L’apertura della legislatura in cui la guerra è costituente di un presunto “arco costituzionale” europeo

Interpreto il comunicato di Disarmisti esigenti a cui partecipo con altre donne.
Il nostro presidio, di Disarmisti esigenti e altri, dal 16 al 19 luglio davanti alla sede del Parlamento europeo rimarca un impegno preciso: contrastare l’uso della retorica della pace di chi poi vota a presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen.E l’abitudine di votare solo per motivi di schieramento partitico, andando poi ad appoggiare con il voto gli aiuti militari a Zelensky.

Lo illustriamo in una conferenza stampa a Roma, il 9 luglio 2024, alle ore 11:00, presso la Libreria D’Amico, via Silvio D’Amico 1.

Ci chiediamo se sia utile che buona parte della sinistra cosiddetta radicale del gruppo Left sostenga la posizione che sia giusto che l’“aggredito” resista militarmente all’“aggressore”. Molti, tra cui molti elettori del PD che pure è un pilastro della maggioranza per la guerra, si proclamano e si credono pacifisti. Ma dimostrano di non avere alcuna strategia, alcuna vertenzialità contro i governi che fomentano la violenza della guerra, sono assenti e in silenzio assoluto nei momenti in cui viene deciso di accettare solo una “pace giusta”, cioè di andare avanti fino alla completa sconfitta militare dell’avversario, legittimando così concretamente la corsa agli armamenti e ai massacri. Lo abbiamo visto quando, in Italia, si sono approvati gli aiuti militari all’Ucraina.

Noi siamo molto sospettose anche rispetto a certe “unità contro la destra” che considerano l’opposizione contro la guerra addirittura divisiva. Non è forse il clima bellico, con la militarizzazione dell’intera società, il più fertile incubatore dei fascismi?

Noi donne e uomini di Disarmisti Esigenti saremo a Strasburgo appunto per vigilare e documentare, per mettere in evidenza che ci vuole coerenza tra parole e opere! Vogliamo cercare eurodeputate ed eurodeputati onesti, disposte/i a lavorare per i popoli che non vogliono essere massacrati, a prendere seriamente l’impegno di opporsi alle guerre, perché facciano da sponda istituzionale ai movimenti di base che si danno da fare con le azioni dirette, le obiezioni, la disobbedienza civile nonviolenta!

Non sarà affatto facile, perché l’atlantismo e la guerra contro la Russia sono il perimetro dell’“arco costituzionale” che, a livello europeo, andrà a formare la nuova versione della “maggioranza Ursula”. Ma è probabile che anche chi voterà contro la Commissione UE sarà a favore della sua politica di sostegno all’“autodifesa armata” dell’Ucraina in forma di guerra ad alta intensità.
Quello che invece noi sosteniamo è che, nelle condizioni tecnologiche e sociali contemporanee, da “villaggio globale” di fatto, non si può più immaginare una “guerra giusta”, come ha capito, tra i leader mondiali, Papa Francesco.

Ad esempio in Africa, dove sono del tutto estranei alle dispute territoriali in Ucraina, come conseguenza del conflitto che ha ostacolato le esportazioni di grano, la fame ha già fatto più morti delle centinaia di migliaia dei soldati periti sul campo di battaglia.
Non esiste nessuna causa territoriale che oggi valga la pena di difendere con le armi. Perché esse provocano problemi sempre peggiori di quelli che si ripromettono di risolvere, comportano il rischio di escalation incontrollabili, fino alla guerra atomica. E perché ogni rivendicazione tribale ci distoglie dal compito principale che oggi compete a tutte e tutti ai quattro angoli del Pianeta, alla comune umanità che siamo: la pace con la Natura, una nuova civilizzazione che riduca gli inquinanti, con tutto ciò che comporta in cambiamento degli stili di vita troppo lussuosi per la sostenibilità. La guerra costa e inquina più di ogni altra cosa, dev’essere evitata. L’essere a Strasburgo di pochi pacifisti che attivano il rapporto tra i popoli e gli eletti mi sembra uno sforzo da sostenere.

Bassam Aramin, palestinese, già condirettore del Parents Circle-Families Forum, ha trascorso sette anni in un carcere israeliano per il suo ruolo nella resistenza palestinese. Nel 2007 sua figlia Abir, dieci anni, è stata uccisa da un soldato israeliano. Vive a Gerico, in Cisgiordania.

Prima di tutto vorrei chiederti di raccontare brevemente la tua storia e di come sei entrato nel “Parents Circle”.

Ho trascorso sette anni nelle carceri israeliane, ci sono entrato quando avevo diciassette anni. Proprio in prigione ho visto un film sull’Olocausto, ed è così che ho scoperto della sua esistenza. Fino ad allora pensavo fosse una bugia, mi dicevo: «Non ne ho mai sentito parlare…». All’epoca fu molto difficile per me guardare quelle immagini; quella visione mi ha segnato al punto che, venticinque anni dopo, ho conseguito un master sull’Olocausto. A muovermi era stato il desiderio, la necessità di saperne di più sull’altra parte.

Quando sono stato rilasciato, sette anni dopo, mi sono sposato, ho avuto sei figli, e nel 2005 sono stato uno dei co-fondatori dei “Combatants for peace”, un’organizzazione israelo-palestinese impegnata in un’azione non violenta contro «l’occupazione israeliana e tutte le forme di violenza» in Israele e nei territori palestinesi, costituita da ex soldati israeliani e ufficiali che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori occupati ed ex detenuti palestinesi.

Il 16 gennaio 2007 un poliziotto israeliano di servizio al confine ha sparato e ucciso mia figlia Abir, che all’epoca aveva dieci anni. Le ha sparato alle spalle da una distanza ravvicinata colpendola alla testa. È caduta a terra e due giorni dopo è spirata all’ospedale Hadassah, dove era stata ricoverata.

Due giorni dopo sono entrato nel “Parents Circle – Families Forum”, realtà che già conoscevo perché uno dei cofondatori di “Combatants for peace”, Rami Elhanan, aveva subìto un lutto, aveva perso la figlia Smadar in un attentato suicida palestinese il 4 settembre 1997, dieci anni prima della morte di mia figlia Abir. Avevo conosciuto Rami nel 2005 ed eravamo presto diventati molto amici. Due anni dopo eravamo legatissimi, praticamente di famiglia. Nei media palestinesi avevo letto anche del lavoro di Robi Damelin, per cui insomma conoscevo l’associazione, la apprezzavo, era davvero un impegno nobile. Certo nemmeno nel peggiore dei miei incubi immaginavo che mi sarebbe capitato di entrare a far parte di un gruppo di parenti di vittime.

È stato così che sono entrato nei “Parents Circle”, organizzazione che oggi conta oltre settecento famiglie di israeliani e palestinesi che hanno perso un proprio caro. Con Rami negli anni ci siamo talvolta detti che per quanto tra la morte di Smadar e quella di Abir siano passati dieci anni, l’assassino è lo stesso, è lo stesso criminale ad averci portato via le nostre figlie: l’occupazione israeliana, che ha provocato la resistenza e ha portato violenza e atrocità.

Quando sei entrato nel “Parents Circle” i tuoi famigliari ti hanno seguito? Dopo una tale tragedia sarebbe stato facile far prevalere il desiderio di vendetta.

È stato decisivo il fatto che fossi già un attivista pacifista; se non fossi stato impegnato con i “Combatants for peace” non so come sarebbe andata, credo che difficilmente sarei entrato a far parte dei “Parents Circle”.

All’epoca per la mia famiglia è stato molto difficile e doloroso, ma alla fine siamo entrati tutti. Mia moglie già conosceva il mio impegno. Ci è voluto più tempo per mio figlio Arab: quando aveva tredici anni aveva così tanta rabbia da assentarsi qualche volta da scuola per andare a tirare pietre. Mi ci sono voluti quattro anni per fargli capire che quella non era la strada giusta. Dopo si è unito anche lui ai “Parents Circle” e lì ha trovato un amico israeliano della sua età, con cui ha cominciato ad andare in giro a raccontare la sua storia. Il suo amico si chiama Yigal Elhanan: è il figlio di Rami. Così anch’io ho potuto finalmente fare pace con me stesso e con mio figlio.

