Coordinamento italiano a sostegno di Rawa
Abbiamo visto sulle vostre pagine le splendide foto di bambine e ragazze afghane, ritratte dalla Benetton a pubblicizzare il nuovo corso della politica afghana rispetto alle donne. Le immagini hanno un forte impatto emotivo, l’accostamento burqua-volto scoperto e/o le didascalie non lasciano dubbi: oggi le ragazze sarebbero libere di trovare un lavoro, di andare a scuola, di rientrare dall’esilio. Noi e voi sappiamo che non è così. Certamente conoscete quanto noi gli ultimi rapporti di Human rights watch, che potete consultare comodamente sul loro sito www.hrw.org, o persino tradotti in parte in italiano sui nostri siti (www.wforw.it ; www.ecn.org/reds/donne/donne.html), visto che la stampa si guarda bene dal pubblicarli. Potete rivolgervi ad Amnesty international, o anche ai vostri stessi corrispondenti che sono certamente ben informati. Perché allora ospitare sulle vostre pagine una campagna pubblicitaria che nega e nasconde quello che è oggi più che mai necessario denunciare con forza? La «liberazione» delle donne è stato uno dei principali falsi obiettivi dei bombardamenti americani in Afghanistan. Le donne afghane, attraverso le loro organizzazioni quali tra le altre Rawa ed Hawca, si sono opposte strenuamente a questo massacro e sono state ignorate. Hanno denunciato senza ambiguità che i nuovi padroni dell’Afghanistan, i signori della guerra insediati dal governo americano e mai liberamente eletti dalla popolazione, sono dei criminali. Essi hanno provocato centinaia di migliaia di morti negli ultimi trenta anni, hanno devastato, torturato e calpestato i diritti e la dignità umana delle donne quando erano al governo prima dei talebani. Contro di loro Rawa chiede da anni un processo internazionale per crimini contro l’umanità e l’accurata documentazione per realizzarlo è già pronta e disponibile da anni. Peccato che non si trovi né un giornale né una forza politica, neppure qui in Italia, disposto a sporcarsi le mani con questa storia poco edificante. In tutte le province dell’Afghanistan le scuole riaperte a beneficio dei riflettori occidentali vengono assalite da bande di fondamentalisti e non sono poche quelle che sono state costrette a chiudere di nuovo.
Dobbiamo ricordarvelo noi che la sharia è in vigore ovunque, le carceri sono piene di donne che fuggono alla violenza domestica, i suicidi per sfuggire ai matrimoni forzati non diminuiscono, in molte regioni è nuovamente proibito alle donne circolare senza un parente stretto maschio? Le donne vengono arrestate e sottoposte a visite ginecologiche forzate, non riescono a raggiungere scuole, posti di lavoro, università a causa delle restrizioni rigidissime sulla libertà di movimento. Forse non è evidente a chi gira solo per Kabul, ma chi mette un piede fuori dalla capitale entra in un territorio fuori da ogni controllo. Sta per arrivare l’8 marzo e qui in Italia ci saranno compagne di Rawa. Per favore, evitate di pubblicare, magari accanto a un articolo corretto e ben informato come certo siete in grado di fare, qualche bella foto pubblicitaria capace di spazzare via, con un’occhiata, fiumi di inchiostro.
Coordinamento italiano a sostegno di Rawa
Trenta anni dopo Muhammad Alì e i pugni chiusi di Città del Messico, una sconosciuta cestista americana volta le spalle alla bandiera a stelle e strisce perché contraria alla guerra in Iraq. I militari e i tifosi la prendono di mira, la sua università la difende a spada tratta
Peter Parker
Il primo a dire no, quaggiù, fu il grande Muhammad Alì. Che al momento di giurare nell’ufficio reclute di Houston, primavera del `67, rimase fermo al suo posto e anzichè fare un passo avanti recitò una poesia: «Chiedetemelo pure insistentemente/ sulla guerra in Vietnam io canto questa canzone/ Non ho proprio nulla contro i vietcong». Fu condannato per renitenza alla leva, finì in carcere e perse la corona dei massimi. La sentenza fu poi annullata dalla Corte Suprema, ma due anni e mezzo di carriera andarono in fumo. Un anno più tardi, toccò a Tommie Smith e John Carlos, i pugni chiusi delle Black Panthers, ai giochi di Città del Messico, ottobre `68: la guerra non c’entrava, c’entravano le discriminazioni razziali, il Klan, i ghetti in fiamme. Sul podio, al momento dell’inno americano, i due velocisti si presentarono senza scarpe, con guanti e calzini neri: sulle note di The Star-Spangled Banner, alzarono il pugno e abbassarono la testa. Furono espulsi dalla squadra, cacciati e banditi per sempre. Nel `91 fu la volta di un cestista italiano, Marco Lokar, che si rifiutò di cucire sulla maglia dell’università di Seton Hall la bandiera a stelle e strisce in supporto ai militari americani impegnati nella guerra del Golfo. Fu fischiato da tutto il Madison Square Garden, minacciato di morte e costretto a tornare a casa. 7 anni fa, infine, ci provò il piccolo Mahmoud Abdul-Rauf, guardia «convertita» dei Denver Nuggets. Sulle note dell’inno nazionale, pensò bene di restar seduto in panchina perché per lui l’Islam era «l’unica via» e quella canzoncina nazionalista cantata da tifosi e colleghi proprio non gli garbava. Fu sospeso a tempo indeterminato. Poi si ravvide e tornò in piedi. A giocare. Cominciò Alì, finì Abdul-Rauf. Tutta gente più o meno famosa. Tutta gente che utilizzò i riflettori della ribalta sportiva per gettare un po’ di luce su quello che non andava fuori dal campo.
7 anni dopo, ecco Toni Smith. Una ragazzina newyorchese dell’Upper West Side, 21 anni, laureanda in sociologia al Manhattanville College, sobborghi nord della «grande mela». Guardia ma all’occorrenza anche ala della locale squadra universitaria, le Valiants, III divisione del campionato Ncaa. Una formidabile catturatrice di rimbalzi (8,2 di media a partita quest’anno), anche se il suo futuro è altrove, lontano dai canestri. Tre mesi fa, all’inizio della stagione, comunica all’allenatore Shawn Lincoln la sua personale e silenziosa «diserzione»: «Quest’anno, quando suonano l’inno, io volto le spalle alla bandiera americana. Perché il nostro sistema se ne frega delle ingiustizie e dei poveri. L’assurda guerra che stiamo per cominciare, lo dimostra». A Manhattanville non fanno una piega. Il First Amendment (la libertà di opinione) garantisce per lei. Di più, il preside della scuola, Richard A. Berman, rilascia una dichiarazione scritta: «Da noi, l’obiettivo è educare e crescere sul piano etico e sociale dei leader responsabili per la comunità globale. Ogni opinione è degna di rispetto e dignità. Non importa se siamo o meno d’accordo con la signorina Smith, quel che conta è il suo diritto di espressione. Noi siamo con lei». Non se li fila nessuno, perché è un piccolo college di «belle arti» (1400 anime) che non fa notizia, nè a livello accademico né a livello sportivo. Nella squadra, qualcuna storce il naso, ma l’allenatore avverte: «Tutte unite, ciascuna con le proprie idee. Giocate a basket, please…»
All’inizio di febbraio però, durante una doppia sfida vittoriosa con St. Joseph, tre avversarie con parenti nell’esercito si accorgono di quella di Manhattanville che anziché cantare, dà le spalle alla bandiera che ha resistito all’11 settembre e guarda per terra. A fine gara, una di loro le urla: «Hai una bella faccia tosta, stronza!». La voce circola e una settimana dopo a Kings Point, contro quelle di Merchant Marine Academy, c’è un palazzetto pieno di cadetti che sventolano bandiere Usa e fischiano ogni volta che Smith tocca il pallone. Manhattanville vince lo stesso. Dieci giorni e a Newburgh, contro Mount St. Mary, la stessa scena (senza i cadetti): quando lei per falli si accomoda in panchina, il pubblico comincia a chiamarla: «Vogliamo Toni Smith». E alla fine la saluta con God Bless America. Lei allora, che non ha mai parlato e adora Lauren Hill, scrive una lettera: «La priorità del governo americano non è migliorare la qualità della vita di tutto il suo popolo, ma espandere il proprio potere. Dunque, per buona coscienza, non saluto la bandiera. Il patriottismo ha tante facce, ma anche chi mi critica sa che la bandiera americana rappresenta l’individualità e la libertà. Dunque, ogni vero patriota deve rispettare il mio diritto a essere diversa». Passano tre giorni e il vero patriota Jerry Kiley, un veterano del Vietnam, entra in campo durante la partita con Stevens Tech e le piazza davanti il drappo a stelle e strisce. «Hai disonorato te stessa e la bandiera». Prontamente, viene portato via dalla polizia.
Infine, tre giorni fa, ancora contro Kings Point, a Manhattanville arrivano i media. I suoi tifosi sono divisi: qualcuno incita, qualcuno le dà le spalle quando lei va in lunetta per i tiri liberi. Il New York Times lancia la storia. Anche perché questa volta, a fine gara, Toni Smith parla. «Non volevo farne un caso pubblico, era solo una forma di rispetto per la mia coscienza. Non ce l’ho con i veterani di guerra, so cosa significa per loro la bandiera. Ma per ognuno di noi, la bandiera ha un significato diverso». E aggiunge. «Molta gente si alza a occhi chiusi e saluta la bandiera americana, ma questo comportamento causa sofferenza a più persone. Nel nostro paese, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Le priorità americane stanno da un’altra parte». Le chiedono se non crede che la sua protesta possa aiutare Saddam Hussein. «Dubito che Saddam mi stia guardando in tv, al momento. E comunque, anche se siete venuti qui per un altro motivo, noi siamo una squadra di basket. E quest’anno andiamo forti». Per la cronaca, 17 vittorie e 9 sconfitte. Manhattanville College non era mai andato così bene.
Da immigrato a operaio. Una metamorfosi datata anni `60 e raccontata attraverso la vita di tre tute blu, che è anche un modo per raccontare la storia della Fiat in un momento in cui la fabbrica per eccellenza viene commemorata attraverso la morte di Giovanni Agnelli. Rino Brunetti detto «Zorro», Luciano Parlanti e Pino Bonfiglio, sono stati tre leader delle lotte operaie capaci di realizzare la loro rivoluzione: il riscatto da un destino di subordinazione
Marco Revelli
«Sai i cavalli giovani, appena domati? Tirano ancora calci. Il vecchio domato, invece, è paziente. Ha fatto tutto quello che poteva fare, poi ha dovuto prendere per forza la carretta e tirarla. Li vedevi, in fabbrica, dai volti, con quelle rughe, quegli occhi del sud, stanchi della terra, e invece era un metalmeccanico. Noi appena arrivati guardavamo questa trasformazione da un cavallo purosangue a un asino da soma, ed era una cosa che ti faceva piangere il cuore: «Io dovrei fare questa fine qui? Ci hanno fatto venir su per trasformarci così? E allora via in corteo, attraverso le officine!». La raccontava in questo modo, Rino Brunetti, la sua metamorfosi da immigrato a operaio. E ne andava fiero. La prima volta che l’avevo ritrovato, dopo il black out dei secondi anni settanta e la caduta dei 35 giorni che l’aveva condannato al tempo vuoto della cassa integrazione, era stato in un pomeriggio di giugno del 1981, alle Vallette, dove abitava da quasi un decennio. Il quartiere era immerso nell’afa appiccicosa delle estati torinesi. Agli angoli delle strade, grandi mucchi di spazzatura accumulata per lo sciopero dei netturbini, a cui la gente aveva dato fuoco per liberarsi dal fetore, fumavano lenti, con volute oleose, tingendo il sole di un colore rossastro, da tramonto africano. O da paesaggio di guerra. Rino giaceva sul letto, spossato, nella sua stanza sconvolta, dopo tre giorni di veglia. Dalla radio la voce dello speacker annunciava da Vermicino la morte del bimbo caduto in un pozzo artesiano per la cui sorte tutto il Paese aveva trepidato, e lui, emotivo e partecipe fino all’autolesionismo, ripeteva: «Guarda come finisce Zorro. Se non sappiamo nemmeno salvare un bambino in un pozzo, che senso ha la nostra vita?».
Zorro e l’ingranaggio
«Zorro» era stato il suo nome di battaglia in Fiat, da quando, nell’«autunno caldo», aveva incominciato a «firmare» con una grande zeta le proprie personalissime azioni di boicottaggio dei crumiri: «Cosa faceva Zorro? – raccontava ridendo – Per esempio saliva dove i capi e i crumiri scaldavano i “baracchini”, quelle specie di gavette portate da casa, con dentro pollo, tacchino, minestra, roba buona, li vuotava, qualcuno lo riempiva magari di acqua sporca, e portava tutto di sotto, dove c’erano gli altri, quelli che avevano scioperato, che lottavano, e avevano l’affitto, la luce, l’acqua e il gas da pagare, e non avevano niente nel baracchino, metteva tutto quel ben di dio in comune, e si faceva festa». Ma prima di diventare «Zorro», Rino aveva fatto di tutto.
