di Ana Otašević, giornalista e regista, Belgrado
Un testo che segnaliamo per quelle che vogliono capire cosa sta diventando la politica oggi.
La redazione
Dalla fine della guerra fredda, governi saldamente consolidati si trovano ad affrontare un nuovo metodo di destabilizzazione: una resistenza fondata sulla nonviolenza attiva. Da Belgrado al Cairo, da Caracas a Kiev, e ancora ultimamente in Bolivia, il percorso seguito da un piccolo gruppo di studenti serbi ci ricorda il ruolo che può svolgere un’avanguardia determinata. Ma in nome di quali idee e con quali appoggi?
Questa storia inizia un giorno d’autunno del 1998, in un caffè nel centro di Belgrado. La maggior parte dei giovani presenti si sono fatti le ossa nelle manifestazioni studentesche del 1992 e poi del 1996-97. Fondando il movimento Otpor! («Resistenza!»), il loro obiettivo è ormai far cadere il presidente jugoslavo Slobodan Milošević che, al potere dal 1986, ha appena ripreso il controllo delle università. Per impressionare una ragazza del movimento, uno degli studenti, Nenad Petrović Duda, disegna su un pezzo di carta un pugno nero alzato. Una mattina di novembre, degli stencil con il simbolo di Otpor! compaiono sui muri del centro della città, accompagnati da slogan contro il regime. Quattro giovani attivisti vengono arrestati e condannati a quindici giorni di carcere. Il pugno alzato viene ripreso sulla prima pagina del quotidiano Dnevni Telegraf. Il suo caporedattore, Slavko Ćuruvija, viene trascinato in tribunale.
«Otpor! è apparso come una forza nuova. Con questo processo, siamo diventati subito famosi», racconta Popović, studente di biologia marina e musicista, che prima di entrare in politica sognava di diventare una rock star. Questa «forza» inizialmente poteva contare su una trentina di studenti. Un anno più tardi, il simbolo di Otpor! era brandito da migliaia di persone in tutto il paese. «Nei centri universitari ci siamo radicati rapidamente. I partiti di opposizione erano disuniti. I giovani sono venuti da noi», spiega il co-fondatore del movimento.
Le piccole dimensioni dell’organizzazione e il suo funzionamento orizzontale, senza leader ufficiali, si rivelano dei punti di forza per indebolire e screditare il regime attraverso la satira. Il movimento cerca soprattutto di mobilitare la popolazione e in particolare i giovani, che ostentano il loro disinteresse per la vita politica. Otpor! mette insieme monarchici, socialdemocratici e liberali.
Questa matrice non ideologica viene esplicitamente rivendicata: «Non stavamo facendo nulla di troppo politico, perché sarebbe stato noioso; volevamo che i nostri interventi distraessero e, soprattutto, facessero ridere», dice Popović, che adora i Monty Python (1). Quando, ad esempio, un gruppo di Otpor! fa sfilare un asino agghindato con finte decorazioni militari a Kruševac, nella Serbia centrale, la polizia arresta i giovani, ma non sa cosa fare dell’asino: «In una scena rocambolesca, gli agenti di polizia hanno cercato di spingere l’animale in un furgone a colpi di manganello, racconta Srđan Milivojević, un ex militante. La folla gridava: “Non toccate l’eroe nazionale!”». Le trovate umoristiche seguite dagli arresti raggiungono le prime pagine dei giornali, mentre la repressione della polizia contribuisce a erodere la legittimità del governo, causando divisioni tra gli ultimi sostenitori di Milošević.
La generazione di Otpor! è cresciuta in un’epoca segnata dalle guerre fratricide dell’ex Jugoslavia e dall’isolamento internazionale. Come progetto politico, sogna una «vita normale». «Sui canali satellitari vedevamo come vivevano le persone della nostra età a Parigi o a Londra, mentre da noi gli scaffali dei negozi erano vuoti. Ci siamo battuti per la nostra sopravvivenza», afferma Predrag Lečić, un altro membro della prima ora di Otpor!. «Non lottavamo contro qualcosa, ma contro qualcuno», riassume Ivan Marović, ex portavoce non ufficiale di Otpor!
Nel 1999, la guerra del Kosovo e i bombardamenti della Repubblica federale di Jugoslavia da parte dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del nord (Nato) segnano una svolta. «Il 24 marzo del 1999 mi sono svegliato e ho scoperto che la Francia non era più nel cuore della Serbia, ma nei suoi cieli, da dove stava sganciando centinaia di bombe per punire il regime», ricorda Milivojević. «È difficile fare opposizione quando il proprio paese viene attaccato», aggiunge Popović. Sua madre sfugge di poco al bombardamento della televisione nazionale, dove lavora come giornalista. Lui si nasconde, mentre Ćuruvija viene assassinato dagli uomini del regime.
Dopo questo periodo di stordimento, Otpor! è la prima forza politica a passare all’azione. Rinunciando all’epiteto «studentesco» per ampliare la propria base e canalizzare il malcontento e malgrado l’intensificazione della repressione, il gruppo annuncia la creazione di un fronte unito contro il governo, a cui partecipano partiti politici, associazioni, media indipendenti e sindacati. A metà del 2000, Otpor! è ormai un movimento che, dato il numero dei suoi aderenti, può svolgere un ruolo decisivo all’interno dell’opposizione.
Un centro «educativo»
Nel settembre del 2000, pressioni interne ed esterne spingono Milošević a indire elezioni anticipate. L’impegno di Otpor! contribuisce a far aumentare l’affluenza alle urne e a far cadere il presidente. Popović, entrato in parlamento come rappresentante del Partito democratico, diventa consigliere del primo ministro Zoran Đinđić e poi membro del gabinetto del ministro dell’ambiente e consulente per lo sviluppo sostenibile presso il vice primo ministro. Gli anni epici sono passati. Il movimento cerca di trasformarsi in un partito, ma alle elezioni parlamentari del 2003 registra un forte insuccesso, ottenendo l’1,6% dei voti.
Tuttavia, la storia politica di Popović, che continua a presentarsi come un «semplice rivoluzionario», non finisce qui. Nel 2003 crea il Centro per l’azione e la strategia non violenta applicata (Canvas) insieme a Slobodan Đinović, un altro fondatore di Otpor!. Negli anni che seguono, gli istruttori di Canvas diffondono la loro esperienza in una cinquantina di paesi, tra cui la Georgia, l’Ucraina, la Bielorussia, l’Albania, la Russia, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Libano e l’Egitto.
Nei locali angusti di Canvas, situati in un centro commerciale poco attraente di Novi Beograd (Nuova Belgrado), nulla oggi lascia immaginare una tale rete. «La nostra professione è diventata addestrare e formare attivisti, racconta Popović. La prima lezione mira a creare unità attraverso una visione forte del futuro. Spiego loro come riunire attorno a un obiettivo comune persone dagli orizzonti ideologici differenti, così da ottenere più del 50% dei voti.»
Quando non è impegnato a gestire la propria azienda, la Orion Telekom, Đinović tiene delle lezioni sulla lotta non violenta in giro per il mondo. Sulla sua lista figurano Vietnam, Zimbabwe, Swaziland, Siria, Somalia, Azerbaigian, Papua Nuova Guinea, Venezuela e Iran. Per motivi di sicurezza, questi corsi di formazione vengono spesso organizzati in paesi vicini, all’interno di grandi alberghi. I membri di Canvas insegnano la strategia per ottenere un cambiamento di governo con metodi non violenti. Sono convinti che le rivoluzioni spontanee non possano avere successo. A loro avviso, dipende tutto dalla pianificazione e dalle tattiche impiegate: come creare l’unità, incitare alla disobbedienza civile, organizzare boicottaggi; quali slogan scegliere, come utilizzare la musica. Il loro metodo comporta quattro fasi: l’analisi della situazione, l’ideazione dell’operazione (quello che bisogna fare), l’esecuzione (come vincere, chi farà cosa, quando, come e perché) e infine gli aspetti tecnici (logistica, coordinamento e comunicazione). Identificano le particolarità locali dei pilastri del potere – polizia, esercito, istituzioni, media – e insegnano delle tattiche per convincere quelli che ci lavorano a disobbedire, sempre attraverso l’ausilio di esempi. Canvas promuove una visione del mondo in particolare? «Non siamo un’organizzazione ideologica, ma un centro educativo, risponde Popović. Il colore politico degli attivisti non ha importanza. Controlliamo solo che non siano estremisti, perché le ideologie estreme non riescono a diffondersi tramite lotte non violente.»
La squadra di Canvas è poco numerosa. «Cinque persone, cinque stipendi, locali e connessione Internet gratuiti, telefoni gratuiti, spiega Popović. Dodici persone provenienti da quattro paesi diversi tengono dei corsi di formazione. E non fanno solo questo: i georgiani insegnano; una filippina milita anche in una Ong [organizzazione non governativa] qui a Belgrado; un ragazzo lavora nell’informatica; un altro dirige uno studio contabile…»
I primi clienti sono arrivati dall’Europa dell’Est. Il Fondo per l’educazione europea – una fondazione polacca – contatta Canvas nel settembre del 2002 per formare dei militanti del movimento Zubr («Bisonte»), che vorrebbero porre fine al regime di Alexander Lukašenko in Bielorussia. Ma sei mesi più tardi le autorità del paese dichiararono i suoi emissari persone non gradite. Anche gli attivisti georgiani del movimento Kmara! («Ne abbiamo abbastanza!»), prima di partecipare alla «rivoluzione delle rose» e di contribuire, nel novembre del 2003, alla deposizione di Eduard Shevardnadze, hanno seguito, nel giugno dello stesso anno, un corso di formazione in Serbia. Ma è soprattutto in Ucraina, tra l’autunno del 2003 e l’inverno del 2004, che i metodi serbi saranno applicati su larga scala (si legga sul sito web del diplò francese
https://www. monde-diplomatique.fr/2019/12/OTASEVIC/ 61143
l’articolo «Un prototype pour la révolution orange en Ukraine»). A loro volta, gli ucraini formeranno militanti provenienti da altri paesi: Azerbaigian, Lituania, Russia, Iran, ecc.
I cambiamenti di regime nell’Europa centrale e orientale suscitano interesse nel mondo arabo-musulmano, in Sud America e nell’Africa subsahariana. Il pugno nero è riemerso in Libano nel 2005, alla vigilia della Rivoluzione del cedro, e tre anni più tardi alle Maldive. Nel 2009, una quindicina di attivisti egiziani del Movimento gioventù del 6 aprile e di Kifaya («Basta») si recano a Belgrado per studiare strategie che potrebbero aiutarli a rovesciare l’inamovibile presidente Hosni Mubarak. Corsi vengono tenuti sulle rive del lago Pali, vicino al confine ungherese. «Si tratta di un caso unico, in cui il modello è stato ripreso integralmente. Hanno organizzato cinquanta workshop in quindici città egiziane», afferma Popović. «La formazione che abbiamo ricevuto sulla disobbedienza civile, sulla lotta non violenta e su come abbattere i pilastri del sistema ha influenzato il modo in cui il nostro movimento ha agito», conferma Tarek El Khouly, ex membro di «6 aprile», responsabile dell’organizzazione delle manifestazioni.
Nel gennaio 2011, preceduti dalle rivolte spontanee in Tunisia e dall’improvviso rovesciamento del presidente El-Abidine Ben Ali, molti giovani attivisti si lanciano all’assalto di piazza Tahrir, al Cairo. Su striscioni il pugno chiuso e lo slogan «Il pugno scuote il Cairo!». Il giorno prima su internet circolava un opuscolo che spiegava nei dettagli i luoghi da occupare (la radiotelevisione egiziana, alcune stazioni di polizia, il palazzo presidenziale) e i modi per aggirare le forze dell’ordine. I manifestanti vengono invitati a portare delle rose, a cantare slogan positivi, ad abbracciare i soldati e a convincere i poliziotti a cambiare campo. L’impronta di Canvas è evidente. Dopo la caduta di Mubarak, una parte degli attivisti si è unita al maresciallo golpista Abdel Fattah al-Sisi, mentre altri sono finiti in prigione.
Considerato da alcuni come un «ideatore segreto» della primavera araba, Popović ritiene che il suo fallimento sia dovuto alla mancanza di un progetto: «Volevano solo abbattere Mubarak, ma non avevano pensato al dopo. In Ucraina e in Serbia è stato semplice: volevamo vivere come in Europa. Ma per i paesi arabi non esiste un modello positivo. Con l’arrivo dei Fratelli musulmani e dell’esercito, i militanti sono finiti in prigione. È davvero triste.»
Se da una parte Popović nega di aver formato direttamente l’autoproclamatosi «presidente» del Venezuela Juan Guaidó, dall’altra riconosce che l’oppositore del regime di Nicolás Maduro è un amico: «Naturalmente farò quanto in mio potere per aiutarlo a combattere contro un regime che neanche l’esercito riesce più a proteggere dai suoi propri cittadini.» Dopo l’incontestabile rielezione di Hugo Chávez con il 62% dei voti nel dicembre del 2006, Canvas ha dato dei consigli al movimento giovanile venezuelano Generación 2007 e ha lavorato con gli attivisti del paese, in particolare in Messico e in Serbia. Diversi membri della squadra di Guaidó si sono formati a Belgrado nel 2007: Geraldine Álvarez, la sua responsabile delle comunicazioni; Elisa Totaro, che ha lavorato alla comunicazione del movimento studentesco ispirandosi ai metodi e all’identità grafica di Otpor!; Rodrigo Diamanti, responsabile degli aiuti umanitari provenienti dall’Europa.
In un testo del giugno 2017, i dirigenti di Canvas espongono quella che ai loro occhi sarebbe una strategia efficace: «In Venezuela l’opposizione dovrà parlare con la polizia, utilizzando musica, abbracci e fiori, e non lanciarle contro molotov, pietre o bombe di materiale fecale (2)». Già nel settembre del 2010, Canvas aveva individuato la principale debolezza strutturale del paese, l’approvvigionamento di energia elettrica: «I gruppi di opposizione potrebbero approfittare della situazione (3)». Secondo il documento, alcuni settori scontenti dell’esercito potrebbero decidere di intervenire, ma solo in presenza di proteste di massa: «Lo si è visto negli ultimi tre tentativi di colpo di Stato. Mentre l’esercito pensava di poter contare su un sostegno sufficiente, l’opinione pubblica non ha risposto positivamente (o ha risposto negativamente) e il colpo di stato è fallito.» Dopo la morte di Chávez nel marzo del 2013 e il peggioramento dell’economia, i tentativi di destabilizzazione si accentuano.
Nel marzo del 2019 la centrale idroelettrica Simon-Bolivar ha un guasto. Caracas e la maggior parte del Venezuela restano al buio. Il deterioramento dell’infrastruttura, noto già nel 2010, era tale che un eventuale intervento esterno, anche di carattere informatico, avrebbe potuto passare inosservato. Il segretario di Stato degli Stati uniti Michael Pompeo non ha tardato a farsi sentire su Twitter: «Niente cibo, niente medicine e ora niente elettricità. Il prossimo passo, niente Maduro». «La luce tornerà quando l’usurpazione del potere [da parte di Maduro] sarà finita», ha concluso Guaidó, lanciando un appello alle forze armate. Un appello recepito pienamente da William Brownfield, ex ambasciatore statunitense a Caracas: «Per la prima volta abbiamo un dirigente dell’opposizione che invia un messaggio chiaro alle forze armate e al potere legislativo. Vuole che si schierino dalla parte dei buoni (4)».
Questo caso mostra come gli obiettivi di Canvas siano perfettamente compatibili con quelli che il governo statunitense promuove attraverso l’Agenzia degli Stati uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid) e l’Ufficio per le iniziative di transizione (Oti). In una nota del novembre 2006 rivelata da WikiLeaks, Brownfield descriveva la strategia degli Stati uniti in Venezuela: «Rafforzare le istituzioni democratiche; infiltrarsi nella base politica del regime; dividere il chavismo; proteggere gli interessi vitali degli Stati uniti, isolare Chávez a livello internazionale.» E infine concludeva: «Questi obiettivi strategici rappresentano la parte più importante del lavoro dell’Usaid e di Oti in Venezuela» (5). Negli ultimi mesi, tracce dell’attività di Canvas si ritrovano anche in Bolivia (si legga l’articolo a pagina 9), mentre il centro non ha mai preso di mira alleati chiave degli Stati uniti come l’Arabia saudita, gli Emirati arabi uniti e il Pakistan.
