Il libro Terra madre: sopravvivere allo sviluppo di Vandana Shiva.
Anna Schgraffer.
Quando il pensiero non è dominato dalla paura e dalla diffidenza, ma ispirato dalla compassione e illuminato dalla saggezza, allora possono nascere libri come questo.
L’edizione originale è del 1988 e apparve in Italia nel 1990, con il titolo Sopravvivere allo sviluppo. A quell’epoca non ebbe molta fortuna, fu pubblicato da una casa editrice piuttosto marginale che doveva aveva qualche problema di distribuzione. Mi ricordo l’impressione di sorprendente contrasto fra la superba statura intellettuale dell’autrice, il brillante livello politico del contenuto, e la pochezza della veste, combinata con la scarsa reperibilità dell’edizione. Ecco il mondo alla rovescia, pensai: era come se ci avessero regalato un prezioso gioiello avvolto in carta di giornale.
Ora, a distanza di dodici anni, questo primo, importante saggio di Vandana Shiva viene ripubblicato con le dovute revisioni, che però sono poca cosa, quasi che il tempo sia rimasto fermo, se non tornato indietro. Viene pubblicato in veste più accurata da un editore tutt’altro che settoriale, Utet, e con un titolo che gli rende finalmente giustizia: Terra madre: sopravvivere allo sviluppo. A parte alcuni dati numerici, è rimasto sostanzialmente immutato, poiché nell’arco di questi ultimi anni, di fronte al confermarsi di quelle valutazioni, c’è più che mai bisogno delle idee e della lucida visione di cui è testimonianza.
All’inizio degli anni ’80, il nome di Vandana Shiva cominciò a circolare anche in Europa associato a quello del movimento “Chipko”. Chipko era nato come movimento di difesa e autodifesa collettiva di gruppi di donne indiane abitanti delle regioni montuose himalayane e legate alle foreste da una sorta di simbiosi, in un tipo di economia completamente diverso da quello dominante, l’economia di sussistenza. Grazie alla quale le popolazioni delle zone rurali e di montagna si garantivano una sopravvivenza dignitosa senza essere opulenta, e soprattutto sostenibile per i secoli dei secoli. Quelle donne dunque diedero vita a un movimento perché volevano evitare che gli alberi e le foreste, da cui traevano collettivamente sostentamento tutte le famiglie, venissero tagliati dalle imprese multinazionali pronte a disboscare per fare spazio a coltivazioni di eucalipti e altre essenze con la mira di profitti a breve termine. Due economie si scontravano; di queste, una chiedeva di essere lasciata sopravvivere in pace senza dar fastidio a nessuno e l’altra divorava sempre più territori e risorse, pretendendo di imporre se stessa come unica economia possibile. Che quest’ultima pretesa fosse, anzi sia una forma inaccettabile di violenza, è uno dei temi principali che Vandana Shiva discute nella sua opera. Ma si tratta anche del confronto fra due visioni del mondo. Perciò quelle donne, portatrici di una visione ispirata al valore del principio femminile presente anche nell’antica tradizione cosmologica indiana, cominciarono a legarsi agli alberi, nell’intento di fermare le motoseghe, cioè la distruzione delle proprie fonti di sostentamento sostenibile e anche la distruzione dei propri tesori di conoscenza e sapere, da noi definiti allora “alternativi”.
Vandana Shiva è nata in India nel 1952. Dotata di un eccezionale intelletto, si recò a studiare fisica nucleare negli Stati Uniti; dopo la laurea si dedicò a un dottorato di ricerca sulle particelle subatomiche. A quel tempo pensava, come scrisse in seguito, che avrebbe trascorso ogni giorno della propria vita in compagnia delle particelle nucleari. Invece, dopo aver fatto un’esperienza molto istruttiva su quel che combina l’industria del nucleare nel mondo e soprattutto nei confronti della popolazione, a un certo punto voltò le spalle a una brillante carriera nel programma di energia nucleare del suo paese, poiché si era resa conto “che la gente era tenuta all’oscuro delle ripercussioni dei sistemi nucleari sui sistemi viventi”. Si dedicò quindi alla ricerca indipendente nell’ambito della scienza, della tecnologia e della politica ambientale. Nel 1982 fondò un istituto indipendente, la Fondazione di Ricerca per la Scienza, la Tecnologia e l’Ecologia (Rsft), per una ricerca di qualità volta ad affrontare le più importanti questioni sociali-ecologiche dei giorni nostri. In questo campo collaborava strettamente con le comunità locali e i movimenti sociali, soprattutto dell’India, in cui le donne erano (e sono) protagoniste, e infatti quando anni dopo (1993) le fu conferito il cosiddetto premio Nobel alternativo, il Right Livelihood Award, che vuol dire “per il Retto modo di vivere” (e viene consegnato nella stessa sede del premio Nobel, ma il giorno prima). Lei lo consegnò a sua volta alle donne delle montagne che avevano dato vita a “Chipko”.
Il libro Terra madre è rilevante a più livelli. Sul piano politico immediato, è un articolato intervento sulla politica economica della cooperazione allo sviluppo, una dura denuncia nei confronti della Rivoluzione Verde, che viene fatta passare come soluzione al problema della fame nel mondo. L’intervento è particolarmente significativo poiché è una risposta che proviene da un’esponente dei/delle diretti/e interessati/e, una portavoce di gruppi rurali del Sud del mondo. La sua posizione è argomentata in base a fatti molto concreti, per esempio l’impoverimento reale che la popolazione rurale (nella fattispecie quella indiana) ha subìto in seguito alla Rivoluzione Verde che, al di là delle dichiarazioni filantropiche dei suoi promotori, per gli agricoltori e coloro che praticano l’economia di sussistenza nelle zone forestali è invece qualcosa da cui occorre difendersi. Per sopravvivere, appunto, allo “sviluppo”. Per questo introduce una parola di nuovo conio, entrata a partire dagli anni Sessanta nel lessico comune: la parola “malsviluppo”, in inglese maldevelopment (così come anche in francese), un ibrido da lei usato nel senso di “sviluppo sbagliato”, pur contenendo volutamente (come scrive Marinella Correggia, la traduttrice) un accenno alla sua natura di “sbagliato perché maschile” (in inglese male).