Era nato in un paesino vicino a Napoli, nel 1942. Il suo primo ricordo – non so se un sogno o un frammento di realtà – è terribile: come in una fiaba crudele, i suoi due fratellini sono legati vicino al pozzo di casa e la madre lo insegue, per catturare anche lui e farla finita tutti insieme. Il padre «disperso» in Albania, i pochi risparmi finiti, quella sembrava essere l’unica soluzione, quando miracolosamente sul sentiero apparve la figura del padre «vestito da tedesco» ritornato dalla prigionia, e il dramma fu evitato. Vero o non vero, certo è che gli anni successivi non erano stati facili: panettiere, benzinaio, battilastre e poi, a 16 anni, alla fine degli anni `50, Torino. «Scrivevo a casa che stavo bene, che qui c’erano tutte le cose che ci avevano promesso, invece piangevo, proprio piangere!, dalla mattina alla sera, perché pioveva sempre. Abituato a vivere con il sole e il mare, che a me dava la vita, mi sentivo morire. E poi laggiù eravamo abituati che qualsiasi cosa succedeva, si parlava tutti insieme, si discuteva. Invece qui, proprio quella diffidenza nordica. E quella programmazione! «io alle nove devo andare qui, alle dieci devo fare questo, alle undici quello…», e se ti saltava un passaggio impazzivi. Io al sud non conoscevo l’orologio, da quando son venuto su vivevo solo più per l’orologio. Sono stato male appena ho incominciato a capire cos’è questo ingranaggio, l’orario come «tutto il calcio minuto per minuto». E la solitudine: un giorno ho visto un funerale, in centro, in via Principi d’Acaia: c’era il carro funebre, e dietro una sola persona. Una sola! Al paese, quando morivi, venivano tutti, anche i cani – i cani animali -, anche gli infami. Qui, invece, tutta una vita e dietro niente. Allora sono crollato». Mirafiori l’ha salvato: Mirafiori quando era ancora una comunità operaia, densa di uomini e di ribellione. Lì ha ricostruito i suoi legami, negli scioperi, nei cortei, nella dignità riscoperta ogni giorno attraverso la solidarietà con quelli come lui, contro quelli che stavano sopra, e pretendevano di usarli come si usano le cose. Rino, una «cosa» – un oggetto, una merce – è riuscito a non diventarla mai. E i legami, ha continuato a tesserli, sempre. Alle Vallette raccoglieva i ragazzi di strada, quelli cui come unico destino la società per bene lasciava un futuro di emaginazione o di piccola delinquenza. E li «educava»: «Teppa siete. Venite con me, diventerete comunisti», ripeteva spesso. Lo ricorda Emilio, uno di quei «ragazzi», che comunista lo è diventato davvero, nel senso non politico ma «antropologico» del termine, se è vero che continua a gestire il suo bar come luogo d’incontro, di socialità e di discussione sulle ingiustizie piccole e grandi.
Quanto a Zorro, l’ultima volta che l’ho incontrato, era nel reparto di medicina oncologica delle Molinette, divorato da un cancro allo stadio terminale. Intorno, ritagli di giornali, libri, manifesti: le testimonianze di un’esistenza, e lui, dal letto, che spiegava alle infermiere, e a un vicino morente, quanto importante sia il modo in cui si è vissuto.
Mi è venuta in mente allora una frase che ripeteva spesso, a proposito del cervello e della libertà, parlando della fabbrica e della rivolta, dei ritmi monotoni, della ripetitività e della catena di montaggio: «Mi ricordavo quando andavamo a liberare gli uccelli messi in gabbia per farli scappare, e questi qui non sapevano più volare. Allora provavamo una tristezza, un dolore, e pensavamo al nostro cervello, a come ce lo stavano aggiustando in fabbrica: “Dio fa’, qui il nostro cervello non ce lo fanno più pensare”».
Raccontare la fabbrica
La stessa immagine l’aveva impiegata, qualche anno prima, Luciano Parlanti, anche lui a proposito della Fiat di cui era un pezzo vivente di memoria, ricordando la «rottura» sociale, ma anche esistenziale, rappresentata dai fatti di piazza Statuto: la prima, violenta rivolta operaia dopo la lunga crisi degli anni `50 e la trasformazione radicale nella composizione del lavoro nel cuore della produzione automobilistica. «…tu fai sempre lo stesso lavoro, lo stesso bullone, la stessa saldatura, fai gli stessi passi, gli stessi orari, stessi pasti, stesso baracchino, ti alzi sempre alla stessa ora… non sei più un uomo, sei un robot. Ricordo che quando mi alzavo alle cinque del mattino, in realtà alla Fiat mi svegliavo alle nove. Mi svegliavo alle nove ed era dalle sei che lavoravo. Il mio cervello era proprio congelato… il nostro cervello, in quegli anni vallettiani, era rimasto lì, bloccato, fermo, eravamo degli automi. Poi venne il 1962: il cervello si aprì, tutto d’un colpo».
Era uno straordinario narratore, Parlanti. Raccontava la fabbrica come nessun altro era capace, come una propria memoria personale, un pezzo di sé. Di una decina d’anni più anziano della generazione di Zorro, una tradizione di comunismo livornese alle spalle, Luciano aveva dentro la stessa rabbia di quelli – e anche la stessa identità: l’essere e il sentirsi, come dire?, individuo e gruppo insieme; persona ma anche «pezzo» di qualcosa che va oltre te stesso, più ampio, allargato e forte -. Ma l’esprimeva in modo diverso: tutto dentro l’officina, come se la fabbrica fosse la sua seconda natura, il luogo geometrico dell’esistenza. Raccontata da lui, la catena di montaggio prendeva forma e voce: il reparto, la complessa geografia della fabbrica – di quella fabbrica, Mirafiori, di quasi 3 milioni di metri quadrati, una città -, diventava una realtà vivente, capace di una dimensione epica. Il piolo piantato tra le maglie del nastro trasportatore che, giunto a fine corsa, impattando con la parete finale della linea strappa la catena e ferma la produzione lasciando respirare gli uomini; la riga tracciata sul pavimento di terra, segno di riconoscimento essenziale per capire se il capo ti frega accelerando la cadenza e per saltare giù in tempo; la conta dei pezzi in più o in meno rispetto alla «norma» come misura del rapporto di forza tra padrone e operai; sono i frammenti di un discorso complessivo, universale, sulle alterne vicende del rapporto tra capitale e lavoro nel cuore del mondo in cui ogni gesto, anche minimo, ogni comportamento, anche periferico, sposta qualcosa. Determina e pesa.
Da Luciano ho imparato quanta fatica nascosta, e sforzo collettivo anonimo, ed energia intellettuale e sociale, e anche di violenza, ci fosse alla base della nostra democrazia sociale degli anni sessanta e settanta, quando ogni centrimetro di socialità e di reddito redistribuito e di libertà dal e nel lavoro doveva essere strappato nel corpo a corpo con le macchine e le gerarchie di fabbrica. Non nascondeva nulla, quando raccontava dei cortei tumultuosi e difficili dentro le officine, delle corde con cui a forza i recalcitranti venivano guadagnati alla rivolta, dei bulloni che volavano, ma anche della dolcezza con cui – fuori finalmente da quell’inferno di ferro e olio bruciato, di acidi e di fumi – le persone, liberate dalla morsa del lavoro e del comando, potevano reincontrarsi e riconoscersi. Se n’è andato anche lui, la primavera scorsa, schivo, appartato e un po’ misterioso com’era vissuto, senza che sapessimo nulla del suo male, e neppure della sua morte scoperta tardivamente, quando era già tardi per un saluto.
La mitica 54
E poi Pino. Pino Bonfiglio. Era un leader naturale. Nell’autunno del `69, quando era stata decisa spontaneamente l’occupazione di Mirafiori, da solo, in piedi su un cassone, aveva organizzato i presidi delle 35 porte dello stabilimento, una per una. Conosceva tutti i gruppi organizzati e informali in fabbrica, le reti etnico-regionali, i loro capi naturali – sardi, pugliesi, siciliani, cerignolesi, lucani, veneti… forse un po’ meno i piemontesi -, e gli intricati percorsi, sotterranei e in superficie, che collegavano le diverse Sezioni, così, chiamando ognuno per nome o soprannome, copriva il perimetro di quel mostro di fabbrica.
Era arrivato anche lui, lì, su quella cuspide del mondo dove si facevano cadere i governi e si decidevano le sorti dell’economia italiana, dopo un lungo, accidentato percorso attraverso il lavoro. Anzi, «i» lavori, partendo da Messina, nell’immediato dopoguerra: prima il ciabattino, poi il ciclista, a 10 anni, per uno stipendio di 5 lire la settimana, panettiere, fabbro ferraio infine Torino, il 10 maggio del `62, saldatore in una fabbrica di marmitte per la Gilera, e dopo qualche anno di apprendistato, Mirafiori. Verniciatura. A fare la 124: tutti meridionali con il capo squadra e l’operatore piemontesi, 60 macchine all’ora, una al minuto, in uno dei reparti peggiori, l’«antirombo» («stavamo con l’acqua fino al ginocchio e quel liquido nero che ti colava addosso, ti entrava nella pelle, noi cercavamo di ripararci con stracci portati da casa, ma servivano a poco»). E poi a fare le lotte, alla guida della «mitica» 54, l’Officina che nella primavera del 1969, con uno sciopero spontaneo a oltranza, aveva bloccato tutta Mirafiori per quasi venti giorni anticipando l’«autunno caldo». Ma quando, per punizione, era stato trasferito alla periferia dell’impero, isolato e separato in un reparto marginale, non aveva fatto una piega. Aveva continuato esattamente come prima a tessere la rete dei legami e delle solidarietà fuori dalla fabbrica, nel ristorante dove a fine turno faceva il cuoco (cucinava benissimo). E a tessere aveva continuato anche dopo l’autunno `80, quando – capito che il gioco in fabbrica era ormai chiuso – aveva organizzato una trattativa collettiva con i suoi dieci compagni di lavoro ed era riuscito a strappare quasi un miliardo di liquidazione straordinaria (novanta milioni a testa, con cui si era pagato il ritorno al lavoro originario di fabbro ferraio). Era solito ripetere che la Fiat lascia il suo segno sui corpi, non per niente i vecchi operai la chiamavano «la Feroce». Se l’è portato via un tumore allo stomaco, quasi tre anni or sono.
A loro tre ho pensato, la mattina del 25 gennaio, sul tetto del Lingotto, mentre la fila di gente curva aspettava di rendere omaggio alla salma del «sovrano», e i giornali intitolavano «Grazie Avvocato». Li ho pensati con nostalgia ma con serenità, perché anche se al loro funerale non c’erano stati né cardinali, né sindaci, né televisioni e giornali, la loro «impresa» l’avevano chiusa comunque in attivo. La loro «rivoluzione» l’avevano fatta, dentro di sé, rovesciando un destino di subordinazione in una pratica di autonomia, senza comando e senza obbedienza.
Luisa Morgantini
Sul balcone di fronte al mio la bandiera della pace non c’ è più. Nella penuria di bandiere è stata tolta per portarla alla manifestazione di sabato scorso. Ma non è ancora tornata al suo posto. Sono andata a suonare il campanello, non c’era nessuno e così ho lasciato un messaggio: non è finita, siamo solo all’inizio ! Ogni giorno bisogna far sentire il nostro no alla guerra, il nostro no a questa guerra. Ogni giorno dobbiamo trovare gesti, azioni pensieri che manifestano il rifiuto al nuovo colonialismo imperiale Usa, alla complicità e connivenza degli Stati, al regime oppressivo di Saddam Husayn e di tutti i regimi oppressivi del mondo, al terrorismo sia esso dei gruppi o singoli come a quelli praticato dagli Stati alla Sharon in Palestina o da Putin in Cecenia. Il nostro governo ha dichiarato il nostro suolo, aereo, marino, terrestre, suolo di passaggio di armi di morte e di guerra. Dobbiamo studiare tutte le strade, i porti, gli aereporti, le stazioni ferroviarie da dove passeranno o partiranno, velivoli, armi, rifornimenti truppe. Dobbiamo con i nostri corpi essere presenti, cercare di bloccare, impedire,fermare. Non si fraintenda, nessun invito alla violenza, solo le nostre mani unite contro le loro braccia armate. Le madri si organizzino per tenere a casa i figli, si convincano i volontari o le volontarie a non partire. E’ un appello che faccio in primo luogo a tutte le donne. Noi donne che abbiamo scelto di essere costruttrice di pace e giustizia, in questo momento dobbiamo fare l’impossibile per fermare questa guerra, questi sono momenti in cui tutto deve essere fatto per salvare non solo la popolazione civile irakna o i soldati irakeni o Usa che possono morire, ma tutto per salvare l’umanità da un sistema che, come diceva Marcuse, riduce l’umanità ad una dimensione, un sistema che per esistere costruisce ciò che lo può distruggere. Il pericolo è nella danza macabra di un presidente messianico e fondamentalista come Bush e i terroristi fondamentalisti di Al Qaeda o della Jihad, le differenze non stanno nei diversi tipi di economia, di giustizia sociale che vogliono difendere.
I sistemi sociali ed economici sono simili. Differiscono la forza militare e nucleare, i modelli religiosi, le forme di democrazia, le libertà individuali di donne in primo luogo e uomini, naturalmente essendo io donna se dovessi sceglierei tra le parti, pur essendo laica, sceglierei, oggi, non nei secoli scorsi, il mondo cattolico cristiano. Ma , questa è la trappola dalla quale bisogna uscire.
Tra queste dicotomie un altro mondo è possibile. In questo percorso dobbiamo camminare per alcuni sentieri con quei governi e paesi europei e non, che pur essendo liberisti, non scelgono la strada della guerra ma della competizione economica, del negoziato. Come parlamentare europea, insieme ad altri parlamentari ho scelto di scrivere una lettera di appoggio a Chirac e a Schroeder, insieme a 32 parlamentari europei siamo andati in Iraq, a portare il nostro appoggio non al regime di Saddam ma al popolo Irakeno, insieme ad altri andremo a Washginton per incontrare parlamentari, rappresentanti del governo e movimento contro la guerra , al parlamento europeo abbiamo invitato Palestinesi ed Israeliani che credono nel diritto reciproco all’esistenza e ad una pace giusta, insieme ad altre parlanetari continueremo ad andare in Palestina, nei territori occupati perché non vi sia il silenzio sulla politica brutale e coloniale del governo Sharon. E’ vero, siamo in un momento storico in cui si possono decidere le sorti del nostro futuro. Che nessuna/o sia indifferente.
