuno fuori di qui ha deciso davvero di fare un deserto, e poi chiamarlo pace. Ci aspetta una lunga nottata sulle ambulanze, anche se l’alba da queste parti è ormai una chimera. I ripetitori dei cellulari lungo tutta la Striscia sono stati distrutti, abbiamo rinunciato a contarci.
Spero di riuscire a rivedere un giorno tutti gli amici che non posso più contattare, ma non mi illudo. Qui a Gaza siamo tutti bersagli ambulanti, nessuno escluso. Mi ha appena contattato il consolato Italiano, dicono che domani evacueranno l’ultima nostra concittadina. Una anziana suorina che da ventanni anni abitava nei pressi della chiesa cattolica di Gaza,ormai adottata dai palestinesi della Striscia. Il console mi ha gentilmente pregato di cogliere quest’ultima opportunità, aggregarmi alla suora e scampare da questo inferno. L’ho ringraziato per la sua offerta, ma da qui non mi muovo, non ce la faccio. Per i lutti che abbiamo vissuto, prima ancora che italiani, spagnoli, inglesi, australiani, in questo momento siamo tutti palestinesi. Se solo per un minuto al giorno lo fossimo tutti, come molti siamo stati ebrei durante l’olocausto, credo che tutto questo massacro ci verrebbe risparmiato. Restiamo umani.
Luisa Morgantini
Non una parola, non un segno di dolore per le centinaia di persone uccise, donne, bambini, anziani e militanti di Hamas, anche loro persone. Case sventrate, palazzi interi, ministeri, scuole, farmacie, posti di polizia. Ma dove è finita la nostra umanità. Dove sono i Veltroni, con i loro I care, come si può tacere o difendere la politica di aggressione israeliana. I palestinesi tutti pagano il prezzo dell’incapacità della Comunità internazionale di far rispettare a Israele la legalità internazionale e di cessare la sua politica coloniale. Certo Hamas con il lancio dei razzi impaurisce e è una minaccia contro la popolazione civile israeliana, azioni illegali e criminali, da condannare. Bisogna fermarli. Ma basta con l’impunità di Israele e dei ricatti dei loro gruppi dirigenti. Dal 1967 Israele occupa militarmente i territori palestinesi. Furto di terra, demolizione di case, check point dove i palestinesi vengono trattati con disprezzo, picchiati, umiliati, colonie che crescono a dismisura portando via terra, acqua, distruggendo coltivazioni. Migliaia di prigionieri politici, ai quali sono impedite anche le visite dei familiari.
Ma voi dirigenti politici, avete mai visto la disperazione di un contadino palestinese che si abbraccia al suo ulivo mentre un bulldozer glielo porta via e dei soldati che lo pestano con il fucile per farglielo lasciare, o una donna che partorisce dietro un masso e il marito taglia il cordone ombelicale con un sasso perché soldati israeliani al check point non gli permettono di passare per andare all’ospedale (…). Avete visto il muro che taglia strade e quartieri che toglie terre ai villaggi che divide palestinesi da palestinesi, che annette territorio fertile e acqua a Israele, un muro considerato illegale dalla Corte internazionale di giustizia. Avete visto al valico di Eretz i malati di cancro rimandati indietro per questioni di sicurezza, negli ultimi 19 mesi sono 283 le persone morte per mancanze di cure, avrebbero dovuto essere ricoverate negli ospedali all’estero, ma non sono stati fatti passare malgrado medici israeliani del gruppo Physician for human rights garantissero per loro. (…)
Avete visto la paura e il terrore negli occhi dei bambini, i loro corpi spezzati. Certo anche quelli dei bambini di Sderot, la loro paura non è diversa, e anche i razzi uccidono ma almeno loro hanno dei rifugi dove andare e per fortuna non hanno mai visto palazzi sventrati o decine di cadaveri intorno a loro o aerei che li bombardano a tappeto. Basta un morto per dire no, ma anche le proporzioni contano: dal 2002 a oggi per lanci di razzi di estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone. Troppe, ma a Gaza nello stesso tempo sono stati distrutte migliaia di case e uccise più di tre mila persone tra loro centinaia di bambini che non tiravano razzi.