Per comprendere l’influenza del piccolo gruppo di Canvas in così tanti paesi bisogna risalire alla fine degli anni ’90. Un rapporto speciale dell’Istituto per la pace degli Stati uniti (Usip) del 14 aprile 1999 può aiutarci a capire: «Il governo degli Stati uniti dovrebbe aumentare significativamente il suo sostegno alla democrazia nella Repubblica federale di Jugoslavia, passando dal livello attuale di circa 18 milioni di dollari a 53 milioni di dollari nel corso di questo anno fiscale (…). Tali fondi potrebbero finanziare viaggi all’estero per i dirigenti dei movimenti studenteschi e sostenere programmi di studio e stage in Europa e negli Stati uniti (6).» Sul rapporto campeggia un pugno nero alzato, simbolo di Otpor!.
«Molti attori internazionali avevano interesse a far cadere “Sloba” [Slobodan Milošević], spiega Popović. Abbiamo avuto rapporti con persone serie all’interno dell’amministrazione Clinton. Persone e organizzazioni con cui si poteva parlare di politica e ottenere del denaro, come la Fondazione nazionale per la democrazia [Ned], l’Istituto repubblicano internazionale [Iri] e l’Istituto nazionale democratico [Ndi], che collaboravano con i partiti politici, e Freedom House, che lavorava con i media.» Anche se ufficialmente «non governative», queste quattro istituzioni sono emanazioni dirette dei due principali partiti politici statunitensi e vengono finanziate dal Congresso o dal governo degli Stati uniti.
L’ex ambasciatore statunitense in Bulgaria, in Croazia e in Serbia, William Dale Montgomery, ha raccontato di come l’allora segretario di Stato Madeleine Albright avesse fatto del rovesciamento di Milošević una priorità, in particolare sostenendo Otpor! (7). «L’opposizione si faceva vedere insieme a Madeleine Albright. Vuk Drašković [membro dell’opposizione] le ha fatto il baciamano e la fotografia della scena è stata utilizzata dal governo. Questo tipo di incontri per scattare foto non sono d’aiuto. È per questo che noi non ci siamo mai fatti fotografare con loro», commenta Popović.
«Noi non sapevamo come rovesciare Milošević. Poi ha indetto elezioni anticipate e improvvisamente abbiamo avuto l’opportunità di lanciare una campagna mirata contro di lui», ha raccontato James C. O’Brien, ex inviato speciale del presidente William Clinton nei Balcani (8). Questo ex direttore della pianificazione politica del dipartimento di Stato è poi diventato vicepresidente dell’Albright Stonebridge Group (Asg), una delle molte società statunitensi fondate da ex funzionari, rappresentanti dell’esercito e diplomatici tornati in Kosovo dopo la guerra per acquistare delle imprese pubbliche (9).
Secondo Paul B. McCarthy, all’epoca direttore regionale della Ned, Otpor! avrebbe ricevuto la maggior parte dei 3 milioni di dollari spesi dalla fondazione statunitense in Serbia a partire dal settembre del 1998. Questi fondi sono serviti a organizzare manifestazioni e a produrre materiali propagandistici come magliette, manifesti e adesivi che riproducevano il pugno chiuso, nonché per la formazione e il coordinamento degli attivisti. «Abbiamo stampato due milioni di volantini con su scritto “È finita”, che abbiamo distribuito in tutta la Serbia. Avevamo comitati in 168 posti diversi. Eravamo la più grande rete di attivisti di tutta la Serbia; nessun partito ne aveva quanto noi. Qualcuno ha pagato per questo, così come per gli uffici, i telefoni cellulari, ecc.», racconta Lečić.
La formazione degli attivisti serbi comprendeva stage sulle strategie della lotta non violenta secondo la dottrina di Gene Sharp, un politologo dell’università di Harvard morto nel 2018 le cui opere costituiscono un punto di riferimento in questo campo (si legga il riquadro). Nell’introduzione alla terza edizione del suo libro Come abbattere un regime, Sharp scrive: «Quando abbiamo visitato la Serbia dopo la caduta del regime di Milošević, ci hanno detto che il libro aveva esercitato una grande influenza sull’opposizione (10).» Durante un seminario tenutosi a Budapest nell’estate del 2000, Popović e altri dirigenti di Otpor! sono stati invitati dall’Iri e hanno incontrato Robert Helvey, uno stretto collaboratore di Sharp. Veterano del Vietnam, ex addetto militare a Rangoon, colonnello in pensione ed esperto di servizi di intelligence militare statunitensi, Helvey ha addestrato gli studenti serbi seguendo la linea di condotta di Sharp: «La strategia è importante nell’azione non violenta tanto quanto nell’azione militare.»
La versione di Popović è diversa: «Non ci hanno insegnato nulla, insiste. Abbiamo visto Helvey a Budapest per quattro giorni, il che ha dato origine alla storia secondo cui i malvagi statunitensi erano venuti da noi. Ma l’idea l’avevamo già avuta.» Da allora Popović ha stretto legami con il colonnello Helvey, che è diventato il suo «amico e insegnante», il suo «Yoda personale (11)». Il colonnello ha anche chiamato il suo gatto «Srđa», dal nome di Popović. «Lo pronuncia male», dice divertito quest’ultimo, per poi raccontare la sua visita negli Stati uniti e la loro discussione sulle armi che possiede. «In questo è un vero statunitense. Ci scherzavamo tutto il tempo.» Ha esitato a collaborare con un colonnello dell’esercito degli Stati uniti? «Io non lo considero un colonnello dell’esercito. E comunque, l’ideologia di Otpor! era chiaramente non violenta.» Allo stesso tempo, definisce la strategia insegnata da entrambi come una guerra con altri mezzi, «una guerra asimmetrica. Non eravamo un gruppo di ragazzi ingenui, ma seri attivisti politici».
Secondo il Washington Post, agli Stati uniti l’intervento contro Milošević sarebbe costato 41 milioni di dollari: «Per la prima volta si è fatto uno sforzo eccezionale per detronizzare un capo di Stato straniero non attraverso un’operazione segreta, come quelle condotte dalla Cia [Central intelligence agency] in Iran o in Guatemala, ma utilizzando le tecniche di una campagna elettorale moderna (12)». Per questa impresa è stata coinvolta un’intera rete internazionale di collaboratori, che comprendeva organizzazioni come Freedom House – un organismo finanziato dal governo degli Stati uniti e dall’Unione europea che ha come scopo la difesa «dei diritti umani» e la promozione della «democrazia» – e fondazioni private come Ford, Carnegie, Rockefeller, l’Open society institute di George Soros e la Mott foundation. La rete comprendeva anche ambasciatori e personale dell’ambasciata in contatto con i partiti di opposizione e con i rappresentanti della «società civile».
Finanziamenti oscuri ma non troppo
Per Popović i fondi e i sostegni esterni non costituiscono un problema, in quanto a suo avviso si trattava di «organizzazioni che lavorano in modo trasparente». L’argomento provoca invece una reazione infastidita in Marović: «Ma per chi lavora, per Putin? Questi aiuti sono arrivati negli ultimi mesi della nostra lotta contro Milošević. Perché dar loro tanta importanza? È la macchina propagandistica del Cremlino che ha iniziato a raccontare questa storia dopo la rivoluzione in Ucraina, nel 2004. Stanno cercando di screditare la lotta non violenta presentandola come un’imposizione esterna», afferma l’ex attivista.
Popović è molto meno chiaro nel rispondere in merito alla provenienza dei finanziamenti di Canvas: «I costi fissi (salari e locali) sono finanziati da fondi privati, per consentirci di vivere in modo indipendente, senza inseguire il denaro». E a proposito dei progetti aggiunge: «Abbiamo lavorato con più di trenta organizzazioni» – senza entrare nel dettaglio, salvo per riconoscere il ruolo di Freedom House in Egitto. Sul sito di Canvas sono elencati gli «amici» del centro, ma non si può risalire agli aiuti arrivati in Serbia dall’estero. Altre fonti, tuttavia, mostrano che tra il 2006 e il 2015 il ramo statunitense della Fondazione re Baldovino, belga, ha donato 2,5 milioni di dollari a Canvas per dei progetti in Siria e in Egitto.
Il Centro internazionale per i conflitti non violenti (Icnc) non compare più tra i partner di Canvas. Ma Marović e Popović dal 2003 collaborano anche con questa organizzazione, fondata nel 2002 da Jack DuVall e da Peter Ackerman. Quest’ultimo è un ex allievo di Sharp che ha fatto fortuna con la finanza e le obbligazioni ad alto rischio. Quando il suo socio in affari è stato condannato al carcere per truffa, si è rivolto alla promozione della democrazia. Nel 2005 è diventato presidente del consiglio di amministrazione di Freedom House, prendendo il posto di James Woolsey, ex direttore della Cia e ambasciatore degli Stati uniti nei negoziati del trattato sulle forze armate convenzionali in Europa. Ma Ackerman non ha per questo rinunciato agli affari e gestisce ancora due società di investimento: Crown Capital Group e RockPort Capital.
Popović ha incontrato DuVall e Ackerman durante le riprese del loro documentario su Otpor! intitolato Bringing down a dictator (2002). Marović ha partecipato all’ideazione di due videogiochi prodotti dall’Icnc: A force more powerful (2006) e People power (2010). Il concetto, a grandi linee, è che nel mondo ci sono malvagi dittatori e buoni democratici. Quando ci si libera dei cattivi le cose migliorano. Per l’Icnc Marović ha anche prodotto un manuale: The path of most resistance («La via della maggiore resistenza»). Nel 2016 ha fondato Rhize, una Ong specializzata nel consigliare e formare movimenti sociali.
Alcuni ex attivisti sono stati reclutati da istituzioni importanti, come Freedom House, o da fondazioni private, come quella di Soros. Altri si sono uniti all’élite politica o addirittura al governo del proprio paese. Popović e Đinović tengono dei corsi in università statunitensi e in particolare lezioni online per l’università di Harvard. Nel 2017 Popović è stato nominato rettore dell’università di St. Andrews, in Scozia. Tiene anche una conferenza l’anno a Colorado Springs presso la U.S. Air force academy. «La mia teoria rimane sempre la stessa: nei tentativi di rovesciamento di regime, il 4% dei successi è raggiunto tramite cambiamenti violenti e il 96% tramite cambiamenti non violenti. Un giorno questi studenti dovranno dire: “Bombardate” o “Non bombardate”. Influenzando una decisione come questa si possono salvare molte vite», dichiara Popović, che nel 2012 è stato candidato al premio Nobel per la pace, insieme a Sharp. L’anno successivo il Forum economico mondiale di Davos lo ha inserito tra i suoi «giovani dirigenti planetari» (Young global leaders) e nel 2011 figurava anche tra i «cento più grandi pensatori del pianeta» selezionati dalla rivista statunitense Foreign Policy.
(1) Cfr. Srđa Popović, Comment faire tomber un dictateur quand on est seul, tout petit, et sans armes, Payot, Parigi 2015.
(2) Srđa Popović e Slobodan Đinović, «The blueprint for saving Venezuela», RealClear World, 2 giugno 2017, www.realclearworld. com
(3) «Analysis of the situation in Venezuela», Canvas Analytic Department, Belgrado, settembre 2010.
(4) Citato da Ana Vanessa Herrero e Nick Cumming- Bruce, «Venezuela’s opposition leader calls for more protests “if they dare to kidnap me”», The New York Times, 25 gennaio 2019.
(5) «Usaid/OTI programmatic support for country Team 5 Point Strategy», nota dell’ambasciatore degli Stati uniti in Venezuela, Wiki- Leaks, 9 novembre 2006, https://wikileaks.org
(6) «“Yugoslavia”: Building democratic institutions », Istituto per la pace degli Stati uniti, Washington DC, 14 aprile 1999.
(7) Roger Cohen, «Who really brought down Milosevic?», The New York Times, 26 novembre 2000.
(8) Valerie J. Bunce e Sharon L. Wolchik, Defeating Leaders in Postcommunist Countries, Cambridge University Press, 2011.
(9) Matthew Brunwasser, «That crush at Kosovo’s business door? The return of US heroes», The New York Times, 11 dicembre 2012.
(10) Gene Sharp, Come abbattere un regime. Manuale di liberazione nonviolenta. Dalla dittatura alla democrazia, Chiarelettere, Milano 2011.
(11) Utilizza questo riferimento al maestro Jedi di Guerre stellari nella sua autobiografia.
(12) Michael Dobbs, «US advice guided Milosevic opposition», The Washington Post, 11 dicembre 2000. (Traduzione di Federico Lopiparo)
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Un’ispirazione statunitense
È dal politologo statunitense Gene Sharp (1928-2018), talvolta presentato come il «Machiavelli della nonviolenza», che la squadra di Otpor! e poi di Canvas ha gettato le fondamenta teoriche della propria azione (si legga l’articolo qui sopra). Questo ideologo apparteneva alla ristretta cerchia di strateghi statunitensi riuniti all’interno del Centro affari internazionali dell’università di Harvard (1), fondato nel 1958 da Thomas Schelling, Henry Kissinger, Robert Bowie ed Edward Mason. Tra i suoi ex membri figurano i più influenti consulenti governativi e teorici delle relazioni internazionali statunitensi, come Zbigniew Brzeziński, Samuel P. Huntington e Joseph Nye.
Schelling, che ha scritto la prefazione del libro più noto di Gene Sharp (2), nel 2005 e stato insignito con il premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel (chiamato impropriamente «premio Nobel per l’economia») per aver «migliorato la nostra comprensione dei meccanismi del conflitto e della cooperazione attraverso l’analisi della teoria dei giochi». Difendendo la «diplomazia della violenza», Schelling ha promosso l’idea secondo cui «il potere di danneggiare è il potere di negoziare (3)» e ha sostenuto la necessità di un vincolo che vada al di là della deterrenza.
Tra i collaboratori del centro c’era anche David Galula (1919-1967), un ufficiale francese che, prima di comandare una compagnia durante la guerra d’Algeria, era già stato testimone della rivoluzione cinese e della guerra civile in Grecia. Invitato a Harvard dal generale William Westmoreland, futuro comandante delle truppe statunitensi in Vietnam, nel 1964 Galula ha sviluppato una teoria della guerra controrivoluzionaria basata su metodi psicologici, politici e polizieschi invece che sui metodi classici dell’intervento militare: «In queste circostanze si può preferire un ciclostile a una mitragliatrice, un medico militare specializzato in pediatria a uno specialista di mortai, del cemento a del filo spinato e degli impiegati d’ufficio ai dei soldati di fanteria (4).» Sconosciuta in Francia, dal 2005 l’opera di Galula viene distribuita agli stagisti dell’Accademia militare statunitense. Nella prefazione al suo testo principale, l’ex comandante della coalizione militare in Iraq, il generale statunitense David Petraeus, presenta lo stratega come il «Clausewitz della contro-insurrezione».
Sharp, entrato a far parte del centro nel 1965, ha dedicato trent’anni della sua carriera accademica a condurre ricerche sui movimenti sociali nel contesto della guerra fredda. A suo avviso, una difesa che implichi dei civili può essere più sicura e meno costosa della deterrenza nucleare o di una guerra classica. Le azioni più efficaci contro un sistema sono quelle non violente, in grado di mobilitare un numero di persone tale da minare i pilastri del potere – università, esercito, polizia, media –, in modo tale che smettano di sostenerlo.
Nello spirito della dottrina Reagan sulla «promozione della democrazia» nel mondo, nel 1983 Sharp ha fondato l’Albert Einstein Institution insieme ad alcuni collaboratori tra cui Schelling, che sarebbe entrato a far parte del consiglio dell’organizzazione. L’istituzione riceveva fondi pubblici attraverso la mediazione della Fondazione nazionale per la democrazia (Ned) e l’Istituto repubblicano internazionale (Iri) (5).
È noto che nei primi anni ’90 gli scritti di Sharp hanno ispirato i governi baltici nella loro lotta contro il potere centrale sovietico. L’ex ministro della difesa lituano Audrius Butkevicius all’epoca diceva di preferire un libro di Sharp alla bomba atomica (6).
A.O.
(1) Center for International Affairs, nel 1998 ribattezzato Weatherhead Center for International Affairs.
(2) Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, Gruppo Abele, Torino 1985.
(3) Thomas C. Schelling, «The diplomacy of violence », in John Garnett (a cura di), Theories of Peace and Security: A Reader in Contemporary Strategic Thought, Palgrave Mac- Millan, Londra 1970.
(4) David Galula, Contre-insurrection. Théorie et pratique, Economica, Parigi 2008 (prima edizione: 1964).