Ida Dominijanni
«Noi, il popolo, we the people, non vogliamo questa guerra: milioni di americani sono con voi e sfidano il presidente Bush», dice dal palco di San Giovanni a Roma, prima accolta con freddezza poi applaudita con calore, Mss. Campbell, la prima donna sacerdote del consiglio delle chiese degli Stati uniti. We the people, la firma che apre la Costituzione americana, la formula che meglio di ogni altra restituisce una concezione plurale del popolo, che è uno, the people, solo in quanto sa di essere fatto di molti e diversi, we. We the people, diranno poche ore più tardi i manifestanti di New York. Ma anche a Roma, non è solo per bocca della signora Campbell che la formula risuona nell’aria. Nell’aria della capitale italiana oscar della giornata pacifista mondiale, un’aria trasparente e complice come l’inverno romano soltanto riesce a regalare, in trasparenza si vede che c’è qualcosa di nuovo sotto il cielo della politica. S’erano viste, nel corso del tempo, declinare le stelle della rappresentanza di partito, dell’appartenenza di bandiera, dell’identità nazionale e nazionalista; s’era visto, nel corso degli ultimi due anni, salire il sentimento di un movimento multiplo e global, sconfinato nella percezione dello spazio e nella dimensione planetaria degli obiettivi. Ma un corteo così variegato, giovane e maturo, maschio e femmina, così arcobaleno da oscurare tutte le bandiere di parte partito e appartenenza, così globale da non cadere mai nella trappola delle contrapposizioni identitarie che fanno tutt’uno d’un governo nemico e del suo popolo, questo non s’era ancora mai visto. Singolare-plurale:we the people per la pace, in tutto il mondo, senza nient’altro in mezzo, né confini nazionali, né stati, né governi, né partiti. We the people, la firma della Costituzione americana contro il Sovrano americano, la società civile disorganizzata contro l’organizzazione armata, la moltitudine globale contro la Nazione a stelle e strisce che vuol farsi padrona della globalizzazione proclamando guerre di civiltà preventive.
Solchi nuovi, un tempo si sarebbe detto contraddizioni nuove, annunciano il panorama politico del nuovo secolo e riscrivono l’eredità del vecchio. C’è qualcosa di inedito, una specie di eterogenesi dei fini, in questa società civile così americanizzata, dai vestiti agli slogan alla colonna sonora rock, che si rivolta contro la cupola del potere americano. Come se passando dalle forme moderne europee a quelle postmoderne d’oltreoceano, dalla rappresentanza attiva alla videopolitica passiva, dalla democrazia organizzata alla democrazia plebiscitaria, la politica occidentale avesse disegnato un circolo completo e si ritrovasse a un giro di boa: non al tramonto però, ma a un nuovo inizio, in cui l’origine europea e il secolo americano si rimescolano in nuove combinazioni.
Non è solo un nuovo spazio a essere disegnato dal corteo planetario che si snoda di capitale in capitale e di fuso orario in fuso orario, ma anche un nuovo tempo. Nata dalle ceneri del mondo bipolare, cresciuta insieme con le promesse di un mondo globale senza confini, con gli stati declinanti e le identità meticciate, l’altra politica che è già in azione dice, ovunque nel mondo, che la guerra che ripristina i confini, il Leviatano e i certificati di identità è, prima di tutto, anacronistica: fuori tempo massimo. Give peace a chance, canta il corteo, e possiamo dargliene anche più d’una.
Colleen Kelly
fondatrice dell’Associazione dei familiari delle vittime dell’11 settembre (Peaceful Tomorrow)
In questi giorni, mi sento classificata secondo la seguente gerarchia: sorella di Bill Kelly Jr., ucciso l’11 settembre 2001; madre di tre bambini piccoli; cittadina americana; ragazza di una piccola città che vive nella grande New York. Leggo quello che legge un americano medio, senza avere accesso a documentazione specializzata. La mia sola esperienza consiste nell’essere la sorella di Billy, e nell’aver perso qualcuno che ho amato profondamente per colpa di diciannove uomini con «armi di distruzione di massa»: dei taglierini. L’idea che l’ottusa ostinatezza del mio paese possa essere causa di nuovi dolori per il pianeta intero è davvero preoccupante. Quando la mia organizzazione ha visitato, lo scorso settembre, più di 70 uffici del Congresso, nessuno di questi ha potuto dire di aver ricevuto una maggioranza di chiamate a favore della guerra. L’opinione pubblica americana ha il diritto di venire a conoscenza di fatti che possono essere causa di un pericolo imminente. Noi, in quanto familiari delle vittime dell’11 settembre, abbiamo il diritto di essere informati di qualunque fatto che possa collegare l’Iraq con Al Qaeda. Mio fratello non è morto né a causa di armi nucleari, né a causa di armi chimiche o batteriologiche. E’ morto a causa dell’ottusità mentale di un gruppo di uomini. E’ arrivato il momento per il mondo di usare tutta la sua intelligenza, creatività e compassione per cercare delle alternative alla guerra. Meglio di me l’ha detto Martin Luther King Jr.: «Dalla sofferenza delle guerre nascono i veri strumenti con cui si costruirà la pace di domani».
Vita Cosentino
Ho partecipato ai lavori del Forum sociale europeo e mi sono trovata bene. Ero con il mio corpo assieme ad altri 65.000, pure mi sentivo perfettamente a mio agio e mi è sembrata una realtà composita e mobile alla ricerca di altre forme della politica.
Io -come alcune altre- vi ho trovato una forte impronta femminile: lo ha già detto Naomi Klein per il modo di prendere le decisioni, io sono soprattutto colpita dal ritrovare al suo interno l’idea che è possibile cambiare il mondo senza la conquista del potere (è anche argomento di due libri appena usciti, uno in Argentina e l’altro in Francia e non ancora tradotti in Italia) che per me è stata l’invenzione più potente del femminismo. Qui però cominciano le questioni critiche perché è in gran parte inconsapevole che questa idea sia stata anticipata dal femminismo e questo mancato riconoscimento fa problema a donne che quella scommessa portano avanti da più di 30 anni, così come fa problema anche a me il mescolarsi di idee e pratiche che vanno in questa direzione con vecchi schemi di politica antagonista, con ripetizioni (maschili) di ricerca di massima visibilità.
Così di ritorno dal forum voglio affrontare solo una questione che riguarda la domanda che mi portavo dentro: la possibilità o meno di praticare esplicite relazioni politiche di differenza donna/uomo.
In alcuni momenti l’ho sentita veramente a portata di mano, in altri toccarne l’impossibilità si è esplicitato in conflitto. Ascoltando le reazioni dentro di me ho capito, come cercherò di mostrare, che in gioco c’è la libertà nel pensare, di uomini, di donne.
Ho sentito per me donna un possibile terreno di scambio quando ho percepito un ragionare maschile più libero: meno preoccupato a costruire una teoria in cui tutto si tiene e da cui dedurre un agire e un organizzare, e più attento a cogliere le occasioni che si aprono nella contraddittorietà del presente per dei soggetti vivi e pensanti; e invece un’impossibilità quando non c’era questa condizione.
Mi spiego con due esempi concreti dell’una e dell’altra situazione. Per un’apertura di possibilità di relazione mi riferisco all’intervento di Roberto Savio al seminario coordinato da Anna Pizzo su “Informazione e cultura”, ma lo stesso discorso vale per es. per l’intervento di Pierluigi Sullo al seminario per la “Democrazia partecipativa” e per altri che ho ascoltato.
Roberto Savio è il coordinatore del gruppo di lavoro per la comunicazione del Forum mondiale di Porto Alegre e il suo discorso era al tempo stesso realistico e animato da una forte scommessa politica che faceva conto sulla forza che risulta da soggetti consapevoli, da una miriade di comportamenti quotidiani diversi, da altri stili di vita, altre esistenze, altre idee. Era realistico perché prendeva atto che viviamo nel capitalismo e che tutto sta nella logica del mercato, che è la logica del “fare soldi”. Anche per l’informazione – diceva – la logica è la stessa: è dominata da alcuni grandi editori a cui non interessa comunicare, ma vendere. In questa stessa logica del capitalismo Savio, però, vedeva anche il suo punto debole e come prospettiva politica indicava, lo riassumo in breve con parole mie: “se noi invece di spendere energie a lamentarci che non abbiamo spazio sui giornali andiamo decisamente per la nostra strada facendo sempre più opinione pubblica su un’altra idea del vivere e della società umana, questo fa saltare il meccanismo. Un gruppo editoriale come Murdoch che ha come suo unico interesse vendere se continua a parlar d’altro e a ignorarci vedrà crollare le sue vendite come già sta incominciando a succedere, e sarà costretto per il suo profitto ad occuparsi di noi e dei temi che ci stanno a cuore.”
Si può condividere o meno il ragionamento (io lo condivido anche), ma ho più apprezzato l’operazione di libertà: non rinuncia a un’analisi complessiva, tuttavia non la riempie completamente, si limita a delineare un possibile orizzonte politico in cui è ancora tutto da giocare. A queste condizioni io mi sento attratta a partecipare al gioco con la mia differenza.
Viceversa mi sono sentita nella disperazione dell’incomunicabilità quando al laboratorio sui saperi (organizzato anche da amiche e amici dell’autoriforma della scuola di Firenze assieme al forum locale) è intervenuto Marco Revelli e ho aperto un conflitto, aiutata dal fatto che al tavolo c’era anche Ida Dominijanni che ha mostrato tutt’altro approccio rendendo manifesta la contraddizione.
Il suo sguardo era fisso sul capitalismo di cui analizzava la tendenza in epoca di globalizzazione e le trasformazioni che operava per cui la conoscenza è vittima della globalizzazione e il sapere è sottomesso alla logica produttiva. Da qui tirava due conseguenze: la morte dell’intellettuale che prima era chi poteva riflettere sui processi sociali rimanendo indipendente dai processi di produzione, invece ora con un’intellettualità di massa che porta saperi frammentati manca la possibilità di una sintesi conoscitiva organica; la seconda era il venir meno dello spazio pubblico: la scuola sussunta dal capitale diventa una fabbrica di mezzi di produzione regolata dal marketing. Da qui allora il problema di come ricostruire lo spazio pubblico, se statale o autogovernato, e la proposta del reddito minimo di sopravvivenza.
Il mio è solo un breve riassunto ricostruito sugli appunti: l’analisi era organica, l’oratore raffinato, ma io che di scuola mi sono occupata tutta la vita mi sentivo sulla luna, assieme alle maestre che fanno le maestre anche sotto il terremoto… in quel modo di costruire un’analisi che vuole spiegare tutto e abbracciare tutto c’era l’azzeramento dei soggetti viventi in carne ed ossa, del loro agire quotidiano, delle idee che vi portano e che hanno cambiato e cambiano i luoghi stessi. Non a caso il suo discorso tutto imperniato sulle trasformazioni ignorava totalmente la femminizzazione della scuola, che è la trasformazione più significativa degli ultimi trent’anni.
Insomma c’è un conto da fare sul tipo di relazioni che si instaurano parlando e rimettere in discussione -questo ho cercato di dirgli – le gerarchie di valore e il potere quando si parla: sia nel senso di una parola che cerca la supremazia teorica, sia nella costruzione del ragionamento politico in un modo che crea una sorta di rapporto di subordinazione tra chi elabora la teoria (l’intellettuale organico?) e chi agisce (le masse?). A queste condizioni io mi sento respinta e ricacciata in qualche modo in una dinamica da cui sono già fuggita tanto tempo fa approdando al femminismo.