Dopo le manifestazioni di Milano dove sono state bruciate bandiere israeliane, voi dirigenti politici avete urlato la vostra condanna. Ne avete tutto il diritto. Io non brucio bandiere né israeliane né di altri paesi e penso che Israele abbia il diritto di esistere come uno stato normale, uno stato per i suoi cittadini, con le frontiere del 1967, molto più ampie di quelle della partizione della Palestina decisa dall’Onu del 1947. Avrei voluto sentire la vostra indignazione per tante morti e tanta distruzione, per tanta arroganza, per tanta disumanità, per tanta violazione del diritto internazionale e umanitario. Avrei voluto sentirvi dire ai governanti israeliani: cessate l’assedio a Gaza, fermate la costruzione delle colonie in Cisgiordania, finitela con l’ occupazione militare, rispettate e applicate le risoluzioni dell’Onu, questo è il modo per togliere ogni spazio ai fondamentalismi e alle minacce contro Israele. Lo hanno detto migliaia di israeliani a Tel Aviv: ci rifiutiamo di essere nemici, basta con l’occupazione, fermate il massacro. Dio mio in che mondo terribile viviamo!
Paolo Barnard
Marco Travaglio ha appena scritto un commento su Gaza, diramato dalla sua casa editrice Chiarelettere, che inizia così: “Israele non sta attaccando i civili palestinesi. Israele sta combattendo un’organizzazione terroristica come Hamas che, essa sì, attacca civili israeliani”.
Bene.
Il compianto Edward Said, palestinese e docente di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York, scrisse anni fa un saggio intitolato “The Treason of the Intellectuals” (il tradimento degli intellettuali). Si riferiva alla vergognosa ritirata delle migliori menti progressiste d’America di fronte al tabù Israele. Ovvero come costoro si tramutassero nelle proverbiali tre scimmiette – che non vedono, non sentono, non parlano – al cospetto dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra che il Sionismo e Israele Stato avevano commesso e ancora commettono in Palestina, contro un popolo fra i più straziati dell’era contemporanea.
E di tradimento si tratta, senza ombra di dubbio, e cioè tradimento della propria coscienza, delle proprie facoltà intellettive, e del proprio mestiere. Gli intellettuali infatti hanno a disposizione, al contrario delle persone comuni, ogni mezzo per sapere, per approfondire. Ma nel caso dei 60 anni di conflitto israelo-palestinese, con la mole schiacciate e autorevole di documenti, di prove e di testimonianze che inchiodano lo Stato ebraico, non sapere e non pronunciarsi può essere solo disonestà e vigliaccheria. Poiché in quella tragedia la sproporzione fra i rispettivi torti è così colossale che non riconoscere nel Sionismo e in Israele un “torto marcio”, una colpa grottescamente e atrocemente superiore a qualsiasi cosa la parte araba abbia mai fatto o stia oggi facendo, è ignobile. E’ un tradimento della più elementare pietas, del cuore stesso dei Diritti dell’Uomo e della legalità moderna. E’ complicità, sì, com-pli-ci-tà nei crimini ebraici in Palestina. Leggete più sotto.
I traditori nostrani abbondano, particolarmente nelle fila dell’ala ‘progressista’. Marco Travaglio guida oggi il drappello, che vede Furio Colombo, Gad Lerner, Umberto Eco, Adriano Sofri, Gustavo Zagrebelsky, Walter Veltroni, Davide Bidussa et al., affiancati dell’instancabile lavoro di falsificazione della cronaca di tutti i corrispondenti a Tel Aviv delle maggiori testate italiane. E ci si chiede: perché lo fanno? Personalmente non mi interessa la risposta, e non voglio neppure addentrarmi in ipotesi contorte del tipo ‘il potere della lobby ebraica’, la carriera, o simili.
Ciò che conta è il danno che costoro causano, che è, si badi bene, superiore a quello delle armi, delle torture, delle pulizie etniche, del terrorismo. Molto superiore.
Perché una cosa sia chiara a tutti: l’unica speranza di porre fine alla barbarie in Palestina sta nella presa di posizione decisa dell’opinione pubblica occidentale, nella sua ribellione alla narrativa mendace che da 60 anni permette a Israele di torturare un intero popolo innocente e prigioniero nell’indifferenza del mondo che conta, quando non con la sua attiva partecipazione. Ma se gli intellettuali non fanno il loro dovere di denuncia della verità, se cioè non sono disposti a riconoscere ciò che l’evidenza della Storia gli sbatte in faccia da decenni, e se non hanno il coraggio di chiamarla pubblicamente col suo nome, che è: Pulizia Etnica dei palestinesi, mai si arriverà alla pace laggiù. E l’orrore continua. Essi, di quegli orrori, hanno una piena e primaria corresponsabilità.