Un altro motivo per il quale questolibro merita attenzione è quello della visibilità che esso rende al lavoro e al sapere delle donne indiane rurali e soprattutto al loro impegno e alla loro tenacia nel difendere e sostenere le condizioni per una sopravvivenza autonoma e dignitosa. Le persone che in quel movimento hanno agito e agiscono, lottano e fanno poesia per difendere le foreste e i propri stili di vita dall’assimilazione a un’economia e a una visione del mondo con pretese di validità universale, vengono citate per nome e cognome, da vere protagoniste, vengono messe insomma individualmente sul dovuto piano di importanza, e considerate altrettanto degne di attenzione di chi, come l’autrice, ha assunto una posizione di leader. Anzi, più degne: con una modestia tipica degli spiriti illuminati, Vandana Shiva tira indietro se stessa per lasciare che lo sguardo si posi sulle singole donne (e, se del caso, uomini) del movimento.
E’ altresì un contributo interessante sul piano filosofico, poiché mette in discussione le pretese di validità e di superiorità di una scienza che in definitiva è solo un tipo particolare di scienza: la scienza meccanicistica e cartesiana. Una fra le tante possibili. Parallelamente, un’economia particolare, l’economia del capitalismo industriale, pretende di avere valore unico e universale e tenta, con le buone e con le cattive, di imporsi come l’economia tout court; la visione scientifica particolare e limitata del meccanicismo pretende di dominare anche screditando gli altri tipi e modi di sapere esistenti e relega così un’infinita gamma e ricchezza di conoscenze disponibili in posizioni subordinate, marginali e reiette. E’ di importanza fondamentale (e non finisce di stupirci) il fatto che al giorno d’oggi la scienza più astratta di tutte, la fisica quantistica, quella che ha raggiunto il più alto grado di distacco matematico e teorico dalla concretezza terra terra del vivere quotidiano, quella che più di ogni altra ha portato alle estreme conseguenze il volo di un pensiero distaccato dalla “vita”, riduzionista (poiché riduce la sostanza di cui siamo fatti a nient’altro che…formule e numeri), abbia finora reso giustizia in misura massima, fra le scienze naturali, alla grandiosa complessità della vita e della natura, nel rispetto del nostro sentire “l’universo come dimora”. (Per approfondire questo concetto si potrebbe leggere per esempio Il cosmo intelligente di P.C. Davies, un professore di fisica che si occupa di comprendere l’universo e anche di esporre ciò che ha compreso in modo da trasmetterlo a persone non addette ai lavori). Scrive Vandana Shiva nella prefazione a un altro dei suoi libri, Tomorrow’s Biodiversity, del 2000 (ed. it. Campi di battaglia: biodiversità e agricoltura industriale, Edizioni Ambiente, 2001): “Dal punto di vista filosofico, posso dire che la mia formazione da fisico quantistico mi ha aiutata molto a occuparmi di questioni così complesse. Mentre la fisica classica di Cartesio e Newton descriveva un mondo formato da entità atomizzate, isolate e immutabili, la teoria dei quanti ha riformulato il mondo definendolo un insieme di sistemi interagenti, inseparabili e in costante cambiamento, dotato di potenzialità inestimabili piuttosto che di proprietà e fenomeni fissi.
Sono queste caratteristiche di “inseparabilità” e “indeterminatezza” che ispirano il mio approccio ai sistemi naturali e all’impatto umano sull’ambiente. (…) Attraverso la lente della biodiversità il mondo si rivela molto differente e reclama un cambiamento nei modelli tecnologici e di mercato dominanti. Un passo necessario verso la sostenibilità.”
Non è un caso né una bizzarria perciò se la scienziata nucleare, nelle prime righe dell’Introduzione al suo primo libro, attacca parlando male dell’Illuminismo e della teoria del progresso, e nel terzo capitolo, Le donne nella natura, ci espone con attenzione e rispetto, cioè senza tacciarli di superstizione, alcuni fondamenti dell’antica visione cosmologica indiana, le tradizioni popolari ed esoteriche: il sakti, il principio femminile e creativo dell’universo, e il prakrti, la natura. In uno dei suoi scritti successivi, senza alcun bisogno di abbandonare il rigore del metodo scientifico, ma anzi proprio in virtù di esso, V. Shiva arriverà a fare piazza pulita di un altro dei nostri polverosi pregiudizi sulla mentalità indiana, da noi considerata retrograda a causa del rispetto per le vacche sacre. Neanche più la vacca sacra occidentale del pregiudizio contro le vacche sacre ci lascia adorare!
Affrontando la questione centrale della democrazia alimentare, infatti, in un altro dei suoi libri intitolato appunto Vacche sacre e mucche pazze: il furto delle riserve alimentari globali (ed. DeriveApprodi), Vandana Shiva riesce a rendere al massimo l’idea: “La mucca pazza, frutto di incroci transpecifici, è un “cyborg” secondo la femminista Donna Haraway, che aggiunge: “Preferirei essere un cyborg che una dea”. In India, la vacca è Lakshmi, dea della prosperità, e il suo letame è adorato come Lakshmi perché rinnova la fertilità della terra, nutrendola in modo naturale. La vacca è sacra perché è al centro della sostenibilità della civiltà agricola. La vacca come dea e cosmo simboleggia la cura, la compassione, la sostenibilità, l’equità. Dal punto di vista sia delle persone che delle vacche, io invece preferirei essere una vacca sacra più che una mucca pazza”.
Considerando le situazioni nell’ottica della relazione, come suggerisce la visione di un universo interconnesso, la domanda è sempre: come si configurano i rapporti di potere? Partendo dalla considerazione dei rapporti di potere, la terza linea parallela individuata dall’autrice è quella del patriarcato. L’instaurazione di un nesso concettuale fra scienza, economia politica e patriarcato, e cioè il nesso rappresentato dal tema della volontà di dominio unico, è apprezzabile come uno dei risultati fondamentali di questo libro. In altre parole: contiene una riflessione sul rapporto sviluppo-tecnologia-donne e sul rapporto scienza-natura-genere che riprende e approfondisce quella di Carolyn Merchant (La morte della natura, Garzanti, 1988) e quella di Evelyn Fox Keller. Il seguito della riflessione si può leggere nella raccolta di testi intitolata, con termine assai significativo, Monocolture della mente: biodiversità, biotecnologia e agricoltura “scientifica” (Bollati Boringhieri, 1995).
L’andamento del ragionare è piuttosto circolare, alcuni lo trovano ripetitivo; io invece lo definirei meditativo, poiché torna e ritorna sullo stesso punto però ogni volta da un’angolatura, secondo una sfaccettatura un po’ diversa, girando in tondo come il falco che scruta dall’alto la preda planando in cerchi lenti sulla campagna per buttarsi infine in picchiata, come i pensieri di Shiva che catturano fulminei il punto della questione, illuminandolo.