Come hai reagito ai fatti del 7 ottobre, qual è stata la prima cosa che hai pensato?

Vorrei parlare anche dell’8 ottobre… il 7, l’8 ottobre… dipende da come si vedono le cose. Naturalmente non posso ignorare il 7, ma per noi palestinesi è come se fossero due cose separate. L’8 ottobre è stato l’inizio dell’ennesima operazione militare, che è la nostra quotidianità ormai da settantacinque anni. Per gli israeliani il 7 ottobre è stato invece vissuto come qualcosa di inedito dopo l’Olocausto.

Devo dire che per me quanto successo a partire dall’8 ottobre fino ancora a oggi non è stata una grande sorpresa. Anche parlandone con Rami ci siamo spesso ripetuti che non si può pensare di chiudere due milioni di persone in una scatola, chiudere il coperchio e ignorarle. Non può funzionare; temevamo che sarebbe successo qualcosa, che ci sarebbe scoppiato tra le mani e così è stato il 7 ottobre. In confidenza, la mia prima previsione era che fino a che Israele non avesse ammazzato 15-20.000 palestinesi, tra soldati, bambini, donne innocenti, non si sarebbe decisa a trattare per concludere l’operazione. Purtroppo ero stato troppo ottimista: abbiamo superato i 35.000 morti e ancora non è finita. Sfortunatamente questo è un conflitto feroce, l’occupazione si è fatta estremamente brutale, e a pagarne il prezzo sono principalmente degli innocenti, donne e bambini che non c’entrano nulla, la parte più debole sia in Palestina sia in Israele, anche se è più dura per i palestinesi: noi non abbiamo posti dove scappare, non abbiamo rifugi né qualcuno che ci avvisi. Ci hanno chiesto di andarcene a sud e poi ci hanno bombardato.

I membri di Hamas che hanno condotto l’attacco del 7 ottobre fin da bambini hanno assistito alle atrocità commesse da Israele contro Gaza. Hanno agito per vendetta. Se non cerchiamo la pace, se non poniamo fine a questa pulizia etnica, a questo genocidio che si svolge sotto i nostri occhi, sfortunatamente dovremo aspettarci altri 7 ottobre. Perché l’origine di questa tragedia è l’occupazione; entrambi, israeliani e palestinesi, ne sono vittime.

Fino a che continuerà l’occupazione siamo destinati a veder versato altro sangue, da entrambe le parti. La sicurezza di Israele dipende dal riconoscimento della dignità dei palestinesi; se vuole davvero la stabilità, deve far pace con i palestinesi.

Come siete riusciti a continuare il vostro lavoro in un periodo tanto difficile?

È dura. Siamo tutti esseri umani e ognuno guarda alla sua parte. Vediamo ciò che succede ai palestinesi e non ce ne capacitiamo, ma poi vediamo anche i bambini israeliani, le donne, quei ragazzi al rave… Come dicevo, siamo esseri umani, ma noi del Parents circle siamo anche persone abituate a vedere la dignità dell’altro, per cui guardiamo a entrambe le parti. Sin dal primo giorno abbiamo deciso di far sentire la nostra voce e di mantenere fede al nostro impegno. Per noi l’unica via d’uscita rimane il dialogo, il parlarsi l’uno con l’altro e l’agire insieme contro l’occupazione e contro ogni atto di violenza. Diversamente noi sappiamo bene cosa ci attende: un futuro doloroso, segnato dalla perdita di un proprio caro, un dolore, una ferita al cuore dalla quale non ci si riprenderà mai. Dopo il 7 e l’8 ottobre abbiamo cominciato a parlare tra di noi, anche se è stato faticoso, tanto più che non possiamo incontrarci fisicamente, visto che anche la Cisgiordania, dopo il 7 ottobre, è finita sotto assedio, per cui i nostri meeting, tutte le attività, le conferenze, dobbiamo tenerle via internet, su Zoom, su Skype…

Per quanto riguarda i coloni, la situazione è peggiorata?

Si parla sempre di Gaza perché lì la situazione è più grave, ma ci si dimentica della Cisgiordania, dove dal 7 ottobre a oggi sono morte più di quattrocento persone, e più di settemila sono state arrestate. Immaginate, settemila persone in una popolazione di cinque milioni.

Poi ci sono le atrocità dei coloni, che sono organizzati in bande paramilitari legalizzate perché di fatto supportate dall’esercito. È un problema grave: per loro non esiste alcuna legge. Loro non ci considerano persone: ogni giorno prendono di mira i nostri villaggi, le nostre auto, i nostri bambini, persino i nostri animali. Quando gli israeliani si interrogano su come sia potuto accadere il 7 ottobre, devono comprendere che tutto ciò è stata una reazione alla loro brutalità, alla loro oppressione. Chi vive sotto occupazione non accetterà mai questa situazione, vorrà reagire e questo è il risultato. Sfortunatamente, ci saranno ancora altre vittime, altro sangue.

La tua comunità, i palestinesi attorno a te come vedono questo sforzo per tenere aperto il dialogo con l’altra parte?

Non è facile: siamo una minoranza che nuota controcorrente. Nel mio caso nessuno mi ha mai dato del traditore, non ho mai sentito pronunciare quella parola. Conoscono la mia storia: ho passato sette anni nelle carceri israeliane, ho perso mia figlia, quindi ho il diritto di parlare.

Magari ti sorprenderà, ma oggi è più facile essere un attivista pacifista in Palestina di quanto non lo sia in Israele. In Israele ti possono arrestare per un post su Facebook, e parliamo dell’“unica democrazia del Medio Oriente”; lì le persone ora hanno paura; si sente sempre parlare di agguati contro gli attivisti israeliani, di docenti universitari costretti a dimettersi per aver condiviso qualcosa in un gruppo WhatsApp. Tra i palestinesi non ci sentiamo minacciati, le persone apprezzano quello che facciamo. Certo ora che a Gaza sono in corso dei massacri è tutto più difficile ma, nonostante la rabbia, le persone apprezzano ciò che facciamo.

Alcuni sondaggi di qualche settimana fa registravano un crescente appoggio per Hamas tra i giovani in Cisgiordania, tu cosa ne pensi?

Mi dispiace, ma se vivi sotto occupazione e qualcuno attacca l’occupante tu ne gioisci. A essere sincero penso che il 7 ottobre per molti palestinesi, dovunque fossero, sia stato un giorno felice. Noi di “Parents Circle”, impegnati per una via nonviolenta, sappiamo che non è così che si può ottenere un cambiamento. Il prezzo che si paga è sempre troppo alto. Dobbiamo far capire agli israeliani: «Avete speso miliardi e miliardi in tecnologia militare, nel costruire muri, nella sicurezza, e poi è arrivato il 7 ottobre. Tutto questo non è bastato a proteggervi. L’unica cosa che può garantire davvero la vostra sicurezza è un accordo di pace con il popolo palestinese». Dopodiché i palestinesi dovranno rispettare i patti e difendere i loro confini, come è accaduto tra Giordania e Israele e tra Egitto e Israele. Ognuno ha il diritto di difendersi, certamente, ma nessuno ha il diritto di occupare la terra altrui. Chi vive sotto occupazione non chiede il permesso per resistere. Resisterà comunque, intanto la nostra gente muore, muoiono i nostri figli. Dobbiamo porre fine a questa spirale, e lo si può fare solo riconoscendo la dignità dei palestinesi e il loro diritto di popolo all’autodeterminazione, ad un proprio stato.

Quando parli ai giovani cosa dici? È dura per un ragazzo cresciuto a Gaza o in Cisgiordania…

Assolutamente. Se sei palestinese la tua vita è difficile ovunque, che tu sia in Cisgiordania, nei campi profughi o a Gaza. Quello che dico sempre è che i palestinesi non hanno ucciso sei milioni di israeliani; neppure gli israeliani – finora – hanno ucciso sei milioni di palestinesi. Ebbene, oggi c’è un ambasciatore tedesco a Tel Aviv e uno israeliano a Berlino. E solo quattro anni dopo l’Olocausto, dopo sei milioni di morti, Israele e Germania intrattenevano regolari relazioni diplomatiche. Se ci sono riusciti loro, possiamo farcela anche noi. Siamo destinati a condividere questa terra, che potrà essere organizzata con uno, due o cinque stati, altrimenti la condivideremo comunque ma come due enormi tombe per i nostri figli, le nostre famiglie, la nostra gente.