L’evidenza della Storia di cui parlo è in primo luogo: che il progetto sionista di una ‘casa nazionale’ ebraica in Palestina nacque alla fine del XIX secolo con la precisa intenzione di cancellare dalla ‘Grande Israele’ biblica la presenza araba, attraverso l’uso di qualsiasi mezzo, dall’inganno alla strage, dalla spoliazione violenta alla guerra diretta, fino al terrorismo senza freni. I palestinesi erano condannati a priori nel progetto sionista, e lo furono 40 anni prima dell’Olocausto. Quel progetto è oggi il medesimo, i metodi sono ancor più sadici e rivoltanti, e Israele tenterà di non fermarsi di fronte a nulla e a nessuno nella sua opera di Pulizia Etnica della Palestina. Questo accadde, sta accadendo e accadrà. Questo va detto, illustrato con la sua mole schiacciante di prove autorevoli, va gridato con urgenza, affinché il pubblico apra finalmente gli occhi e possa agire per fermare la barbarie.
In secondo luogo: che la violenza araba-palestinese, per quanto assassina e ingiustificabile (ma non incomprensibile), è una reazione, REAZIONE, disperata e convulsa, a oltre un secolo di progetto sionista come sopra descritto, in particolare a 60 anni di orrori inflitti dallo Stato d’Israele ai civili palestinesi, atrocità talmente scioccanti dall’aver costretto la Commissione dell’ONU per i Diritti Umani a chiamare per ben tre volte le condotte di Israele “un insulto all’Umanità” (1977, 1985, 2000). La differenza è cruciale: REAGIRE con violenza a violenze immensamente superiori e durate decenni, non è AGIRE violenza. E’ immorale oltre ogni immaginazione invertire i ruoli di vittima e carnefice nel conflitto israelo-palestinese, ed è quello che sempre accade. E’ immorale condannare il “terrorismo alla spicciolata” di Hamas e ignorare del tutto il Grande terrorismo israeliano.
Le prove. Non posso ricopiare qui migliaia di documenti, citazioni, libri, atti ufficiali e governativi, rapporti di intelligence americana e inglese, dell’ONU, delle maggiori organizzazioni per i Diritti Umani del mondo, di intellettuali e politici e testimoni ebrei, e tanto altro, che dimostrano oltre ogni dubbio quanto da me scritto. Quelle prove sono però facilmente consultabili poiché raccolte per voi e rigorosamente referenziate in libri come “La Pulizia Etnica della Palestina”, di Ilan Pappe, Fazi ed., o “Pity The Nation”, di Robert Fisk, Oxford University Press, e “Perché ci Odiano”, Paolo Barnard, Rizzoli BUR, fra i tantissimi. O consultabili nei sitihttp://www.btselem.org/index.asp, http://www.jewishvoiceforpeace.org, http://zope.gush-shalom.org/index_en.html, http://www.kibush.co.il, http://rhr.israel.net, http://otherisrael.home.igc.org. O ancora leggendo gli archivi di Amnesty International o Human Rights Watch, o ne “La Questione Palestinese” della libreria delle Nazioni Unite a New York.
E torno al “tradimento degli intellettuali” nostrani. Vi sono aspetti di quel fenomeno che sono fin disperanti. Il primo è l’ignoranza in materia di conflitto israelo-palestinese di alcuni di quei personaggi, Marco Travaglio per primo; un’ignoranza non scusabile, per le ragioni dette sopra, ma anche ‘sospetta’ in diversi casi.