(5) Ruaridh Arrow, «Correcting attacks against Gene Sharp», How to Start a Revolution, 27 maggio 2019, www.howtostartarevolution. org
(6) «Gene Sharp, 2012», The Right Livelihood Foundation, www.rightlivelihoodaward.org
(Le monde diplomatique – il manifesto, dicembre 2019)
di C.B.
Dialogo interreligioso aperto a Pordenone sul presepe cristiano: l’imam Mohamed Hosny lo dice chiaro che «è un simbolo di pace universale». La guida spirituale di duemila islamici nella moschea in Comina ha azzerato dubbi e polemiche sul punto.
«La comunità islamica in Friuli Occidentale ha il massimo rispetto – ha aggiunto Hosny – per le tradizioni della società in cui vive». Nelle scuole il presepe multietnico 2018 ha raggiunto lo zenit all’Isis Flora di Pordenone, con le statuine afroasiatiche nella Natività.
«Dopo avere studiato bene questo argomento e il concetto del presepe – ha puntualizzato l’imam – noi musulmani riconosciamo Maria e Gesù perché sono presenti nel Corano. Nelle nostre preghiere ricordiamo i loro miracoli e abbiamo un capitolo intero nel Corano che porta il nome di Maria. Riguardo alla tradizione millenaria del presepe cristiano, noi portiamo tanto rispetto».
Simboli religiosi diversi, ma le “guerre sante” sono finite. «La comunità islamica è sempre disponibile a collaborare per iniziative che hanno come obiettivo il bene della società» ha concluso il capo religioso islamico Hosny. «Ci piacerebbe che si creassero occasioni per fare conoscere a tutti i bambini e giovani di religione cristiana i fondamenti della fede, i luoghi di preghiera. Invitiamo tutti a visitare il Centro islamico a Pordenone in Comina: in qualsiasi momento tutti saranno benvenuti. La conoscenza e il confronto aperto e culturale è il modo più efficace per promuovere la pace nella nostra società».
(Messaggero Veneto, 13 novembre 2019, https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2019/11/12/news/l-imam-hosny-dice-si-al-presepe-nelle-scuole-e-un-simbolo-di-pace-1.37896480?refresh_ce)
di Simonetta Patanè
L’Europa delle Città Vicine, a cura di Loredana Aldegheri, Mirella Clausi e Anna Di Salvo, Edizioni MAG, Verona 2017
Leggendo il libro che raccoglie gli atti del convegno “L’Europa delle Città Vicine”, svoltosi alla Casa Internazionale delle donne di Roma, il 21 febbraio 2016, e pubblicato dalla MAG, mi è stato possibile cogliere aspetti che lì mi erano sfuggiti e, soprattutto, vedere meglio il senso complessivo del lavoro fatto insieme. Ciò che nella lettura si è delineato in maniera molto chiara è il significato della politica femminista intesa come quella politica non solo fatta da donne ma fatta a partire dall’essere donne; soprattutto, si staglia con evidenza come questa politica faccia la differenza rispetto ad altri approcci nel modo di intendere le modalità con cui far entrare in conflitto le due facce dell’Europa sulle quali avevamo invitato a ragionare nel convegno: quella della politica delle istituzioni di Bruxelles e l’altra, che nel documento di invito avevamo definito come quella delle pratiche e delle realtà in lotta che presentano una natura costituente di quelle nuove istituzioni “destinate a discernere e a eliminare tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna, della bassezza”, che già negli anni Quaranta del secolo scorso Simone Weil ci invitava ad inventare. Le parole per descrivere il primo volto dell’Europa, quello istituzionale, che attraversano quasi tutti gli interventi, sono ancora più dure di quelle dei documenti di presentazione e, alla fine il giudizio è estremamente severo: L’Europa è andata configurandosi esclusivamente come un “dispositivo di potere” che con le sue politiche di colonialismo, genocidio e da “maschio bianco” (Lorena Fornasir, Gian Andrea Franchi) produce condizioni di vita sempre più ingiuste e disumanizzanti. Un’Europa che si rifiuta di prendere coscienza dei suoi “quattro secoli di orrore” e che usa i “diritti e la democrazia come strumenti strategici per incrementare il proprio potere” (Giacomo Sferlazzo), che umilia la Grecia dove ha invece le sue radici, incapace di ritrovarle nella storia “che viene da lontano” perché occulta le “antiche e fondamentali civiltà come quella orfico-pitagorica” (Maria Luisa Gizzio), che pur comprendendo il Mediterraneo, al centro della sua cultura per molto tempo, oggi lo lascia ai margini del suo sviluppo. Un’Europa, inoltre, succube degli USA, senza una sua propria politica estera ed economicamente fragile perché incapace di investire nell’economia reale e succube delle decisioni delle istituzioni finanziarie internazionali (Loretta Napoleoni). Le politiche europee sono viste come inefficaci, vecchie, riduttive, scollegate con i bisogni reali delle comunità, disumanizzanti: non solo “mortificano e scoraggiano l’intraprendenza di chi vuole e tenta di reagire alla crisi economica”, ma creano “una cappa che toglie l’ossigeno” (Loredana Aldegheri) ponendosi come vero e proprio ostacolo a tutti quei tentativi di innovazione creativa economica e sociale di quelle realtà che pure stanno mostrando una “resilienza”, una capacità di tenuta che andrebbe sostenuta e incoraggiata. Insomma, in luogo dell’Europa che ci era stata “promessa” – spazio di libera circolazione, di pace, giustizia, libertà, superamento dei nazionalismi, individualismi, razzismi e totalitarismi – abbiamo oggi, un “simulacro svuotato” (Giusi Milazzo). Il contrasto e la distanza di questa Europa da quell’altra, quella degli e delle abitanti delle città che con passione e fatica mettono mano quotidianamente ai problemi generati dalla crisi, in ascolto con i bisogni e i desideri, cogliendo possibilità o creandole con molta creatività, è ben visibile anche nelle singole città. A Vicenza come a Lampedusa è netto il contrasto tra “la città militare e il lavoro quotidiano di cura, privo di riflettori ma tenace e continuo”, così come in molte altre città si innalzano muri reali o invisibili al proprio interno che creano le gated communities, siano esse di lusso come le City Life, con cancelli e telecamere di sorveglianza, o i ghetti delle periferie (Bianca Bottero). Ancora più marcatamente e macroscopicamente questi due volti dell’Europa si mostrano di fronte alla migrazione: da un lato, la militarizzazione “ipocrita, perché fatta passare come maggior impegno per scopi umanitari e per il mantenimento dell’ordine” che crea solo “luoghi dove la vita non ha più valore” che rifiuta i migranti e si chiude con i muri e il filo spinato e dall’altro, i “luoghi dove l’Europa sembra aver ritrovato la propria anima” (Anna Di Salvo), quella dei “lembi di terra” in cui si è più accoglienti probabilmente perché “l’impatto dei corpi, il vedere la tragedia, il sangue, il dolore, con gli occhi e con l’anima” (Mirella Clausi) spinge a rispondere nell’immediatezza. Nei diversi interventi risulta molto chiaro come L’Europa che accoglie sia profondamente consapevole del fatto che la migrazione non è un problema da risolvere ma un fenomeno di totale trasformazione della civiltà e, da questo punto di vista, il senso stesso dell’accoglienza non si esaurisce nell’aiutare le persone che arrivano sulle nostre coste ma comporta l’accogliere un’idea di cambiamento anche dentro di noi. I migranti, che non vedono la terra ma “una sottile striscia di futuro” (Simonetta De Fazi) possono venire a riempire di speranza questa Europa in cui tutto è ormai vecchio, rinnovando la vita e rompendo il guscio dell’egoismo e dell’apatia, aumentando la biodiversità umana e quindi le possibilità per tutti e tutte (Mirella Clausi). Accogliere, significa anche rispettare le origini culturali degli altri e delle altre di cui spesso ci dimentichiamo a causa dell’occidentalizzazione forzata di molte parte del mondo (Maria Luisa Gizzio) e, ancora, fare il primo passo, “compromettersi nelle relazioni con gli stranieri” (Laura Colombo), raccontarsi per farsi raccontare (Nunzia Scandurra) e così conoscere le storie di chi può far paura creando in questo modo “un ponte tra i bisogni di quelli che arrivano e di quelli che stanno qui” (Antonella Cunico). Soprattutto significa ricordarsi della complessità della persona umana: “se vogliamo avere uno scambio reale dobbiamo sempre tenere presente che ogni uomo e ogni donna è di più di quello che ci appare e che riconosciamo, c’è sempre dell’altro” (Adriana Sbrogiò). Più di ogni altra cosa, forse, è capire che “il dramma dei migranti ci appartiene e non è una storia alla quale accostarsi per senso di giustizia o solidarietà: non solo è la storia delle nostre generazioni passate e di quelle giovani che emigrano ora, ma anch’io potrei svegliarmi una mattina nella condizione di migrante” (Gisella Modica).
Già di fronte alla migrazione si può cogliere il taglio della differenza, non tanto nel modo di confrontarsi con l’arrivo dei migranti ma nello sconcerto e nel disorientamento maschile rispetto a ciò che viene individuato come una trasformazione del lavoro politico. Scrive, infatti, Gian Andrea Franchi: “il disorientamento che viviamo noi, diventati nostro malgrado operatori di strada, va accolto come un terreno esistenziale e politico da percorrere, ci si deve gettare nella situazioni anche se privi di ideologia, di nozioni e immagini già pronte. Esistenza e politica diventano tutt’uno, sul terreno della nuda vita, non più trattenuto da recinti ideologici”. Si vede bene come gli uomini “abituati a modalità politiche meno personali” (Lorena Fornasir, Gian Andrea Franchi) patiscano un disagio trovandosi trascinati su un terreno che sembrava superato nella modernità e che oggi non riguarda solo i migranti ma anche tanta popolazione europea fortemente impoverita. Le donne, invece, che non hanno subìto ma scelto di radicare la politica nei bisogni e nei desideri della “nuda vita” nella consapevolezza che esistenza e politica siano un tutt’uno, si trovino decisamente più a loro agio in una pratica politica fatta di relazioni. Ma dire questo non basta. La questione che si pone è invece che malgrado la “consapevolezza che la politica sia anche un impegno relazionale, faccia a faccia, corpo a corpo” (ancora Franchi) non ci si intende fino in fondo – fra donne e uomini e fra donne che partono da sé e donne che si orientano con le modalità della sinistra tradizionali e neutre – sul modo di far entrare in conflitto questi due modi di costruire e vivere l’Europa, affinché la “nuova Europa che stiamo costruendo attraverso nuove relazioni diventi egemone rispetto all’altra” (Franca Fortunato). Quindi, anche nel modo di intendere il conflitto con le istituzioni europee mi pare che si possa parlare di due volti dell’Europa. C’è, infatti un modo, di tradizione maschile e marxista, in cui “Se si vuole salvare il progetto europeo va condotta una lotta per l’eliminazione dei Trattati liberisti, se il capitalismo sopravvive è grazie alla dispersione dei suoi antagonisti e da qui ne deriva la necessità dell’unità delle forme disperse e di forme organizzate di conflitto” (Aldo Ceccoli). Ci sono poi le donne, quelle che partono dall’essere donne e che attingono dalla relazione fra donne e da una genealogia femminile e femminista gli strumenti e l’ispirazione per guardare al presente e al futuro, per le quali la consapevolezza di essere andate già molto “oltre” le forme politiche della modernità è chiara e forte. Scrive, per esempio, Rita Micarelli: “nessuna delle strategie usate in passato sembra più praticabile né in termini di ribellione di massa, né in termini di disobbedienza tecnologica, economica, informatica, da contrapporre alle dinamiche schiaccianti in atto”. Ancora, dice Stefania Tarantino: “l’Europa è piena di errori ed orrori ed è da tempo che non può più pretendere di parlare per nessuno, men che meno può indicare come dobbiamo vivere”. E, inoltre, Rosetta Stella: “l’Europa che non è ancora immediatamente sotto i nostri occhi non è una faccenda che si risolve istituzionalmente”. A me sembra che a fare la differenza rispetto alle modalità tradizionali di confronto e scontro diretto con il potere e con le istituzioni attraverso un’organizzazione unitaria o di resistenza dal basso, sia una grande fiducia in ciò che già è stato raggiunto dalle pratiche di relazione, come quella delle Città Vicine – “luogo di confine e di contatto” per cui ciò che accade nella tua città mi riguarda – e in quelle nuove istituzioni che, proprio a partire da scambi e relazioni, già esistono. Una fiducia che, unita al necessario riconoscimento dei limiti, percorre quasi tutti gli interventi. Per quanto riguarda i limiti, infatti, occorre “prendere coscienza dell’indipendenza del mondo, cioè di quello che non dipende da noi” (Stefania Tarantino), “sostare nella tragedia del potere senza farsi appiattire dalla rappresentanza: fare quello che dipende da sé” (Nadia Nappo) e avere “l’umiltà di sapere che noi non dobbiamo fare tutto ma che dobbiamo anche saper sostare, per accertarci di non procedere da sole” (Antonietta Bergamasco), sapendo rinunciare ad “essere il centro del mondo” per stare in “un altrimenti potere che non è rinuncia all’azione” (Concetta Sala). L’agire a partire dall’accettazione dei propri limiti permette di “prendersi sul serio e di tirare fuori tutta la straordinaria forza e potenzialità” della libertà femminile (S. Tarantino). Solo questa fiducia intrecciata alla consapevolezza dei limiti permette di “tenere insieme la critica radicale e l’energia generativa” (Donatella franchi) e rispetto all’agire il conflitto con il potere delle istituzioni europee esso si configura come un rovesciamento delle pratiche tradizionali: né resistenza, né rivendicazione, né scontro ma l’assumersi l’autorità per ri-orientare la politica sapendo di poterlo fare e che “abbiamo la responsabilità di risolvere questa crisi” (Napoleoni). Ciò significa “valorizzare le nostre competenze nella formulazione di proposte, nell’avanzamento di progetti, nell’elaborazione di leggi. Impadronirsi della guida della ricerca in tutti i campi, sorvegliarla, dirigerla o ri-dirigerla [perché] solo l’articolazione competente di questi contenuti può rappresentare il canovaccio concreto della costituente dell’Europa che vogliamo” (Bianca Bottero). Chiedere “al potere di ridursi” (Concetta Sala) sembra estremamente difficile ma può rendersi possibile se si traduce nel “portare questa prassi piena di significati alle istituzioni, fare il movimento inverso a quello canonico: non attendere la chiamata all’azione dall’altro ma chiamare noi semplicemente con la vita quotidiana” (A. Bergamasco). In altri termini, agire una pressione cercando sostegno ai propri progetti mediante “incontri con chiunque e il confronto diretto con gli amministratori” (Maria Castiglioni), insomma, occorre “far interferire la politica prima con quella seconda perché sempre più donne delle istituzioni traducono nel loro amministrare le parole che nascono nei movimenti” (Sandra Bonfiglioli). Ancora, significa muoversi nello spazio “tra” le organizzazioni per ripensare le attività economiche e i lavoro e collegarsi non per fare “co-working”- che rischia di intrappolarci in legami deboli che non ci nutrono – ma per creare spazi per lavorare insieme attraverso una vera cura delle relazioni (Valeria Verga). Occorre anche riprendersi e riaffermare il “tempo lungo” della politica, necessario alle relazioni e alla cura, per “fare più cose insieme e meno contemporaneamente” e contrastare così la tendenza della politica istituzionale ad essere “schiacciata sul presente”, perché “la velocità necessaria a mettere all’incasso le azioni è nemica del cambiamento” (Simonetta De Fazi). E, infine, farci sempre orientare dalla bellezza sapendo che “la bellezza dei luoghi è complessità” (Nappo) ma anche “un bisogno dell’anima”: “quale smentita dell’utilitarismo capitalistico, ne rappresenta l’oltre più assoluto, mentre ci indica il guadagno più importante di benessere a cui possiamo aprire le nostre vite” (Luciana Talozzi). Cercare bellezza nella progettazione delle spazio – “la bellezza di una città è felicità espressa” – significa ri-pensarlo “cercando il filo conduttore con il preesistente del territorio, la sua autenticità” (Angela Cattaneo) che ne sani le ferite cos’ come si fa con il filo d’oro per ricucire le ferite delle ceramiche giapponesi. Nell’arte del Kintsugi la riparazione, con filo d’oro o d’argento, rende l’oggetto più bello di prima: la rottura segnala la storia dell’oggetto, la ricucitura un confine che è ponte, un’unione che crea nuova bellezza (Katia Ricci). Se la bellezza è un bisogno dell’anima, lo è anche la porosità dei confini che va ripristinata perché quando i confini “perdendo la loro naturalità esasperano le loro funzioni diventando strumento di violenza fisica, o di invecchiamento/implosione mortale per tutti i contesti in essi racchiusi”; al posto di dighe, muri e fili spinati possono esistere confini che creano “ecosistemi dove avvengono scambi e arricchimenti evolutivi che potenziano le differenze tra i viventi che vi si incontrano” (Rita Micarelli). Ma così come occorrono quelli che Micarelli definisce “attrattori evolutivi” in modo da rendere “seducente l’evoluzione”, occorre, non possiamo negarcelo, anche rendere seducente e attrattiva la politica delle donne soprattutto per quelle giovani molto impegnate in attività di tutela dell’ambiente, di mantenimento della pace, nella cura dei beni comuni, o nell’esperire nuove forme di economia “niente sapendo però che le questioni per le quali si spendono con passione hanno origine dai saperi delle donne, dalla loro umanità e dal loro amore per la vita, le relazioni e la civiltà” (Anna Di Salvo). In molti interventi viene espressa la consapevolezza di non essere riuscite a trasmettere la “radicalità assoluta della differenza” tanto che questa viene percepita come “un ruolo prescrittivo” facendoci apparire “moderate, compatibili con il sistema, poco attraenti, incomprensibili” (Daniela Dioguardi) o addirittura “aliene” e occorre porsi il problema di “scalfire il muro di estraneità che a volte la politica della differenza può creare” (Giusi Milazzo). È necessario allora non rinunciare a parlare con queste donne e anche con gli uomini che condividono con loro l’impegno politico, utilizzando sempre un linguaggio sessuato “in modo da segnalare che si mettono in relazione corpi di donne e di uomini” (Anna Di Salvo) (Laura Minguzzi) e mostrare come ci sia “bisogno della cultura della differenza che non si basa su forme dicotomiche del pro e del contro, ma sull’individuare e proporre pratiche culturali in merito a come si possa vivere il conflitto senza uccidersi e di come si possa parlare di problemi culturali senza cadere nel pregiudizio e nel razzismo” (Antje Schrupp).