Purtroppo, questo libro non è stato riproposto per il suo valore storico ma per la insuperata attualità dei suoi temi. Oggi lo “sviluppo” incombe con ancor più temibili minacce sulla gente dell’India che vive di agricoltura e di sussistenza: lo denuncia per esempio la scrittrice Arundhati Roy (autrice del romanzo Il dio delle piccole cose e del saggio La fine delle illusioni), ricordando in un recente intervento che dal 1947 ad oggi, in India, secondo stime ufficiali ci sono stati circa 56 milioni di sfollati senza risarcimento per cause ambientali. Altro che politica dello sviluppo.
Vandana Shiva nel frattempo ha pubblicato una serie di altri saggi tutti interessantissimi ed è stata insignita di una considerevole quantità di premi e riconoscimenti in vari Paesi e a livello internazionale per l’approfondimento del paradigma ecologico e per avere unito la ricerca all’azione.
E’ stata fra coloro che hanno promosso il Social Forum Mondiale di Porto Alegre ed è “una delle voci di maggior prestigio sulle tematiche più controverse della globalizzazione”. Credo che nessuno comunque si azzardi a definirla una contestatrice no-global.
Anna Schgraffer
Frammenti dell’ultima conversazione con il subcomandante Marcos, durante la marcia del marzo 2001 verso Città del Messico.
F. Leon – A.L. Lara
Più che qualcosa di definito, questa marcia sembra un percorso aperto, che ha le caratteristiche di un processo. Bisogna interpretarla come un mezzo, come un fine, o una meta?
Si, è così. Per questo noi vediamo il Zocalo (la piazza principale di Città del Messico) in un altro modo. Mentre per gli altri era la meta, per noi era solo una delle tappe. Ma la realtà è che non sappiamo nemmeno dove ci porterà. 0 meglio lo sappiamo, ma è una meta talmente lontana che, come dice il comandante Tacho “non ci sono parole in spagnolo che la possano definire”, solo in dialetto la lingua esprime quello che voglio dire. Il cammino che abbiamo intrapreso è un cammino “altro”, come diciamo noi; non è solo un cammino da percorrere, ma un cammino che ti cambia. Non c’è un suolo passivo e un soggetto attivo, il viaggiatore, che si sposta attraverso di esso, ma in qualche modo il cammino diventa esso stesso viaggiatore, e tu cammino. Lo stesso procedere della marcia produce effetti di profonda trasformazione in coloro che ne fanno parte, fino al punto che una comunità potrebbe dire “ho camminato gli zapatisti”. Prima o poi arriveranno a dirlo e, allo stesso tempo, gli zapatisti potranno dire senza contraddirsi: “ho camminato per quella comunità”. Questo paradosso, o gioco di specchi, è così complicato che io non mi azzarderei a dire chi ha camminato e chi “è stato camminato”. In realtà la marcia non è qualcosa che si comprenda con la testa né con il cuore, ma con lo stomaco, come diciamo noi. E’ qualcosa che non può essere compreso, assimilato o sentito unicamente dall’intelletto o dal sentimento poiché rappresenta il ponte che c’è tra entrambi. La marcia può essere compresa solo da un essere umano per ciò che ha di umano e non per ciò che riguarda il suo essere.
Durante la marcia, abbiamo osservato l’ammirazione e l’affetto che ha la gente per il personaggio Marcos. A volte sembra persino che si manifesti in modo scomposto e esagerato. Non ti inquieta che stia nascendo una specie di culto della tua personalità?
Qual è il culto, che gli obiettivi telescopici puntino qualcuno o che gli chiedano autografi? Ad ogni modo, ci sono in gioco un vuoto e un’aspettativa, fondata o meno. In qualche modo le persone devono convincersi che nessuno farà per loro ciò che non fanno da sole.
Il loro modo di applaudire Marcos, penso significhi “applaudo il tuo valore collettivo, la tua ribellione come collettività”. Perché era lui ad essere lì, ma se al suo posto avesse parlato Tacho avrebbero applaudito lui. Sapevamo che al di fuori ci si sarebbe appoggiati di più a un individuo che a un collettivo, perché fuori dalle comunità, nel mondo, ancora non si sa parlare coralmente. Tuttavia nelle comunità l’utilizzo di Marcos è degno, è diverso. Io sono stato giudicato in varie comunità per errori o per non aver rispettato i loro usi e costumi. Però capisco che all’esterno la nozione di collettività non è oggetto né di ammirazione né di disprezzo e attacco. Gli eroi della storia passata non sono propriamente esistiti: sono stati costruiti dall’immaginazione collettiva e in realtà è stata la stessa collettività a produrli. Non c’è niente di meglio che portare questo concetto all’estremo, niente di meglio che proporre un personaggio nato volontariamente per dire non sono”. Se alla gente non interessa sapere chi è dietro il passamontagna, vuoi dire che ha capito la parte fondamentale, è cosciente che ha costruito un personaggio che non gli ruberà il posto nella storia. Credo che più avanti tutti quanti capiranno che il personaggio è stato costruito collettivamente, che non esiste. Nessun libro di storia oserà dire che il Subcomandante Marcos ha fatto questo o quello, perché nessuno saprà chi è. dov’è nato e vissuto, qual è la sua famiglia o cosa ha studiato. Per questo il Subcomandante Marcos è impossibile da comprendere in questo senso.
Alla fine arriveranno a dire, e credo a ragione, che un personaggio, il Subcomandante Marcos, è stato il pretesto, a mio parere cattivo salvo buone eccezioni, per far accadere quello che è successo.
Una delle rotture più importanti di cui siete protagonisti è sull’uso del linguaggio La vostra fuga dallo stile astratto e rigido dei testi politici classici è stata giudicata positivamente da molti. E frequente, da parte vostra, l’uso di un linguaggio letterario che in alcune occasioni riesce a unire realtà e finzione.
Lo dico con parole probabilmente pedanti, ma non per questo meno vere- vivendo nella selva Lacandona ogni finzione è nulla in confronto alla realtà, e il racconto più inverosimile può diventare insignificante.