Un secondo aspetto è l’ipocrisia: l’evidenza di cui sopra è soverchiante nel descrivere Israele come uno Stato innanzi tutto razzista, poi criminale di guerra, poi terrorista, poi Canaglia, poi persino neonazista nelle sue condotte come potere occupante. Ricordo il 17 novembre 1948, quando Aharon Cizling, allora ministro dell’agricoltura della neonata Israele, sorta sui massacri dei palestinesi innocenti, disse: “Adesso anche gli ebrei si sono comportati come nazisti, e tutta la mia anima ne è scossa”. Ricordo Albert Einstein, che sul New York Times del dicembre 1948 definì l’emergere delle forze di Menachem Begin (futuro premier d’Israele) in Palestina come “un partito fascista per il quale il terrorismo e la menzogna sono gli strumenti”. Ricordo Ephrahim Katzir, futuro presidente di Israele, che nel 1948 mise a punto un veleno chimico per accecare i palestinesi, e ne raccomandò l’uso nel giugno di quell’anno. Ricordo Ariel Sharon, che sarà premier, e che nel 1953 fu condannato per terrorismo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione 101, dopo che ebbe rinchiuso intere famiglie palestinesi nelle loro abitazioni facendole esplodere. Ricordo l’ambasciatore israeliano all’ONU, Abba Eban, che nel 1981 disse a Menachem Begin: “Il quadro che emerge è di un Israele che selvaggiamente infligge ogni possibile orrore di morte e di angoscia alle popolazioni civili, in una atmosfera che ci ricorda regimi che né io né il signor Begin oseremmo citare per nome”. Ricordo la risoluzione ONU A/RES/37/123, che nel dicembre del 1982 definì il massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila sotto la “personale responsabilità di Ariel Sharon” un “atto di genocidio”. Ricordo le parole dello Special Rapporteur dell’ONU per i Diritti Umani, il sudafricano John Dugard, che nel febbraio del 2007 scrisse che l’occupazione israeliana era Apartheid razzista sui palestinesi, e che Israele doveva essere processata dalla Corte di Giustizia dell’Aja. Ricordo le parole dell’intellettuale ebreo Norman G. Finkelstein, i cui genitori furono vittime dell’Olocausto: “Ma se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti, devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti.” Ricordo che esistono prove soverchianti che Israele usa bambini come scudi umani; che lascia morire gli ammalati ai posti di blocco; che manda i soldati a distruggere i macchinari medici nei derelitti ospedali palestinesi; che viola dal 1967 tutte le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga; che ammazza i sospettati senza processo e con loro centinai di innocenti; che punisce collettivamente un milione e mezzo di civili esattamente come Saddam Hussein fece con le sue minoranze shiite; che massacra 19.000 o 1.000 civili a piacimento in Libano (1982, 2006) e poi reclama lo status di vittima del ‘terrorismo’. Ricordo che il Piano di Spartizione della Palestina del 1947 fu rigettato da Ben Gurion prima ancora che l’ONU lo adottasse, e che esso privava i palestinesi di ogni risorsa importante (dai Diari di Ben Gurion). Ricordo che la guerra arabo-israeliana del 1948 fu una farsa dove mai l’esercito ebraico fu in pericolo di sconfitta, tanto è vero che Ben Gurion diresse in quei mesi i suoi soldati migliori alla pulizia etnica dei palestinesi (sempre dai Diari di Ben Gurion); che la guerra dei Sei Giorni nel 1967 fu un’altra menzogna, dove ancora Israele sapeva in aticipo di vincere facilmente “in 7 giorni”, come disse il capo del Mossad Meir Amit a McNamara a Washington prima delle ostilità, e mentre l’egiziano Nasser tentava disperatamente di mediare una pace (dagli archivi desecretati della Johnson Library, USA); che gli incontri di Camp David nel 2000 furono un inganno per distruggere Arafat, come ho dimostrato in “Perché ci Odiano” intervistando i mediatori di Clinton; che i governi di Israele hanno redatto 4 piani in sei anni per la distruzione dell’Autorità Palestinese sancita dagli accordi di Oslo mentre fingevano di volere la pace (nomi: Fields of Thorns, Dagan, The Destruction of the PA, ed Eitam); che la tregua con Hamas che ha preceduto l’aggressione a Gaza fu rotta da Israele per prima il 4 novembre del 2008 (The Guardian, 5/11/08 – Ha’aretz, 30/12/08), con l’assassino di 6 palestinesi. E queste sono solo briciole della mole di menzogne che ci hanno raccontato da sempre sulla ‘epopea’ sionista.
Ricordo infine Ben Gurion, il padre di Israele, che lasciò scritto: “Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre, per ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba”. E ancora: “C’è bisogno di una reazione brutale. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo straziarli senza pietà, donne e bambini inclusi. Durante l’operazione non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti”. Quell’uomo pronunciò quelle agghiaccianti parole 20 anni prima della nascita dell’OLP, più di 30 anni prima della nascita di Hamas, 50 anni prima dell’esplosione del primo razzo Qassam su Sderot in Israele.
Ricordo ai nostri ‘intellettuali’ di andarle a leggere queste cose, che sono in libreria accessibili a tutti, prima di emettere sentenze.
E l’ipocrisia sta nel fatto che questi negazionisti di tali orrori storici possono scrivere le enormità che scrivono sulla tragedia di Gaza, sulla Pulizia Etnica dei palestinesi, e possono dichiararsi filo-israeliani “appassionati” (Travaglio) senza essere ricoperti di vergogna dal mondo della cultura, dai giornalisti e dai politici come lo sarebbe chiunque negasse in pubblico l’orrore patito per decenni dalle vittime dell’Apartheid sudafricana, o i massacri di pulizia etnica di Srebrenica e in tutta la ex Jugoslavia.