Nessuno sparirà solo perché l’altra parte lo desidera. Siamo qui, insieme, e possiamo dimostrare di poter vivere in libertà e uguaglianza, dignità e giustizia sociale. Senza che nessuno occupi l’altro. Sfortunatamente abbiamo a che fare con una minoranza, oggi al potere, che porta avanti un tipo particolare di razzismo e di discriminazione. Il problema non è che noi siamo scuri e loro biondi. È che proprio non riescono a immaginare di dover condividere questa terra con nessun altro al di fuori degli ebrei, e per questo vorrebbero sbatterci fuori dal confine. Questo è il problema principale, e finché non si sbarazzeranno del loro senso di superiorità e capiranno che qui ci siamo anche noi e che non ce ne andremo da nessuna parte; che non è scritto da nessuna parte che dobbiamo continuare ad ammazzarci l’un l’altro, solo allora capiranno che c’è un’unica soluzione logica. Certo, è difficile, ma la pace si fa con i nemici, non con gli amici.

Se guardiamo indietro nella storia, all’impero romano, dov’è finito, ora? Lo sapete quante nazioni nella storia hanno cercato di occupare questa terra, la Palestina? Dove sono ora? Noi siamo ancora qui e ci rimarremo.

In una conferenza che ho ascoltato su YouTube dici che i gazawi sono più ottimisti degli israeliani di Tel Aviv. Puoi spiegare cosa intendi dire?

Certo, è molto difficile capire che cosa significhi per un popolo vivere sotto occupazione, sotto assedio per decenni. Le persone devono conservare una speranza, altrimenti impazziscono. Hanno più speranza perché soffrono di più: sono costretti a credere che in futuro vinceranno, che si troverà una soluzione.

Nessuno pensa di distruggere Israele; se lo chiedi loro, le persone rispondono che ciò che vogliono è la pace. Chiedilo alle madri: vogliono solo poter mandare i figli a scuola e vederli tornare indietro tutti interi, al sicuro. Lo stesso vale per gli abitanti della Cisgiordania, è un valore fondamentale. Gli israeliani sono diversi per un motivo: soffrono della mentalità della vittima. Sin da bambini crescono portando sulle spalle il peso di una lunga e tragica storia: schiavitù, antisemitismo fino ad arrivare all’Olocausto… così non è facile crescere ottimisti. Vedono un mondo pieno di nazisti, antisemiti o negazionisti. Le cose non stanno così; dovrebbero accantonare questa mentalità e vedere gli altri per quel che sono, smettendo di averne paura. D’altro canto, non si può continuare a far pagare il prezzo dell’Olocausto a noi palestinesi. Il fatto è che noi siamo le vittime delle vittime.

Come ti sei appassionato alla storia degli ebrei e alla vicenda della Shoah?

Quando ero piccolo sentivo dire che «Hitler aveva ucciso sei milioni di ebrei», ma non sapevo chi fosse; per me era solo un nome, una storia inventata. Nulla del genere poteva essere davvero accaduto. Poi, in prigione, mi è capitato appunto di vedere un film sull’Olocausto. Pensavo di godermi appunto una storia, poi ho visto le scene di tortura, gli arresti, le invasioni, e anche se mi trovavo nelle loro prigioni, dopo pochi minuti mi sono ritrovato a piangere, a provare empatia per quegli innocenti. Quello che avevo visto era davvero troppo per me, era una cosa contro la natura umana e la legge degli uomini. Mi ripetevo: è solo un film, non è la realtà, non è possibile che un essere umano faccia cose del genere ad altri esseri umani… Così ho sentito il bisogno di saperne di più. Devo dire che l’interesse nasceva anche dal bisogno di capire il brutale comportamento dei soldati israeliani quando venivano al mio villaggio. Sono le stesse cose che si vedono oggi a Gaza; quei soldati sono macchine per uccidere, non distinguono tra bambini, vecchi, insegnanti, donne, per loro sono tutti uguali. Quel film l’ho visto quando avevo credo diciassette anni e mezzo, non avevo idea di ciò che era successo ai palestinesi nel 1948, non sapevo della Naqba, della catastrofe. In prigione ho imparato che solo conoscendo il nemico lo puoi sconfiggere. Così ho studiato l’ebraico, la lingua del nemico, e poi ho approfondito la loro storia, ho anche visitato i campi di concentramento. Nella vita, più cose sai, meglio puoi agire. In arabo diciamo che quando impari qualcosa di nuovo cominci a soffrire, perché dopo non puoi più tacere. Ed è questo che è successo a me.

Come si svolge la tua giornata? Cosa stai facendo in questo difficile momento?

La nostra non è una vita quotidiana normale: per andare al lavoro devi passare i checkpoint e talvolta puoi metterci anche due-tre ore, è un disastro. Se sei studente, per raggiungere la scuola devi passare dal checkpoint di Anata, è quasi impossibile arrivare in orario. In Palestina non abbiamo il senso del tempo. Tra di noi ci diciamo: «Ci vediamo alle sei o forse alle nove» perché non possiamo saperlo prima. Immaginati di poterti aspettare di incontrare un checkpoint ogni minuto, quando sei in viaggio per andare a trovare la tua famiglia o quando rincasi dal lavoro; lo devi sempre preventivare, per cui non riesci mai a gestire il tempo, non sei libero di muoverti. In più non hai libertà di parola, vivi sotto una dittatura, sotto una brutale occupazione militare. In ogni momento potrebbero venire a prenderti e metterti in galera, senza accuse, anche per dieci anni! La chiamano “detenzione amministrativa”. Poi, dal momento che non sai le cose, non hai neppure un avvocato. Immagina, quando sentiamo parlare di democrazia, di diritti umani, di libertà di parola, noi sappiamo esattamente di cosa si parla: loro possono giocare con questi termini davanti al resto del mondo, ma non davanti a noi palestinesi. Dovrebbero confrontarsi su questo innanzitutto con noi, visto che siamo qui.

Si è molto parlato dell’inadeguatezza dei leader di entrambe le parti.

Si parla di “entrambe le parti” ma qui non ci sono due parti, ce n’è una sola, gli occupanti: un governo fascista e radicale. Non lo diciamo noi palestinesi, sono gli stessi israeliani a dirlo. Per noi è come se da settantacinque anni ci fosse lo stesso governo. Un governo che porta avanti l’occupazione, le detenzioni, le confische, che costruisce sempre più insediamenti, ruba altra terra, uccide altre persone, incarcera… Dal 1967 si stima siano stati incarcerati oltre un milione di palestinesi. Questo per dire che per noi sono tutti la stessa cosa. Ma questo governo attuale, sempre in base alle denunce fatte dagli israeliani, comprende anche due persone che in passato sono state accusate di terrorismo e incitamento all’odio dai tribunali israeliani. Penso a Itamar Ben-Gvir e a Bezalel Smotrich, per esempio. E loro sono i responsabili della sicurezza, te lo immagini?

Ora ci hanno vietato di andare nelle scuole a parlare ai ragazzini della nostra esperienza, di pace e riconciliazione. Per loro siamo molto pericolosi, e in effetti lo siamo, visto che ci contrapponiamo al loro programma di razzismo, odio e tenebre. Per questo ci combattono, accusando noi di essere terroristi. Un terrorista che mi accusa di essere terrorista è per me un grande onore, ma non è questo il punto: il punto è che noi rimaniamo determinati a diffondere il nostro messaggio di pace e riconciliazione contro questo brutale governo e continueremo fino a che non saranno costretti a vederci, a riconoscerci.