In questo senso, la nascita di Durito, uno scarafaggio, non ha da aggiungere molto a quello che accade nella selva. Lo chiamiamo perché ci aiuti a non prendere troppo il “volo”, come diciamo noi, per aiutarci a creare un’ancora che ci tenga con i piedi per terra. Durito appare nel 1985, un periodo in cui l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale era costituito da sei persone. Io ero il capitano in seconda di fanteria, e dovevo convincere gli altri cinque che saremmo arrivati a vivere giornate come quella di oggi. Ma era difficile perché non c’era altro che formiche, vegetazione, montagne e pioggia. Inoltre avevamo poco da mangiare e dovevamo bere la nostra orina perché non avevamo trovato acqua, e ci eravamo persi nonostante avessimo con noi una bussola. Quella notte dormimmo di fronte al fuoco, e io cercavo di convincere quello che adesso è il Maggiore Mosè, ma che all’epoca era una semplice recluta, che un giorno ci sarebbero state migliaia di persone ad ascoltarci, che ci avrebbero seguito, e che le nostre parole avrebbero fatto il giro dei mondi. Tutti mi guardarono e uno dei compagni, – che adesso è il mio comandante in seconda disse: “No, questo è impazzito. Come può direi che un giorno le nostre parole faranno il giro del mondo e che verrà gente da tutti i paesi se qui siamo solo in cinque e nemmeno abbiamo da mangiare?”.
In quel momento arrivò Durito e iniziò a spiegare, nel miglior modo possibile, quello che accadeva nel mondo, raccontando una storia che, anche se usciva dalle mie labbra, in realtà veniva dall’essere più miserabile di tutta la selva Lacandona: da uno scarafaggio che viveva, letteralmente, nella merda degli animali. La chiave era che dovevamo dare a Durito una serie di caratteristiche non per convertirlo in umano, ma per renderlo superiore a qualsiasi essere umano. Fortunatamente Cervantes era già nato, aveva scritto e ha ceduto gentilmente il testimone del suo Don Chisciotte a Durito. Così, nell’unica apparizione nei dieci anni prima della guerra, iniziò a cercare di spiegare quello che stava facendo il neoliberismo. Dopo il 1994, Durito torna di nuovo con una missione diversa: ricordare a Marcos che è un servitore, che non è il capo, che è meno di uno scarafaggio che vive nella merda degli animali. In questo senso, Durito diventa un cavaliere errante di cui Marcos è lo scudiero.
Credo che ironizzare su sé stessi sia sano e raccomandabile. Durito costruisce la sua storia per bocca di Marcos, è il modo per dire alla gente che siamo diversi, che siamo irriverenti fino al punto da non prenderci neppure sul serio. In questo senso, diciamo al potere “se non prendiamo sul serio noi stessi, come pretendete che prendiamo sul serio voi?” Per questo possiamo sfidarli, perché ci fanno ridere, non ci fanno paura proprio perché ridiamo di noi stessi. Questo è il lavoro di Durito, a differenza del Vecchio Antonio, che rappresenta piuttosto l’uso della metafora, della favola, il tentativo di dare lezioni guardando al futuro. Per questo la maggior parte dei racconti del Vecchio Antonio ancora non si riescono a comprendere, così come ancora non può essere compresa la maggior parte dei comunicati dell’EZLN.
Molti vi giudicano gli ispiratori di quel movimento globale, che iniziato da Seattle, si è esteso a Praga, Genova, Porto Alegre, etc. Ad ogni modo, sembra che voi zapatisti non abbiate cercato i vostri referenti nella sinistra classica, e che l’abbiate scavalcata…
C’è un equivoco, perché se cerchiamo i nostri referenti nella cultura rivoluzionaria, perdiamo. Alla fine c’è stata una disputa tra quello che pensavamo noi e quello che pensavano le comunità rispetto a cosa dovesse essere il movimento. All’inizio noi venivamo da una cultura rivoluzionaria e volevamo utilizzare i nostri paradigmi. Il nostro motto era “tutto per noi e niente per gli altri” perché è questo il motto di un politico, quello di un rivoluzionario, che dice “tutto il potere a noi e per gli altri nient’altro che la possibilità di seguirmi o essere eliminati”. E’ lo stesso sia a sinistra che a destra. Quindi scherziamo con i compagni, adesso comandanti, che non conoscendo bene lo spagnolo sbagliarono, traducendo “tutto per tutti e niente per noi”. Io dissi di no, che la frase era “tutto per noi e niente per gli altri” però insistettero continuando a tradurre “tutto per tutti e niente per noi”. Ed è così che è rimasto. Raccontiamo questa storia, io mi arrabbio e dico: “me ne vado, dov’è l’uscita?” e Durito mi risponde che non ci sono uscite. Allora gli domando “Va bene, e io che faccio?”. E lui mi risponde “Rimani e impara”. Ed è quello che è successo: che siamo rimasti e abbiamo imparato. Anche se ci sono state molte resistenze da parte nostra, un vero conflitto ideologico. Tutto ciò finché ci siamo accorti di non parlare lo stesso linguaggio, di non avere gli stessi riferimenti. In quel momento ci siamo sforzati di tradurre per poter dire quello che volevamo dire, perché ci eravamo ritrovati con una visione dei mondo molto più povera di quella degli altri. Alla fine le comunità si imposero e ne uscì un’ibridazione di entrambi i discorsi.
Per questo il nostro linguaggio non è né rivoluzionario urbano e nemmeno propriamente indigeno. E’ una combinazione completamente nuova, un cocktail che non è uguale a nessuna delle sue componenti, la cui essenza va al di là della somma delle parti. Questo è ciò che è accaduto prima del gennaio dei 1994, e lo si deve al grande lavoro interno, quel tesoro di parole accumulato in questi dieci anni di silenzio, che all’esterno non sono mai arrivate e che non sono in nessun comunicato.