(AP autogestione e politica prima, n.2, aprile/giugno 2017)
Contributo a cura di Eredibibliotecadonne
Il testo prende forma a seguito delle riflessioni e delle elaborazioni sui guadagni e sugli scacchi registrati nei primi quattro anni di vita di Eredibiliotecadonne. Circa un anno di appassionato lavoro grazie al quale le Eredi hanno capito e ritrovato il senso del loro stare insieme e ritengono di aver altresì dato forma a pensieri meritevoli di essere offerti all’attenzione e al dibattito di quante/i scommettono nella capacità di trasformazione delle relazioni tra donne.
Perché COMUNITÀ?
Non per adesione alle teorie comunitarie, delle quali mutuiamo la critica all’individualismo di stampo liberale, ma rifiutiamo l’idea del collante identitario che viene di norma posto a fondamento di una comunità (nazione, religione, ideologia, ecc.); l’appartenenza al sesso femminile non è un’identità ma costituisce il nostro ‘essere umane’ e riteniamo inoltre che il femminismo della differenza cui ciriferiamo non sia un’ideologia ma un insieme di pratiche e di idee ancora ben vive e in divenire. Non ci siamo definite comunità in riferimento ad una tradizione femminile; non mancano certamente precedenti nella nostra come in altre civiltà, ma non abbiamo a disposizione (almeno non ne siamo a conoscenza) apporti di studi antropologici, etnografici e storici tali da farci pensare ad aspetti anacronistici che indichino un ‘essere in comune’ delle donne insito nel nostro DNA culturale. Non è neppure nostra intenzione imitare altre esperienze di comunità femminili contemporanee che, anche quando ispirate al femminismo radicale, presentano caratteristiche dissimili e portano avanti pratiche diverse dalle nostre: la loro ragion d’essere consiste di norma in un singolo e ben definito interesse/desiderio comune e sulla base di questo si rapportano con la realtà esterna; noi invece scommettiamo sul portare avanti più interessi emergenti dall’interazione tra i nostri comuni desideri e il contesto sociale, facendo della pluralità la nostra ricchezza senza divenire un semplice contenitore. Il nome di comunità non è stato scelto per una mera esigenza di pensiero né per vezzo intellettuale, ma ha preso orma nel vivo di un’esperienza collettiva: il lavoro svolto intorno alla figura di Ipazia nel 2010 e 2011, con la ricerca e il confronto sulle testimonianze prima, la scrittura di ‘Ricomporre Ipazia’ poi e infine con l’attività promozionale del libro. In quel periodo ognuna di noi è stata protagonista di un irreversibile processo di crescita individuale concomitante e connesso con la trasformazione delle relazioni tra di noi e dei rapporti con l’esterno; è infatti successo che individue con ‘identità’ e background assai differenti, unite dall’interesse per la filosofa alessandrina, mettendo in comune i propri talenti, hanno dato vita a qualcosa che è andato al di là delle previsioni e persino del loro desiderio originario. Possiamo dire che il sentirci comunità è stato l’imprevisto della nostra esperienza e non l’adattamento di un modello alla nostra pratica politica.
Il COMUNE della comunità
La nostra interpretazione prende qui le distanza sia dal collettivismo che dall’individualismo e fa riferimento seppure con qualche peculiaritàalla politica delle relazioni che è al centro delle pratiche del femminismo della differenza. Il comune è costituito dall’insieme degli apporti (competenze, talenti, risorse, ecc.) individuali che ciascuna mette a disposizione come dal prodotto del lavoro e dell’elaborazione collettivi che si genera grazie alle relazioni tra singole o tra tutte e anche dai contributi che derivano dai rapporti e dalle collaborazioni con soggetti esterni.
Tutti gli apporti però, in virtù della disparità che è posta alla base delle relazioni, anziché sommarsi semplicemente, si moltiplicano; il contributo di ognuna nel momento in cui viene accolto e riconosciuto dalle altre pone le condizioni per la creazione di nuovo sapere e avvia una dinamica di crescita e di arricchimento di tutte, in virtù della quale risulta moltiplicato il ‘capitale comune’ e di conseguenza anche il ‘valore’ della comunità. La disparità consente a ciascuna di partecipare al comune conservando ed anzi valorizzando la sua singolarità, poiché non la costringe a misurare il suo apporto ad un parametro precostituito ed ugualizzante, ma le richiede invece di immetterlo e giocarlo tutto intero nel circolo virtuoso del meglio. Le dinamiche di autorità che emergono dall’azione della disparità sono di mera natura relazionale e pertanto non soggette al rischio di esaurirsi in atteggiamenti di autosufficienza individuale, e inoltre, dal momento che colei che è investita di autorità sente l’obbligo di restituire aumentati il credito e la fiducia ricevuta, tali dinamiche divengono esse stesse generatrici di crescita e di valore per la comunità.
Il METODO IPAZIA
Il modo di essere della comunità non può non derivare dal contesto che le ha dato origine. Il contesto come abbiamo già detto risale al lavoro creativo sulla figura di Ipazia, che rappresenta tuttora il paradigma dell’azione politica efficace, ovvero di una pratica di trasformazione di sé che trova rispondenza nella realtà esterna (il maximum della politica). Ma come e perché è successo che mentre tra di noi si stringeva una relazione che aveva forza generativa l’esterno mandasse segnali di accoglimento dei nostri stimoli e ci invitasse a proseguire nell’opera intrapresa? La risposta che abbiamo trovato sta nella dinamica relazionale che siamo riuscite ad attivare tra di noi e intorno a noi in quell’occasione; una di noi l’ha nominata qualche tempo dopo Metodo Ipazia, significando che l’archetipo della filosofa ha in qualche modo ispirato la nostra pratica con il suo insegnamento mettendoci in grado di trarre imprevisti guadagni dal suo esempio.
Tale metodo richiede che colei (colui)che in qualsivoglia contesto è investita di autorità ha l’obbligo di esercitare la funzione magistrale e di ‘esigere’ con sapienza ed amorevolezza la crescita di coloro che sono con lei in relazione; il metodo prevede altresì che colei (colui) che si trova a beneficiare dell’azione magistrale deve accettare il percorso di crescita non avendo timore di farsi attraversare dal dubbio e abbandonare certezze e deve saper prendere forza dalla ‘maestra’, per guadagnare a sua volta riconoscimento di autorità nello stesso e in altri contesti.
L’AFFIDAMENTO
Il Metodo Ipazia per essere efficace necessita di un tessuto di relazioni capaci di orientare alla valorizzazione della disparità e di determinare le condizioni affinché nel gioco del più e del meno si punti sempre al più e l’agire comune non discenda dalla media delle opinioni ma risulti dalla selezione del meglio. La trama di questo tessuto è data dalla pratica dell’affidamento. Ci si affida a chi detiene il dipiù che ci occorre per realizzare un progetto oppure a colei che ci rafforza nell’affrontare i rapporti sociali come anche quando si sceglie la mediazione femminile per affermarsi nel mondo.
Affidarsi comporta la decisione di prendere misura dalle donne, da nostra madre come dalle altre cui riconosciamo autorità e competenza, da quelle cui siamo legate da relazione politica. L’affidamento presuppone la doppia figura dell’affidante e dell’affidataria, colei che dà e colei che riceve l’affidamento; non funziona in modo univoco ma comporta differenti piani di reciprocità che vanno dichiarati e resi espliciti, nel senso che deve essere chiaro quale guadagno ogni parte trae dalla relazione. Come Eredibibliotecadonne abbiamo scelto di praticare l’affidamento nelle relazioni interne come nelle collaborazioni esterne poiché abbiamo sperimentato che se si prescinde da tale pratica non si attiva il circolo virtuoso dell’autorità e difficilmente l’azione politica risulta efficace e generatrice di nuova realtà e anzi molto facilmente si depotenzia la spinta innovativa e ci si involve nella ripetizione e nella conservazione dell’esistente.
Perché FARE e non essere comunità?
Innanzitutto perché, come abbiamo visto, non abbiamo a disposizione un modello pensato e prefissato di comunità femminile cui aderire o conformarsi, ma è un’idea in fieri che prende forma sulla base delle esperienze fatte e di quelle che faremo. Riteniamo poi importante evitare l’autodefinizione per non risultare fissate in un’identità, mentre sappiamo che la differenza femminile è un significante in movimento che non ‘vuole’ essere definito in uno stato o in un’essenza. Il fare indica invece un processo, il passaggio da uno stato all’altro, l’apertura al rapporto con le/gli altri, il desiderio di dar vita al nuovo e meglio esprime pertanto il senso del nostro stare insieme e del nostro guardare al mondo. Inoltre fare rende l’idea dell’incompletezza e della perfettibilità del progetto comune, lo lega ad un agire trasformativo della realtà e insieme delle stesse ragioni esistenziali della comunità. Infine perché avendo come Eredibibliotecadonne sperimentato che non basta definirsi comunità per esserlo davvero, preferiamo pensare piuttosto alla comunità come il prodotto di quello che saremo state capaci di fare insieme.
di Franca Fortunato
Intervento alla festa del 20 giugno a Catania in piazza Federico di Svezia
Vengo da una città, Catanzaro, dove la mia passione politica, che è passione delle relazioni, prima di tutto relazioni tra donne, la spendo facendo la giornalista in uno dei quotidiani più letto della regione: Il Quotidiano del Sud. Scrivo anche per una rivista on line, “Casablanca”, la cui direttora è Graziella Proto che vive in questa città. Scrivere, per me, è un agire politico.
Creo relazioni con le donne che dirigono il giornale, con le donne e gli uomini che mi leggono, mi rispondono e interloquiscono con me. Con Anna, Mirella e altre donne di Città Felice condivido un percorso politico di anni, per cui non è la prima volta che vengo a Catania ma è la prima volta a questa festa in piazza.
Nella mia attività di giornalista, guardo la mia città e la mia regione dalla politica della differenza e delle relazioni, per cui sto molto attenta a quanto accade per coglierne i segni di buone pratiche nei luoghi dell’amministrare e nei gesti di cittadini e cittadine che contribuiscono a rendere la mia città e la mia regione un luogo vivibile. La vivibilità o meno, per me, passa dalla qualità delle relazioni, dal desiderio che spinge all’azione, all’agire ovunque ci troviamo.
La mia regione e città sono piene di buone pratiche che le rendono belle, accoglienti, vivibili. Pratiche portate avanti più da donne che da uomini.
Buone pratiche amministrative, come quelle delle sindache. Annamaria Cardamone di Decollatura, Elisabetta Tripodi, da poco divenuta ex-sindaca di Rosarno, in quanto è stata costretta a dimettersi per mancanza della maggioranza. Di Maria Carmela Lanzetta, ex-sindaca di Monasterace. Buone pratiche che vuol dire innanzitutto amministrare fuori dal malaffare e da ogni rapporto con la ’ndrangheta. Buona amministrazione che vuol dire amministrare a partire da sé, dal proprio desiderio, e non dall’appartenenza al partito.
Buone pratiche di convivenza con i migranti, come in tanti comuni (Rosarno, Acquaformosa, Riace, Decollatura, Badolato, Davoli), dove in molti casi la presenza dei migranti ha rivitalizzato borghi destinati all’abbandono e allo spopolamento, riportando in vita antiche attività artigianali che condividono con i residenti.
Buone pratiche di prima accoglienza.
In questi mesi la Calabria, come la Sicilia, è terra di approdo di tante cittadine e cittadini stranieri che scappano dalla povertà e dalle guerre, che sono poi la stessa cosa (è guerra anche depredare delle loro risorse popoli dell’Africa, impoverirli e costringerli a fuggire. Pertanto respingo la distinzione assurda che si sta imponendo tra rifugiati, da accogliere, e migranti economici da respingere). Quando arrivano nei nostri porti (Reggio Calabria, Vibo Valentia, Crotone) sono molte le donne e gli uomini, più donne che uomini, che li accolgono con grande umanità.
Sono rimasta colpita dalla forza simbolica del gesto di alcune suore, riportato dal giornale su cui scrivo. Qualche giorno fa, nel porto di Reggio Calabria sono arrivati 544 migranti, di cui 61 minori non accompagnati e 148 donne. Le suore del coordinamento diocesano sono andate ad accoglierli. Una volta sbarcati, le suore hanno organizzato canti e balli con i più giovani.
Sono i piccoli-grandi gesti che danno dignità a una terra. Quelle suore lo hanno fatto. Non c’è bisogno di gesti eclatanti per rendere vivibile un luogo. Piccoli gesti come il saper fare l’elemosina con dignità e senza offendere la dignità dell’altra/o. È quanto più spesso ci troviamo a fare nelle nostre città.
A Catanzaro il sindaco mesi fa ha emesso un’ ordinanza contro l’“accattonaggio” perché alcune cittadine e alcuni cittadini si sono lamentati, in nome del “decoro” della “vivibilità”. I tanti poveri davanti alle chiese, agli esercizi commerciali, nelle strade, renderebbero, secondo costoro, non decorosa e non vivibile la città. Ho scritto pubblicamente al sindaco chiedendogli di ritirare quella brutta ordinanza. Sono convinta che le cittadine e i cittadini di Catanzaro non sono contro chi chiede l’elemosina ma molti di loro hanno paura della povertà, del senso d’impotenza che provano davanti a tanti poveri. Vorrebbero non ci fossero, non vederli. Anziché aiutare queste persone a imparare a stare davanti alla povertà, che colpisce anche tanti cittadini e cittadine catanzaresi, c’è chi preferisce alimentare le paure, ingigantirle, mettere i poveri gli uni contro gli altri e così pure gli abitanti delle degradate periferie della città contro gli immigrati.
È quanto è stato fatto ultimamente alla sola notizia che la prefettura aveva affidato alla cooperativa Mappamondo di Lamezia Terme il servizio di accoglienza e assistenza di circa cento cittadini stranieri migranti, richiedenti protezione internazionale. Maschi pseudorazzisti – come ho scritto sul giornale – non hanno esitato ad agitare fantasmi e seminare allarme e paure tra la popolazione di due quartieri in cui si diceva sarebbe sorto il centro di accoglienza. Sono zone di periferia in cui c’è degrado, frustrazione, rabbia nelle cittadine e cittadini perché si sentono non ascoltati nei loro bisogni dall’amministrazione comunale. Ho invitato il sindaco ad andare incontro alla cittadinanza, a rassicurarla, a discutere insieme le modalità dell’accoglienza, placarne le paure e dare ascolto ai bisogni e alle richieste delle/dei residenti.