Sul lato palestinese fortunatamente ci sostengono, non hanno nulla contro di noi, siamo stati a visitare il presidente molte volte, tutte le autorità ci appoggiano, perché anche loro vogliono la pace, ma non sono loro ad avere potere. E come potrebbero? Ogni giorno nelle strade di qualsiasi città palestinese ci sono i soldati israeliani. Quindi come si può parlare di “entrambe le parti”? Anche il presidente palestinese ha spiegato che per spostarsi nella sua Ramallah gli serve un permesso rilasciato da israeliani e americani.

Vuoi aggiungere qualcosa?

Spesso quando parlo in pubblico concludo con le parole di Martin Luther King: alla fine ci ricorderemo non delle parole dei nostri nemici, ma del silenzio dei nostri amici. Per favore, non restate in silenzio.

(Una Città n° 301 / 2024 – aprile-maggio, traduzione di Stefano Ignone)

Da il manifesto – Il livello di violenza e crudeltà in Palestina, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, ha oltrepassato da molto tempo ogni limite.

Ci eravamo espressi a gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, e lo facciamo di nuovo, a distanza di cinque mesi, perché l’inerzia e l’indifferenza di fronte alla strage della popolazione palestinese decimata e affamata è insopportabile. Da mesi, la risposta di Israele all’aggressione di Hamas si è trasformata in guerra di sterminio contro il popolo palestinese. L’azione del governo Netanyahu sta infliggendo al Paese un vulnus che peserà per generazioni.

Il nome stesso di Israele, già compromesso, desta ora ostilità e disprezzo crescenti nel mondo, crea isolamento e insicurezza, e fomenta antisemitismo. Crediamo che mai come ora spetti agli ebrei della diaspora e a chiunque abbia a cuore il futuro di Israele e dei palestinesi appoggiare le donne e gli uomini che in Israele, da settimane, si vanno ormai mobilitando non più solo per la liberazione degli ostaggi, ma chiedendo anche le dimissioni del governo Netanyahu. Sosteniamo gli israeliani che vogliono uscire dal tunnel di strage e distruzione in cui è stato trascinato il Paese.

Si cessi il fuoco immediatamente e sia adottato un piano che ponga fine alle sofferenze, ora.

Firmatari/e

Francesco Moshe Bassano, Guido Bassano, David Calef, Paola Canarutto, Giorgio Canarutto, Franca Chizzoli, Beppe Damascelli, Annapaola Formiggini, Paola Fermo, Sabetay Fresko, Bice Fubini, Nicoletta Gandus, Adriana Giussani Kleinefeld, Bella Gubbay, Joan Haim, Cecilia Herskovitz, Francesca Incardona, Stefano Levi Della Torre, Annie Lerner, Gad Lerner, Bruno Montesano, Guido Ortona, Giacomo Ortona, Bice Parodi, Mario Davide Sabbadini, David Terracini, Renata Sarfati, Eva Schwarzwald, Susanna Sinigaglia, Sergio Sinigaglia, Stefania Sinigaglia, Jardena Tedeschi, Mario Tedeschi, Fabrizia Termini, Claudio Treves, Roberto Veneziani, Micael Zeller, Marco Weiss.

Per adesioni: aderisco@maiindifferenti.it

Da Facebook – 2300 a.C. circa. Enheduanna, sacerdotessa sumera nonché prima poeta della storia di cui si abbia notizia, così scriveva sulla guerra:

Lamento allo spirito della guerra

Distruggi tutto in battaglia…

Dio della guerra, con le tue ali spaventose

spazzi via la terra e attacchi

travestito da tempesta furiosa,

ringhi come un uragano ruggente,

urli come una tempesta,

tuoni, infuri, ruggisci e tambureggi,

scateni venti malvagi!

I tuoi passi che si avvicinano

sono pieni di inquietudine.

Sulla tua lira di gemiti

sento il tuo forte grido lamentoso.

Come un mostro infuocato avveleni la terra,

come un tuono ringhi sul mondo,

alberi e cespugli crollano davanti a te.

Sei sangue che scorre da una montagna,

spirito di odio, avidità e rabbia,

dominatore del cielo e della terra!

Il tuo fuoco aleggia sulla nostra terra,

a cavallo di una bestia

con cavalli indomabili,

sei tu a decidere il destino.

Trionfi su tutti i nostri riti.

Chi può spiegare perché continui così?

Mentre le guerre in corso in Ucraina, Palestina e altrove non accennano a spegnersi, alimentate dal delirio di onnipotenza patriarcale, le donne tornano ancora una volta – come ogni mese – in presidio per la pace, alla Statua – piazza Vittorio Veneto, il 24 di giugno dalle 16.30 alle 18.30.

Udipalermo – Le Rose Bianche – Donne CGIL Palermo – Coordinamento Donne ANPI – Emily – Donne Caffè filosofico Bonetti – Il femminile è politico – #governodilei – CIF – Le Onde – Arcilesbica

Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona, 5 aprile 2024

Secondo incontro del ciclo Pensare il presente 2024

Ida Dominijanni, Realtà e verità: la pornografia dell’orrore

Giulia Siviero, Il giornalismo occidentale e la narrazione del conflitto


Da Il Fatto Quotidiano – Uno dei capisaldi intorno a cui, sin dall’inizio di quest’epoca di guerra, ruota la propaganda bellicista è la riduzione sistematica di ogni discorso sulla pace alla favoletta dei soliti buonisti. Ecco le “anime belle”, coloro che si pretendono candidi e puri, disarmati e incontaminati, ma che al dunque si rivelano incapaci di guardare in faccia la realtà, di operare sul corso degli eventi e mutarlo. La favoletta dei buonisti si va riaffermando in questi giorni di concitata campagna elettorale, dato che le vecchie accuse sembrano ormai tutte cadute. Susciterebbe almeno ilarità dare del putinista o putiniano a chi, già due anni fa, aveva sollevato dubbi sul crollo imminente della Federazione Russa, sulla caduta ingloriosa di Putin, sulla magica e sfavillante vittoria dell’esercito ucraino, forte di armi e sostegno occidentali. I pacifisti avevano ragione su tutti i fronti. A parlare sono i fatti. E non è certo gradevole il ruolo delle cassandre inascoltate. Ma il paradosso è che quegli stessi che allora promuovevano la campagna di Russia con articoli boriosi e interventi altisonanti, ora si sono rimangiati tutto; fischiettano e fanno finta di nulla o, peggio, si impossessano delle parole dei propri oppositori. Dato che in questo Paese non ci sono tradizionalmente limiti a piroette ciniche, capriole impudenti, voltafaccia e ribaltoni di ogni risma, si può perfino condire qui e là il proprio eloquio in patria con le due sillabe “pa-ce”, per poi infilarsi l’elmetto in Europa, pronti all’invio continuo e moltiplicato di armi. E i pacifisti? Quelli che sin dai primi giorni dell’invasione russa chiedevano trattative? Ebbene restano nel torto ontologico: sono miopi buonisti, antiquati cattocomunisti, neoperonisti seguaci del papa argentino, pericolosi esponenti di un francescanesimo militante, ecc. Gente che immagina di risolvere tutto a colpi di slogan, senza fare i conti con la “dura realtà”, quella della linea del fronte, degli eserciti che si combattono, dei metri guadagnati o persi. Il loro grande rimosso sarebbe la dura, inaggirabile realtà della guerra. Senonché le cose stanno esattamente all’opposto. Le fiamme, i proiettili, le schegge di bombe, le sventagliate di mitra non hanno risolto nessun problema, né nelle pianure ucraine né nelle tendopoli desolate di Gaza. L’unico risultato è stato un numero spropositato di corpi umani immolati sull’altare del vetusto rito della guerra e del nuovo profitto tratto dalle armi. Non uno scontro di civiltà, bensì un incontro di interessi. Questo non ha nulla a che vedere con la politica il cui scopo, oggi più che mai, è quello di preservare le vite. Che cosa dovrebbe venire prima? La posizione dei pacifisti è dunque quella di chi ragiona, argomenta, analizza e considera le vie concrete e percorribili che può aprire una politica assennata, cauta, lungimirante. Abbiamo ancora sempre nelle orecchie quella propaganda gridata, gli insulti e gli attacchi personali che coprono ogni serio confronto. I pacifisti non si arrendono all’invio di armi, né credono alla favola (questa sì, favola) della guerra asettica e intelligente, condotta da qualche parte, magari in un cielo lontano, da dispositivi neutri e neutrali. La guerra è sempre sporca e sempre stupida. Soprattutto: non riguarda un cosmo lontano. Miete vittime continuamente e si avvicina a noi. Perciò vogliamo parlare di prospettive e avere da coloro che si candidano per il Parlamento europeo risposte precise. Come immaginano nel futuro prossimo il rapporto con la Russia? Lavoreranno per ristabilire i contatti venuti meno oppure ritengono che quella crepa, anzi quella cesura in territorio europeo, che passa per il Donbass, sia definitiva? E sarebbe anche opportuno che i vari candidati ci parlassero dei modi per salvare ciò che resta dell’Ucraina, per ricostruirla. Ci sarà – speriamo – un dopo-Zelensky. E allora si pone necessariamente anche il problema dell’Europa. Mai se ne è parlato così poco. Segno del terribile degrado, culturale e politico. Ma sintomo anche di un grande disorientamento che investe anche una Unione europea che sembra disgregarsi e perdere definitivamente i propri obiettivi sotto i colpi della guerra e dell’avanzata ovunque della destra estrema. E vogliamo anche sapere da candidati e partiti come intendono rilanciare il ruolo, delicatissimo e indispensabile, dell’Europa in Medio Oriente. Che ne sarà dei sopravvissuti alla carneficina di Gaza? Ci sarà una sorta di protettorato arabo, saudita? Come vedono il futuro del popolo palestinese? E come si può sostenere quella parte, per quanto piccola, della società israeliana che si è opposta a Netanyahu? Questi sono i temi di una politica della pace che vengono intenzionalmente aggirati da chi vuole continuare a far parlare solo di armi e a lasciare la parola solo alle armi.