Per concludere, quello che ho visto al Forum europeo – ma anche in altre situazioni – è che è cominciato un “disfare” maschile di apparati concettuali e modi di essere intellettuale che contenevano anche una pretesa di dominio sulla realtà e questo, per quanto mi riguarda, crea un terreno favorevole a una relazione di differenza che incrementa la libertà. Ma questo è tutt’altro che assodato come ho cercato di mostrare con due esempi di uomini. Accennerò solo a un terzo che fa vedere come la questione della libertà sia tutta aperta anche fra le donne. Al seminario “Donne – uomini: conflitto necessario per un futuro comune” organizzato e presieduto dalle donne della Marcia mondiale per la pace ho assistito a un conflitto in questo senso condotto da un giovane uomo di Roma, nei confronti delle donne della presidenza. Ma questa è un’altra storia che racconta Maria Castiglioni sempre sul nostro sito…
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell’ambiente e delle culture native, e’ oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Wto, come e’ noto, e’ la sigla dell’Organizzazione mondiale del commercio]
Se vogliamo che smetta di terrorizzare i deboli e quelli che non hanno potere per imporre l’apertura di nuovi mercati a vantaggio dei paesi ricchi e delle corporation, il Wto deve essere riformato. Oggi esso non e’ concepito per disciplinare i potenti, ne’ e’ in grado di farlo. Cio’ che serve urgentemente per portare giustizia ed equita’ nelle regole del mercato internazionale, per tutelare la sopravvivenza dei contadini del Terzo Mondo e per difendere i diritti alimentari dei poveri, e’ che si abbassino i costi di produzione e si impedisca una competizione impari con prodotti d’importazione i cui costi vengono tenuti artificialmente bassi grazie ai contributi. Sono queste le questioni che dovrebbero avere la priorita’ al prossimo “ministerial meeting” del Wto, che si terra’ a Cancun in Messico (10-14 settembre 2003). L’Uruguay Round (1994) dell’Accordo generale sul commercio e le tariffe (General Agreement on Trade and Tariffs) e’ stato fatto accettare al Terzo Mondo sulla base di una sola promessa: che i paesi ricchi avrebbero ridotto i propri contributi, abbassato le tariffe e creato delle opportunita’ di esportazione per i paesi poveri. Al meeting di Doha del novembre 2001 si e’ fatto ricorso alla stessa promessa, aggiungendo come argomentazione ulteriore la minaccia del terrorismo. Stuart Harbinson, all’epoca presidente del Consiglio generale del Wto, ha ammesso: “C’e’ in una certa misura la sensazione che gli eventi dell’11 settembre rappresentassero una minaccia al mondo e alle procedure istituzionali internazionali. E che fosse importante per le istituzioni multilaterali, non solo per il Wto, il fatto di apparire efficaci. Percio’ ritengo ci fosse una pressione particolare sulle persone perche’ conseguissero un risultato”. E’ evidente che il cosiddetto “Doha Round” non e’ stato un negoziato, ma una farsa inscenata per “apparire efficaci”. Esso e’ stato un tentativo di tenere vive le illusioni, non di regolare il mercato. Il fallimento di Seattle lo aveva reso necessario. * L’incapacita’ e la mancanza di volonta’ del Wto di regolare gli abusi del mercato da parte dei ricchi e potenti sono dimostrate chiaramente dal fatto che, dopo Doha, i contributi degli Usa e quelli europei sono in realta’ aumentati. L’amministrazione Bush ha recentemente approvato una legge sull’agricoltura che accresce i contributi agricoli negli Stati Uniti del 10%, portandoli a circa venti miliardi di dollari all’anno. In Europa, gli attuali contributi saranno mantenuti fino al 2013. Allo stesso tempo, paesi come l’India sono stati costretti ad abolire importanti restrizioni (conosciute come restrizioni quantitative, o QRs) e hanno visto i loro mercati e i loro prezzi interni crollare, mentre il mercato e’ invaso da prodotti il cui basso prezzo e’ ottenuto artificialmente mediante forti contributi. A causa di un commercio ineguale legalizzato dal Wto, le importazioni agricole dell’India sono quadruplicate, da 1,04 miliardi di dollari nel 1995 a 4,16 miliardi di dollari nel 2000. Mentre cresce il commercio mondiale che avvantaggia l’industria agro-alimentare del Nord, i coltivatori del Terzo Mondo stanno perdendo la propria capacita’ di sostentamento. Per esempio, il fatturato del caffe’ e’ salito da quaranta a settanta miliardi di dollari negli ultimi anni. Allo stesso tempo, il guadagno dei coltivatori di caffe’ e’ sceso da nove a cinque miliardi di dollari. I coltivatori indiani di cotone stanno perdendo la loro capacita’ di sostentamento in seguito a due fattori: la vendita sottocosto di cotone texano fortemente sostenuto dai contributi, e le sementi costose e inaffidabili come il cotone della Monsanto geneticamente modificato. Il vantaggio ottenuto dall’India grazie alle regole del Wto sulla liberalizzazione del mercato ha assunto la forma di suicidi tra i coltivatori e morti per fame. I doppi standard e le distorsioni del Wto sono evidenti. Ecco perche’ persino la base vagamente democratica dei negoziati di Ginevra viene ormai sostituita da “mini-ministerials”: a Sydney lo scorso novembre, a Tokyo questo febbraio. Questi piccoli incontri riservati sono perfetti per costringere, minacciare e corrompere, e l’esito che producono, qualunque esso sia, e’ un oltraggio alla trasparenza e alla democrazia. * Mentre ci prepariamo al meeting di Cancun, le questioni della democrazia, del cibo, della fame e della sopravvivenza dei coltivatori dovrebbero essere prioritarie. L’agricoltura sostenibile e la coltivazione organica – insieme a restrizioni quantitative, leggi contro la vendita sottocosto di prodotti e leggi anti-trust contro le corporation globali – sono l’unica garanzia per il sostentamento e la sicurezza alimentare nel Terzo Mondo. Eppure, mentre tutti i movimenti di coltivatori del pianeta chiedono le restrizioni quantitative, e’ in atto un tentativo concertato di sviare l’attenzione da questa questione – che imporrebbe un cambiamento nelle regole del Wto – alle questioni che invece aiutano a rafforzare il Wto. Dopo Seattle, la diversione dalle restrizioni quantitative e’ stata creata con l’argomentazione dell'”accesso al mercato”, secondo cui il Wto servirebbe a costringere i paesi sviluppati ad aprire i loro mercati ai paesi del Terzo Mondo. Ora il discorso e’ passato ai “contributi”. Il Wto, si dice adesso, serve a eliminare i contributi dei paesi ricchi. Questo e’ chiaramente falso, per una serie di ragioni:
1. Le attuali regole del Wto hanno costruito una clausola “di pace” per i paesi ricchi fino al 2005 (articolo 13 dell’Accordo sull’agricoltura – Agreement on Agriculture).
2. La stessa categorizzazione dei contributi nell’Accordo sull’agricoltura definisce la maggior parte dei contributi negli Stati Uniti e nell’Unione Europea come “tabella verde” e “tabella azzurra”. Tali categorie non sono considerate “distorcenti il mercato” e dunque non possono essere oggetto di ricorso da parte del Wto.
3. Pur essendo in corso la revisione interna dell’Accordo sull’agricoltura – cominciata nel 2001 – gli Stati Uniti hanno ulteriormente incrementato i loro contributi sull’agricoltura portandoli a 180 miliardi di dollari per i prossimi anni.
4. La recente decisione americana sugli accordi tessili dimostra chiaramente che gli Usa non si piegano al Wto quando esso va contro le lobby interne, un atteggiamento rafforzato dal nuovo ruolo militare degli Usa sin dall’11 settembre
Franca Gianoni
Il Gruppo Saperi del Social Forum di Firenze ha dato vita a due laboratori autogestiti: SAPERI E LAVORO: SCUOLA, UNIVERSITA’, RICERCA giovedì 7 novembre, IL BAMBINO PLANETARIO venerdì 8 novembre, presso l’Istituto degli Innocenti, piazza SS.Annunziata. Quest’ultimo era stato ideato da Manuela Giugni, insegnante di scuola dell’infanzia. L’abbiamo intervistata.
Che senso ha per te questa iniziativa?
Più che di un laboratorio si è trattato di una tavola rotonda cui hanno partecipato alcuni studiosi e studiose che tempo fa avevano animato il convegno Il bambino s-confinato. Per me si trattava di portare il messaggio di quel convegno dentro l’esf. Trovo imprescindibile il riferimento ai bambini quando si discute di un altro mondo possibile. I bambini, ognuno e ognuna tutto intero, non corrotti dall’individualismo e dalla competizione neoliberista, sono la chiave d’accesso al futuro. Eppure in pochissime parti dell’esf si affronta l’argomento. Noi lo abbiamo proposto in un ambito modesto…
Perché modesto?
Perché per saggia abitudine agiamo in rapporto alle nostre forze e alle nostre relazioni. Ma non è modesto il progetto: mettere al centro dei saperi i soggetti a cui sono rivolti, con tutta l’identità cangiante e la diversità dell’essere bambine e bambini.
Com’è che proprio a te è venuto in mente questo progetto?
La mia vita scorre tutta con i bambini, penso di conoscerli, ma mai abbastanza. Sento che in loro ci sono forze che noi adulti cerchiamo di rimuovere, di non ascoltare. Nei bambini si esprime ora con l’irruenza ora con il silenzio l’azione di terra aria acqua fuoco…Aiutarli a porsi in relazione il più possibile armoniosa con l’ambiente, con l’altro da sé, scoprire i linguaggi insieme a loro mi sembra la giusta base da cui partire per l’altro mondo che desideriamo. Parlare di pace senza tentar di aprire con e per loro una strada di equilibrio e armonia, non ha senso. Abbiamo avuto esperienze pratiche in proposito anche con l’inserimento dei bambini Rom. Avevamo ostacoli dai genitori fiorentini, ma anche dentro di noi, ci sentivamo in difficoltà. Abbiamo dovuto andare nei loro campi e vedere da vicino come vivevano per trovare il giusto modo di porci con loro. Non si poteva essere buone mediatrici usando solo strumenti strettamente professionali. Occorreva almeno mettere a confronto la diversità con te e tra loro. Questo ha aperto una strada di meticciato, di identità non fissa per tutte e tutti. La nostra mediazione poi era garanzia per i genitori italiani.
Petrarca scriveva che occuparsi dei piccoli era attività indegna di uomini maturi, andava lasciata alle donnicciuole. Ti pare ancora operante qualcosa di tale atteggiamento nella mentalità corrente?
E come no, anche negli intellettuali progressisti… e nella vita quotidiana della scuola: Non parliamo poi dei ministri P.I. …e ho già detto che il nostro laboratorio è quasi l’unico del genere nell’esf.
Ci sono insegnanti uomini nella tua scuola?
Purtroppo no. Nell’ultimo ‘800 essere maestri dava prestigio e potere, almeno nei paesini. Con l’allargamento della scolarizzazione gli uomini hanno scelto professioni più importanti, lasciando la scuola alle donne. Ma mettendo al centro dell’attenzione sociale e culturale i bambini, anche gli uomini tornerebbero.
Trovi che anche in altre insegnanti ci sia questa intuizione che hai tu sui bambini, e dunque stiano a scuola anche per una loro scelta?
Sì, sempre di più. Sono stata commissaria in esami per l’immissione in ruolo, e la formazione delle candidate mi è sembrata più elevata che nel passato, anche se in un esame non si può valutare a fondo quanta consapevolezza c’è sulla centralità del bambino nell’azione educativa. A scuola ho colleghe sessantenni…sono esterrefatta dalla loro vivacità. Hanno ancora entusiasmo, quando operano con i bambini gli cambia proprio l’espressione degli occhi. Pure non portano a parola l’importanza di quello che riescono a fare, il valore culturale e sociale della loro azione, tranne nei confronti tra colleghe, fuori dai recinti un po’ costrittivi dei momenti ufficiali di formazione. Le maestre sono una vera risorsa per la crescita dei saperi intorno ai bambini e alle bambine: non hanno sovrastrutture intellettuali astratte, sono pronte a dire “non ho capito”. Sono come Socrate che diceva di sapere solo di non sapere. Le maestre sono vicine a una “semplicità” che è essenzialità.
Osvaldo Sabato
Non ci sarà nessuna investitura ufficiale di Cofferati alla testa dei movimenti, precisa Marina Astrologo, una delle girotondine storiche, «anche se Cofferati è il leader che più chiaramente ha aperto fin dall’inizio verso i movimenti, con più decisione ed è un interlocutore di primissima importanza». L’obbiettivo di questa che si appresta a diventare una assise nazionale dei movimenti e delle associazioni impegnate anche nel dibattito politico è quello di creare, dopo l’appuntamento di domani, una rete di contatti strutturata in modo che ognuno possa mantenere la propria autonomia, sulla base dell’idea lanciata da Ginsbog. Ma nessuna marmellata- «Immaginiamo una rete di relazioni tra le diverse esperienze che hanno dato vita all’enorme mobilitazione dei 2002 – spiega la diessina toscana Marisa Nicchi – c’è bisogno gno di una politica rinnovata, cioè più alternativa ai valori e ai terni del centro destra».
[…]
Daniela Padoan
I vialetti, i prati, le aule, ogni spazio della Fortezza da Basso esplode di colori, striscioni, manifesti; ci sono i reduci del Vietnam contro la guerra, i “punkabbestia” con i loro cani e i contadini sardi. Nelle plenarie si sente parlare in russo, in greco, in spagnolo, in tedesco, in francese; tante lingue e tanti interpreti simultanei, tutti volontari. Nell’edifico dove è allestito il punto informativo ci sono stand di centinaia di associazioni, ognuna con un proprio banchetto di libri, magliette, manufatti. E’ una festa di volti e di colori, di musica, ma soprattutto di parole scambiate. Durante i tre giorni del Social Forum Europeo si svolgono parallelamente centinaia di incontri; i più partecipati nelle aule delle conferenze, altri in stanze e stanzette disseminate ovunque. Ai lavori delle plenarie tanta gente, migliaia, tutti seduti ad ascoltare, con le cuffie, prendendo appunti; parlano docenti, economisti, politici, giornalisti, spesso decisamente anziani, come in un gigantesco corso universitario. Alcuni argomenti, tra i tanti: “Il ruolo delle religioni nella critica alla globalizzazione”, “Non violenza, disobbedienza e diritti sociali”, “Democrazia partecipativa”, “Acqua, aria, terra: l’Europa contro lo sviluppo insostenibile”, “Reti di economia solidale”, “L’istruzione non è una merce”, “Il lavoro in Europa: il lavoro e le sue trasformazioni”, “Sovranità alimentare”, “Media e guerra: il diritto all’informazione in tempo di conflitti”, “La politica come bene comune: sinistra e movimenti”, “Politica del vivere, vivibilità della politica”;, “La cultura riduzionista e la sperimentazione animale”, “Salute in Europa tra ‘equità’ e accesso”, “Palestina-Israele: il conflitto, l’Europa, la solidarietà attiva per una pace giusta”. Se c’è un limite, è nel fatto che nelle conferenze e nei seminari quasi tutto si gioca nell’ascolto: sono praticamente impossibili gli interventi, ma la discussione prende avvio dopo, in giro per la Fortezza, e fuori, passeggiando per Firenze, seduti nei bar. Ovunque si sentono persone che, a coppie, a gruppetti, si scambiano opinioni e appunti. Un gran fermento di idee, un inedito desiderio di confrontare punti di vista, orientarsi, trovare ciascuno il taglio con cui stare dentro questo mare di diversità, tutti però con alcune, semplici, irrinunciabili idee di fondo; il rifiuto della “guerra infinita” e il sentimento quasi francescano che gli esseri umani sono uguali, che non è accettabile che a una parte dell’umanità sia consentito tutto – consumare, spostarsi liberamente, avere una vita della mente – e che l’altra sia ridotta a poco più della nuda vita. Senza indulgere al terzomondismo, ma partendo da sé, dai propri bisogni, desideri, modi di agire politicamente. In un certo senso il discorso fatto dal movimento è talmente semplice e poco ideologico da costituire una forza d’urto, un’evidenza irrefrenabile. Questo movimento, nelle sue idee fondanti, è soprattutto etico. Le sue parole sono essenziali. Le sue richieste non sono volte al rovesciamento di un ordine nemico ma indicano come fondante la presa di coscienza di ciascuno: troviamo un altro modo di consumare, di risparmiare, di accedere alle notizie; troviamo un altro modo per amministrare i governi, partendo da quelli delle città, più vicini alla gente; troviamo un altro modo di dialogare con la politica istituzionale. Non c’è estremismo in questo movimento, c’è anzi una grande capacità di mediazione. Ciò che è rivoluzionario è la parola volta all’esistenza dell’altro.