Traduzione di Valentina Checchi e Davide Sacco
Anna di Salvo
Il seminario pubblico organizzato dal Centro di ricerca Duoda dell’università di Barcellona il giorno 11-5-02, ha visto una intensa partecipazione di donne (e qualche uomo) provenienti da varie città della Spagna, per riflettere sulle pratiche di relazione messe in atto dalla politica delle donne in alcune parti del mondo, rivolte alla creazione della pace e della civile convivenza. Le tematiche che hanno suscitato maggiore interesse e intorno alle quali si è discusso a lungo, sono state: le modalità politiche intraprese per ostacolare il dilagare della mafia in Sicilia, i rapporti creati a scuola con studenti e insegnanti quali veicoli di conoscenza e scambio, il conflitto con gli uomini e i modi di affrontarlo per creare reali condizioni di pace. Proprio su quest’ultimo punto mi è stato richiesto di esplicitare in maniera più approfondita i passaggi attraversati dalla Città Felice di Catania per trasformare in una risorsa positiva i conflitti che si erano verificati con alcuni uomini durante i primi incontri promossi allo scopo di praticare un laboratorio (che abbiamo chiamato come la nostra stazione ferroviaria: Catania Centrale), che vedesse donne e uomini impegnate/i in relazioni politiche nella consapevolezza delle rispettive differenze. Malgrado ci avvicinassero alcune analisi sull’esistente e il desiderio condivso di volerci prendere cura della città e della Sicilia, donne e uomini incontravamo serie difficoltà di comunicazione e di scambio: le donne non riuscivamo a sopire e neanche a mentire sul risentimento provato per la distruttività maschile nei confronti dell’opera femminile e del mondo, e ci trovavamo disorientate dinanzi all’incapacità degli uomini di partire da sé e non dalle teorie per una comprensione più profonda delle cose. Dal canto loro gli uomini, pur individuando nella pratica delle relazioni e nelle elaborazioni femminili una modalità politica costruttiva, esprimevano tuttavia il disagio di misurarsi con donne che mettevano loro soggezione, delle quali non capivano ancora bene cosa volessero da loro e che si esprimevano con un linguaggio originale e pratiche poco usuali nell’assenza di supporti teorici assoluti e finalità ben definite. Visto come stavano andando le cose, abbiamo deciso di alzare il livello di quegli incontri, mettendo da parte, come passaggio interiore nostro di donne, il risentimento nei confronti del maschile: questo ha reso costruttive le relazioni, gli incontri, i dialoghi e gli scambi anche oltre le riunioni generali. Le riunioni sono divenute più distese e fiduciose, la comunicazione è risultata fluida, la voglia di conoscerci è aumentata così come la condivisione di quello di cui “l’altro” si occupava anche in altri luoghi insieme ad altre donne e uomini. Questo ha permesso di cominciare a confliggere a partire dalle differenze concrete, e non dalle impossibilità immaginarie.
Il seminario di Barcellona ha trovato la sua giusta, bellissima conclusione con la presentazione dell’opera multimediale di Elena Del Rivero, l’artista spagnola che vive a New York: narrando con video, foto, diapositive e parole il suo ultimo anno di attività creativa sconvolto dal crollo delle torri gemelle, che ha danneggiato notevolmente anche la sua casa-studio. ha mostrato la capacità simbolica dell’artista di orientare l’espressività dell’arte verso la traduzione positiva delle cose e verso il reale senso della vita anche in presenza dell’orrore e della devastazione.
Ordine del giorno del Collegio Infermieri di Mestre, che è anche una proposta alla città e che vuole arrivare lontano.
Un invito a ricostruire la pace partendo da ciò che ciascuno di noi può costruire, consapevoli che la pace si sperimenta prima ancora di descriverla con parole o sancirla con i trattati.
La nostra professione parte dalle esperienze corporee che ben conosciamo e che ci insegnano ogni giorno l’umana comprensione del dolore, una base fondamentale anche per l’incontro delle idee e di una sana socialità.
Leda Cossu
Le infermiere ed infermieri riuniti a Venezia-Mestre in assemblea annuale il 9 aprile 2002, addolorati per il grave conflitto israelo-palestinese, le cui caratteristiche si stanno inasprendo in luoghi cari a tutta la comunità ed hanno offeso ogni diritto umano.
Auspicano che ogni Paese, attraverso l’ONU, operi per riportare il clima internazionale al dialogo di tutte le parti in causa e agli accordi per la soluzione del conflitto.
Ritengono, accanto alle iniziative istituzionali del territorio (comuni, associazioni, singoli cittadini..) di esprimere solidarietà agli operatori dei servizi sia palestinesi che israeliani, nonchè internazionali che operano in zona di guerra (presidi di cura, informazione, iniziative diplomatiche ecc.)
PROPONGONO IL MOLTIPLICARSI DI INIZIATIVE IN CUI SI REALIZZI L’ESPERIENZA DELLO STAR BENE INSIEME FRA RESIDENTI, palestinesi e veneziani ebrei e non
1 – nella vita cittadina di una comunità dialogante, con un tono leggero, NEI LUOGHI DELLA COMUNITA’ stessa, prendendo accordi prima di ogni iniziativa, evitando invasioni di luoghi nei quali le comunità di identificano
2 – durante le quali si eviti ogni richiamo alla guerra, al diritto (per non evocare ferite), ma SI REALIZZINO SEMPLICI INCONTRI in un clima di NORMALE QUOTIDIANITA’ quale si sperimenta nelle relazioni fra vicine e vicini di casa con “UN CAFFE’ O UNA CIOCCOLATA IN CAMPO” a Venezia, partendo dall’iniziativa che si vuole realizzare, piuttosto che dal motivo del contendere.
3 – i cui soggetti protagonisti siano mamme, nonne, maestre, zii, bimbi, chiedendo a ciascuno di portare un gioco, una filastrocca, una canzone, una poesia, un girotondo che esprimano (se possibile) LA DIFFERENTE RICCHEZZA CULTURALE, partendo dal proprio ruolo (mamma, professione, ecc)
ricordano come ogni città e paese, sia luogo di VITA ed INCONTRO e che gli scambi fra persone esprimono non solo la sfera del pensare e delle emozioni, ma dell’intera corporeità capace, se espressa, di riavviare impulsi di benessere alla persona nella sua globalità. Tale benessere psico-fisico, chiamato anche salute, può aiutare, se aiutato ad esprimersi, a sanare i rapporti sociali attraverso esperienze individuali (e non solo idee) e dare un impulso benefico alla pace nei luoghi della quotidianità.
Seduta congiunta – Commissioni riunite 3° e 4° del Senato (3° Affari esteri, emigrazione; 4°Difesa
Deiana (RC).
Signor presidente, onorevoli colleghi, ci troviamo di fronte ad un terribile crimine contro l’umanità. Terribile nella forma, nella violenza, nel significato, ma non voglio spendere parole su questo. Intendo svolgere, invece, alcune considerazioni in ordine al problema della guerra.
Infatti, invocare l’articolo 5 del Trattato NATO significa rubricare ciò che è avvenuto negli Stati Uniti l’ 11 settembre scorso nel capitolo guerra. Ritengo che scivolare su questo terreno significhi da un parte alimentare una terribile spirale di ritorsioni, vendette e violenze che ci può condurre molto lontano, dall’altra adottare un contesto di interpretazione di quanto è avvenuto che è fuori dalla logica e dalla ispirazione anche politica e giuridica della guerra e del Trattato NATO.
Per mia formazione politica e per il lungo impegno profuso in merito, sono dell’idea che la guerra – lo dico con uno slogan – debba essere cacciata dalla storia.
MALGIERI (AN).
Si tratta di una aspirazione universale.
DEIANA (RC).
Si, un’aspirazione universale, ma allora aggiungo, come corollario, che sono contraria all’idea che la guerra possa essere cacciata dalla storia attraverso la guerra. La guerra alimenta altra guerra. Non intendo però svolgere una discussione su questo, ma piuttosto riflettere sul concetto di guerra.