Il mio appello a questi colti mistificatori è: continuare a seppellire sotto un oceano di menzogne, di ipocrisia, sotto l’indifferenza allo strazio infinito di un popolo, sotto la vostra paura o la vostra convenienza, la grottesca sproporzione fra il torto di Israele e quello palestinese, causa e causerà ancora morti, agonie, inferno in terra per esseri umani come noi, palestinesi e israeliani. Sono più di cento anni che il nostro mondo li sta umiliando, tradendo, derubando, straziando, con Israele come suo sicario. Sono 60 anni che chiamiamo quelle vittime “terroristi” e i terroristi “vittime”. Questo è orribile, contorce le coscienze. Non ci meravigliamo poi se i palestinesi e i loro sostenitori nel mondo islamico finiscono per odiarci. Dio sa quanta ragione hanno, cari ‘intellettuali’.
Stefano Sarfati Nahmad
La politica, intesa come politica di rappresentanza e di potere, soccombe sotto le bombe israeliane. Veramente era già morta sotto tutte le bombe cadute in quella striscia di terra, ma come una zombie ogni volta si è rimessa a camminare, e nemmeno la sua ultima immagine post-moderna, giovane bella e di colore, potrà trasformarla in un essere vivente.
Tolto dunque quello che non è, cosa resta? Quelli e quelle che fanno società, che è poi l’obiettivo della politica. Fanno società ad esempio le donne e gli uomini israeliani e palestinesi che lavorano insieme a progetti che camminano con le proprie gambe; fanno società donne israeliane e palestinesi in relazione tra loro nella quotidianità degli scambi materiali; fa società il buon senso femminile così come è raccontato magistralmente nel film Il Giardino dei Limoni: alla battaglia condotta dalla donna palestinese corrisponde un cambiamento nella moglie del ministro israeliano. D’altra parte, alla solitudine del ministro israeliano, corrisponde una carriera all’ombra del potere dell’avvocato palestinese.
Ed è questa la mia battaglia: chiamare politica il fare società, chiamare “morto che cammina” la politica di rappresentanza e di potere.
Mail di Anna Faggi
Un mese fa avevamo lanciato l’appello “Mettiamo radici al Dal Molin” per acquistare un terreno per il Presidio Permanente; ora abbiamo quasi ultimato le procedure burocratiche: di seguito vi riproponiamo l’appello, mentre per sapere come partecipare all’acquisto collettivo v. l’allegato. Alle migliaia di donne e uomini che, da tutta Italia, hanno affiancato con il proprio sostegno e con la propria partecipazione la mobilitazione dei vicentini contro la costruzione della nuova base USA, chiediamo di contribuire alla realizzazione del nostro progetto di acquistare un terreno per il Presidio No Dal Molin. Abbiamo alle spalle più di due anni di lotta,iniziative ed azioni, tutte rivolte ad un unico obiettivo: bloccare la costruzione della nuova base militare. Tutto ciò è stato sinora possibile grazie all’impegno di centinaia di donne e uomini che hanno unito i loro sogni, speranze ed ideali in un unico luogo di ritrovo, discussione e socialità: il Presidio Permanente che dal 16 gennaio 2007 è il simbolo di una lotta comune. Ora questo luogo, simbolo e punto di riferimento per tutti coloro che, a Vicenza ed altrove, si impegnano nella difesa dei beni comuni e della pace, deve essere rafforzato, uscendo dalla precarietà vissuta fino ad oggi. Il periodo che ci aspetta è decisivo per bloccare la nuova base Usa, ed il rischio di non avere un luogo fisico per il Presidio finirebbe per mettere in difficoltà la lotta che da oltre due anni stiamo conducendo, rendendola più debole. La posta in gioco è quindi troppo alta, e l’autosostegno economico dei vicentini, che ha permesso al Presidio di continuare caparbiamente ad esistere, oggi non basta più: abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti. L’intenzione è quella di acquistare, tutti assieme, un terreno adiacente all’area Dal Molin per far sì che il Presidio metta radici e diventi definitivo. Per far questo, oltre alla solita determinazione e piccola vena di follia, servono somme ingenti: per questo rivolgiamo un appello a tutte e tutti, in Italia e all’estero, perché ci aiutino contribuendo con l’acquisto di una o più quote da 100 Euro per il nuovo Presidio o, in alternativa, divenendo “sostenitore attivo” con il versamento di 50 Euro (25 Euro per studenti e precari).Per seguire la progressione dei lavori, per info e aggiornamenti visita http://www.mettiamoradicialdalmolin.blogspot.com/ e www.nodalmolin.it