Intervento introduttivo all’incontro alla Casa della Cultura, Milano 14 aprile 2024, Parole e oltre. A partire dall’appello Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace. Video: https://youtu.be/BCb5c5XnhnE

Questo appello è nato non per caso ma da relazioni profonde.

Di fronte alle atrocità del 7 ottobre e alla successiva spaventosa reazione dell’esercito israeliano, ci siamo ritrovate tra amiche – all’inizio eravamo solo donne – per confrontarci sul sentimento di disperazione, di spaesamento, d’impotenza di fronte a ciò che stava accadendo. È stata una di noi, Joan Haim, che ha sentito fortemente la necessità di fare qualcosa di concreto, di costituirci non come un gruppo (non volevamo fare l’ennesimo gruppo) ma con una dichiarazione: Mai indifferenti.

Ognuna di noi ha cercato con uno sforzo di verità di esplorare e di dire i propri sentimenti, anche quelli più contradditori, fino ad arrivare alla stesura di un testo che è poi diventato l’appello dove abbiamo cercato di registrarli e di tradurli in politica. Volevamo spezzare la voce univoca delle istituzioni ebraiche che ci turbava, evitare la politica degli schieramenti “o sei con me o sei contro di me”, contro l’uso strumentale e distorto di parole gonfie di sangue e di lacrime quali antisemitismo, genocidio, sionismo, disumanizzazione dell’altro, senza la necessaria conoscenza della storia. E questo uso viene fatto strumentalmente dal governo di Israele, da parte di molta stampa e un po’ ovunque nel mondo, aggravando il conflitto, alimentando solo odio e facendolo apparire senza soluzione.

Vorrei qui citare una frase da un testo di Simone Weil, tratta da Non ricominciamo la guerra di Troia. Potere delle parole, scritto nel 1937: “Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”.

Questo nostro impegno può contribuire a minare il clima di odio e di violenza che ci circonda. Insieme a tante altre persone e gruppi che già ci sono nel mondo vogliamo creare una rete che faccia sentire la sua voce, anche in Israele dove c’è chi lotta contro l’occupazione, per la pace e per l’idea di convivere con uno stato palestinese. Infatti, un altro desiderio che scaturisce da questo impegno è dare sostegno e visibilità a coloro che in Israele vogliono il rilascio degli ostaggi, il cessate il fuoco, la nascita dello Stato di Palestina, una pace giusta. C’è Haaretz, quotidiano di opposizione di grande qualità che non ha paura di affrontare i temi più controversi e scottanti, ci sono associazioni quali Standing together, Parents circle, Women wage peace, e molti altri, donne e uomini coraggiosi, arabi e israeliani, che operano in vari modi, manifestando, mettendo in atto un’altra politica fatta da persone che vedono e si riconoscono nel dolore dell’altro anche andando contro istintivi sentimenti di rabbia. Dobbiamo far conoscere la loro esistenza. Sono solo una minoranza, è vero, può sembrare utopico nella terribile congiuntura attuale ma sono punti di partenza per ricominciare.

Da il manifesto – In occasione della pasqua ebraica, una rete di gruppi ebraici contro l’occupazione ha proposto l’iniziativa internazionale «Freedom for All Seder» per celebrare la tradizionale cena pasquale in solidarietà con il popolo palestinese. I promotori sono: Na’amod (Gran Bretagna), IfNotNow (Usa), Freedom for all Zürich (Svizzera), LƏA Laboratorio Ebraico Antirazzista (Italia), Jews for Racial and Economic Justice (New York) e All That’s Left (Israele/Palestina).

In Italia l’evento è stato organizzato da LƏA, nato durante le mobilitazioni contro la demolizione delle case palestinesi a Sheikh Jarrah, che ha promosso insieme ad altre organizzazioni un appello per il cessate il fuoco a Gaza raccogliendo oltre 150mila firme.

Nella tradizione ebraica la pasqua è la festa della libertà: con racconti, storie, canzoni e il consumo di cibi simbolici ogni anno ricordano l’uscita dall’Egitto, il passaggio del Mar Rosso e la fine della schiavitù. Chi ha partecipato ai «Freedom for All Seder» (29 eventi pubblici tra Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti, Germania, Francia, Bulgaria, Canada, Spagna, Sudafrica e oltre 500 iniziative in forma privata) ha così voluto dire che se la libertà ebraica dipende dall’oppressione di un altro popolo, questa libertà è ingiusta e incompleta.

«In questo Pesach, come movimenti ebraici che mobilitano le nostre comunità contro l’occupazione, ci impegniamo nuovamente a lottare per una vera libertà – la liberazione collettiva di ebreƏ, palestinesi e di tutti i popoli» proseguendo una tradizione ebraica di resistenza contro ogni forma di oppressione.

L’Haggadah (in ebraico «racconto») che si recita durante la cena, è stata rivisitata in un lavoro collettivo di scrittura, ricerca delle fonti, illustrazione, revisione e traduzione. Attraversando fusi orari e diversità culturali, le organizzazioni promotrici hanno prodotto un dialogo tra il testo tradizionale e una selezione di commenti da due millenni di letteratura ebraica, voci palestinesi, contributi originali composti per l’occasione.

Per esempio, il canto di gratitudine Dayenu, che ripete la formula «ci sarebbe bastato», è stato accompagnato da potenti preghiere laiche: «Se combattiamo per i nostri diritti ma non per coloro che hanno bisogno al nostro fianco: non ci basta. Se ci opponiamo all’antisemitismo, ma non all’islamofobia: non ci basta».

A Roma, il 28 aprile nel giardino di Casetta Rossa si sono riunite circa ottanta persone, ebree e non, dai quattro mesi ai 96 anni, per recitare insieme le formule rituali di ringraziamento per la libertà conquistata nel segno dell’impegno per la libertà futura di tutte le popolazioni del mondo.

Il rito è stato officiato da una giovane studiosa ebrea che lo ha arricchito con spiegazioni dotte e richiami alla condizione dei migranti, alla persecuzione degli antifascisti. Il piatto con i cibi rituali è stato completato con olive e altri simboli (arancio per le lotte femministe, queer e trans contro l’emarginazione, la coppa di Miriam, un bicchiere d’acqua per il ruolo misconosciuto e dimenticato delle donne nella storia), come da tradizione ebraica anti-oppressione. Le olive per rappresentare la lotta del popolo palestinese per la terra e l’autodeterminazione sono state offerte da un amico palestinese.