Credo che la guerra – per chi la accetta – sia la legalizzazione attraverso precise metodologie sociali, giuridiche, politiche e simboliche dello spargimento di sangue; si legalizza lo spargimento di sangue che, altrimenti , provoca negli umani reazioni, emozioni e sconvolgimenti incontrollati.
(Brusio in Aula. Richiami del Presidente.)
Uno degli aspetti fondativi di questa legittimazione è la chiara identificazione e contestualizzazione del nemico. Nelle guerre tra Stati moderni il nemico ha la forma di uno Stato e risiede in un territorio preciso; sono gli Stati che si assumono reciprocamente la responsabilità
della guerra. Per fare la guerra come forma legale e legittimata dello spargimento del sangue dell’altro dobbiamo sapere chi abbiamo di fronte e che la dichiarazione di guerra dello Stato di appartenenza è all’interno di un contesto legale che lo legittima. ‘annientamento dell’altro in un contesto di legalità, permette, ad esempio, ai soldati di sublimare l’orrore dell’annientamento. La legalizzazione attraverso regole e contesti precisi di legalità è un elemento fondamentale della guerra. Il terrorismo sfugge completamente a questa configurazione.
Pertanto, rubricare quello che è avvenuto negli Stati Uniti sotto il capitolo di guerra e coprirlo con l’articolo 5 del Trattato NATO significa operare uno spostamento di contesto che apre scenari inquietanti e può aprire una logica di esclation della violenza che non può assolutamente aiutare a combattere il fenomeno che si deve invece contrastare e che è quello del terrorismo.
L’articolo 5 del Trattato NATO, come ricordava prima il senatore Andreotti , configurava??(Commenti di Gruppi FI e AN. Richiami del Presidente).
DEIANA (RC).Evidentemente, Presidente, argomenti “contro” non sono di moda. Non si capisce, ho ascoltato con grande attenzione la relazione dei ministri Ruggero e Martino che contengono argomenti molto lontani dalla mia cultura; evidentemente i colleghi pensano che la situazione sia risolta, che l’applicazione dell’articolo 5 del Trattato NATO e l’adeguamento del nostro Paese a quest’ultimo sia cosa fatta e che argomentazioni diverse non abbiano diritto di essere prese in considerazione.
Mi rendo conto che il mio rischia di restare un intervento testimoniale, voglio però concluderlo.
Con molta chiarezza voglio sottolineare che estendere l’articolo 5 per creare un contesto di assunzione di responsabilità collettiva di tutti i Paesi aderenti al Patto rispetto a quello che è successo negli Stati Uniti significa estendere arbitrariamente il concetto di guerra, violare una volta
di più l’articolo 11 della Costituzione Italiana.
Da questo punto di vista – come ricordava prima il senatore Andreotti -l’articolo 5 del Trattato NATO configura un contesto molto preciso che presenta tutti gli elementi che prima ricordavo rispetto alla identificazione dello Stato nemico, al Patto di Varsavia sottoscritto da Stati nemici, nonché al contesto territoriale verso cui eventualmente fare la guerra, nonché rispetto ai vincoli che l’articolo 51 delle Nazioni Unite pone allo stesso articolo 5.
In questo caso siamo in un contesto completamente diverso. Il nuovo Concetto strategico della NATO, contenuto in un documento esaminato ed approvato dai Governi che ne fanno parte, il 24 e 25 aprile 1999, non è stato discusso e approvato in nessun Parlamento; quindi è un documento che, ancora una volta, sancisce accordi informali tra Governi senza passare attraverso il vaglio della discussione democratica nei Parlamenti e soprattutto attraverso una ridefinizione eventualmente precisa dei contesti nuovi di questa che può configurarsi come un’altra guerra. (Commenti dai gruppi FI e AN).
PRESIDENTE.
Collega, le ricordo che sta esaurendo il tempo a sua disposizione.
DEIANA (RC).
Mi avvio quindi alla conclusione. Intendo ribadire la pericolosità di assumere l’articolo 5 per le implicazioni molto negative che si avrebbero nell’estensione di un concetto e di un’ipotesi strategici già devastanti, come quelli delle guerre che abbiamo visto in atto sia nel Golfo, sia nei Balcani, con le spirali di odio, le escalation di violenza, l’imbarbarimento delle concezioni dei rapporti internazionali, lo svuotamento dell’ONU, sostanzialmente lo smantellamento di tutti quei meccanismi che potrebbero invece offrire un valido supporto e comunque, a mio avviso, devono essere i soli legittimati ad operare per individuare le soluzioni. Occorre ripristinare e rafforzare ilo ruolo dell’ONU, trovare soluzioni al terrorismo che uniscano i popoli, non scavino altri fossati.
PRESIDENTE.
Collega lei ha esaurito il tempo a sua disposizione.
DEIANA (RC).
Concludo, Presidente. Io credo che affinché la memoria delle vittime inermi di New York e Washington sia onorata bisogna fare di tutto perché si blocchi questa spirale di violenza e la via verso nuovi processi di militarizzazione del territorio, delle coscienze e delle menti umane.
Forum delle donne di Rifondazione comunista
Viale del Policlinico 131 – CAP 00161 – Roma
Tel. 06/44182204
Fax 06/44239490
Care amiche, abbiamo preso l’iniziativa di stendere un documento e di sottoporvelo, in modo che chi di voi lo condivide possa sottoscriverlo.
L’intenzione è di inviarlo ai giornali, alle radio, oltre che di farlo
conoscere in occasione della marcia Perugia-Assisi (del 2001 n.d.r.) . Le adesioni possono essere inviate ai seguenti indirizzi: pdd@isinet.it; lea.melandri@tiscalinet.it
Non siamo americane, né abitanti di New York, e non conosciamo le vittime degli attentati compiuti negli Stati Uniti l’11 settembre 2001. E non ci è mai capitato – e tanto meno siamo disposte a lasciarlo capitare oggi – di pensarci o dirci ‘americane’.
Per due buone ragioni.
Non accettiamo alcuna forma di identificazione nazionalistica.
E, anche se il discorso che domina in questi giorni – il discorso della politica, amplificato da media sempre più smarriti, servili e parassitari – spinge a pensare l’America (insieme alle sue periferie occidentali e orientali e all’Europa) come un corpo unico, compatto e sgombro da contraddizioni e conflitti interni, non siamo disposte a dimenticare che la caratteristica principale dell’America a stelle e strisce è di essere innanzitutto un luogo di ‘difficili’ convivenze: nera, bianca, europea, araba, cinese, latina, russa, povera, ricca, cristiana, musulmana, ebrea, new age, democratica, repubblicana, laica, fondamentalista, capace – dentro e fuori casa – di grandi atti di democrazia, ma anche delle più feroci politiche di rapina, sfruttamento e sterminio.