L’acquisto di una quota di proprietà indivisa del terreno del Presidio Permanente, al prezzo minimo di € 100,00-., determina il possesso di una percentuale dell’acquisto totale in proporzione all’importo versato.- si tratta di un formale rogito notarile e, quindi, sarà necessaria la presenza fisica a Vicenza di tutti gli acquirenti il giorno della firma dell’atto- chi non potrà essere presente dovrà farsi rappresentare da una persona munita di procura notarile. La procura può essere collettiva- l’importo di € 100,00 comprende il costo di una quota del terreno, il pagamento del rogito notarile ed il pagamento di tutte le tasse e imposte di registrazione- per ogni versamento di quota ci deve pervenire il modulo compilato e firmato, con l’indicazione dei dati necessari per la redazione dell’atto, accompagnato dalla fotocopia del codice fiscale e di un documento d’identità- nel caso di coniugi in comunione dei beni, l’atto dovrà essere firmato da entrambi e, quindi, ci servono tutti i datiDonazioni- i versamenti di importo inferiore a € 100,00 non varranno per l’acquisto di una quota ma saranno considerate donazioni di sostegno- tutte le donazioni raccolte verranno accumulate in un apposito conto ed utilizzate per i costi necessari al corretto realizzo dell’operazione, ma anche per far fronte alle spese necessarie per continuare la battaglia contro la costruzione della nuova base e che saranno di volta in volta decise dall’assemblea del Presidio Permanente Scarica di seguito il modulo da compilare per l’acquisto di una quota di terreno del Presidio Permanente.
Nei giorni scorsi in molti abbiamo espresso preoccupazione per lo scenario in cui giungiamo all’appuntamento del 17 che vede due manifestazioni con molti limiti speculari.
Non è possibile modificare lo stato di cose ma intendiamo garantire comunque una presenza anche nella piazza romana che rappresenterà comunque un appuntamento di grande rilievo.
Abbiamo avuto modo di confrontarci con molti firmatari dell’appello ” Non si può rimanere a guardare! ” sottoscritto da ARCI, ACLI, Legambiente e crediamo si possa proporre una presenza anche a Roma in relazione con la manifestazione di Assisi.
Vi chiediamo di firmare, di raccogliere adesioni.
Per coloro che sceglieranno di confluire nella manifestazione di Roma proponiamo di costruire una presenza organizzata con un grande striscione dell’appello ” Non si può rimanere a guardare! ” che sarà presente anche ad Assisi, con le bandiere della pace, con un numero significativo di persone e organizzazioni.
Andrea Baglioni, Stefano Ciccone, Chiara Luti, Jones Mannino, Marta Ragozzino, Giuseppe Reitano
Questo il testo:
Bisogna fermare immediatamente il massacro di civili a Gaza.
E’ urgente un’iniziativa politico-diplomatica che interrompa la violenta escalation del governo israeliano.
Va rotta l’inerzia dei governi occidentali e la marginalizzazione impotente degli organismi internazionali che, di fatto, lasciano campo libero alle operazioni militari israeliane.
Per queste ragioni abbiamo sottoscritto in tanti l’appello promosso dall’Arci, Legambiente e le Acli sentendo fortemente l’urgenza e la necessità di un appuntamento nazionale che desse voce e visibilità alla protesta contro il massacro in corso.
Il 17 gennaio ci saranno due manifestazioni nazionali, ad Assisi e a Roma, per fermare la strage di Gaza.
Si rompe così un’inerzia della società civile del nostro paese di fronte alla tragedia in medio oriente: una tragedia che precipita nel massacro di oggi ma che è iniziata molto tempo fa con Gaza ridotta alla fame, la costruzione del muro, il lancio di razzi, la crescita degli opposti integralismi, la fine di una speranza di pace.
Ma anche queste due manifestazioni sono il segno del ritardo del movimento per la pace italiano che non ha permesso di costruire una grande iniziativa contro la guerra: chiara negli obiettivi, limpida nelle parole, coraggiosa nel denunciare tutte le responsabilità della guerra, anche le responsabilità nostre, europee e occidentali.
Davanti alla spaventosa catastrofe umanitaria che colpisce Gaza e annichilisce il mondo intero, è necessario costruire un cambiamento reale nelle pratiche, nelle dinamiche e nelle parole d’ordine di tutte le forze che si battono contro l’occupazione a Gaza e in Cisgiordania , per costruire una soluzione reale dei conflitti in tutta l’area. Un cambiamento che sia in grado di andare oltre la denuncia, la testimonianza, la solidarietà, e che sia capace di produrre politica e diplomazia, di spostare le scelte dei governi e degli organismi internazionali, di incidere sempre di più nelle coscienze. Non basta denunciare il massacro ma è necessario costruire una proposta politica.