Altra questione che riguarda i migranti è quella degli ospiti del Centro di Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto in provincia di Crotone (è un Cara gestito dalle Misericordie, cooperative che fanno capo a un prete di Isola di Capo Rizzuto e che sono state oggetto di una trasmissione televisiva di Servizio Pubblico per aver vinto il bando di gara con prezzi molto inferiori a quelli degli altri Cara. Il che si riversa sulla scarsità di cibo e di servizi che vengono erogati. E per il loro rapporto con politici e ’ndrangheta locale). Ebbene, molti di loro, giovani africani per lo più, ogni giorno raggiungono in pullman Catanzaro e Crotone. Qui, alcuni di loro, cercano di guadagnarsi qualche soldo aiutando gli automobilisti a parcheggiare, altri chiedendo l’elemosina davanti a esercizi commerciali. Li chiamano “parcheggiatori abusivi” e “accattoni”. Io li ho visti, li incontro ogni giorno. Mi avvicino a loro, chiedo da dove vengono e perché chiedono soldi. Al Centro i 2 euro e 50 centesimi giornalieri che dovrebbero avere dalle Misericordie non li ricevono mai. È quello che mi dicono questi giovani uomini che in città sono solo di passaggio, in attesa del riconoscimento di rifugiati e di andare altrove. Contro di loro nella mia città c’è stato chi ha fatto la guerra, invocando l’intervento delle forze dell’ordine e del sindaco chiedendo di cacciarli. Ho visto però tante donne più che uomini non lamentarsi, avvicinarsi loro con rispetto, parlargli e allungare qualche soldo. Loro ringraziano con un sorriso e gentilezza. Quando capita, ed è capitato, che con qualcuno di loro si arriva, tra maschi, alle offese e si sfiora la rissa, allora apriti cielo!
Sono i nostri piccoli-grandi gesti quotidiani che rendono vivibile o meno la città e civile la convivenza.
La Calabria in questi anni è molto cambiata, grazie anche alle donne. Mi riferisco alle testimoni e alle collaboratrici di giustizia che hanno dato inizio a un’altra storia fatta di libertà femminile, inconciliabile con la ’ndrangheta e la sua organizzazione patriarcale della famiglia criminale mafiosa. Sono loro – Lea Garofalo e sua figlia Denise, Maria Concetta Cacciolla, Giuseppina Pesce, Tina Buccafusco e le tante altre, tra cui metto anche Annamaria Scarfò, la ragazza di Taurianova (paesino della provincia di Reggio Calabria) che ha denunciato, portato in tribunale, e fatti condannare i suoi violentatori, tra cui alcuni mafiosi. Sono loro che con le loro scelte, a partire da sé, hanno cambiato la Calabria e aperto una strada “inedita” nella lotta alla ’ndrangheta, aprendo spazi di vivibilità per sé e per le altre.
Nella mia regione e a Catanzaro c’è molto altro. Voglio ricordare solo altri due fatti che vanno verso la vivibilità della città.
È stata scongiurata la realizzazione di una discarica di rifiuti, “La Battaglina”, che sarebbe dovuta diventare la più grande pattumiera d’Europa. Cittadine e cittadine si sono mobilitati, hanno creato un presidio permanente, luogo di relazioni, di incontro e di scambi. Hanno trascinato nella loro lotta anche le amministrazioni e sono riusciti prima a fermare, e poi a fare annullare i lavori che erano stati appaltati e avviati.
A Catanzaro, grazie a un gruppo di giovani che sono riuscitia coinvolgere la cittadinanza – le donne sono state in prima linea – si è riusciti a salvare una villa, “Villa Pangea”, unico polmone verde dentro la città, oltre che luogo di valore architettonico e storico, dalla distruzione per costruire un maxi-parcheggio. Oggi la Villa è stata recuperata, riqualificata e restituita alle cittadine e ai cittadini.
Insomma, se in Calabria prevalesse il negativo, che c’è ed è tanto e di cui, in genere si occupano i giornali e i commentatori maschi e gli “intellettuali” calabresi, sarebbe impossibile viverci.
Il mio compito di donna e giornalista, appassionata della politica delle relazioni, con un’esperienza alle spalle di riflessioni, di pensiero in relazione in luoghi della politica delle donne come le Città Vicine, dove la relazione con Anna Di Salvo e Mirella Clausi si è aperta a tante altre relazioni significative con donne e qualche uomo di altre città, prima fra tutte quella con Katia Ricci e Anna Potito della “Merlettaia” di Foggia, è di vedere, raccontare, scrivere, sostenere, accompagnare, creare e avere cura di buone pratiche di convivenza, che passano sempre attraverso relazioni di qualità tra donne, tra uomini e tra donne e uomini. È il piacere che tutto questo mi procura che dà senso al mio impegno di giornalista e rende vivibile la mia vita in città e in Calabria.
(libreriadelledonne.it 25/07/2015)
di Sara Gandini
Ho conosciuto di persona, 20 anni fa, la fatica che vivono i palestinesi nel vivere sulla loro terra, nei territori occupati, a Gaza, a Gerusalemme. Ero andata con Ragazzi Salaam dell’Olivo a sistemare una scuola e a conoscere quel popolo lontano. Non era ancora iniziata la seconda intifada, eppure già allora era durissima. Ricordo i problemi con il rifornimento dell’acqua, le case distrutte e l’arroganza dei ragazzini israeliani ai checkpoint, armati di mitra più grandi di loro. I palestinesi dovevano andare a lavorare, o in ospedale, o a studiare ma dovevano aspettare ore sotto il sole, senza alcun motivo, perché i ragazzini erano ancora in età di bullismo.
E’ stato il mio primo lungo viaggio che riuscivo a pagarmi con il mio stipendio e mi sono innamorata di quella terra piena di contraddizioni e di passioni intense. In questi mesi anch’io fatico ad ascoltare le notizie di quella terra ma non posso permettermi il silenzio. Loro ci chiedono di esserci, con le nostre parole.
E così anche medici e scienziati di fama internazionale hanno preso posizione su Lancet, uno dei cinque giornali scientifici più prestigiosi al mondo, su cui un giorno sogno di pubblicare anch’io: “Noi, come scienziati e medici non possiamo tacere mentre questo crimine contro l’umanità continua”, si legge nel testo pubblicato . “Invitiamo anche i lettori a non rimanere in silenzio. Gaza intrappolata sotto assedio viene uccisa da una delle più grandi e più sofisticate moderne macchine militari del mondo”.
Come si scrive sul fatto quotidiano, “tra i firmatari ci sono molti medici che in qualche modo con la guerra hanno sempre avuto a che fare. Tra gli altri c’è Paola Manduca, genetista dell’università di Genova, esperta degli effetti delle guerre sulle persone (si occupò per esempio dell’uranio impoverito per conto delle commissioni di inchiesta parlamentari). C’è Ang Swee Chai, ortopedica, famosa per essere stata presente nei campi libanesi di Sabra e Shatila nei giorni della mattanza contro i profughi palestinesi. C’è Derek Summerfield, psichiatra britannico noto per i suoi studi sugli effetti delle azioni militari israeliane sulla salute dei bimbi palestinesi.”
La lettera finisce con un duro attacco al mondo accademico e medico israeliano interrogandosi sul perché i colleghi accademici israeliani non scrivono e non prendono posizione nei confronti del loro governo per fermare l’operazione militare contro Gaza.
Care tutte mi ha risposto Katja Samutzevic, a cui avevo chiesto una sua lettura degli ultimi fatti e delle ultime dichiarazioni di Nadja e Mascia, apparse sulla stampa. Non sono buone notizie… Mi sono rattristata!!
Laura Minguzzi
Ecco la mail originale di Katja e la traduzione (17-2-2014):
Ciao Laura!
Sì, in effetti Nadja e Mascia si sono impegnate in politica in modo diretto, non si occupano più d’arte e hanno intenzione di occuparsi dei diritti dei prigionieri, non solo di quelli politici. Purtroppo hanno abbandonato l’arte e il gruppo. Adesso non sono in contatto né con me né con altre del gruppo. Abbiamo provato a metterci in comunicazione con loro dal momento in cui sono state liberate, ma non è stato possibile in nessun modo. Adesso per noi è diventato chiaro che non desiderano comunicare con noi. Io non me ne vado da nessuna parte, il gruppo è ancora molto numeroso, adesso noi stesse stiamo cercando di orientarci nella nuova situazione, dato che ogni giorno Nadja e Mascia parlano molto di noi, per esempio, che il gruppo non è mai stato separatista, femminista e di sinistra e a noi capita di rispondere a domande di giornalisti stupiti, cercando di spiegare che non è così. Nadja e Mascia adesso stanno semplicemente cominciando la loro carriera politica e cercano di utilizzare l’immagine del gruppo per i propri scopi, mettendo nei loro discorsi l’ideologia e la storia del gruppo al servizio dei loro nuovi impegni. Naturalmente fanno questo con le migliori intenzioni, io non ho nessun tipo di risentimento verso di loro, ma adesso noi non sappiamo come fermare la graduale sostituzione della storia del gruppo dovuta al comportamento e all’intervista di Nadja e Mascia. Ora la situazione è un po’ complicata. Spero che riusciremo a superare questa difficoltà.
Лаура,
привет!
Да, действительно, Надя и Маша занялись чистой политикой, ушли из искусства и собираются заниматься правами всех заключенных, не только политических. К сожалению, они покинули искусство и группу ПР. Они не общаются ни со мной ни с другими участницами. Мы пытались с ними связаться с момента их освобождения, но никакого результата не добились. Сейчас уже стало ясно, что они в принципе не хотят общаться с нами.
Я никуда не ухожу, в группе еще много участниц, сейчас мы сами пытаемся сориентироваться в ситуации, так как каждый день Надя и Маша говорят много о нас, например, что группа никогда не была сепаратистской, феминистской и левой, и нам приходится отвечать на вопросы удивленных журналистов, объясняя, что это не так, Надя и Маша сейчас просто начинают свою политическую карьеру и пытаются использовать образ группы в своих чисто карьерных целях, заменяя в своих речах идеологию и историю группы под их новые задачи.
Конечно, они это делают из лучших побуждений, у меня нет каких-то обид против них, но сейчас мы не знаем как остановить постепенное замещение истории группы поведением и интервью Нади и Маши. У нас сейчас сложилась непростая ситуация. Надеюсь, мы ее преодолеем.
Mail di Laura Minguzzi a Katja (17-2-2014):
Ciao Katja!
Come va? Come stai? Io e altre amiche desidereremmo molto conoscere la tua opinione sulle ultime novità che riguardano il gruppo delle Pussy Riot. Dopo la liberazione di Nadja e di Mascia nella stampa e in televisione scrivono e mostrano che loro due hanno lasciano il gruppo e in futuro si occuperanno dei prigionieri politici e inoltre avrebbero intenzione di partecipare alle prossime elezioni per entrare in parlamento!! Noi non riusciamo a comprendere il loro comportamento. Katja, aiutaci a decifrare i loro gesti. A proposito qual è la tua attuale situazione? Che cosa stai facendo in questo periodo? Tu sei ancora nel gruppo delle Pussy? Raccontaci tutto, a noi interessa molto. Ti mando un saluto da parte di tutte!
Ti abbraccio e aspetto la tua risposta.
Priviet Katja!
Kak dela? kak ty zhiviosch? My s drugimi podrugami ocegn’ chotieli by uznat’ schto ty dumaiesch o posliednich novostjach gruppy Pussy Riot. Poslie osvobozhdienja Nadij i Masci v pressie i po televisoru pischut i pokazyvajut schto ogni pokidali gruppu i budut zanimat’tza politiceskimi zakljucionnymi. K tomu zhe ogni namerieny ucjastvovat’ v vyborach i vojti v dumu!! My ne mozhem nikak pognjat’ ich povedienie. Pozhaljusta Katja pomogi nam razobrat’za vo vciom etom. Mezhdu procim kakaja u tibja ostanovka? Ciem ty sejcjas zanimaieshsja? Ty iscio v gruppie Pussy Riot?
Rasskazhy , nam ocegn’ interesno. Peredam ot vsiech bol’schoj priviet!
Obnimaju kriepko i zhdu tvoievo otvieta
di Franca Peroni
È la prima volta nella storia che due dirigenti nazionali della Cgil lasciano l’organizzazione per “andare a sinistra”, scegliendo il maggiore dei sindacati di base per proseguire una militanza che dura da una vita.
Ma questi sono tempi pieni di “prime volte”.
[…]
Le ragioni di una scelta certamente sofferta, complicata, meditata, non improvvisata, le abbiamo raccolte dalla voce si Franca Peroni, con una ragionamento che qui proviamo a sintetizzare.
[…]
L’altro elemento fondamentale, quello che mi ha fatto capire che non ce la potevo più fare in Cgil, l’ho toccato con mano quando sono tornata a lavorare, “in produzione”, facendo la micro-contrattazione sul territorio[…]
Non ho mai pensato che il sistema delle “quote” potesse rappresentare l’interesse delle donne. Può aiutare nelle fasi più nere, e oggi siamo in una fase nerissima, ma non consentono di risolvere questo problema dell’assenza della voce delle donne nel sindacato in Parlamento.
Il problema è che le donne, ad un certo punto, hanno deciso di “fare altro”. Perché quando ti scontri quotidianamente – anche dentro le organizzazioni di sinistra – con un “pensiero unico”, e non c’è una valorizzazione della differenza di genere, una decide che fa altro, costruisce delle relazioni in altra maniera. È importante il ruolo delle donne nel mondo del lavoro perché purtroppo si tratta di un mondo molto sessista. Viaggia ancora sugli stereotipi. A livello di dirigenza il “tetto di cristallo” viene sfondato da pochissime donne di grande capacità. A livello intermedio hai una pletora di donna in gamba, ma quando sali al livello della dirigenza trovi soltanto uomini. E non è mica perché si sono perse per strada…
Serve il punto di vista delle donne perché c’è un altro approccio al lavoro di cura, riproduttivo (ovviamente), ma anche produttivo. Stare dentro la discussione sindacale con questi punti di vista di genere è necessario per dare risposte migliori a livello complessivo. Non ho mai creduto neppure nei “coordinamenti donne”, perché non ci posssono essere compagne che elaborano a parte una serie di cose e poi le “trasmettono” all’organizzazione. Ci deve essere una discussione con i compagni e le compagne su alcune priorità che devono essere di tutta l’organizzazione. Altrimenti rimani “la bandierina” messa sul tema.
È accaduto anche in Cgil, e penso che molto dipenda anche dal linguaggio. Credo che il linguaggio sessuato sia il punto di partenza per una alfabetizzazione in un tempo in cui tutto va a ritroso. Le conquiste femministe degli anni ’70 e successivi sembrano quasi scomparse, si è tornati agli stereotipi. Il fatto che la segretaria generale della Cgil si faccia chiamare “segretario” è per me motivo di sofferenza e di insofferenza al tempo stesso. Significa che neghi te stessa, il tuo genere, la tua soggettività. E questo si vede anche nella contrattazione. Quando tu cominci a porre dei limiti alla tutela sugli orari e i turni, tu stai pesando sulla quotidianità delle donne molto più di quanto non avvenga per gli uomini. Quando introduci delle riduzioni in materia di malattia, cura, assistenza, maternità, stai intaccando quella sfera dei diritti che le donne si erano faticosamente conquistate. Non ci può essere l’idea che certi diritti esistono quando l’economia va bene e si restringe quando invece va male. Certi paletti devono rimanere anche in periodi di estrema crisi. E questo manca, ora.
Dirigente CGIL della funzione pubblica e della Fiom
[…]
Nella Cgil ci sono migliaia di compagni che lavorano onestamente e provano a fare una battaglia dentro l’organizzazione- Ma è ormai una battaglia impari, E anche un po’ inutile, perché non consente di andare davanti ai lavoratori esponendo le opzioni di fondo. Le assemblee si svolgono in un’ora, non è stato distribuito il materiale, non si conoscono davvero le diverse posizioni.
E c’è rassegnazione. Quando sono tornata a lavorare nel pubblico, che è ancora un settore un po’ “protetto”, mi sono trovata davanti a un atteggiamento disperante: “a noi sono cinque anni che non ci rinnovano il contratto, ma in fondo noi abbiamo un lavoro”. Questo significa che i padroni hanno vinto culturalmente, “nella testa” della gente. E allora non puoi continuare ad andare avanti così. Bisogna cambiare strada.