Al più, dell’America, ciascuna di noi ha amato o respinto uno o più aspetti particolari.
Ecco perché, rispetto agli Stati Uniti, soffriamo tutte di quel mal d’America che comprende sia l’amore e il desiderio sia la condanna e il rifiuto. Ed ecco perché non siamo disposte a fare nostro il copione di chi approfitta dello sgomento prodotto dai fatti dell’11 settembre per costringerci a dichiarare e addirittura a “sentire” un’appartenenza a un immaginario e monolitico mondo occidentale – leggasi Stati Uniti – che ha scatenato una guerra “duratura” (e per sua stessa ammissione “sporca” e, aggiungiamo noi, totalmente opaca) in nome della ” libertà” e della “sicurezza”.
Ciò che sappiamo è che oggi, nel mondo che tutti insieme – occidentali, orientali, settentrionali, meridionali – abitiamo, questo tipo di guerra non può che peggiorare la vita di miliardi di persone, tanto nei paesi più ricchi quanto nei paesi più poveri del mondo, e consentire ai pochi padroni della terra di ridistribuirsi aree geografiche, risorse e poteri.
Essa, che la si definisca guerra di civiltà o guerra al terrorismo, si risolverà semplicemente in un ennesimo brutale assestamento ai vertici, in cui nessuno può ragionevolmente credere che i poveri e i diseredati della terra, inclusi i tanti statunitensi sotto la soglia della povertà, riescano a riconoscersi o da cui possano trarre qualche vantaggio.
Denunciamo dunque questa operazione violenta che si sta tessendo a livello mondiale e la spericolata macchina del consenso che la sostiene.
Siamo infatti consapevoli non solo che l’irripetibile identità e singolarità di ciascuna di noi è frutto dell’intrecciarsi di molteplici esperienze e appartenenze cui non intendiamo rinunciare e che dettano il nostro sentire anche di fronte ad avvenimenti come l’attacco terroristico negli Stati Uniti, ma anche che l’esaltazione e il richiamo a un’unica appartenenza si fondano, riproponendolo a livelli diversi (economico, culturale, sociale, politico), sullo stesso meccanismo che ha reso possibile la costruzione di un mondo in cui l’unico soggetto riconosciuto e che si pone come universale – attraverso l’esclusione delle donne in quanto “altre” o la loro cancellazione e inglobamento – è quello maschile.
Mentre gli speaker delle reti televisive di tutti i paesi occidentali commentavano eccitati, sproloquiando di scontro tra civiltà, la scena riproposta centinaia di volte dei due aerei che cozzavano contro le torri gemelle di New York, non potevamo fare a meno di pensare che quella era una scena virile, lo scontro di due simboli aggressivi e perfettamente speculari – la grandiosità dei due grattacieli e la potenza di due TIR dell’aria gonfi di carburante -, non già lo scontro tra due universi simbolici diversi, due culture, due mondi antitetici.
Ogni politica di terrore armato, come quella che ha reso possibile quella scena, non solo fa strage di esseri umani inermi, ma distrugge coi loro “corpi” anche le diversità di cui essi sono portatori. Le due torri, gli aerei, il Pentagono contenevano donne e uomini in carne ed ossa provenienti da diverse parti del mondo, professanti religioni diverse, cittadini americani e clandestini senza diritto di cittadinanza. Troviamo rivoltante che quel campione della diversità del mondo rappresentato dalle vittime sia stato, nel discorso e nelle immagini, simbolicamente distrutto una seconda volta per dare forma a un’unica identità collettiva che sotto le bandiere degli Stati Uniti, della Nato e persino dell’Onu difenda con la guerra l’ordine e le gerarchie del mondo ingiusto in cui viviamo.
Questa rimozione ci porta inevitabilmente a pensare a un’altra e grave cancellazione, avvenuta da anni sul corpo delle donne afgane, rese due volte invisibili – letteralmente estromesse dalla società – dal fondamentalismo dei loro uomini e dall’interessato disinteresse dei governi occidentali.
Ovviamente non verrà mai ricostruita con esattezza la catena dilunghe collusioni, di antiche e impensabili cooperazioni dettate dall’interesse economico e politico, di minute complicità che hanno reso possibili gli attentati negli Stati Uniti.
Sappiamo tuttavia con certezza che, se già nell’ultimo anno il governo israeliano di Sharon e i suoi sostenitori ci avevano familiarizzato all’impiego disinibito di termini come vendetta, ritorsione, rappresaglia contro popolazioni inermi (e alle azioni conseguenti), ora anche l’odio, anzi lo “schifo” per l’altro, a giustificare il quale si è spesa la giornalista Oriana Fallaci con una prosa che ricorda lugubremente quella della rivista fascista “La Difesa della razza” o certe cronache marinettiane della guerra di Libia, avrà nel nostro paese libero corso. Sono queste le parole che ricorrono oggi nei discorsi dei ‘difensori’ dell’Occidente, come dei ‘guerrieri’ del terrorismo.
Non ci siamo dimenticate del brivido che ci percorreva quando ne sentivamo l’eco proveniente dai combattimenti nella ex Jugoslavia, mirati a separare con la forza, in nome di mitologiche purezze e genealogie, popolazioni diverse che fino ad allora erano in qualche modo riuscite a convivere.
Alcune donne della ex-redazione di Lapis:
Lea Melandri, Paola Melchiori, Maria Nadotti, Paola Redaelli, Sara Sesti
Anita Sonego (Associazione per una Libera Università delle Donne, Milano)
Maria Grazia Campari (Osservatorio sul lavoro delle donne, Milano)
Alberto Leiss
E’ possibile che la battaglia “sul simbolico della differenza” si intrecci alla rinnovata critica anticapitalistica che soffia con il “movimento dei movimenti” battezzato popolo di Seattle?
Potrebbe sembrare un quesito cervellotico, ma è stato l’anima di un imprevedibile scambio politico e teorico – e anche umano – avvenuto l’altra sera a Milano, nella sede della Libreria delle donne: da una parte La Cigarini e Luisa Muraro, teoriche e animatrici storiche di questa voce femminista, dall’altra la giovane giornalista americana Naomi Klein, autrice di quel No logo che sta diventando uno dei libri più rappresentativi dei movimenti critici della globalizzazione. Un testo apertamente apprezzato da Luisa Muraro come la prova più avanzata nel tenere insieme l’elemento simbolico, appunto, e quello “materiale” dell’opposizione al capitalismo delle multinazionali.