Di questo hanno bisogno gli uomini e le donne che si battono per la pace e per il diritto al futuro in Israele, a Gaza e nei Territori Occupati.
Noi, che fra migliaia di altri, abbiamo sottoscritto l’appello ” Non si Può rimanere a guardare! ” crediamo sia utile
far vivere anche nella manifestazione di Roma le culture e le pratiche della tradizione del movimento pacifista e nonviolento italiano in relazione con l’appuntamento di Assisi.
Vogliamo essere presenti con le nostre forme, le nostre proposte, con le bandiere della pace e con la forza della nonviolenza. Proponiamo a tutti coloro che scenderanno in piazza a Roma, fuori da logiche identitarie e unilaterali, un luogo di espressione e di confronto, una presenza forte, ricca, visibile e articolata.
Vogliamo manifestare con le donne e gli uomini palestinesi che vivono in Italia, di cui abbiamo conosciuto negli anni l’intelligenza e la sensibilità, l’apertura e l’amore per la democrazia e che troppe volte sono rimasti soli nelle mobilitazioni di queste settimane e di questi ultimi anni. Vogliamo essere a fianco di quanti in Israele e nelle comunità ebraiche di tutto il mondo rifiutano la logica della guerra e dell’oppressione battendosi contro la pazzia omicida del governo israeliano.
Il 17 gennaio vogliamo manifestare a Roma e ad Assisi per rilanciare l’impegno contro il massacro e ribadire che un altro mondo è possibile.
Chiediamo pace, libertà e futuro per il popolo palestinese nella certezza che solo così ci potrà esser pace, liberta e futuro per il popolo Israeliano.
Ricominciamo dal 17 gennaio per dire: DUE POPOLI: UNA PACE, UNA LIBERTA’, UN FUTURO
,
per adesioni pergaza@libero.it
Andrea Baglioni, Stefano Ciccone, Michele Citoni, Chiara Luti, Jones Mannino, Marta Ragozzino, Giuseppe Reitano
Ettore Masina, Luciana Castellina, Paolo Hutter,Maria Luisa Boccia, Marco Roncaccia, Alfio Nicotra, Lea Melandri, Giuseppe Mura, Barbara Slamic, Chiara Giorgi, Clelia Mori, Giovanna Cogliati Dezza, Edoardo Turi, Nuccio Iovene, Ciro Pesacane, Sergio Ferraris, Massimo Torelli (FIRENZE), Giuseppe Mura, Barbara Slamic, Beppe Pavan (PINEROLO), Chiara Giorgi (ROMA), Catia Papa (ROMA), Elettra Deiana, Rita Corneli (ROMA), Linda Santilli, Annamaria Rivera, Giovani Comunisti Roma, Francesco Saita, Pietro Masina (ROMA), Alfredo Capone,
Alessandro Langiu (TARANTO), Giovanna La Maestra (MESSINA), Clelia Mori, Annamaria Mampieri, Paolo Filippini, Cristina Papa (ROMA), Andrea Olla Pinella Depau (CAGLIARI), Franca Balsamo (TORINO), Maria Laura Scarino, (ROMA), Claudio Zaza, Valeria Andò (PALERMO), Caterina Botti (ROMA), Giorgia Caso (ROMA), Gabriella Nasini, Mirella Olivari, Bruno Tassan Viol, Maria Piacente, Fortunato Maria Cacciatore, Orazio Leggiero (BARI), Giovanni Rocco, Gino Buratti, Angela Gerardi, Francesca Romana Scandariato (ROMA), Simona Mastrangelo (ROMA), Giampiero Filippi (ROMA), Teresa Adamo (ROMA), Federica Dagnino, Sara Gandini, Tiziana Cristiano, Simona Iadecola, Vincenzo Motta (ROMA), Fabio Scaramella (ROMA), Alessia Colone, Andrea Folchitto (ROMA), Stefano Galieni (ROMA), Silvia Mandillo (ROMA), Giancarlo Cuccia, Chiara Guida, Maurizio Archilei, Nicola Lo Russo, Silvia Buonomo (ROMA), Maddalena Bolognini, Alessandra Malatesta (ROMA), Salvo Lipari(PALERMO), Saverio Cipriano(PALERMO), Andrea Pacioni, Viola Di Massimo (ROMA) Monica Pasquino, Luca Lo Bianco, Valeria Castelli, Paola Santini, Moreno Biagioni, Sergio Minni, Gianfranco Proietti, Cristina Papa, Emilia Secci, Wanda Mannino, Fiorella Bomè, Laura Meoni, Patrizia Salerno, Cristina Morcan, Gianni Rocco (PADOVA), Ivana Dama, Alessio Miceli (Paderno Dugnano, Mi), Michela Pulga, Alessandro Pulga, Dimer Pulga, Veronesi Tiziana, Salvatore Chessa, Maria Rosa Di Maso, Sabina Jez, Maria Paola Fiorendoli, Stefania Paolini …
Sono tantissime, e continuano ad arrivare, le adesioni all’appello che abbiamo promosso insieme ad altre organizzazioni nazionali, gruppi locali, personalità, famiglie, cittadini e cittadine.