(contropiano.org – 8 febbraio 2014)
November 7, 2013
By Suzanne Persard, Huffington Post, 25 ott. 2013, dal sito di Malalai
Il numero di attentati subiti da Malalai Joya riportato dai media è molto spesso impreciso – la cifra esatta infatti è sette, non sei; senza considerare poi che questo numero si riferisce solo ai tentativi scoperti.
Nel 2007, Joya, giovane parlamentare afghana, venne espulsa dal governo per aver denunciato la presenza di signori della guerra in Parlamento. L’allora ventottenne Joya, attivista per i diritti delle donne, denunciò l’occupazione delle truppe americane in Afghanistan, i loro ufficiali fantocci, e definì i talebani retrogradi e medievali. Da quel giorno le minacce di morte si sono moltiplicate, così come gli attentati per mano dei talebani.
[…]
Dai tassisti afghani ai signori della guerra al potere, il nome di Joya echeggia in tutto il paese suscitando derisione, timore ma anche speranza. E mentre la sua campagna per i diritti delle donne e contro la violenza di genere non si ferma, Joya continua a ricevere minacce di morte mentre il numero di vittime di stupro e parenti che si rivolgono a lei in cerca di supporto è in continuo aumento. Dopo aver denunciato la misoginia e il patriarchia dilagante nel governo afghano e tra i fondamentalisti religiosi, Joya continua coraggiosamente la sua battaglia rischiando ogni giorno la propria vita.
Nonostante le atrocità commesse dai talebani, una guerra che ormai dura da dodici anni e le campagne in difesa delle donne, Joya ha accettato di rivelarmi i motivi che la spingono a non arrendersi e a continuare la propria battaglia per la liberazione del suo paese.
Hai sempre chiesto a gran voce la ritirata delle truppe americane dall’Afghanistan, dichiarando che solo il popolo può liberare il proprio paese dagli oppressori. Pensi che una vera rivoluzione democratica in Afghanistan sia possibile?
Nel mio Paese ci vuole tempo, ma grazie alla resistenza del popolo afghano, di studenti universitari, di intellettuali democratici e alcuni partiti politici che si oppongo con tenacia al regime fascista instaurato dalle truppe americane e Nato ed i loro lacché, signori della guerra e talebani – le persone che stanno alzando la propria voce sono sempre di più. Ci vorrà del tempo perché tutt’oggi milioni di afghani – più dell’ 80 per cento della popolazione – vive sotto la soglia di povertà. Il popolo afghano è oppresso da ingiustizie, disoccupazione, corruzione, povertà. Anche la mancanza di educazione è un grande elemento di oppressione per il popolo afghano, specialmente per le donne, le quali sono ancora una volta le principali vittime di violenze e ingiustizie.
Molti esempi dimostrano che è necessario del tempo perché avvenga un cambiamento radicale, specialmente se si considera che oggi al governo in Afghanistan vi sono terroristi reazionari, personaggi misogini, signori della guerra e indirettamente, anche i talebani. Questi rappresentano un grande ostacolo, specialmente per gli attivisti democratici il cui ruolo nella società è fondamentale. Nonostante tutti i rischi, le sfide e le difficoltà, noi attivisti siamo molto determinati e non ci fermeremo finché non avremmo ottenuto dei cambiamenti positivi per il nostro paese, soprattutto nel campo dei diritti umani, diritti delle donne e della democrazia. Al momento in Afghanistan non c’è nemmeno l’ombra di una democrazia.
Un popolo che si ribella è fonte di speranza… l’unico desiderio degli afghani è la giustizia. Il popolo afghano vuole giustizia. Ma è oppresso dalle forze americane e Nato che occupano il paese. La gente è stanca, ferita e l’odio verso questi terroristi è in forte crescita. Nonostante tutto, la loro battaglia non si ferma.
Il tuo coraggio nel denunciare la violenza sulle donne e la loro oppressione ha avuto un grande impatto in tutto il mondo. Conosci altre donne che sono state incoraggiate dalla tua forza a denunciare queste violenze o pensi che ci sia ancora un forte timore nel denunciare questi abusi a causa delle minacce che hai subito?
Entrambe le cose: quando dieci anni fa, nel 2003, decisi di far sentire la mia voce, denunciai pubblicamente la presenza di criminali tra le file del parlamento afghano. All’epoca rischiai più volte la vita, ma allo stesso tempo ricevetti il sostegno di milioni di afghani vittime di questi criminali. Oggi anche loro riconoscono la necessità di denunciare i crimini subiti e a distanza di dieci anni, le mie parole hanno trovato conferma: il muro di silenzio è crollato, la gente mi incoraggia ad andare avanti con la mia battaglia, cosa che pochi osano fare.
Fortunatamente le persone che denunciano pubblicamente la corruzione dilagante in Afghanistan sono sempre di più e la loro voce echeggia in tutto il mondo. Quello che dicevo io dieci anni fa, ora lo dicono anche loro. Questa è la nostra speranza per il futuro.
Vorrei inoltre precisare che la mia non è l’unica voce che incita il popolo a ribellarsi. Come me ci sono molti altri coraggiosi attivisti che rischiano la vita quotidianamente per incoraggiare il proprio popolo. Io faccio la mia parte, proprio come loro.
Quest’anno il parlamento afghano ha ridotto il numero di seggi riservati alle donne, dal 25 al 20 per cento. Ritieni che le donne nel tuo paese abbiano un ruolo politico rilevante?
Le donne che oggi siedono in parlamento hanno del potere ma sfortunatamente non lo usano nel modo giusto. La maggior parte dei seggi è riservata a signori della guerra, trafficanti di droga, criminali, persino talebani e solo il 20 per cento spetta alle donne, la maggior parte delle quali ha un ruolo puramente simbolico – appoggiano infatti i signori della guerra e l’occupazione americana. Queste donne non potranno mai essere vere protavoci del popolo afghano. Ricordo che quando ero in parlamento, una donna fondamentalista mi minacciò, dicendo che se avessi continuato a parlare mi avrebbe fatto cose che nessun uomo oserebbe fare.
Come rispondi a coloro che dicono che la tua battaglia ha influito negativamente sulla condizione dell donne in Afghanistan, addirittura peggiorandola? Ad esempio, la decisione del parlamento di ridurre il numero di seggi destinati alle donne potrebbe essere vista come una conseguenza del fatto che un numero sempre maggiore di donne sta denunciando le violenze subite.
No, non sono mai stata d’accordo con questo tipo di propaganda, perlopiù alimentata da personaggi conservatori quali signori della guerra, e sostenitori dell’occupazione americana. Hanno detto di tutto, che sono interessata solo alla fama, che intimorisco le donne, ecc. E’ la debolezza politica che alimenta questa propaganda. Da quando ho denunciato i criminali in parlamento, moltissime persone si sono schierate al mio fianco, la maggior parte di queste sono donne. Dal momento che sono costretta a vivere in clandestinità, mi chiedono come posso fare a far sentire la propria voce.
Un esempio è il caso della sedicenne Shekila, brutalmente violentata da alcuni signori della guerra – tra i quali un membro del consiglio provinciale – e uccisa con un colpo di arma da fuoco. Ebbene, tre parlamentari cercarono di falsificare il rapporto medico effettuato sul corpo della ragazzina. La famiglia della vittima è venuta da me per chiedere aiuto morale – per far sentire il proprio grido di indignazione – e finanziario – non potendo permettersi un avvocato. Un’altra ragazzina vittima di stupro è venuta da me per chiedere il mio sostegno e una delle mie guardie di sicurezza le ha salvato la vita. Ho seguito personalmente il suo caso, e molti altri ancora, non solo casi di stupro, ma anche casi di parenti che hanno perso i propri cari nei bombardamenti delle forze occupanti o per mano dei talebani o dei signori della guerra. Moltissimi di loro sono venuti da me chiedendomi di aiutarli a denunciare questi crimini e far sentire la loro voce in tutto il mondo, Afghanistan compreso.
Nonostante l’occupazione americana, la crescente misoginia, la corruzione, la presenza di signori della guerra e talebani in parlamento, cos’è che ti dà speranza e la forza per continuare la tua battaglia?
Sono molte le ragioni che mi danno speranza: per prima cosa, il nostro orgoglio. In passato il nostro paese non ha mai accettato l’occupazione di forze straniere e questo ci rende molto fieri. E poi la resistenza del popolo afghano, studenti universitari e partiti democratici come il Partito della Solidarietà Afghano, Hambastagi, che organizza manifestazioni di protesta contro l’occupazione, contro il regime dittatoriale in Iran, ma anche contro talebani, terroristi e signori della guerra, alle quali partecipano centinaia di migliaia di persone. E’ questo che ci dà speranza.
E le persone straordinarie che lavorano per il governo o l’esercito americano, come Bradley Manning, Edward Snowden, o molti altri che come loro trovano il coraggio di denunciare i crimini di guerra del loro governo – anche loro ci danno ragione di sperare. Sono la speranza di milioni di persone oppresse in tutto il mondo.
Anche tutti coloro che si battono per la giustizia nel mondo, inclusi gli Stati Uniti, contro la crisi economica, contro gli interventi militari, anche loro sono una grande fonte di speranza. In questo decennio di guerra, abbiamo perso praticamente tutto, ma c’è una cosa positiva che abbiamo conquistato, ed è la consapevolezza politica della maggioranza del popolo afghano che vive in condizioni di povertà estrema e senza educazione; questa consapevolezza è la nostra speranza.
Questo è il mio messaggio a tutti coloro che si battono per la giustizia nel mondo: è il coraggio del mio popolo, di questi giovani, di tutte le vittime di stupro, dei loro familiari, di tutti coloro che non vogliono più rimanere in silenzio e che stanno alzando la propria voce nonostante le continue minacce. Sono loro la nostra speranza.
Nella notte di venerdì 19 luglio, centinaia di uomini e donne No Tav cercano di avvicinarsi alle recinzioni che espropriano una parte della Val Susa: terra di boschi e lavande, terra che dovrebbe dare frutti, terra che uomini e donne hanno vissuto e rispettato. Terra di lotte partigiane, sentieri che hanno visto combattere, e vincere, contro i nazisti. Ma quella terra ora è deserto, ruspe che scavano e abbattono, recinti e check point, gas che avvelenano, con le popolazioni civili, i loro campi e le loro vigne. Una terra strappata al presente in nome di un “progresso” che avvelena le vite delle donne e degli uomini, impegnato a distruggere i valori e la dignità delle comunità. Un salto indietro nella storia.Venerdì 19 luglio uomini e donne No Tav si avvicinano nel buio per battere sulle reti e gridare: «Mia nonna partigiana me l’ha insegnato, tagliare le reti non è reato». Qualcosa è accaduto, venerdì notte, in Val Susa. Centinaia di agenti, esercito armato e attrezzato per la guerra, hanno assalito quegli uomini e quelle donne armati di torce e limoni e bottiglie d’acqua. Hanno chiuso loro ogni via d’uscita e, novella Diaz, hanno operato una mattanza. I più giovani, come testimoniano gli anziani della valle, hanno cercato di proteggere una via d’uscita ai più deboli, consentendoli di arrampicarsi sulla montagna, fuori dai sentieri chiusi dalle “forze dell’ordine”. Hanno pagato un prezzo altissimo, 63 feriti, 2 fermati, 7 arrestati. Una nostra amica, Marta, 33 anni, pisana, viene fermata, colpita alle spalle durante la fuga. La sua testimonianza racconta le manganellate alla schiena mentre è schiacciata per terra dagli scarponi di agenti di cui non riesce neanche a vedere il volto. La notte è satura di gas e lei non è protetta da maschere, a differenza degli agenti. La trascinano in due, uno le stringe il collo, dell’altro restano sul suo braccio le impronte livide della stretta. La trascinano mentre altri intervengono. Uno alza il manganello e le spacca la bocca (sei punti esterni, due interni), altri le palpeggiano il seno e il pube. È un coro di insulti, un gridare «puttana». Sanguinante la portano dentro il cantiere, gli insulti e gli sputi continuano, ci sono i magistrati e anche una donna poliziotto che non porta conforto ma altri sputi e insulti e molestie verbali. Un medico di polizia raccomanda il ricovero immediato in Pronto Soccorso. Passeranno quattro ore. Quattro ore di sangue sul volto e sputi e insulti al suo essere donna. Dal Pronto Soccorso la rilasceranno indagata a piede libero. Non è il caso di farla vedere a un giudice. Ma la Diaz di Marta non è finita. Non è bastato il pestaggio, non sono bastate le violazioni al suo corpo di donna, non sono stati sufficiente “lezione” gli insulti e gli sputi e il ritardo nei soccorsi. Marta non è stata zitta. Ha alzato la faccia ferita, è andata davanti alla stampa e ha osato raccontare. Lei, l’unica dei fermati di quella notte d’inferno che poteva parlare. E allora la caccia alle streghe riparte. Come donne conosciamo i toni e i modi e la violenza profonda di chi ti umilia e viola e insulta un’altra volta. Ed ecco spuntare l’Ugl, sindacato di destra, a chiedere per Marta punizioni esemplari. Ed ecco un senatore della Repubblica, Stefano Esposito, Partito Democratico, divertirsi a twittare che Marta è bugiarda, che le manganellate giuste che ha preso se l’è cercate con la sua «guerra allo Stato» e che certo nessuna molestia c’è stata. Una follia di machismo, una banale arcaica prepotenza sulle donne umiliate e su Marta violata che si permette ancora di ribadire, dalle frequenze di una radio nazionale. Come donne non possiamo tacere. Non possiamo tollerare che la terra, gli uomini e le donne continuino ad essere violati. Non possiamo più sopportare che la vita e i bisogni di tutte e di tutti siano travolti dall’arroganza dei pochi che su questo possono lucrare. Un arroganza che si crede onnipotente, che pensa di poter travolgere i corpi e le vite delle donne e degli uomini, con la violenza delle armi, prima, con quella degli insulti e della denigrazione e delle menzogne, poi. Per Marta e i feriti della Val Susa esigiamo giustizia. Per le donne violate esigiamo rispetto. Se il carnefice è pagato dallo Stato ne esigiamo di più.
Seguono 268 firme di donne pisane No Tav più altre 156 maschili e quello di 46 organizzazioni. L’appello è ancora aperto e può essere sottoscritto via mail all’indirizzo senonconmarta@gmail.com
di Anna Potito
Domenica 19 maggio a Foggia l’isola pedonale, nel tratto compreso tra Il Teatro Comunale U. Giordano e il corso Vittorio Emanuele, al tramonto, era in grande fermento. Anziani, giovani, coppie di fidanzati, giovani genitori con bambini in carrozzina, ragazzini in bicicletta, cani al guinzaglio con padroni al seguito. Chi si fermava a guardare incuriosito, chi chiedeva cosa stesse succedendo. Accanto ai cestini dei rifiuti, quelli color grigio piombo spesso poco usati e poco visti, qualcuno, a volte un uomo, a volte una donna, armeggiava con nastri, cartoni, strisce, strani oggetti colorati. Dopo un po’ i cestini dei rifiuti si sono vestiti di colori, immagini, suoni, bocche sorridenti, ali d’angelo, animali, palloncini, cuori, ranocchi, grandi bolle, abiti da sposa, rotoli di poesie, cappelli, serpenti. Orme variopinte e frecce indicavano il percorso che conduceva verso di quelli: fantasiose e pirotecniche installazioni artistiche, generoso dono di 15 artiste e artisti, che con questa performance hanno voluto ricordare alle abitanti ed agli abitanti, spesso distratti, che i cestini per piccoli rifiuti ci sono, per portarli alla loro attenzione e per significare che quello che sembra un rifiuto può diventare cosa preziosa. Singolarmente o a piccoli gruppi abbiamo camminato per ammirarli in un percorso che era anche un incontro con nuovi sguardi, il ritrovamento di un’amicizia da qualche tempo trascurata, un’emozione da condividere notando qualcosa della città che forse non ricordavi. A un certo punto, al suono ritmato di una musica incalzante, rinforzato dai bonghetti di ragazzi spuntati da non so dove, un gruppo di donne si è staccato e ha intrecciato una danza che mimava i movimenti di chi, andando frettolosamente per la strada, getta distrattamente una carta, saltella per scansare una cacca di cane, a stento riesce ad evitare una buca vista all’ultimo momento. Allo stesso ritmo un altro gruppo raccoglieva le carte gettate, con guanti e pinze prendeva gli escrementi ponendoli nei sacchetti opportuni, simulando i gesti doverosi di chi vuole che la propria città sia come la propria casa, vivibile, per ricordarlo a cittadini poco educati e ad amministratori poco attenti che hanno trascurato questa città che non si rassegna, però, ad essere bistrattata. Il flashmob era così veritiero da suscitare schifo, sorpresa e poi ilarità, specie nei ragazzini. Assenti ancora una volta gli amministratori con i quali, pure, da qualche tempo, a partire dall’emergenza rifiuti causata dal fallimento della società che ne gestiva la raccolta e lo smaltimento (AMICA ma poco amichevole con i cittadini) abbiamo ripreso il dialogo. Sulla spinta di una grande mobilitazione cittadina da alcuni mesi si è creata spontaneamente una rete di associazioni, le tante, fertilmente operative, che fanno riscontro all’incuria o all’indolenza di chi amministra la città, che ha preso nome UN’ALTRA FOGGIA È POSSIBILE. La rete ha incontrato e incontra periodicamente alcuni responsabili dell’Amministrazione comunale, un tavolo stabile di consultazione in cui portare le richieste, ascoltare le proposte, discutere, contrattare bisogni e possibilità di soddisfarli. Non pensiamo di gestire insieme il potere né intendiamo costruire un contropotere ma non vogliamo delegare e ci riappropriamo di quello che è nostro. Siamo convinte ed anche convinti, giacché nella rete ci sono alcuni uomini e molti giovani, che abbiamo senso di responsabilità e la consapevolezza di possedere competenze e forme originali di fare politica. Anche questa iniziativa mostra la diversità tra la politica della differenza, che è politica della cura e delle relazioni, dalla tradizionale politica del potere maschile che predilige apparati e podii. Alla maniera delle donne, che cercano di rimediare il pranzo con quello che c’è in casa, vogliamo cogliere l’occasione e fare di un problema un’opportunità, arrivare gradualmente a rifiuti-zero, non riciclaggio ma riciclo, non scarto ma humus fecondo, occasioni lavorative per nuove industriose modalità. Per ri-suscitare in ciascuna/o di noi che abita questa città il piacere di viverci è necessario ritrovare dentro di noi una scintilla di bellezza; cosa è meglio dell’arte e della creatività? Gli artisti e le artiste si sono sbizzarriti e ci hanno stupito. I corpi in movimento armonioso che hanno attraversato le strade hanno mostrato che la città può essere un luogo di gioia naturale e gratuita. Nessuno dei passanti è rimasto insensibile, molti hanno commentato, plaudito, qualcuno era ammirato ma disincantato; tante si sono aggiunte alla danza, molte avrebbero voluto.