«Per me è stata un’esperienza curativa, mi sento meglio», ha detto una giovane palestinese giunta al Seder tra mille dubbi e preoccupazioni. «Siamo dalla parte giusta della Storia», commenta una partecipante al suo primo Seder. «Siamo molto felici. Per noi questo è quello che Pesach dovrebbe essere sempre», dicono da LƏA che ha affermato di voler così esprimere la solidarietà con il popolo palestinese «in virtù del nostro ebraismo, non suo malgrado».

La serata si è conclusa mescolando tradizionali canti ebraici, partigiani e anarchici. Il ricavato andrà all’organizzazione ACS (Associazione di Cooperazione e Solidarietà in Palestina) per progetti di solidarietà a Gaza.

Da Avvenire – Un appello a tutti i cittadini italiani perché si dichiarino obiettori di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Assieme alla richiesta al Parlamento perché conceda l’asilo agli obiettori ucraini, russi, bielorussi, palestinesi e israeliani, a rischio di carcere e ritorsioni. È partita anche in Italia la “chiamata all’obiezione di coscienza” del Movimento Nonviolento: se fin dall’inizio dell’invasione russa il sostegno era per gli obiettori di entrambi i fronti, anche col sostegno delle spese legali, ora parte il lancio dell’iniziativa italiana, rivolta a tutte le cittadine e ai cittadini di ogni età: una dichiarazione da sottoscrivere, indirizzata alle massime autorità dello Stato.

Quella lanciata dal Movimento nonviolento è infatti una “chiamata all’obiezione al militare” preventiva a un eventuale richiamo alle armi in Italia. Difficile, ma non impossibile: «Poiché la leva obbligatoria è sospesa [e non abolita, ndr] e tale sospensione resta a discrezione del potere esecutivo di governo – si legge nel testo – dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione». In caso di bisogno, gli obiettori affermano comunque la loro disponibilità alla difesa nonviolenta.

Nella “Dichiarazione di obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione” il Movimento chiede al governo italiano di rispettare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che enuncia tra gli altri anche il diritto all’obiezione di coscienza. E ricorda un precedente importante: l’accoglienza degli obiettori e disertori delle Repubbliche dell’ex-Jugoslavia, decisa dal Parlamento italiano nel 1992. «Non mi sottraggo al dovere di proteggere la mia comunità – recita la dichiarazione – ma credo, come l’esperienza storica dimostra, che sia possibile difendere la vita senz’armi». A questo scopo il Movimento Nonviolento rinnova dunque al Parlamento la richiesta di approvare una legge per l’istituzione della difesa civile non armata e nonviolenta.

«Sì, è giunto il momento di dichiararsi obiettori di coscienza – spiega Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento – per far sapere al governo che non siamo disponibili a nessuna chiamata alle armi». Basta compilare la Dichiarazione di obiezione, indirizzata ai presidenti della Repubblica e del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, in cui viene contestualmente chiesto che i nomi di chi obietta vengano inclusi in un apposito albo.

Al Ministero della Difesa infatti già esiste l’elenco degli obiettori di coscienza alla leva obbligatoria dal 1972 – anno della prima legge, la 772, sul servizio civile alternativo al militare – e che non possono essere richiamati per servizi armati. E presso l’Ufficio nazionale del Servizio Civile esiste l’elenco di tutti i giovani che dal 2001 hanno svolto il servizio civile volontario e non sono disponibili per quello armato.

«Rumori di guerra, sempre più forti, dal Medio Oriente all’Ucraina, dal Mar Nero al Mediterraneo – afferma il presidente del Movimento Nonviolento Mao Valpiana – e le cancellerie europee, incapaci di prendere iniziative concrete di pace, spingono sull’opinione pubblica per far accettare la mobilitazione militare: più spese per la difesa armata e più personale disponibile per il ripristino della leva obbligatoria». E allora «la risposta immediata alla guerra “a pezzi” – sostiene Valpiana – è la fermezza del no alla guerra, è l’obiezione di coscienza alle chiamata alle armi».

La Dichiarazione, che può essere sottoscritta da tutti – giovani o adulti, donne e uomini – afferma che chi firma ripudia la guerra ma vuole ottemperare al dovere di difesa della Patria con le forme di difesa civile e non militare già riconosciute dal nostro ordinamento, in linea con la Costituzione italiana (articoli 11 e 52). La Dichiarazione di Obiezione di coscienza è disponibile sul sito del Movimento Nonviolento e può essere compilata direttamente dal format o scaricata e stampata su carta, e inviata personalmente.

Da AltraEconomia – Haggai Matar è il direttore del magazine indipendente israeliano +972 – come il prefisso internazionale che vale sia per i telefoni israeliani sia per quelli palestinesi – che si è fatto notare ancora di più dopo il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha attaccato il Sud di Israele e in risposta è scattata la più violenta delle operazioni contro la Striscia di Gaza.

Matar e il suo team, composto da israeliani e palestinesi che operano sul campo, anche a Gaza, hanno realizzato scoop e inchieste decisive, come quella che ha fatto il giro del mondo sul sistema di intelligenza artificiale Lavender, usato dall’esercito israeliano per individuare e bombardare i propri obiettivi, con una scarsa supervisione umana. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, sono civili e abitazioni colpiti in massa, in violazione di tutte le convenzioni del diritto internazionale, con le vittime palestinesi che sono ormai più di 33mila a metà aprile 2024. Abbiamo incontrato Matar in occasione dell’evento “La guerra di Gaza: i fatti e le narrazioni”, organizzato dalla Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) a Roma il 19 marzo.

Matar, che cosa vedono gli israeliani di quello che succede nella Striscia di Gaza, o in Cisgiordania, per esempio, rispetto agli attacchi dei coloni? Il cittadino medio è informato e quanto è interessato alla sorte dei palestinesi?

Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro e capire che il nazionalismo e il giornalismo israeliano sono strettamente interconnessi. Questo è un assunto un po’ di base che è stato preso come un dato di fatto dal mondo dell’informazione negli ultimi decenni ed è ancora vero oggi, dopo il 7 ottobre. Quindi, la maggior parte dei media in lingua ebraica si concentra soprattutto sulla vita degli israeliani ebrei mentre si parla veramente molto poco dei palestinesi. Vengono visti quasi esclusivamente come gli autori dei massacri contro gli israeliani, non come esseri umani: nella narrazione giornalistica non vengono trattati come persone che conducono una loro vita, che hanno una cultura, un lavoro, e così via.

Il 7 ottobre ha generato comprensibilmente uno shock, un vero e proprio trauma per tutti noi e questo ha portato al contesto attuale, per cui è impossibile capire le ragioni e le motivazioni degli attacchi. Io questo lo considero un fallimento per il giornalismo israeliano. Siccome non è mai stato raccontato per bene il contesto, oggi nel Paese non si sa il motivo reale del perché i palestinesi fanno resistenza, non si sa come avviene e il fatto che ci sono anche dei sentimenti di ostilità nei loro confronti, nei nostri confronti. Questo ovviamente non giustifica quello che ha fatto Hamas, ma la situazione attuale è una mancanza di strumenti da parte degli israeliani per capire la situazione e ciò li ha portati ad autopercepirsi unicamente come vittime: chi supporta il cessate il fuoco o chi esprime preoccupazioni per quello che sta succedendo a Gaza viene immediatamente tacciato di antisemitismo e di tradimento nei confronti di Israele.

E questo concetto viene riaffermato ogni giorno nella modalità con cui i giornalisti coprono il conflitto: le immagini di morte, di distruzione e di fame non raggiungono davvero il pubblico israeliano, non vengono trasmesse sui media mainstream e così giungono soltanto in maniera indiretta e sempre come una sorta di rimprovero. Ci viene detto che la comunità internazionale sta perdendo la pazienza con noi, perché c’è questo “problema” dei profughi palestinesi. Quindi è veramente scarsissima la conoscenza diretta di quello che sta succedendo ai palestinesi, della loro resistenza che non viene assolutamente coperta, così come le alternative alla guerra. E questo è fatto appositamente, per farci vedere il conflitto come l’unica strada possibile.