Invitiamo tutti e tutte a raccogliere l’invito lanciato oggi dalla Tavola della Pace per incontrarsi ad Assisi sabato 17 gennaio.
Iniziamo a costruire nelle nostre città, nelle nostre comunità, nelle scuole, nei luoghi di lavoro una grande partecipazione, per essere in tanti e tante ad Assisi e gridare:
C’è un modo per evitare il massacro di civili. C’è un modo per salvare il popolo palestinese. C’è un modo per garantire la sicurezza di Israele e del suo popolo. C’è un modo per dare una possibilità alla pace in Medio Oriente. C’è un modo per non arrendersi alla legge del più forte e affermare il diritto internazionale.
CESSATE IL FUOCO IN TUTTA L’AREA
RITIRO IMMEDIATO DELLE TRUPPE ISRAELIANE
FINE DELL’ASSEDIO DI GAZA
PROTEZIONE UMANITARIA INTERNAZIONALE
ACLI, ARCI, LEGAMBIENTE
Donne e uomini per la pace in Palestina di Chioggia
Dal 27 dicembre Israele, terza forza aerea al mondo, ha scatenato una violentissima aggressione contro Gaza, una striscia di terra di 378 km2 popolata da un milione e mezzo di palestinesi, uccidendo nei primi sette giorni più di 500 esseri umani indifesi, tra cui moltissimi bambini.
Il tutto con la complicità degli Stati Uniti e dell’Europa, e il sostegno di un’informazione manipolata, conformista e opportunista.
Non è vero che questa carneficina è la risposta ai razzi, artigianali e per fortuna poco pericolosi lanciati da Hamas, che pure forniscono un alibi all’assalto, bensì un’azione premeditata e preparata da molto tempo.
Non è vero che Hamas, movimento integralista di cui condanniamo metodi e obiettivi, ha rotto la tregua di sei mesi, scaduta il 19 dicembre: è Israele che non ha rispettato i patti sottoscritti, uccidendo, dopo la firma dell’accordo, 25 palestinesi (gli ultimi sette nel novembre scorso) e non ha posto fine al blocco di Gaza.
Da un anno e mezzo Gaza è una prigione per tutti i suoi abitanti, ridotti alla fame e strangolati da un embargo selvaggio, un nodo scorsoio alla gola, allentato e ristretto a piacimento da Israele, che ha negato acqua, cibo, medicine, elettricità, carburante, e che ha distrutto ogni risorsa economica. “Un assedio brutale che viola i diritti umani fondamentali e le normative internazionali”, dice Jeff Halper, storico pacifista israeliano.
È vero, invece, che lo scopo di Israele è ridurre allo stremo un intero popolo cui imporre una vita senza dignità e umanità: da quarantuno anni continua l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, “un’occupazione brutale che umilia, affama, nega il lavoro, demolisce le case, distrugge i raccolti, ammazza i bambini, incarcera i minori senza processo in condizioni terribili, lascia che i bambini piccoli muoiano ai check-point e diffonde bugie”, come afferma Nurit Peled, scrittrice pacifista israeliana.
Oggi anche la Cisgiordania è diventata una prigione, circondata da un muro di 732 km che l’ha spezzettata in undici cantoni, bloccata da 500 check-point, controllata da 250 insediamenti di coloni che rubano le sorgenti d’acqua e le terre migliori.
È vero che la stessa popolazione del sud di Israele è tenuta in ostaggio dal proprio governo.
È vero che la violenza di oggi rafforzerà l’odio e produrrà solo altra violenza.
È vero che la pace passa solo attraverso un effettivo negoziato politico con l’unione delle forze palestinesi.
Chiediamo alla comunità internazionale di porre immediatamente termine alla strage e all’assedio di Gaza e avviare un vero processo politico che metta fine all’occupazione israeliana.
A ciascuno/a di noi di costruire iniziative di solidarietà con Gaza e con il popolo palestinese, per fermare questo scempio della civiltà.
Donne e uomini per la pace in Palestina
Chioggia