Quando a un tratto è calata la sera, un telaio di 4 metri per 4, retto da tante mani maschili e femminili ha tessuto una trama di fasce su cui erano scritti i nomi delle Associazioni che aderivano all’iniziativa: Rete Città Vicine, Merlettaia, Link studenti, Foggia in movimento, Arcobaleno, Cicloamici, Amici della domenica, Forum dei Giovani, Libera, Capitanata rifiuti zero, Comunità sulla strada di Emmaus, Correre è vita, Ubik, Foggia city half maratha. A gara, mani note e sconosciute hanno intrecciato fasce colorate e variopinte dando vita ad un arazzo: l’intreccio di tutte e tutti, la trama e l’ordito che fa di un insieme di persone in un certo luogo una comunità. Si è percepito in maniera quasi tangibile che prendersi cura della città è prendersi cura della vita, propria e altrui, perché la città è il luogo della vita e solo insieme si può combattere l’illegalità, la prepotenza, la strafottenza, l’individualismo. Una falce di luna nascente si è levata alta nel cielo azzurro intenso, quasi l’auspicio di un nuovo inizio. Un’altra Foggia è possibile.
di Ivan Mocciaro
Continua il presidio in contrada Ulmo a Niscemi dov’è in corso la realizzazione del sistema satellitare Muos della marina militare Usa. Da giorni comitati, famiglie e “mamme No Muos” occupano l’area dando vita a scontri con le forze dell’ordine. Momenti di tensione si sono registrati anche oggi, quando un gruppo di attivisti, tra cui alcune donne ma anche “nonni e nonne Ni Muos”, hanno bloccato il passaggio di alcuni mezzi con a bordo militari americani e operai. I manifestanti, che si erano sdraiati sulla strada per impedire il passaggio del convoglio, sono stati sollevati di peso dalle forze dell’ordine. Presenti al presidio anche Salvatore Vaccaro e Nicola Arboscelli, i due pacifisti arrestati lunedì scorso dopo essersi arrampicati sulle antenne della base militare americana e poi scarcerati e prosciolti. A bloccare i convogli, con un’insolita forma di resistenza passiva, anche due nonne che su un tavolino hanno giocato a carte per tutta la giornata.
di E.MAR.
Lo avevano promesso quelli del movimento No Dal Molin: «Saremo in piazza con le bandiere listate a lutto». E così è stato, solo che la bandiera della pace con una grande fascia nera in diagonale è arrivata sul palco delle autorità alla fine dell´orazione di Ghiotto. Ci ha pensato la leader storica Cinzia Bottene a portarla con sè e tirarla fuori dalla borsetta quando le celebrazioni stavano terminando. E così il 25 aprile è diventato un’altra vetrina per i No Base che durante la mattinata hanno alzato le bandiere dal pubblico. Non solo, dopo che Ghiotto ha terminato il suo discorso la Bottene si è rivolta a lui porgendogli la bandiera della pace spiegandogli le ragioni della protesta. Una presa di posizione giunta dopo che la prefettura aveva deciso di non aprire al pubblico la base Del Din per ragioni di sicurezza. Ieri una protesta che ha avuto l’appoggio di molte associazioni ma anche del movimento Cinque Stelle presente alle elezioni comunali.
Così avevano detto, così hanno fatto
“… con le bandiere della pace listate a lutto, saremo alla celebrazione del 25 aprile, per denunciare come a Vicenza e in altre regioni d’Italia, gli statunitensi, che nel 25 aprile del 1945 sono entrati nelle nostre città a fianco dei partigiani e degli alleati, siano progressivamente diventati degli occupanti e come parti significative del territorio della Repubblica vengano sottratte alla sovranità della cittadinanza e acquisite come fossero delle colonie…”
Anche se “ l’open day” del 4 maggio è stato annullato, noi cittadine e cittadini di Vicenza, che nel corso di questi anni abbiamo manifestato la nostra OPPOSIZIONE alla costruzione di una nuova base di guerra, continuiamo a dire il nostro NO alla base partecipando oggi, con le bandiere della pace listate a lutto, alla celebrazione del 25 aprile, per denunciare come a Vicenza e in altre regioni d’Italia, gli statunitensi, che nel 25 aprile del 1945 sono entrati nelle nostre città a fianco dei partigiani e degli alleati, siano progressivamente diventati degli occupanti e come parti significative del territorio della Repubblica vengano sottratte alla sovranità della cittadinanza e acquisite come fossero delle colonie.
Continueremo
a denunciare ogni forma di complicità con le guerre in corso, a manifestare contro ogni tipo di militarizzazione del territorio, a lottare per una città libera dalle basi di guerra, per l’affermazione di una città di pace.
Vogliamo continuare a denunciare con forza
che la costruzione della base statunitense ha sottratto a Vicenza l’ultimo spazio verde, senza che siano state rispettate le direttive europee sui referendum e senza che sia stata attuata la valutazione di impatto ambientale obbligatoria per attuare progetti così invasivi: 700.000 metri quadrati con un edificato pari a 800.000 metri cubi di cemento che ha prodotto una gravissima lesione all’equilibrio idrogeologico della zona.
Vogliamo dire ai militari americani
di esaminare la documentazione relativa all’occlusione e alla distruzione del sistema di drenaggio che dal 1929 permetteva il deflusso delle acque piovane dell’area del Dal Molin e dei territori circostanti; di osservare come, a seguito dei lavori per la costruzione della nuova base militare si siano formati degli acquitrini all’interno dell’area adiacente alla base, divenuta ora un “parco acquatico”; di consultare le famiglie dei residenti che ad ogni temporale devono attivare le pompe per evitare allagamenti di abitazioni che non avevano avuto mai problemi prima che si aprissero i cantieri.
Vogliamo ribadire
che non sono state fornite spiegazioni ai quesiti che a seguito di queste criticità sono stati posti da più parti, comprese le istituzioni.
Vogliamo smascherare
il regime di servitù militare, un vero e proprio regime di occupazione del territorio e una limitazione della cittadinanza, tanto più offensiva quanto più si pretende che venga considerato una risorsa e un’opportunità.
Beati i costruttori di Pace Coordinamento dei Comitati Cristiani per la Pace
Donne in rete per la Pace Gruppo Emergency di Vicenza Famiglie per la Pace
Femminile plurale Gruppo donne del Presidio “No Dal Molin”
MIR/IFOR Movimento Internazionale della Riconciliazione Movimento Nonviolento
Presidio Permanente “No Dal Molin” Sinistra Ecologia e libertà USB
Vicenza Libera “No Dal Molin” Forum per la Pace di Monticello Conte Otto
di Sebastiano Gulisano
Le mamme di Niscemi in Sicilia hanno deciso di ribellarsi allo strapotere USA e così ogni giorno mettono i loro corpi davanti ai convogli militari che si dirigono alla base ove è situato il MUOS, Mobile User Objective System. Da quando hanno visto manganellare i manifestanti – l’11 gennaio scorso – hanno deciso di prendere loro la situazione in mano. Spendersi in prima persona. Ogni giorno in guerra, anche con la neve. Presidi, blocchi stradali, assemblee. Ogni mercoledì in piazza. Tutti devono sapere. E così coinvolgono altre e altri. Scuole e comuni limitrofi. Queste mamme vogliono che i propri figli nascano e crescano sicuri, senza malformazioni, senza la prospettiva di morire senza vivere la vita.
«Per vent’anni abbiamo dovuto subire, inconsapevoli, le emissioni delle 46 antenne; ora vorrebbero che subissimo anche quelle delle tre parabole satellitari: non abbiamo alcuna intenzione di continuare a farci avvelenare, non vogliamo né le nuove installazioni né le vecchie.» Concetta Gualato è la portavoce del Comitato Mamme No MUOS, che in appena un mese è riuscito ad aggregare circa 600 mamme niscemesi – perlopiù casalinghe, ma anche impiegate e insegnanti – fermamente decise a ribellarsi allo strapotere USA, che in questo angolo di Sicilia lontano dai riflettori delle cronache ha una delle sue installazioni strategiche per le comunicazioni militari nel Mediterraneo: 46 antenne che da vent’anni contaminano le popolazioni locali con le loro emissioni a bassa frequenza, aggiungendosi alle emissioni velenose provenienti dal vicino petrolchimico di Gela. «Per vent’anni nessuno ci ha informati dei rischi alla salute cui eravamo soggetti a causa delle antenne, ma ora, dopo lo studio dei professori del Politecnico di Torino Massimo Coraddu e Massimo Zucchetti, noi sappiamo e non intendiamo tacere, dobbiamo difendere la nostra salute e, soprattutto, quella dei nostri figli, e non permetteremo che il MUOS sia realizzato», chiarisce Mamma Concetta.
Il MUOS, Mobile User Objective System, è il sistema di telecomunicazioni satellitari della marina militare statunitense che consentirà agli USA di controllare le comunicazioni su tutto il pianeta, grazie a quattro installazioni terrestri e cinque satelliti che trasformeranno le forze armate a stelle e strisce in un unico network in grado di scambiarsi e condividere istantaneamente informazioni in qualsiasi parte del mondo. Inoltre, il MUOS servirà a guidare i droni, i micidiali caccia senza pilota di stanza a Sigonella, cioè servirà a fare la guerra standosene comodamente seduti davanti a un terminale, a uccidere azionando un semplice joystick, come in un videogioco.
Nella Sughereta di Niscemi, una riserva naturale protetta dalla UE, gli Stati Uniti intendono installare una delle quattro basi terresti. Lo studio di Zucchetti e Coraddu per il comune di Niscemi sui rischi concreti per la salute (ma anche per i voli civili gravitanti sugli aeroporti di Comiso e Catania) ha convinto la Regione Siciliana a revocare le autorizzazioni concesse in precedenza, innescando un conflitto col governo nazionale e con il potentissimo alleato che potrebbe arrivare davanti alla Corte Costituzionale, visto che la giunta del presidente regionale Rosario Crocetta non intende recedere dalla posizione assunta e, soprattutto, che le popolazioni di Niscemi e dei comuni limitrofi non intendono sottostare ai rischi per la salute illustrati dagli scienziati del Politecnico. Da dicembre, da quando in contrada Ulmo, nei pressi della base militare, è stato istituito un presidio di giovani militanti antimilitaristi, il conflitto fra abitanti e militari è diventato fisico, grazie ai blocchi stradali finalizzati a impedire il transito dei mezzi che trasportano operai, soldati e soprattutto le enormi gru necessarie a montare le nuove gigantesche parabole. I componenti principali del MUOS sono tre grandi antenne paraboliche di 18,4 metri di diametro l’una, «destinate a emettere microonde con una potenza di 1600 Watt ciascuna, orientativamente un centinaio di volte la potenza dei ripetitori per telefonia cellulare», chiarisce il professor Zucchetti. La notte dell’11 gennaio, però, il governo Monti, con uno spiegamento di forze spropositato, ha fatto isolare la città e fatto scortare i tir che trasportavano le gru dalla Celere, che ha sbrigativamente sgomberato i manifestanti a manganellate consentendo il transito degli automezzi. È stato a quel punto che le donne di Niscemi hanno deciso che non potevano più stare a guardare e che dovevano impegnarsi in prima persona contro il MUOStro, come lo ha efficacemente definito il giornalista e scrittore Antonio Mazzeo. In meno di un mese, le Mamme sono diventate circa 600, partecipano attivamente ai blocchi stradali che, 24 ore su 24, impediscono agli operai di entrare e ai militari di fare il cambio della guardia, creando una situazione di stallo che difficilmente si sbloccherà. Prima si sono costituite in Comitato Mamme No MUOS, poi hanno deciso di ritrovarsi ogni mercoledì nella piazza principale del paese: «In piazza siamo visibili, costringiamo anche chi non vuole interrogarsi sull’installazione americana a fare i conti con la nostra presenza e con le problematiche connesse al MUOS e alle 46 antenne esistenti: i rischi per la salute. È stato così, grazie a questa visibilità che abbiamo coinvolto altre mamme», ci spiegano. Sono loro l’elemento nuovo di questa protesta: stanno coinvolgendo i preti, le scuole (sono quotidiane le visite guidate di studenti al presidio e nella Sughereta, da dove la base militare è ben visibile) e le donne dei comuni limitrofi – Gela, Caltagirone, Piazza Armerina… – affinché la protesta non resti circoscritta agli abitanti di Niscemi. Una storia speculare a quella delle Madres argentine di Plaza de Mayo, questa delle Mamme siciliane: quelle rivolevano i propri figli desaparecidos; loro vogliono che i propri figli nascano e crescano sicuri, senza malformazioni, senza la prospettiva di morire senza vivere la vita. Ogni giorno mettono i loro corpi davanti ai convogli militari che si dirigono alla base; ogni mercoledì si ritrovano in piazza a far sentire il proprio urlo: «No al MUOS, sì alla vita!».
Casablanca n.28
Angela Marchionni
Greve il carro. (Canada 8 aprile ore)
Una televisione, un generale che parla. Impettito dietro il podio snocciola la sua litania: 18.000 missili Tomahawk, 10.000 bombe di precisione, 5000 pacchi di aiuti umanitari sganciati su Bagdad dall¹inizio della guerra. Con competenza professionale mostra il video di due bombardamenti “chirurgici”: uno sulla casa di Chemical Alì, ben riuscito, e uno nel fiume Sun: errore del pilota che all’ultimo momento soltanto si accorge dei civili nella zona. Un riquadro ne ritaglia l’immagine nell’angolo in alto dello schermo. A sinistra in basso la riva sabbiosa di un fiume e, dietro, una strada piena di palme, dietro ancora le case. Non c’è audio ma ogni tanto rotolano e corrono dei corpi. Scoppi improvvisi di fuoco e fumo si alternano a pochi momenti di calma mentre le palme svettano fra tanto fumo nero. Un uccello solitario passa.
Lo scenario cambia e la caption sul lato basso dello schermo ci dice che sono immagini di questa mattina e dunque non in diretta: un gruppo di uomini in divise sporche esulta con i fucili alzati per la strada. Consapevoli delle telecamere, si affollano apposta attorno ad esse. Una macchina esce dal corteo, c’è un ragazzo al finestrino con la bandiera irachena in mano. Se non fosse per i fucili in mano potresti confondere questi uomini per dei tifosi di calcio. Nel riquadro alto l’ufficiale ha smesso di parlare. Guadagnato il tempo per un break pubblicitario.