Andando da un incontro all’altro si sentono rimbalzare discorsi, ed è possibile, ciascuno secondo il proprio taglio, fare dialogare diverse voci. Quasi mettere assieme domande e risposte, rilanci di pensiero. Con la consapevolezza che ragionare insieme significa già agire politicamente.
Il Social Forum di Firenze non è un luogo di slogan, non è il luogo di “una sola moltitudine”: sono (siamo) persone, persone e persone, vestite diversamente, di età diversissime, provenienti da molti luoghi della Terra, coinvolte in uno scambio vorticoso di lingue e idee, con la voglia di produrre qualcosa da portare a casa soprattutto come cambiamento dentro di sé, e poi come strumento per propagare linguaggi, confrontare diversità, individuare modi di lotta e pratiche quotidiane contro un potere economico e culturale sempre più monolitico e violento.
L’idea stessa di una linea comune e di una rappresentanza è impossibile e impensabile: questo movimento è la dimostrazione concreta, corporea, del concetto di pluralità; le innumerevoli entità che vi partecipano creano un ordine del discorso con il loro semplice accostarsi, senza poter essere sommate. In questo è una grande ricchezza e un limite solo apparente, per chi ritiene che la politica sia un giungere a sintesi.
La progettualità del movimento sta nell’opporsi al “mondo così com’è” con la semplice forza dell’esistenza di ciascuno. Nel testimoniare di un’idea con il proprio modo di esistere. In un rovesciamento dell’impotenza che sta nella consapevolezza della propria forza unita a quella degli altri: siamo consumatori e risparmiatori, per esempio, dunque il nostro modo di consumo e il nostro risparmio può produrre azione politica. Spesso ritorna la frase di Gandhi, “Siate il cambiamento che volete vedere nella società”. Non un “andare là” per risolvere i problemi, ma la convinzione che la globalizzazione del capitalismo parte da qui, ed è qui che dobbiamo inventare forme di opposizione. Attac, per esempio, parla di una “battaglia di autoeducazione”. Questo accanto a forme di protesta collettive e anche ad atti di disubbidienza, dei quali sono molto stati discussi modi e possibilità, in un orizzonte che non va confuso con le azioni un po’ sgangherate dei Disubbidienti di Casarini, ma che abbraccia Gandhi e Luther King.
Più volte, nel corso di diversi seminari, ho sentito dire che il movimento non è contro l’occidente, che non guarda al Terzo mondo come qualcosa di salvifico, ma che dobbiamo partire dal nostro essere occidentali, con ciò che di buono la nostra cultura ha prodotto. Rendere trasparente la cultura dell’Europa, di modo che l’Europa possa diventare un’area di resistenza all’egemonia americana.
In quanto accade in questi giorni vedo molto forte e vitale il segno impresso dalla politica della differenza: un partire da sé, una centralità delle pratiche, un concetto di rete come insieme di relazioni orizzontali che non consentono rappresentanza, un mettere al centro il plurimo, la convinzione che il linguaggio è già azione politica. A volte nominato, più spesso taciuto o non saputo fino in fondo, eppure il discorso è passato e si è tramutato in qualcosa di necessario a tutti, qualcosa che sta producendo del nuovo nei discorsi. Rispondere alle accuse di vandalismo inventando un servizio spazzini nel corteo, per esempio, è stato un rovesciamento nel paradosso, praticato dal femminismo e, da più di vent’anni, dalle Madres.
Ciò che di più arretrato ho sentito nel Social Forum di Firenze veniva paradossalmente dal seminario della Marcia mondiale delle donne, dove donne olandesi o irlandesi che parevano uscite da un film di Ken Loach parlavano di lotta al capitalismo e di “diritti delle donne all’interno delle classi oppresse”. Rimbalzavano discorsi su emancipazione, quote e destino svantaggiato. Volevano aprire il corteo con il loro striscione.
(testo a cura del forum sociale di Firenze, distribuito alle fiorentine e ai fiorentini)
Sappiamo bene che organizzare il Forum Sociale Europeo ha portato a chi abita a Firenze non pochi disagi; tanti poi hanno fatto di tutto per suscitare paura e ostilità verso coloro che avrebbero “invaso” la città.
Noi del forum sociale fiorentino abbiamo fatto il possibile per far capire di quale idea della politica e della vita sarebbero stati portatori quelle e quelli che contestano la guerra come strumento di ordine del mondo, il mercato e le merci come senso ultimo dell’esistenza. Nelle conferenze, nei seminari, nelle relazioni costruite in quei giorni (non solo nella manifestazione del sabato, non solo fatta di giovani), abbiamo mostrato come per noi essere contro la guerra significhi rifiutare ogni connotazione militare e violenta della politica, anzi riportarla alla sua dimensione di discorso pubblico, di dialogo fra diversi e diverse, di conflitto simbolico, di festa collettiva che costruisce un altro modo di abitare le città e il mondo. Senza solitudini, paure, egoismi.
L’abbiamo mostrato così bene, forse, che qualcuno ha cercato subito di ven-dicarsi, di riportare tutto il discorso sul terreno che gli è più congeniale, dell’ordine pubblico, delle carceri speciali, dei reati d’opinione; qualcuno che riconosce solo ciò che gli assomiglia: organizzazioni gerarchiche, bande ar-mate, attività clandestine… Noi, invece, serenamente “sovversivi e sovversi-ve”, viviamo le nostre battaglie alla luce del sole e siamo già un altro pezzo di mondo, un altro ordine del discorso. Per questo forse facciamo paura, per questo non ci potranno fermare con le manette e le catene. Per questo non ci cambieranno, non ci renderanno ottusi e violenti, simili a loro.
Durante il forum e nei giorni successivi agli arresti ordinati dalla Procura di Cosenza, per le strade della città abbiamo sentito anche gli uomini e le donne di Firenze straordinariamente vicini, legati da uno sdegno democratico, da un sentimento comune e da un sogno di umanità. La stessa cosa nelle manife-stazioni di Cosenza e Torino.
Sabato 9 novembre, abbiamo visto le bandiere alle finestre, i lenzuoli bianchi, i gesti gentili, la generosità di chi offriva da bere o da mangiare, di chi apriva le proprie case o salutava dai balconi con i bambini in braccio. Di chi in-somma scopriva e faceva esistere un’altra Firenze: pacifica, orgogliosa, sere-na, non rassegnata. Appassionata.
Abbiamo riconosciuto la nostra città. Ancora viva, malgrado tutto. Ancora ca-pace di slanci, di solidarietà, di conflitto e d’amore.
Per questo vogliamo ringraziarvi.
Per avere dimostrato che essere fiorentine e fiorentini significa ancora avere passioni da spendere, una testa per non farsi ingannare da chi comanda, occhi per le sofferenze del mondo, e un cuore per chiedere pace.
Il forum sociale di Firenze
Il grassetto è nostro….
Paola Melchiori
Penso che noi femministe, che abbiamo cambiato noi stesse, la percezione della nostra condizione e insieme reso visibile degli aspetti occulti e attivi nel tessuto sociale, abbiamo in quel movimento uno spazio fondamentale da coprire, potrei dire che è lo spazio di una antropologia e di una proposta più profonda di democrazia. Ma mettere la relazione tra i sessi al fondo e al centro della politica non è una cosa facile, neanche noi stesse spesso riusciamo a rendere visibili nessi occulti occultati e confusi con la naturalità di meccanismi che naturali non sono. Abbiamo una carenza di ponti tra le tematiche approfondite e il loro articolarsi nel sociale. Ma questi nessi analitici sono fondamentali per capire molte delle cose di cui si parla al Forum sociale europeo: fenomeni come il militarismo, la cecità dei poteri alle conseguenze delle loro scelte, l’avidità, la perseveranza nell’autodistruzione di una civiltà intera. Se ci confondiamo per condivisione oltre un certo limite con un movimento importante e che amiamo, rischiamo di perdere «anche» un lavoro di anni e alla fine di non dare a questo movimento contributi analitici e pratici significativi. Non possiamo fare della presenza delle donne di nuovo la questione femminile, uno dei capitoli sociali del movimento.
Se è vero che le donne sono nella globalizzazione le più povere e le più colpite, è assolutamente necessario che vediamo le proposte fin qui da loro fatte come soggetti di pratiche e di analisi che ridefiniscono lo stesso terreno di lavoro e le sue pratiche organizzative. Poiché è nella fissità di questi aspetti, nelle modalità prevalenti nella gestione organizzativa del Forum, nella esclusione di livelli di analisi completamente mancanti rispetto ai contenuti che si rigioca il potere patriarcale nella sua più totale ripetizione. Di momenti meno formali e più di discussione ce n’è un bisogno estremo nei Social forum, a Firenze come a Porto Alegre. Perché la forma organizzativa oggi in uso, che pure è una conquista di convivenza poiché permette la convivenza delle diversità, non permette una interazione a fondo, una articolazione conflittuale e di confronto, è più un momento dimostrativo e poco elaborativo. Quello cui dobbiamo lavorare è a un contributo sostanziale alla visione delle cose e alla concezione della democrazia ancora tutto da costruire.
Intervista con la scienziata indiana che lotta contro l’agricoltura delle multinazionali
di Susanna Ripamonti
E’ la storia di Davide contro Golia quella che racconta Vandana Shiva, personaggio ben noto nella galassia “No Global”, che da almeno 15 anni combatte per svelare il grande bluff delle multinazionali: le corporazioni come la Monsanto, che arrivarono in India promettendo ai contadini raccolti miracolosi, ricchezza e benessere e rivelarono molto presto l’inganno nascosto dietro al miraggio di seducenti campagne pubblicitarie. Lei, scienziato prestato all’agricoltura, ha fondato un’organizzazione, Navdanya, che raccoglie dieci milioni di agricoltori indiani. Ha attraversato l’India, girando da un villaggio all’altro, spiegando ai contadini che il modello di sviluppo proposto dalle multinazionali li avrebbe trasformati da consumatori di semenze a consumatori di prodotti chimici e di semi geneticamente modificati, che non si sarebbero più riprodotti. Un meccanismo che avrebbe indotto qualcosa che è paragonabile alla tossicodipendenza: la dipendenza dai narcotici dell’agricoltura.
Vandana Shiva, lei poche settimane fa era a Firenze in occasione del Social Forum. Che cosa pensa del movimento No Global?
“Tanto per cominciare, forse non si dovrebbe chiamare più No Global, ma Pro Local, nel senso che è un movimento che cerca di promuovere la diversità, la democrazia, il rispetto delle differenze. L un movimento forte e vibrante, che ha saputo raccogliere attorno a sé forze diverse, manifestando pacificamente nonostante minacce, provocazioni e pressioni”.
C’è un filo che lega la sua attività in India con questi nuovi movimenti occidentali?
“Partiamo da lontano: 10 o 15 anni fa, i modelli di sviluppo dividevano nettamente il Nord dal Sud del mondo: il Nord rappresentava lo sviluppo e il Sud il sottosviluppo. Io non sono stata mai d’accordo con questa rappresentazione della realtà, che rispecchiava un obiettivo preciso: l’Occidente voleva mantenere le sue ricchezze e il Terzo mondo era costretto a rincorrere quel tipo di sviluppo. Oggi la globalizzazione ha prodotto almeno un effetto positivo: le cose per cui combattono i contadini italiani sono sostanzialmente simili a quelle per cui lottano gli indiani. Entrambi vogliono difendere la qualità della loro vita, produrre in modo sano, su una terra sana”.
E’ sicura che questa consapevolezza sia così diffusa?
“Diciamo che in Europa come in India c’è ormai la consapevolezza che le multinazionali che controllano le sementi e privatizzano l’acqua sono un nemico da combattere. Prima della globalizzazione eravamo divisi adesso la stessa globalizzazione ci ha uniti”.
Lei in India ha cercato di costruire delle alternative concrete. Come si può riassumere l’esperienza di Navdanya?
“C’è una parola indiana, Satiagre, che spiega il nostro lavoro. Vuol dire combattere per la verità, con la forza della non-violenza. Noi abbiamo stretto un patto con i contadini, convincendoli a non collaborare con le multinazionali. Abbiamo creato una banca dei semi, tutelando l’incredibile varietà di specie che produciamo. Le multinazionali ci dicevano che avevano inventato semi resistenti alla salinità, alle alluvioni, alla siccità. Ma noi abbiamo risposto: Li abbiamo già”. La loro ingegneria genetica è assolutamente primitiva rispetto alla ricchezza delle nostre risorse. Abbiamo
una tale varietà, che possiamo fare a meno di loro. L’alternativa è semplice: contrapporre la biodiversità all’omogeneizzazione”.
Non è così facile contrastare, col semplice mezzo della parola, una multinazionale. Come avete fatto?
“Noi diamo alternative a contadini che stanno morendo e che si suicidano perché non riescono a saldare i loro debiti. Ma le multinazionali hanno rivelato da sole il loro bluff. Facciamo un esempio: in tre stati dell’India del Sud avevano pubblicizzato e venduto un seme di cotone che avrebbe dovuto dare raccolti miracolosi, ma in effetti ha prodotto solo un decimo delle promesse. Il 26 marzo scorso, i contadini che erano caduti in questa trappola hanno constatato di aver perso un miliardo di rupie: il guadagno mancato, rispetto all’uso di semi di cotone tradizionali. Ora stiamo cercando di fare causa alle aziende che hanno venduto miraggi”.
Avete provato a stabilire rapporti di collaborazione con l’Onu?