+972 ha realizzato scoop molto importanti dal 7 ottobre, come rivelare che l’esercito israeliano ha usato l’intelligenza artificiale per scegliere gli obiettivi da colpire, ovvero senza quasi nessuna precauzione per i civili, e ciò spiegherebbe l’alto numero di vittime. Come lavora il vostro team? Quanto è facile fare informazione indipendente in Israele e come hanno reagito gli israeliani alle vostre inchieste?

+972 è un collettivo di giornalisti israeliani e palestinesi che collaborano da undici anni, le notizie vengono pubblicate anche in inglese e abbiamo una sezione web, che si chiama Local Call, in ebraico. Abbiamo deciso di mettere a disposizione anche questa fonte, proprio per dare accesso agli israeliani a un’informazione indipendente.

I nostri reporter sono sul campo, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e siamo l’unico sito web che copre regolarmente dall’interno quello che avviene nei Territori occupati, dove i giornalisti palestinesi lavorano soltanto per noi. È una sfida molto grande: vogliamo offrire queste fonti sia al pubblico internazionale sia a quello israeliano, ma è molto difficile oggi lavorare in questo modo. Se +972 viene seguito da diverse testate in tutto il mondo e i nostri articoli sono stati tradotti in tantissime lingue, quello che è sul sito in ebraico non viene ripreso dai media mainstream interni.

Quindi la nostra percezione è quella di avere tanti lettori ma poca influenza sulla società israeliana. Anche se a dover affrontare le sfide più grandi sono i nostri reporter che ogni giorno raccontano questo conflitto dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, dove rischiano la loro vita e quella delle loro famiglie. Le difficoltà che proviamo noi sono nulle a confronto.

I conflitti sono da sempre anche guerre di propaganda, come funziona quella israeliana, dietro la quale c’è un vero e proprio apparato con teorie consolidate?

La propaganda, che noi chiamiamo hasbara, potrebbe essere oggetto di un seminario intero e ci vorrebbero ore per parlarne. Si tratta di un vero e proprio connubio tra i media ufficiali e quelli mainstream, che hanno le proprie narrative, trasmettono i propri messaggi, che spesso sono poco verosimili, per usare un eufemismo. Già nel passato si sono verificati casi in cui hanno raccontato delle vere e proprie menzogne.

Accanto a questo, negli ultimi venti-venticinque anni è stato molto interessante vedere che si è creata una specie di rete non ufficiale di propaganda, per cui ci sono degli attivisti, delle organizzazioni della società civile, spesso supportate direttamente o indirettamente dal governo, che hanno creato una vera e propria rete globale con l’obiettivo di spingere la narrativa in una determinato direzione.

Il fatto che non siano media ufficiali sembra dare una parvenza di libertà e indipendenza, quasi di maggiore credibilità a queste fonti ma spesso, invece, lavorano per la propaganda ufficiale, sia per quanto riguarda i contenuti, sia a livello di finanziamenti.

Come operano nello specifico a livello internazionale?

Per esempio, recentemente, si sta verificando un fenomeno per cui all’interno delle università israeliane vengono create le cosiddette world rooms, “stanze internazionali”, dove gli studenti israeliani parlano ad altri studenti che provengono da Paesi stranieri, per far sì che questi veicolino delle informazioni sui loro social media in diverse lingue, cercando di diffondere determinati messaggi. Di solito sono collegate a organizzazioni di stampo sionista attive in tutto il mondo, che mettono in circolazione una narrazione sempre riconducibile a quella ufficiale del governo israeliano.

Come si conciliano le immagini sui social network, girate spesso dagli stessi soldati israeliani, che si filmano magari nelle case palestinesi attuando comportamenti che sembrano essere in qualche modo contrarie alla narrativa ufficiale governativa?

Penso che il tema condiviso di entrambi questi fenomeni sia la disumanizzazione. Da una parte ci sono i media mainstream, che demonizzano i palestinesi semplicemente ignorandoli, dall’altra ci sono questi video con i soldati che rubano oggetti dalle case oppure fanno vedere la biancheria che trovano all’interno delle abitazioni.

Il punto di intersezione sono i media ufficiali, che mostrano invece i soldati mentre entrano nelle città sui carri armati: non è che gli israeliani non vedono le immagini del conflitto, ma hanno una visione di Gaza completamente deumanizzata.

La osservano, tanto quanto i carri armati che distruggono le case e le macerie, ma non vedono le persone che lì ci abitano. Anche le immagini dei soldati sono una modalità di deumanizzazione perché se non faccio vedere il volto di chi muore, diventa più facile raccontarvi che sono terroristi. E questo è il fine ultimo di questo gioco: mostrare e nascondere, mostrare e nascondere.

Dove trovate il coraggio per fare un lavoro così pericoloso, che implica non solo il rischio della vita, ma anche, specie per i giornalisti israeliani, un rischio di attacco e isolamento sociale?

Non posso agire diversamente, specialmente dal mio punto di vista, che è un po’ quello dell’oppressore. Io penso che da questa posizione non riuscirei neppure a vivere, a guardarmi allo specchio ogni mattina, senza esercitare questo tipo di resistenza, che per me è il giornalismo. Ma oltre all’aspetto negativo del non avere scelta, ce n’è anche uno positivo: so che Israele sembra un posto che vive in uno splendido isolamento dal mondo.

Ma ci sono state manifestazioni contro questa profonda ingiustizia, ci sono sempre più movimenti in tutto il Pianeta che chiedono al governo di prendersi le proprie responsabilità, anche in sede giudiziaria e secondo le regole del diritto internazionale. E il giornalismo ha svolto e svolge un ruolo fondamentale in questo. In più, per quanto mi riguarda, il tutto viene legittimato dal fatto che ci basiamo sulle voci sia di giornalisti israeliani sia palestinesi, che operano sul campo. Insomma, non è solo una questione di non avere altra scelta: c’è tanto da guadagnare nel fare giornalismo in questo modo e in questo momento.

Da La Valigia Blu – I dissidenti in Russia non hanno vita facile, e la situazione sembra solo peggiorare. Il 22 marzo scorso, la Russia è stata vittima di un feroce attacco terroristico. L’attacco, durato in totale 18 minuti, ha causato 139 vittime. Nonostante la rivendicazione dell’attacco da parte dell’ISIS-Khorasan, il ramo dell’organizzazione terroristica attivo principalmente in Afghanistan e nel Caucaso, il presidente russo Vladimir Putin non ha esitato a strumentalizzare quanto accaduto alludendo a possibili responsabilità da parte ucraina. Per quanto riguarda la politica interna, conseguenza immediata dell’attentato è l’inasprimento del governo russo nei confronti delle questioni relative alla sicurezza.

Le leggi russe relative al terrorismo sono state a lungo un’arma efficace contro il dissenso. Infatti, la legge sul terrorismo varata nel 2006, così come quella sull’estremismo, è stata spesso strumentalizzata per sopprimere il dissenso e controllare il dibattito pubblico, lasciando poco spazio a istanze di opposizione.

Sono 3.738 le persone condannate ai sensi della legge contro il terrorismo nel periodo che va dal 2013 al 2023. Ma tanti sono anche i casi antecedenti a quella data. Tra questi c’è la storia di Ivan Astashin, attivista per i diritti umani che per anni si è battuto contro gli abusi in divisa e contro le condizioni disumane imposte nelle carceri russe. Nel 2009, Ivan lanciò una molotov contro una stazione dell’FSB, il servizio di sicurezza federale russo. Il gesto, più simbolico che realmente tattico, non causò vittime né feriti, né danni sensibili agli uffici: si limitò a rompere una finestra. Ciononostante, Ivan fu accusato di terrorismo e condannato a tredici anni di carcere. Anche in virtù della propria esperienza, Ivan si è impegnato nell’attivismo a tutela dei diritti umani, e a raccontare la tragica situazione delle carceri russe, in cui gli abusi in divisa sono all’ordine del giorno e i dirittihttps://www.rivistastudio.com/sheila-heti-intervista/ dei detenuti sono sistematicamente lesi.