Questa la cronaca oggi. Misura di un atroce istupidimento del reale proiettato in sala da pranzo a intervalli regolari in poche riconoscibili e terribili salse. Rassicuranti. Così il telegiornale irrompe nella pubblicità e la rafforza. Così un potere assolve irresponsabili massacri mentre di fatto vende la bontà dell’(ab)uso delle armi in nome di un ”dopo Saddam” e della democrazia universali… Proprio allo stesso modo in cui vende la bontà dell’(ab)uso del detersivo in nome di un’igiene universale che avvelena le acque. Lo spettatore/consumatore può decidere di non comprare e ritenersi sufficientemente politico in questa posizione, ma resiste alla seduzione di una comunicazione venduta come assoluta libertà di scelta? Questa sì che è un¹altra storia.
“E non si diventa padroni ridisegnando percorsi che alterata la naturalità la fissano e la rischiano? E gli spettatori, quelli che non perdono nulla, non perdono la vita viva per sempre?” ( Julia Postuma A. Marchionni Filema Ed. 1999, Napoli).
Facile oggi spegnere la tivvù, ma non l’assuefazione al sogno del “potere d’acquisto” garantito dalla “protezione” delle armi e con denaro alienato ai tanti che mai hanno guadagnato qualcosa dalla guerra. Con stage di buone domeniche, reality show, nonché numerose manifestazioni contro la guerra doverosamente riportate sui telegiornali di turno. A rischio ancora più alto d’inflazione delle banconote vere proprie, le parole e le immagini si sprecano, si ripetono. Non costando nulla, servono solo a farci sentire meglio, perciò vengono usate.
Foemina Vox – e della morte e dell’onda
Non c’è bisogno di essere eclatanti, visibili, soddisfatti “d’essere presenti”e di fatto rimandare tutto al prossimo convegno, alla prossimo sciopero, alle prossime elezioni. Perché l’etica di una comunicazione capace di restituire agli umani integrità e singolarità in accordo all’urgenza del reale e del bisogno, si rende necessaria per non imbarbarirsi. È sempre necessario agire. E basta la sottrazione. Misura di parola e d’immagine che solo testimonia, di ciò che esiste, quello che non si addormenta comodo nella beata speranza di un domani migliore. Una cavalla dallo zoccolo alzato sovrasta immobile la foto aerea di un villaggio arabo. Le palme sono intatte, le case sono intatte. Silenziose reggono il tondo di una cavalla che si esprime e solo esibisce il suo rilievo in uncinetto e cemento, testimonianza di un lavoro di intreccio di materie ( e relazioni)di sessuata tradizione. Nell’angolo, in basso, una macchia rossa in espansione. Sangue. Unica traccia di un tempo che scorre ancora uguale a sé nella sofferenza. E, tra cavalla e villaggio, la voce che da sempre, a rovescio, ha segnato il tempo, il progresso, la storia. Una impagabile moneta che mai si è arresa e annullata in nessuna equivalenza, e non è merce, e non compra e non vende. Testimone suo malgrado di una vittoria dell’ipocrisia fatta di non attenzione al diverso, al reciproco, che distrugge la società perché rende equivalente l’incommensurabile e ne fa merce di scambio e di profitto.
Beatrix vt Bologna
Tiziana Plebani
Care amiche,
sono profondamente disgustata dalle realtà emerse dalle carceri irakene, compreso il ruolo di giovani donne coinvolte in queste atrocità (molto belli i due articoli di Dominijanni sul manifesto degli ultimi giorni) e mi chiedevo se era possibile organizzare un atto simbolico di riparazione, di pace e di dialogo con le comunità islamiche, prima di tutto locali. Certo le atrocità non sono fatte da noi, contrari alle guerre e a questa invasione, ma non riesco ad allontanare tutto questo orrore senza assumere una parte di responsabilità da occidentale, oltre che purtroppo, anche se “non in mio nome”, da paese a fianco degli USA.
E’ possibile pensare a un gesto più forte nel senso dell’amore? Chiedere scusa cercando di “disinnescare” la catena di violenza che questi gesti orrendi provocheranno?
Possiamo pensarci insieme?
Mariella Germanotta – Venezia
L’orrore della disumanizzazione nell’inferno di Abu Ghraib è il disprezzo come supremo gesto simbolico dell’annientamento di tutto ciò che fa il senso, il valore, la dignità dell’esistenza. Non è diverso dall’atto terroristico. Primo Levi nella “Tregua” ha coniato un nome efficace per questi fenomeni: “controcreazione”. E’ più che uccidere, ammesso che la nostra mente possa concepire qualcosa oltre l’assassinio. Eppure sì, lo concepisce. Lo concepisce intanto nelle parole che il disprezzo pronuncia prima della violenza fisica, e che la preparano: fin da subito, in parole di sangue, la controcreazione inizia ad agire. Anche questa, si sa, è azione simbolica che produce effetti materiali. Io provo orrore anche ad ascoltare parole, qui da noi, che grondano disprezzo verso gli immigrati, specialmente arabi. E’ alle parole di sangue che dobbiamo prima di tutto saper reagire, e che dobbiamo saper riconoscere con orecchio sicuro, con sensibilità pronta, senza minimizzare. Questo è il primo gesto: non tollerare i pronunciamenti del disprezzo.
Quanto a certe donne che fanno controcreazione, personalmente non vedo di che stupirsi, a meno che non si idealizzi “la donna” (astratta), idealizzazione che non mi offende meno dello svilimento del mio sesso, perché spesso nasconde un alibi o maschera una impotenza inconfessata. No, non mi stupisco che alcune donne siano capaci di controcreazione. Scelgono, e se ne devono assumere la piena responsabilità.
Penso che quanto è accaduto e continua ad accadere in Iraq e altrove sia troppo grave perché delle scuse o un risarcimento come atto riparatore possa bastare, benché necessario come minimo. Qualsiasi grandezza di un gesto “d’amore” sembra essere stata ingoiata essa stessa nel gorgo possente della controcreazione. Sono queste guerre, il terrorismo e i genocidi, le oscenità del nostro tempo che ci svergognano. Ci vorrebbe un gesto di forza pari all’enormità di quelli. “Amore” è parola troppo bella, ma anche troppo vaga e troppo usata. Ci vorrebbe un gesto di creazione, o rigenerazione, da opporre alla controcreazione. Penso che un gesto che vuole avere questa efficacia deve intanto affilare le parole, osservare bene, guardare anche dentro di sé, consapevole delle proprie tentazioni.
Di gesti simili ne vedo molti, granelli di senape ancora, ma concreti, da alimentare e valorizzare. Ciò che manca a questi granelli di senape, nella loro umiltà e piccolezza, è la stessa forza di “scandalo” che possa opporsi subito allo scandalo dell’orrore. Forse è questa la forza che si chiede perché si sente mancante? Il gesto di ri-creazione non fa scandalo, perciò i mass-media non se ne occupano, e quando se ne occupano lo depotenziano. Ci vuole un gesto sufficientemente radicale e scandaloso da essere capace di sottrarsi, in sé, al consumo della commozione consolatoria. Uno scandalo intrinseco, senza clamore. In caso contrario, meglio continuare a coltivare – al riparo dalla visibilità mediatica, dalle versioni “ufficiali” della realtà – i granelli di senape, che un giorno diventeranno alberi.
Su questo mi piacerebbe riflettere: sulla forza possibile.
Il 7 maggio un gruppo di donne palermitane si è recato alla moschea ed ha parlato con l’Imam e con alcuni “fedeli” islamici presenti per la preghiera.
Hanno portato le loro condoglianze per gli uomini uccisi e la loro solidarietà per i prigionieri torturati nelle prigioni militari a Baghdad, hanno espresso vergogna per il comportamento dei soldati e delle donne soldato degli Stati Uniti, hanno espresso la loro volontà di pace e di rispetto di tutte le culture. Hanno portato molti fiori. Si tratta di una iniziativa che potrebbe essere seguita dalle donne di tutta Italia. UN FIORE DELLE DONNE ITALIANE IN TUTTE LE MOSCHEE. Riproduciamo il testo del cartellone lasciato davanti alla Moschea, e del volantino distribuito ai musulmani ed ai cittadini palermitani presenti.
Testo del nostro cartellone e volantino:
LE DONNE DI PALERMO CONTRO LA GUERRA
NOI CHE SIAMO E SAREMO SEMPRE CONTRO LA GUERRA
CI VERGOGNAMO DI CIO’ CHE HANNO FATTO IN IRAQ UOMINI E DONNE DELL’ESERCITO DEGLI STATI UNITI
PIANGIAMO LE VITTIME DI COSI’ ATROCI TORTURE
VOGLIAMO UNA FUTURA ARMONIA TRA TUTTI I POPOLI DEL MONDO
NO ALLA GUERRA, NO AL TERRORISMO!
Domenica 16 fiaccolata del movimento contro l’allargamento della base Usa Dal Molin di Vicenza, nato quattro anni fa. «Gran parte del territorio – dice Olol Jackson al manifesto – è stata riconquistata dai cittadini e restituita alla città. Il Parco della Pace rappresenta tutto questo» Orsola Casagrande «Il ricordo più nitido che ho di quel 16 gennaio 2007 è il viso della suora che mi stava accanto mentre occupavamo i binari della stazione di Vicenza». Olol Jackson, uno dei volti più conosciuti del movimento No Dal Molin, ripercorre questi quattro anni di lotta contro il progetto degli Stati uniti (avallato e sostenuto, anche economicamente, dai governi italiani di destra e di sinistra) di costruire una nuova base militare nella città veneta. «Sono passati quattro anni – dice – e il volto di quella suora mi è rimasto impresso perché in qualche modo rappresenta la sintesi di un sentimento comune che ha visto tutti i settori della società vicentina uniti nel dire no alla base statunitense. Quel 16 gennaio di quattro anni fa – insiste – c’erano tutti sui binari. C’era la suora, c’erano gli studenti, c’erano avvocati, impiegati di banca, casalinghe, operai, giovani e vecchi». Una lotta di popolo, di una città che si era sentita violata. «Sì – dice Olol – la città si è sentita offesa. E si è ribellata. La lotta contro il Dal Molin è la rivendicazione di una comunità sul proprio territorio. L’offesa è stata grande anche perché l’annuncio del sì del governo Prodi agli USA è arrivato dall’estero – aggiunge Olol – e ha dimostrato la pavidità di un governo, per di più di centro sinistra, che non ha nemmeno avuto il coraggio di venire a dialogare con i cittadini di Vicenza». Quattro anni. Quanta acqua è passata sotto i ponti. E pure sopra, visti i disastri dell’alluvione di qualche settimana fa. Catastrofe naturale, ma solo in parte, come sottolineano esperti che stanno monitorando l’impatto del cantiere al Dal Molin sul sistema idrogeologico dell’area. «Bugie – dice Olol – continuano a raccontarci che la falda acquifera non risentirà dei lavori del cantiere. Ma sappiamo che già gli equilibri del territorio sono stati toccati. Ce lo dicono gli esperti, non pericolosi sovversivi. E se vogliamo dirla tutta – insiste – forse si spiega meglio, dopo gli esiti dell’alluvione, la lettera del commissario per il Dal Molin Costa all’allora ministro degli interni Parisi. Costa diceva che non era importante fare la Valutazione di Impatto Ambientale». Domenica, quattro anni dopo l’editto di Prodi, Vicenza scenderà in piazza nuovamente. Una fiaccolata che non sarà «una ricorrenza funebre – come dicono al Presidio Permanente – quelle vanno bene per chi non ha più niente da dire». Al contrario la fiaccolata vuole essere un ritrovarsi dei vicentini pacifico e ricco di contenuti, pieno di quella stessa dignità e orgoglio che «avevamo inaspettatamente incrociato quattro anni fa, capace di far sentire ancora forte la propria voce, tutt’altro che sconfitta». In troppi infatti hanno liquidato e chiuso il «capitolo Dal Molin» sostenendo che i «ribelli» avevano avuto il loro «contentino» (leggi il Parco della Pace) e quindi avevano finito di protestare. «Troppo facile, – dice Olol – noi siamo realisti. Vediamo tutti il cantiere che avanza. Ma bisogna anche essere onesti intellettualmente. E allora Vicenza non ha perso. Torniamo indietro nel tempo, a quattro anni fa – dice ancora Olol – e pensiamo ai progetti che gli Usa avevano sventolato. La base si sarebbe dovuta estendere su tutta l’area del Dal Molin. Guardiamo al progetto oggi». Una fetta molto più piccola di quell’area è sotto bandiera statunitense. «Una grande parte di territorio – dice Olol – è stata riconquistata dai cittadini e restituita alla città. Il Parco della Pace è questo. Teniamo presente chi avevamo di fronte. Gli americani, il governo italiano, le amministrazioni. Per questo il Parco della Pace è una vittoria. La sfida naturalmente – aggiunge Olol – è farlo vivere, mantenere quello spazio di libertà conquistato e renderlo luogo di fermento e attività». La fiaccolata di domenica avrà tre parole d’ordine: verità, trasparenza e giustizia. «Sono le tre coordinate – dice ancora Olol – che rappresentano la nuova fase del movimento No Dal Molin. Quello che avevamo intuito, e cioè che il progetto avrebbe impattato negativamente sulla falda acquifera, oggi è una realtà. Verità dunque, perché la città ha diritto di sapere. Abbiamo mandato a casa un’amministrazione comunale che aveva messo sotto le scarpe la trasparenza. Che invece è il perno nel rapporto tra cittadini e amministratori». Lo dovrebbe aver imparato il centro sinistra (cancellato dal parlamento e da tante amministrazioni). Eppure non ci sono segnali in questo senso. «Il problema – dice Olol – rimane proprio questo: come si riconnettono fili che sono ancora oggettivamente spezzati? Noi siamo sempre stati disposti al dialogo, anzi lo chiedevamo. Chi ha rifiutato il confronto con i cittadini sono stati altri». Vicenza oggi, quattro anni dopo, è certamente cambiata, segnata da questa lotta. «Era una città che non si conosceva – dice Olol – che si sfiorava ma non comunicava. Il No Dal Molin, il presidio sono diventati occasione di costruzione di nuovi rapporti, di una presa di consapevolezza del territorio, non in senso locale e nimby. Al contrario pensare locale per agire globale. Perché il problema base militare parte dal locale ma è un problema globale come è evidente». Vicenza che è stata instancabile nella campagna delle firme per l’acqua. Una nuova attenzione ai beni comuni, un senso di appartenenza in senso solidale e anti Lega. Domenica dunque il movimento No Dal Molin celebrerà una sorta di nuovo inizio. Ripartendo dal Parco della Pace.
La manifestazione del 4 luglio ha segnato uno spartiacque netto nella storia del movimento No Dal Molin. A seguito delle discussioni sulle pratiche politiche delle diverse anime che compongono il presidio si sono evidenziate delle differenze di posizione che nel tempo sono divenute ineludibili a proposito dei principi del pacifismo e della nonviolenza a cui il Gruppo Donne si richiama come soggetto politico.
Una parte delle donne che hanno partecipato a quella manifestazione non ha condiviso la logica dello scontro che è stata affermata allora come una necessità dettata dalle circostanze.
Ci richiamiamo al Manifesto ‘nostro iniziale’ e al documento Chi siamo, che compare sul sito e che definisce la nostra posizione per ribadire un’adesione irrinunciabile al principio della nonviolenza e insieme la scelta prioritaria di valorizzare la specificità del nostro essere e del nostro agire come donne.
Rinnoviamo il desiderio di stare nella doppia posizione del pensare e dell’agire, di produrre pensiero sul nostro percorso e di riflettere sul percorso dell’intero movimento, di lavorare sul linguaggio.
Ribadiamo il nostro NO alla costruzione della base e il nostro impegno a operare non solo contro una visione politica e una strategia militare, ma soprattutto per la costruzione di un modello alternativo di città, di società, per l’affermazione di una diversa visione del mondo.
Dichiarare come prioritaria la centralità dello sguardo femminile sul mondo, la scelta della nonviolenza, l’attenzione al linguaggio ci caratterizza come gruppo e rappresenta una posizione politica precisa, che va nominata e perseguita autonomamente.
Per questo scegliamo di differenziarci e di continuare il nostro percorso politico altrove, da una posizione di piena libertà.
Antonella Cunico
Lucia Catalano
Anna Faggi
Annalisa Faverin
Ersilia Filippi
Paola Morellato
Mauretta Rigo
Paola Rigoni