“L’Onu ha firmato due trattati che aiutano molto il nostro lavoro: uno per la fesa della bio-diversità e uno, stipulato n la Fao, dopo dieci anni di interminabili trattative, sulle risorse genetiche delle ante. Entrambi riconoscono i diritti dei agricoltori, ma adesso si tenta di vanificarli a favore del Wto. In agosto, quando si tenne a Johannesburg il summit del mondo su accessibilità e sviluppo, noi abbiamo cercato di difendere il trattato sulla bio-diversità, spiegando che l’Onu non può sottostare ai diktat dei Wto, che invece vuole imporre la tutela dei brevetti”
Le vostre forme di lotta sono sempre state Pacifiche?
“Noi lottiamo contro aziende che hanno riconvertito in agricoltura i prodotti chimici dell’industria bellica. Ma abbiamo sempre presente l’insegnamento di Ghandi. Negli anni 30 gli inglesi volevano privatizzare i 7mila chilometri di costa indiana e proibire la libera produzione del sale. Ghandi disse la natura ci ha dato il mare e noi ne abbiamo bisogno per la nostra sopravvivenza. Le vostre leggi sono immorali e noi non ubbidiamo a leggi immorali. Noi oggi diciamo esattamente la stessa cosa: la natura ci ha dato gratuitamente i semi che appartenevano ai nostri antenati e noi continuiamo a volerli usare liberamente”.
Ida Dominijanni
Settantaquattro anni appena compiuti e una voce da ragazzo, membro della commissione Cei per i problemi sociali e del lavoro («Non è vero che nella Cei tira solo aria di conservatorismo»), sacerdote dal `51, l’arcivescovo di Cosenza monsignor Agostino è stato uno dei protagonisti delle giornate no-global, decisivo non meno della giunta comunale per il loro felice andamento. I passaggi dell’omelia recitata la sera prima della manifestazione alla veglia di solidarietà con gli arrestati da lui stesso convocata non lasciavano spazio agli equivoci: sugli squilibri della globalizzazione, sulla simpatia per il movimento dei movimenti, sul rispetto per la giustizia dei giudici che però è pur sempre seconda al giudizio della storia nonché a quello divino. L’accusa di aver allestito la veglia contro i magistrati era facile prendersela e infatti l’arcivescovo se l’è presa, ma non ha difficoltà a smontarla: «Non era una veglia contro la procura, neanche per sogno, ho ribadito anche nell’omelia il mio rispetto per il lavoro dei magistrati, era una veglia per la pace, in città e nel mondo». Lui, del resto, non è nuovo a schierarsi dalla parte giusta che non sempre coincide con la parte della giustizia; lo fece anche quand’era vescovo di Crotone, durante le lotte operaie contro la chiusura della Pertusola, e ripensandoci viene fatto di chiedergli che ne pensa oggi della vertenza Fiat. «Sono spaventato da questa crisi, è un segno che in tempi di economia globale non possiamo più far leva su una sola fonte di lavoro e dobbiamo davvero progettare quello che si chiama sviluppo sostenibile. Lo vedo dall’esperienza della Calabria, dove in pochi decenni siamo passati da una cultura rurale a una cultura del nulla, cioè del consumo e basta, appannati dal miraggio di una grande industrializzazione mentre bisognava promuovere un’economia di piccola e media dimensione. Lo dice anche il Vangelo, se vuoi essere grande devi partire dal piccolo».
Ecco, dal piccolo. Cosenza è partita dal piccolo, cioè da se stessa, per fare del corteo no-global una festa grande. «E’ stata una giornata di partecipazione e pacificazione, una festa, sì. Perfino troppo festaiola: in queste circostanze bisognerebbe dire qualcosa, oltre che sfilare in corteo. Comunque, la preoccupazione che sotto sotto avevamo tutti, che potesse accadere qualcosa di spiacevole come a Genova, è stata del tutto fugata. Del resto, in mezzo c’era stata la manifestazione altrettanto festosa di Firenze…».
Anche a Genova, gli faccio notare, il clima avrebbe potuto essere tutt’altro, se la città non fosse stata in assetto di guerra e se le forze dell’ordine non avessero tracimato; ma prendo atto, il fantasma di Genova pesa e fa ostacolo a una lettura serena del movimento dei movimenti. «Il movimento si stenta a capirlo proprio perché è in movimento, non è un partito, bisogna saperlo guardare nella sua evoluzione e coglierne il messaggio di fondo». Quale? «Questo: dentro una generazione che pareva tutta appiattita sul consumismo, monta una marea di giovani che dicono che il mondo non va bene. Dobbiamo cominciare a dirlo anche noi con loro, guardare dove sta andando il mondo e cercare di farlo andare diversamente». Ma come si spiega, monsignor Agostino, che nei no-global ci sia una presenza cattolica così forte? «Si spiega benissimo: essere cattolici significa essere portatori di un’istanza di giustizia e di redenzione del mondo. Non si può essere cattolici stando dalla parte del potere: è il potere che ha messo e sempre mette a morte Cristo. L’idea che i cattolici stiano dalla parte del potere, è un riflesso che deriva dall’eredità del partito cattolico italiano, che è un’eredità da purificare». E la Chiesa ha anche qualcosa da apprendere dal movimento? «Certo che sì, il movimento la interpella, le domanda una nuova pastorale. Dobbiamo annunciare una parola divina incarnata, calata nella materialità del mondo».
Però, monsignore, oggi come oggi le religioni nel mondo ci si calano anche troppo, non la spaventano i fondamentalismi? «I rischi di fondamentalismo ci sono sempre, ma bisogna stare attenti a capire dove passa il confine fra le istanze di giustizia, i giochi di potere, l’uso delle religioni. In Terrasanta, ad esempio, il problema non sono i fondamentalismi, è la sacrosanta rivendicazione di una terra da parte di due popoli che ne hanno entrambi diritto, anche se oggi in entrambi rischia di prevalere la tentazione di espellere l’altro. Bisogna a tutti i costi comporre questo conflitto assurdo, triste, amaro, invece la diplomazia è inerte ed è su questa inerzia politica che si innestano le logiche di potere e l’uso strumentale delle religioni, anche da parte di bin Laden». E queste logiche, arriveranno fino alla guerra in Iraq? «Io mi auguro davvero di no. La guerra si sa sempre dove comincia e non si sa mai dove finisce. Certo, bisogna trovare anche il modo di controllare Saddam: ma avremo pure altri mezzi dalla guerra per farlo, nelle nostre società ad alta tecnologia, o no?» A proposito di società tecnologica, monsignore, nella sua omelia se l’è presa neanche tanto implicitamente con Berlusconi e la sua idea della società delle tre i, informatica impresa e inglese…«Era un riferimento a una mentalità, di cui Berlusconi è interprete. Una mentalità che trascura i valori necessari a una crescita integrale dell’uomo, in primo luogo la socialità. Con la società delle tre i, rischiamo di mettere al mondo solo dei novelli Ulisse, navigatori solitari nello spazio informatico. Una specie di amplificazione pubblica della solitudine individuale».
Eva Catione Sindaca di Cosenza
Qualcuno ha scritto in questi giorni che ho rischiato ed ho vinto. Vero, era un rischio, perché 40-50 mila persone che arrivano in una città del Sud non abituata a gestire questo tipo di eventi non sono poca cosa. Eppure, non ho mai avuto dubbi sulla capacità della mia città di assorbire e fare propria una protesta che sgorgava spontanea dalle menti e dai cuori di ogni cittadino sensibile,
Poi, la manifestazione è diventata anche molto di più. E’ stato come se un sospiro di sollievo si levasse dalle strade e dai quartieri attraversati dal corteo. Ho avuto la sensazione di una città che si spogliava da tanti, troppi condizionamenti.
[…]
La mia gioia più grande è che Cosenza ha confermato ancora una volta il suo grado di civiltà e lungimiranza, riuscendo ad imporsi sulla scena nazionale non per fatti di mafia, ma perché da qui parte oggi un messaggio di civiltà che giustamente colpisce e già fa storia. Siamo il nuovo Mezzogiorno, quello della proposta e dell’iniziativa, quello che ribalta gli stereotipi che ci stanno stretti, quello che sempre più dovrà essere ascoltato dal Governo centrale. Siamo il simbolo delle Amministrazioni locali che cambiano ed aver ottenuto tanto consenso fra la gente vuoi dire che stiamo andando nella direzione giusta. Da Cosenza può ripartire un discorso nuovo sul nuovo Mezzogiorno. Ce la metteremo tutta.
Incontro con Colleen Kelly, sorella di una delle vittime dell’attentato dell’11 settembre, che rifiuta la guerra come risposta al terrorismo e lancia un appello al Forum europeo: «Abbiamo bisogno di voi. Non confondete il popolo americano col palazzo»
Ida Domijanni
«Due messaggi voglio lanciare a questo Forum. Il primo: dovete imparare a distinguere il governo americano dal popolo americano: non sono la stessa cosa, non potete scaricare su di noi le colpe del nostro governo. Il secondo: per sconfiggere il terrorismo bisogna cambiare i cuori, non fare le guerre. Mio fratello è stato ucciso con un taglierino usato come un’arma di distruzione di massa: questa memoria è bene impressa nella mia mente. Ma il presidente americano e l’Onu non possono usare la memoria dell’11 settembre per legittimare l’attacco all’Iraq. Fra quel taglierino e questa guerra non c’è alcuna connessione». Esile e forte come un filo d’acciaio, le ali della ragione piantate nelle radici del dolore, Colleen Kelly arriva nella plenaria del Forum che discute dell’Europa nel disordine mondiale, cioè di come e quanto la ricostruzione del Vecchio Continente possa arginare la volontà di potenza del Nuovo, e scuote l’aria, dando corpo al fantasma che vaga innominato nei labirinti della Fortezza da Basso. Quel fantasma si chiama 11 settembre, e più che con il terrorismo o con il crollo delle Torri ha a che fare con la ferita aperta nel corpo della società americana. Che qui nel Forum si fa fatica a tener presente, perché giovane com’è il movimento dei movimenti ha bisogno di nemici certi e definiti; e un nemico ferito, che nemico è? Perciò la potenza americana, la guerra indefinita contro il terrorismo, la nuova dottrina di Bush sono sempre nell’occhio del mirino, mentre quella ferita resta fuori campo e fuori fuoco. Colleen improvvisamente la incarna e il gioco si disordina, l’attenzione si tende nella sala con più di tremila persone sedute sulle sedie e per terra, lei parla e loro ascoltano, lei va avanti e loro tacciono, lei finisce e loro si alzano tutte come una marea, cominciano ad applaudire e non la smettono più. Qualcosa s’è sciolto e s’è mosso.
Colleen ha 40 anni, tre figli, radici irlandesi e vive nel Bronx, suo fratello neaveva 30 quella mattina, quando una breakfast conference – il postfordismo non ha orari – lo portò al WTC nel momento della catastrofe e la catastrofe lo inghiottì senza restituirne neanche il corpo per piangerlo. Fu il caso invece a riportarne alla madre, che accompagna Kelly qui a Firenze, una ciocca di capelli: perché per caso la madre l’aveva data a una sua amica 26 anni prima, l’amica l’aveva conservata e così almeno quella piccola reliquia le ha aiutate a elaborare il lutto. «Ve lo racconto – dice Colleen – per dirvi che ogni minima azione può lenire i dolori del mondo, e che ogni gesto che facciamo oggi può rivelarsi decisivo in futuro, fra 26 anni o chissà quando, ma dobbiamo crederci adesso». Perciò lei ha cercato l’azione giusta da fare e l’ha trovata. Si chiama «Peaceful Tomorrows» ed è un’associazione di 56 familiari delle vittime dell’11 settembre che non credono alla retorica presidenziale della vendetta e della ritorsione perché sono convinti che alimenta il circuito della violenza, non vogliono guerre né in Afghanistan né in Iraq né altrove, cercano risposte diverse al terrorismo, tengono contatti con le sue vittime in tutto il mondo, preparano pratiche di non-violenza in India, e sull’11 settembre vogliono ostinatamente aprire quel processo di elaborazione e discussione collettiva che, dice Colleen, finora la società americana ha mancato. Ma quella ferita è ancora aperta oppure è stata definitivamente suturata dalla fitness militarista? «Sai, le reazioni all’11 settembre sono state diverse. C’è chi non ne può più di vedere e rivedere quelle immagini. C’è chi vede bene l’uso che ne viene fatto dai palazzi del potere per legittimare la guerra. Ma i più sono ancora sotto shock, non hanno realizzato l’entità del fatto e delle sue conseguenze». Ma una come te, Colleen, capisce anche il sentimento della vendetta, l’ha provato? E che spiegazione ti dai del terrorismo? «Vendetta no, non ne ho mai desiderata; giustizia però sì. Ma per fare giustizia, bisogna capire. Non giustificare: non giustifico niente, considero chi ha ucciso mio fratello pienamente responsabile di quello che ha fatto. Ma mi domando perché l’ha fatto, e che cosa possiamo fare noi perché non accada mai più. Non credo che si diventi terroristi per povertà o per disperazione, i kamikaze dell’11 settembre non erano né poveri né disperati, venivano dalla middle class araba. Forse è gente che vive il cambiamento del nostro presente con un’intensità volta al male…Devono esserci dei fattori psicologici, una sorta di ossessività politica malata che dovremmo analizzare».