Ma che cosa vuol dire esattamente questa “politica del simbolico”? Nel tentativo di aprire un dialogo tra chi viene dalle pratiche di autocoscienza femminile vissute dopo il ’68 e una “figlia” di quel periodo (e la Klein ha dichiarato a un certo punto il suo debito proprio con la madre, leader femminista canadese negli anni della contestazione) si è rischiata a Milano una piccola catastrofe linguistica, nonostante gli sforzi di traduzione – tra inglese e italiano – di Maria Nadotti.
Ma in fondo la spiegazione più diretta si trova nego stesso libro della Klein: la politica “del marchio” praticata su scala globale, l’importanza che la grande azienda capitalistica moderna attribuisce alla produzione e alla vendita di “idee”, di comportamenti di “sogni” e “visioni del mondo”, che così è se non una vincente “strategia simbolica”? Certo, indossare un paio di scarpe Nike o Reebok non assicura di per sé la felicità, ma c’è qualcosa di vero nel fatto che su quei comodi piedistalli poggia anche buona parte di quella meta fantastica – ha detto qualcuno citando implicitamente Simone Weil – che compone le nostre vite quotidiane. Del resto, ha scritto recentemente Luisa Muraro, bisognerà pur riflettere sul fatto che il comunismo è crollato anche perché era accompagnato da un’eccessiva penuria di calze di nylon.
Dopo vari tentativi di difficile avvicinamento scatta la comunicazione tra generazioni e culture diverse, sia pure unite da una simile passione politica. “Ho letto centinaia di libri sul marketing – racconta Naomi – e mi ha colpito vedere che loro hanno capito una cosa semplice: il desiderio oggi è fatto di voglia di libertà, di uguaglianza, di ribellione”. E così il “turbocapitalismo” riesce a riappropriarsi continuamente anche dei sogni alternativi coltivati dai suoi critici: il “popolo di Seattle” è già diventato un gioco da playstation.
Ma il punto di vista femminile può suggerire strategie di contrattacco più efficaci? La Klein definisce come femminili alcune caratteristiche del “movimento dei movimenti” che lei apprezza: il dialogo nella rete, l’assenza di gerarchie piramidali e burocratiche, la “tessitura” di progetti legati a obiettivi comuni. D’altra parte il movimento stesso è fatto da “moltissime ragazzine” capaci di prendere a calci nel sedere le multinazionali, e sono giovani donne le operaie più combattive nelle fabbriche-lager del terzo mondo. La sua stessa biografia poi – la Naomi che si racconta nel libro – parla di una “ragazza-Barbie” che poi è diventata una “femminista militante” e che poi non si è accontentata più nemmeno di questo. La sua ricerca è spinta dall’ansia di “identificare bene il proprio vero desiderio”.
Già, solo se si è in grado di riconoscerlo, forse si è capaci di non barattarlo con il sogno fittizio costruito su un paio di scarpe da ginnastica, per quanto maledettamente comode e attraenti.
Ma, a proposito di desideri, esiste ancora un conflitto tra i sessi in questo nuovo movimento?
Naomi esita nella risposta, non gli piace parlare di maschi e femmine come ruoli sempre fissi, anche se in premessa ha dichiarato che la riscoperta della critica al mercato capitalistico non fa venir meno l’esigenza dell’impegno “antisessista” e “antirazzista”. Poi dice che c’è una componente “macho” nel popolo di Seattle che non rispetta le regole e che cerca di imporsi con la violenza praticando la violenza: e questo certo non lo apprezza. Di più, di fronte alle teoriche della fine del patriarcato rivela di aver scritto – tra alcuni capitoli del suo libro eliminati per esigenze editoriali – anche un testo sul “patriarcato funky”, dove si ragiona proprio della capacità del capitalismo-maschilismo di modificarsi inglobando le culture che lo criticano. Chissà se il lavoro da cronista militante della Klein riuscirà a difendersi da questo rischio contribuendo a strategie linguistiche (quindi simboliche) alternative più efficaci. Oppure se il destino del suo libro è già quello di essere il “Logo” del “no logo”.
Questo testo ci è stato mandato dalla Libreria delle donne di Madrid
(Con accento gagliego e americano)
– Gaglieghi: … (rumore di fondo)… Per favore, modificate la vostra rotta di quindici gradi sud per evitare una collisione…
– Americani: … (rumore di fondo)… Vi preghiamo di modificare la vostra rotta di quindici gradi nord per evitare una collisione.
– Gaglieghi: Negativo. Ripetiamo, modificate la vostra rotta di quindici gradi sud per evitare una collisione.
– Americani: Parla il Capitano di vascello degli Stati Uniti d’America. Insistiamo, modificate la VOSTRA rotta.
– Gaglieghi: Torniamo a ripetere, vi preghiamo di modificare la VOSTRA rotta.
– Americani: VI PARLA IL CAPITANO DELLA PORTAEREI DELLA MARINA DEGLI STATI UNITI LINCOLN USS, LA SECONDA PIU’ GRANDE NAVE DA GUERRA DELLA FLOTTA NORDAMERICANA. CI SCORTANO TRE CACCIATORPEDINIERE, TRE INCROCIATORI E DIVERSE CORVETTE D’APPOGGIO. CI DIRIGIAMO ALLE ACQUE DEL GOLFO PERSICO PER PREPARARE MANOVRE MILITARI RELATIVE A UN EVENTUALE ATTACCO ALL’IRAQ. VI ORDINO DI MODIFICARE LA VOSTRA DIREZIONE DI QUINDICI GRADI NORD. IN CASO CONTRARIO CI VEDREMO COSTRETTI A PRENDERE LE MISURE CHE SI RENDERANNO NECESSARIE A GARANTIRE LA SICUREZZA DI QUESTA NAVE. VOI APPARTENETE A UN PAESE ALLEATO DEGLI STATU UNITI. PER FAVORE, OBBEDITE IMMEDIATAMENTE.
– Gaglieghi: Vi parliamo da UN FARO. Siamo due persone. Non abbiamo la più pallida idea della nostra posizione nella classifica dei fari spagnoli. Ci scortano un cane, il nostro pranzo e due birre. Abbiamo l’appoggio di Cadena Dial di La Coruña e siamo in terraferma. Potete prendere le misure che ritenete opportune e che volete per garantire la sicurezza della vostra nave, ma, torniamo a insistere, la cosa migliore e più raccomandabile è che modifichiate la vostra rotta.