La guerra invece non serve, non è efficace, peggiora le cose. Ma Bush la farà, Colleen, se voi americani per primi non lo fermate. E invece la stragrande maggioranza degli americani sembra d’accordo con lui. «Non è così. L’America è divisa a metà come una mela: metà è con lui, metà no. Lo dicono anche i sondaggi, quando sono fatti bene». Perché allora quel voto alle elezioni per il Congresso, che di fatto autorizza Bush a fare quello che vuole? «Sta’ attenta, noi americani non ragioniamo così, sulla politica. Le elezioni di mezzo tempo, per la gente comune, non sono importanti quanto le presidenziali. Bush aveva già avuto l’autorizzazione del Congresso sull’Iraq, la gente lo sapeva e per giunta non ha visto differenze decisive fra repubblicani e democratici. L’opposizione alla guerra può montare ugualmente, non la vedo in relazione diretta col risultato elettorale». E il movimento pacifista che è nato negli ultimi mesi? Dicono che sia diverso da quello storico anti-Vietnam…«Sì, si discute nei campus universitari sulla natura di questo nuovo pacifismo. Credo che sia importante anche per voi, per il movimento europeo, conoscerlo meglio. Anzi, è importante per voi e per noi conoscerci meglio reciprocamente, con reti di informazione non ufficiali. Noi abbiamo bisogno di amici: non di alleati, le alleanze spesso sono strumentali e circoscritte, ma di amicizia, che è qualcosa di più». E di questo Forum, che cosa pensi? «Sono impressionata da quanto ci temete. Dall’immagine e dal giudizio che avete dell’America. L’America non lo sa, non ne ha idea. Continuiamo a vivere come una grande isola protetta da due oceani, e non ci rendiamo conto di quanto gli altri ci guardano, e di come ci vedono, e di quanto è urgente che noi invertiamo la rotta dalla guerra alla pace. Voglio provare ad aprire una discussione su questo al mio ritorno a New York. Però anche voi, qui a Firenze, dovreste riflettere su questo paradosso: siete troppo occupati a guardare gli Stati uniti, e pensate troppo poco all’Europa, che invece potrebbe essere una voce unitaria e decisiva, in questo momento, come mai non lo è?».
Franca Gianoni
Una sessantina di socialforisti fiorentini, in prevalenza donne, hanno svolto per quasi due mesi un capillare lavoro di reale informazione alla città impaurita dalla campagna provocatoria e terroristica dei media sul social forum europeo. Coordinati puntualmente da un onnipresente Massimo, hanno organizzato decine di assemblee cittadine nei quartieri, con la confesercenti, con le famiglie che ospitano nelle loro case i partecipanti più squattrinati. Ma soprattutto per settimane ogni pomeriggio sono andati a parlare personalmente con gli abitanti, porta a porta, negozio per negozio, spiegando a che cosa in realtà serviva il megaraduno. Abbiamo intervistato Sabrina, Sara ed Enza, del gruppo di sensibilizzazione “Firenze città aperta” e Milla di Consumo critico e Boicottaggio.
Sabrina studia e lavora. Non appartiene ad alcuna area, si considera un cane sciolto. Nell’ultimo mese ha rinunciato a completare la tesi perché è “strainteressata” ai contenuti del sf. Essendo genovese, ha vissuto gli avvenimenti intorno al G8. Alla domanda “ma tu che cosa hai imparato da questo contatto più ampio con donne e uomini che abitualmente non frequenti?” risponde che è diventata più realista. Non le è stato facile contattare persone diverse, visto che generalmente vive invece tra simili a lei. E’ convinta che il vero cambiamento viene dal basso, e trova che parlare con le persone è pratico e utile, anche quando è “una batosta” per chi lo fa, come è stato per lei, che è stata spesso respinta. Ma trova che acquisire più realismo, avere meno illusioni è fondamentale per la propria azione nel mondo. Anche Sara, che con l’amica Sabrina ha percorso una zona “più difficile, perché ci passerà il corteo”, ritiene di aver maturato un equilibrio maggiore nel contatto con la pluralità. Prima era più intollerante, per esempio secondo lei tutti dovevano occuparsi di politica. Ora ha toccato con mano che “l’egocentrismo intellettuale” è dannoso proprio rispetto al diffondersi della politicizzazione. Se la sua coetanea commessa di profumeria non sa nulla di Genova, è controproducente avvilirla: avrà una sua storia che va rispettata se si vuole interloquire con lei.
Enza lavora da un pezzo, la sua preparazione politica viene poco dai sindacati e partiti, si è formata di più nel volontariato, soprattutto nella solidarietà internazionale, in particolare verso il Sudamerica. Ha girato la zona della Fortezza, contattando ristoratori, commercianti…Ha verificato che le voci allarmistiche diminuivano man mano che si allargava l’attività di sensibilizzazione. Alle persone impaurite, lei e gli altri ammettevano le proprie paure, aggiungendo che proprio per questo si davano da fare perché tutto funzionasse. Già sapeva, ma ancor più ha verificato come la gente sia tartassata da stampa e tv. Ma dalla disponibilità rilevata dopo averci parlato, ricava la conclusione che contro l’azione del virtuale vale ancora l’ incontro reale, la parola in presenza fisica. Pensa che l’essere poveri di tempo per sé la ostacola e proprio per questo si rafforza la sua convinzione che bisogna “allargare il giro” di impegnati e impegnate. Le sembra infatti che l’intervento in prima persona è la strategia giusta rispetto alla disinformazione mediatica.
Milla incontra piccoli numeri di persone cui parla di stili di vita, di possibili consumi alternativi, di scelte diverse, di sobrietà. Con il ripetersi di queste esperienze si è resa conto di dover cambiare lei stile. Ha capito di apparire come una donna antipatica e saccente, che dice quali marche acquistare e quali no ad acquirenti passivi forse allontanati dalla sua volontà di indicare regole diverse dalle abituali. Ha colto allora che doveva prima di tutto ascoltare le persone e le loro perplessità ed esigenze, se voleva che interloquissero e si rendessero partecipi della creazione di regole nuove. Ascoltare gli altri le è servito a non essere una marziana rispetto a loro, a raggiungerli, ad essere quindi più efficace.
Ora: che cosa imparo io da queste interviste? Mi suscitano più domande che risposte. Per esempio ho notato che era spontaneo raccontare dove come quando con chi si era svolto l’intervento e le reazioni avute. Molto meno immediate le risposte su se stesse. Una intervistata ha chiesto tempo per pensarci e mi ha scritto una mail il giorno dopo. Lo sguardo oggettivante prevaleva, nonostante la domanda fosse esplicita rispetto agli eventuali guadagni soggettivi nell’esperienza. Non era una domanda attesa, si entrava in una dimensione imprevista per la quale le parole andavano cercate con un po’ di sforzo. La richiesta così personale sembrava forse meno politica? Oppure, come spesso accade alle donne, con beneficio per il mondo ma con scarso suo riconoscimento, ognuna pensava molto di più a ciò che voleva ottenere che non all’affermazione di sé? Oppure devo mettere in discussione le mie aspettative e ascoltare a mia volta di più?
Maria Castiglioni
Alle 9 di mattina l’aula magna del Palacongressi è semivuota, ma nel giro di un’ora si riempie velocemente : donne di ogni età, alcuni uomini, per lo più giovani, una folla di circa 700-800 persone attenta e partecipe.
E’ la prima volta che un tema attinente la sfera dei rapporti interpersonali , in particolare quella tra i sessi, viene posto in modo esplicito in un contesto così pubblico e allargato, all’interno degli appuntamenti del Social Forum. Quindi sento, anche per me, attesa e curiosità.
Nadia de Mond della Marcia Mondiale delle Donne coordina il dibattito.
Non riesco a rintracciare una diversità sostanziale negli interventi che si susseguono. Dall’accento posto sull’oppressione delle donne che ‘devono lavorare insieme per giungere a progetti comuni, superando la disomogeneità, dovuta alla mancanza di un’identità collettiva” (Angelika Psarra, giornalista greca), alla denuncia dettagliata della discriminazione orizzontale e verticale subita dalle donne sui luoghi di lavoro e alla conseguente necessità di estendere i servizi sociali e lottare contro la precarietà lavorativa (Laura Gonzales de Txabarri, sindacalista basca), fino all’appello a “procedere per astrazioni per trovare punti unificanti, perchè occorre andare oltre l’affermazione che il personale è politico” (Christine Delphy, Marcia mondiale delle donne francese) . L’intervento più articolato e puntuale mi è sembrato quello di Lidia Cirillo (Marcia mondiale delle donne italiana) che si è soffermata sulla questione del potere, domandandosi : “E’ possibile riscattare il potere?” e poi, a proposito delle politiche di parità, interrogandosi sulla ‘natura’ del potere su cui si avanzano pretese di ripartizione: “Di che cosa vogliamo il 50%?”si è chiesta, proseguendo il discorso sulla necessità di una ‘terza via’ tra il rifiuto del potere e le politiche di parità. In un breve excursus storico, ha richiamato alcune forme di ‘democrazia diretta’ utilizzate dalle donne: i club femminili della Rivoluzione Francese, la lotta delle suffragiste inglesi, l’Internazionale femminile del 1920, le donne del RAWA afgano, fino ai gruppi di autocoscienza, definiti una ‘prima forma di autorganizzazione e base della spinta emancipatoria’. “Ma – ha proseguito – questo tipo di democrazia non esiste: quella con cui abbiamo a che fare è la democrazia dei ceti politici e degli interessi forti. Rischiamo allora di di lottare per il 50% di niente”, ha concluso, rinviando alla necessità di lavorare per una democrazia “capace di superare la distanza tra popolo e politica”.
Gli interventi successivi mi sono sembrati molto orientati alla denuncia delle condizioni di vita delle donne (in Irlanda, in Spagna, in Africa etc.) con un rimando costante alla necessità di unirsi e lottare per cambiare le cose, fatta eccezione per Bianca Pomeranzi, con il suo richiamo alla pratica femminista (che esigerebbe un diverso ‘assetto’ delle ‘forme’ degli incontri) e Maria Grazia Campari che ha evidenziato la necessità di mediare nel conflitto tra i due generi attraverso “risultati consensuali via via proggressivi”. Anche un uomo, Stefano Ciccone, ha rappresentato una nota un po’ diversa, riconoscendo alle donne di aver posto in primo piano la questione di una pratica e di una politica che non tagliasse fuori il corpo. Anche il mio intervento ha ripreso questo tema, a partire da un invito a non negare, in nome di un rivendicazionismo superficiale e datato, i propri desideri, tra cui quelli riguardanti le relazioni di cura (fischi dalla platea) e una certa indifferenza per il potere , dimostrata tra l’altro dalla scarsissima adesione delle donne alle politiche di parità e dalla stessa ammissione di Lidia Cirillo circa la ‘vacuità’ della lotta per le quote (altri fischi). Ho fatto anche rilevare che ognuna delle donne che era lì presente aveva sicuramente trovato una buona integrazione tra la vita domestica, quella lavorativa e la passione politica e che pertanto non valeva la pena di soffermarsi troppo su questa difficoltà che, nei fatti, aveva già trovato una sua possibilità di soluzione per tutte noi presenti (altra bordata di fischi). Ho chiesto alla platea (e alle relatrici) di spiegare in che cosa consistesse quella differenza, così spesso evocata, con l’invito a non ridurla al mercato dell’economia e ai diritti, ma aprendola al ‘mercato’ delle relazioni e dei desideri (la coordinatrice mi ha invitato a chiudere in fretta).
Chi ha ripreso il mio intervento mi ha accusata di volere rimandare le donne a casa, di schiacciarle sulla sola funzione riproduttiva etc. etc.. Le amiche, generosamente, mi hanno detto che non sono stata capita, ma io credo semplicemente di aver fatto prevalere una certa vis polemica, a detrimento della comunicazione.. Perchè un conto è il protagonismo, altro è l’esserci. E questa è una strada lunga o, per riprendere un’espressione di Luisa Muraro, una ‘porta stretta’.
Un movimento, quello new-global, plurale da un punto di vista politico, delle pratiche quotidiane, della composizione sociale e generazionale. Il rifiuto della denominazione no-global, in nome di una globalizzazione dal basso, dei diritti, della democrazia. Un movimento in cui confluiscono anche vecchie ideologie e si riciclano vecchi gruppi, ma in cui a prevalere sono comunque gli elementi di novità. Intervista a Donatella Della Porta.
Donatella Della Porta insegna all’università di Firenze, Dipartimento di Scienze della Politica.
Lei sta facendo una ricerca sul movimento new-global. Ci può dire quali sono, secondo lei, le caratteristiche nuove di questo movimento…
Il discorso sulla novità dei movimenti è sempre difficile da affrontare perché in genere anche i movimenti tendono a costruirsi sul passato, quindi ci sono senz’altro molti aspetti di continuità, altrettanto interessanti da mettere in evidenza rispetto agli elementi di novità. Dal punto di vista dell’innovazione direi che la novità forse più rilevante è la capacità di mettere in rete, di collegare delle identità molto diverse dal punto di vista sia organizzativo sia di classe sociale, sia generazionale, e che in passato si erano espresse attraverso movimenti, proteste, strutture organizzative diverse, qualche volta anche con qualche tensione tra loro. Per esempio, in passato tra il movimento ambientalista e i sindacati c’erano stati anche momenti di tensione, quando i temi della protezione dell’ambiente venivano contrapposti allo sviluppo e all’occupazione. Nel movimento c’è una grande attenzione al sud del mondo e ci sono movimenti nel nord del mondo che cercano di sviluppare un collegamento: da questo punto di vista anche in passato c’erano movimenti che si dicevano internazionalisti e cercavano di mettere in collegamento parti del mondo diverse, però in questo caso la consapevolezza che l’azione sui temi della globalizzazione debba essere globale, mi sembra molto più forte. Un altro dato interessante, in relazione ai movimenti del passato, è che negli anni Settanta erano emersi alcuni movimenti, come quello delle donne e quello ecologista, che erano stati definiti post-materialisti, perché ritenevano prioritari temi come quello delle libertà, della difesa della soggettività rispetto al problema della giustizia sociale, che forse sentivano un po’ in via di risoluzione. Adesso invece in questi movimenti si è creato un ponte, un’interazione tra i temi classici della sinistra tradizionale, in particolare la giustizia sociale, e temi che erano stati avanzati da movimenti sociali nuovi, in particolare la ricerca di forme nuove di democrazia.
E’ interessante vedere anche come queste diversità vengono percepite dall’interno del movimento e dalle diverse anime e aree in cui il movimento si articola, come una ricchezza. Anche in passato i movimenti sociali erano stati caratterizzati dalla compresenza di identità diverse, però c’era stata sempre un’aspirazione a una unicità, alla ricerca di una struttura organizzativa unitaria e, soprattutto, di un’identità unitaria. Ora invece tutto ciò sembra superato da un’accettazione della molteplicità come espressione positiva per il movimento.
L’elemento di continuità che anche la nostra ricerca ha individuato consiste nel fatto che questo movimento mette insieme un attivismo, una partecipazione politica, che si erano espressi già in passato. Le persone che abbiamo intervistato, che avevano partecipato alla manifestazione di Genova o anche ad altre successive, sono persone che avevano vissuto in passato esperienze in diverse realtà associative, da quelle di tipo solidaristico, le organizzazioni del cosiddetto terzo settore, le associazioni di volontariato, ad associazioni legate più ai movimenti sociali, delle donne, dell’ambiente. E questo anche è interessante: sempre di più le manifestazioni vengono promosse da centinaia e centinaia di sigle.
A Genova la protesta contro il G8 era stata promossa da un grande cartello di circa 800 organizzazioni. Un aspetto interessante è che queste organizzazioni sono anche estremamente eterogenee come forme d’azione, come strumenti organizzativi, ma riescono -e questa è una novità- a incontrarsi, a mettersi in rete, spesso anche utilizzando la cosiddetta “rete delle reti”, internet, per entrare in contatto, privilegiando, appunto, un’identità molteplice ma coordinandosi su alcuni temi centrali per il movimento.
Anche una certa confusione, chiamiamola ideologica, si può ricondurre a questa pluralità? La confusione del nome, ormai evoluto da “no” a “new”, in qualche modo testimonia una complessità della realtà, per cui si è tutti un po’ amanti delle differenze, ma allo stesso tempo ancora tutti molto universalisti…
Nelle interviste che abbiamo fatto con gli attivisti c’è sembrato che emergesse in maniera abbastanza chiara che il “no” è una componente molto minoritaria del movimento. Non a caso il movimento tende a rifiutare l’etichetta di no-global, ma abbiamo notato che anche gli attivisti tendono a pensare a un’altra globalizzazione, piuttosto che a una contrapposizione a tutte le forme di globalizzazione. Il “no” netto è a un tipo di globalizzazione, cioè a una globalizzazione neoliberista, alla globalizzazione dei mercati, che ha voluto dire riduzione della capacità della politica di intervenire rispetto alle disuguaglianze economiche. La percezione che, soprattutto negli anni ‘80 e ‘90, la globalizzazione sia stata sponsorizzata, portata avanti da alcune organizzazioni internazionali che hanno privilegiato la liberalizzazione degli scambi rispetto ad ogni obiettivo di sviluppo eco-sostenibile, di difesa dell’ambiente, ma soprattutto di difesa dei diritti sociali è un tema unificante che tiene insieme un’area che va dai gruppi della Rete Lilliput, alcuni anche vicini a un attivismo di tipo cattolico, ai gruppi dei centri sociali. Lì c’è un “no” netto, lì c’è un’identità che si contrappone, e anche delle richieste articolate che si contrappongono a questa forma di globalizzazione. Però, per il resto, il movimento e gli attivisti si percepiscono come attivisti di un mondo globale, dove i problemi non possano essere affrontati in maniera localizzata, ma collegando ricerche di soluzioni locali e globali in nome di una globalizzazione dei diritti. Quindi c’è anche la consapevolezza che alcuni aspetti della globalizzazione rappresentano risorse piuttosto che vincoli. La definizione del movimento “no-global” era presente solo nel 5% dei nostri intervistati. Nella maggior parte dei casi quello che unificava era la richiesta di una globalizzazione diversa, di un altro mondo possibile, dove gli slogan, che sono abbastanza indicativi delle richieste del movimento, sono appunto “globalizzazione dal basso”, “globalizzazione dei diritti”, che ancora riportano a questi due nodi che mi sembrano centrali in questo movimento: richiesta appunto di giustizia sociale, globalizzazione dei diritti e di democratizzazione con la ricerca di forme di democrazia nuove.
A chi esprime diffidenza verso il cosiddetto antagonismo di alcune parti consistenti del movimento, responsabile in parte dello “scontro” genovese, altri osservatori replicano: “State attenti perché c’è una novità, a parte gli antagonisti di professione, la maggior parte delle persone va alla manifestazione, si contrappone ma poi, rientrando nel quotidiano, fa delle cose, la bottega dell’equo-solidale, l’associazione, e lì c’è la proposta, c’è il “riformismo” in qualche modo…
Intanto bisogna dire che a Genova erano presenti due tipi di gruppi fra i più radicali: da un lato i black block, un gruppo considerato anche dal movimento come piuttosto esterno, sempre più antagonista anche del movimento stesso, le cui iniziative vengono percepite come forme di azione sbagliate e con effetti negativi. Invece un’altra componente, presente e visibile a Genova, che fa parte a tutti gli effetti della rete, del movimento, è quella dei “disobbedienti”, dei centri sociali, delle allora “tute bianche”. Io credo che ci sia stata un’evoluzione interessante all’interno dei centri sociali, che li ha portati progressivamente ad allontanarsi da forme di protesta più violente verso una ritualizzazione simbolica dello scontro, che prevedeva più che una militarizzazione effettiva, lo spostamento a un livello simbolico, quasi mitologico, del conflitto. E sotto questo profilo credo che sia un’evoluzione che può aiutare una descalation piuttosto che un’escalation dei conflitti. E dopo Genova credo ci sia ancora più attenzione, da parte del movimento, a evitare di dare un’impressione di un movimento violento. Per esempio a Firenze questa attenzione è stata molto forte. Sembrava che in tutto il movimento, inclusa l’ala dei disobbedienti, ci fosse una consapevolezza del rischio di farsi percepire come parte di gruppi radicali. E quindi l’evoluzione che c’è stata, soprattutto nel corso degli anni Novanta, ha facilitato una riduzione dell’utilizzazione effettiva della violenza. Genova, per esempio, avrebbe potuto riavviare un processo di radicalizzazione, e invece per il movimento è diventato un campanello d’allarme: dopo Genova non ci sono stati episodi di radicalismo nelle forme d’azione. Quindi diciamo che da questo punto di vista ho l’impressione, e anche i dati che abbiamo raccolto lo confermano, che questo è un movimento molto convinto della non violenza, sia del valore simbolico più profondo, soprattutto in alcune componenti del movimento che teorizzano la non violenza gandhiana, che definiscono la non violenza con la enne maiuscola, ma anche nelle altre ali del movimento, quelle che non sono convinte della non violenza come valore in sé, ma sono fortemente convinte che in questo momento sia sbagliato, in paesi democratici, utilizzare forme d’azione radicali. Questo non deve far pensare che i movimenti sociali rinunzino del tutto a forme di protesta non convenzionali. Così, per esempio, l’occupazione o il cosiddetto smontaggio dei centri di permanenza temporanea degli immigrati senza documenti sono forme di azione sicuramente non convenzionali, però analoghe, in qualche modo, agli scioperi del passato, le occupazioni, i blocchi stradali, a forme di protesta, cioè, che, credo sarebbe molto pericoloso considerare solo sotto il profilo dei problemi di ordine pubblico. La protesta è di per sé dirompente, è di per sé un’azione che esce dalla routine, però ci sono forme di protesta che sono momenti in cui si cerca di acquisire visibilità, ma una buona gestione dell’ordine pubblico consiste nel non far degenerare queste forme non convenzionali in forme d’azione violenta. Io credo che su questo ci sia, sia da parte delle forze di polizia che da parte dei manifestanti, una certa pratica che si è sviluppata negli ultimi due decenni, che a Genova non è stata sostenuta, ma che poi mi sembra abbia dato buoni risultati successivamente, sia a Firenze, che nelle manifestazioni precedenti al Social Forum Europeo e successive alla contestazione del G8.
E rispetto al retroterra quotidiano?
Questo è una novità degli ultimi dieci anni, e il movimento new-global o globalizzazione dal basso, come lo vogliamo chiamare, è riuscito a rendere visibili una serie di esperienze che si erano mosse soprattutto nell’ambito sociale, delle pratiche dell’obiettivo, di crescita della consapevolezza, senza, però, acquisire visibilità politica: le banche etiche, il commercio solidale, la proposta di bilanci alternativi, ma anche la vita quotidiana dei centri sociali, che spesso è fatta di attività di sostegno a gruppi marginali, attività di volontariato sociale.
Diciamo che il passaggio rispetto agli anni Settanta, che è ancora visibile nel movimento, è stata la ricerca di un impegno concreto, anche di forme d’azione che permettessero di cominciare a cambiare se stessi e il proprio ambiente, a partire dalla vita quotidiana. Questo c’è molto, fa parte un po’ dell’esperienza di testimonianza cattolica, ma anche dell’evoluzione di movimenti come quello delle donne, che avevano sottolineato l’importanza di cambiare le coscienze, piuttosto che di prendere il potere politico. C’è poi un’altra novità importante, anche se è in qualche modo un’evoluzione dei movimenti precedenti: l’attenzione alla formazione di un contro-sapere, di una nuova cultura, di informazione, che si esprime spesso attraverso i forum sociali, che sono gigantesche conferenze con relazioni spesso ad alti livelli di contenuto scientifico, spesso con un linguaggio anche più da addetti ai lavori che da politici. Si privilegia l’attenzione alle informazioni, al sapere, a non costruire delle grandi ideologie, ma a costruire partendo da una conoscenza delle cose. Con questo non voglio certo idealizzare questi incontri, dove c’è anche molta presentazione di discorsi identitari, organizzativivi, legati a temi ideologici degli anni ‘60 e ‘70. Però quello che è nuovo, che stupisce è che nei Forum sociali, i grandi leader non sono i politici ma piuttosto gli studiosi. Al Forum Sociale di Porto Alegre erano in 3.000 ad aspettare Noam Chomsky, che faceva una relazione da esperto delle comunicazioni di massa. Anche questo è un aspetto abbastanza nuovo rispetto ai movimenti degli anni ‘60.
E rispetto alla composizione sociale del movimento?
In questi questionari che abbiamo distribuito a Genova e poi ad altre manifestazioni, alla Perugia-Assisi, e poi adesso al Social Forum Europeo, c’era anche una domanda sulla base sociale. Anche lì la novità sembra essere la pluralità. E’ un movimento senz’altro multi-classe. Anche questa è una novità rispetto ai tipici movimenti sociali degli anni Settanta, Ottanta che erano stati dei movimenti prevalentemente di ceti medi, di nuovi ceti medi, da una parte, e un movimento sindacale prevalentemente di classe operaia e di ceti medi dipendenti. Il movimento new-global vede una presenza fortissima di giovani, e quindi di studenti, con livelli di istruzione elevati, e poi, però, di operai, di lavoratori, della nuova classe operaia del lavoro interinale, magari non manuale, però sicuramente estremamente precario. Quindi, dal punto di vista della base sociale, emerge questa presenza caratteristica multi-classe e multi-generazionale, che pure è nuova rispetto al passato.
Al momento sto studiando lo stesso movimento qui in Francia, e stiamo iniziando una ricerca anche sulla Germania, e questo sembra essere un dato comune, quindi non solo italiano, ma anche degli altri movimenti in Europa.
Questo fatto degli adulti e dei giovani insieme fa impressione. Non c’è alcun problema generazionale?
Infatti, non c’è scontro generazionale. A Firenze, oltre al questionario, abbiamo utilizzato un’altra tecnica di ricerca che si chiama Focus Group, quindi con interviste più in profondità, più utile proprio per approfondire alcuni temi, l’identità del movimento in particolare. E lì, per esempio, è emerso che nei Forum Sociali locali sono presenti almeno cinque diverse generazioni: i giovanissimi, la generazione universitaria, i settantasettini, i sessantottini, ma poi anche la generazione degli anni Cinquanta, del dopoguerra. Quindi sono tante le generazioni compresenti. Non solo padri e figli, come hanno detto i giornali a proposito di alcune manifestazioni dell’ultimo anno, ma spesso anche i nonni. Non c’è conflitto, non sembra emergere conflitto, sembra emergere più dialogo che scontro; mentre per esempio nel ’68 c’era stato anche l’aspetto di una generazione che si contrapponeva a un’altra, questo nel movimento new-global non c’è. Certo, c’è una difficoltà spesso a trovare un linguaggio, trovarsi, trovare e riuscire a darsi delle strutture di coordinamento per una base organizzativa così frastagliata, ma ecco, sicuramente non c’è una dimensione di conflitto generazionale.
Per concludere, un movimento come questo ovviamente diventa anche contenitore di tutto, anche delle vecchie ideologie, un certo anti-americanismo pregiudiziale, un certo tipo terzomondismo, o le stesse varie correnti comuniste. Ecco, secondo lei le vecchie storie quanto peso hanno? O prevalgono gli aspetti di novità?
E’ una domanda che si pone spesso qui in Francia, in maniera anche evidente, perché molti dei personaggi più visibili del movimento sono persone con un passato nei gruppi trotzkisti, o anche nel partito comunista francese, che era un partito comunista con un’identità particolarmente chiusa. Io ho l’impressione che questo aspetto del “contenitore” di tante cose differenti si veda anche in Italia. E però non mi sembra l’aspetto più dinamico del movimento. Se si guarda nelle riunioni, non c’è dubbio che c’è un po’ l’effetto palcoscenico, dove attivisti di organizzazioni sopravvissute al passato, al riflusso dei movimenti, di gruppi più tradizionali, e spesso burocratizzati, trovano un momento per ripresentarsi e cercano di entrare, però mi sembra che non esercitino una forte capacità di attrazione, soprattutto rispetto alle generazioni nuove.
Queste, che rappresentano il numero più consistente e crescente, mi sembra non si facciano condizionare o coinvolgere da questi possibili rischi di cooptazione. E mi sembra che siano soprattutto loro a dare il tono al movimento.