Ivan Astashin è uno dei protagonisti di La Russia che si ribella. Repressione e opposizione nel Paese di Putin (Altreconomia) , libro scritto a quattro mani dalla scrivente e da Federico Varese [. Astashin è uno dei cinque oppositori del regime di Putin di cui abbiamo raccontato le vicende: i protagonisti del libro sono persone reali, che si sono raccontate in lunghe interviste ripetute a distanza di mesi, così da coprire un arco temporale vasto e sensibile ai cambiamenti che la Russia ha attraversato dal lancio dell’invasione su larga scala scala dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Ogni storia svela un aspetto specifico della società russa, e soprattutto di cosa vuol dire essere dissidenti nel Paese di Putin.

Apriamo il volume con la storia di Ljudmila, una blokadnica (dal russo blokada, “assedio”), vale a dire una sopravvissuta all’assedio di Leningrado (1941-1944). In risposta all’invasione dell’Ucraina, Ljudmila è scesa in strada a manifestare contro la guerra, ed è stata arrestata nonostante l’età avanzata. Ljudmila racconta degli scambi che ha avuto con i giovani soldati. Lei che la guerra l’ha vissuta davvero e ne ha sofferto gli orrori sulla propria pelle ha spiegato, con comprensione e umanità, come la retorica bellicista di Putin, fondata sulla mitizzazione della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale, sia un dispositivo per giustificare altrettanti orrori, anziché per rendere omaggio agli eroi del passato.

La seconda storia del volume ci porta invece in periferia, nelle campagne moscovite, dove padre Ioann, un pope ortodosso, è stato arrestato per aver denunciato i crimini russi in Ucraina durante un’omelia a una platea di dodici persone. La storia di Ioann rivela come la Chiesa ortodossa russa sia un importante alleato politico del Cremlino, sposandone le politiche violente e imperialiste e diffondendo propaganda bellicista tra i fedeli. L’assurda storia di Ioann, però, ci ricorda anche come sia sempre più difficile trovare spazi sicuri nella Russia di oggi: i delatori possono nascondersi anche fra una platea di una manciata di persone in un villaggio di campagna.

Grigorij Judin è la terza figura chiave del libro. Ricercatore e docente, con lui svisceriamo le difficoltà di sondare l’opinione pubblica nella Russia di Putin e, in generale, in contesti non democratici. Numerosi studi dimostrano come i sondaggi possano essere influenzati molte variabili, che in contesti non democratici acquisiscono peso maggiore: la formulazione delle domande, il luogo e il momento in cui vengono poste, la familiarità dei partecipanti con l’argomento in questione, la misura in cui essi si sentono liberi di esprimere la propria opinione in sicurezza, l’ente che conduce il sondaggio, e così via. In questo scenario fumoso è difficile misurare il consenso popolare di un regime, e quindi rispondere a una domanda che dal lancio dell’invasione su larga scala ha impensierito molte persone in Russia e non: quanto di quello che sta succedendo in Ucraina è colpa di ciascun cittadino russo? La questione chiama in causa i concetti di colpa e di responsabilità collettiva, e la relazione di accountability che lega governanti e governati, ossia il vincolo di responsabilità bidirezionale degli uni verso gli altri.

A chiudere il volume c’è la storia di Doxa, rivista indipendente nata in seno alla Higher School of Economics, ateneo moscovita di fama liberale, raccontata da Katja, redattrice. La parabola di Doxa e del collettivo di ragazze e ragazzi che la animano mostra il tentativo da parte delle autorità russe di soffocare il dibattito politico all’interno delle università, ma anche di imporre un modello di giornalismo “neutrale”, che in questo contesto significa non critico nei confronti del potere. Di erodere, dunque, spazi che storicamente sono stati culle di dibattiti, cambiamenti e rivoluzioni.

Il filo rosso che lega le storie di Ljudmila, Grigorij, Ioann, Ivan e Katja sono le tattiche di resistenza quotidiane di chi si trova a lottare in un paese in cui fare opposizione è pressoché impossibile. Il processo storico che ha attraversato la Russia dal crollo dell’URSS ai giorni nostri, infatti, ha fatto sì che il paese si ritrovi ad oggi privo di infrastrutture che possano canalizzare il dissenso entro un fronte coeso, e fare opposizione sistematica al Cremlino. Questa situazione non è dettata dal caso, ma dalla combinazione di circostanze preesistenti l’ascesa di Putin, e dalla precisa volontà di Putin di esacerbare una situazione non favorevole allo sviluppo democratico della società civile sin dal suo primo mandato presidenziale. Analizziamo nel dettaglio la questione in un saggio conclusivo, a cui seguono poi due appendici. Nella Cronologia elenchiamo nel dettaglii i momenti fondamentali della dialettica fra opposizione e repressione dal duemila ad oggi. Nel Glossario della resistenza, invece, illustriamo metodi alternativi che cittadini e cittadine russe hanno escogitato per continuare a esprimere il loro dissenso in un contesto così soffocante.

Con La Russia che si ribella ci siamo posti l’obiettivo di mostrare dinamiche interne alla Russia di Putin che spesso rimangono lontano dalle cronache giornalistiche. Attraverso le voci dei nostri intervistati, abbiamo voluto mostrare le difficoltà e le sfide che attendono quella parte di popolazione che non si trova d’accordo con le politiche del Cremlino, e le soluzioni che sono state trovate per farvi fronte. Osservando da vicino le esperienze molto diverse fra loro di cinque dissidenti, il volume rivela passo passo i nodi e i dilemmi fondamentali della popolazione contraria al regime di Putin, facendo luce sul volto di una Russia che difficilmente si riesce a scorgere oltre le maglie della repressione putiniana.

Da paceterradignita.it – Io partecipo alla politica istituzionale per avere la possibilità di votare contro la guerra alle elezioni europee. Da due anni la aspetto, nel sito c’è il mio articolo: Possiamo votare contro la guerra? Due anni fa tra i partiti c’era il totale silenziatore generale. Forse ora potremo, se non credete alle false imitazioni.

Al link http://paceterradignita.it ci sono tutti i luoghi dove firmare con il notaio.

A Milano: Banchetti Nord ovest ­- Pace Terra Dignità (paceterradignita.it)

Da Facebook – Nel 2008 Judith Butler pubblicò un libro, intitolato Frames of war e mai tradotto in italiano, in cui approfondiva le questioni relative alle guerre del dopo-11 settembre già affrontate in Vite precarie. La tesi di Frames of war era – è, quel libro va riletto oggi – che c’erano dei quadri interpretativi sottostanti alle pratiche e alle ideologie delle guerre contro il terrorismo, e che questi quadri interpretativi riguardavano sostanzialmente una gerarchizzazione dell’umano su base razziale, per cui certe vite contano e certe altre non contano niente. Quelle tesi, allora pionieristiche, sono diventate nel frattempo alquanto diffuse grazie allo slogan “Black lives matter”, ma soprattutto risultano molto facilmente verificabili nel regime di guerra in cui viviamo oggi. A proposito del quale c’è chi, nel mainstream guerrafondaio, va lamentando un presunto “doppio standard” dei pacifisti, che sarebbero – saremmo – zelanti nel condannare l’aggressore quando è Netanyahu ma non quando è Putin. La strage efferata dei 7 disgraziati volontari della Ong americana a Gaza mi dà l’occasione per replicare sommessamente che in compenso nel mainstream lo standard è assolutamente unitario, ed è uno standard razzista, per cui ci vogliono 7 vittime “accidentali” e occidentali perché si realizzi quello che 30.000 e passa vittime palestinesi non sono state sufficienti a far realizzare, e cioè che quello che sta accadendo a Gaza è aldilà di qualunque livello minimo di civiltà e di accettabilità. E vale lo stesso per la guerra d’Ucraina, dove i morti russi non sono mai, mai entrati nel conto perché considerati meno occidentali o meno occidentalizzabili, e dunque meno umani, degli ucraini. Non so quanto dovremo ancora aspettare prima che appaia chiara la débâcle dei tanto sbandierati valori europei e occidentali in questa situazione. Perché, guardate, è proprio una débâcle.

Da L’Unità

[…] «Il coraggio di alzare bandiera bianca». Le parole del papa ci costringono a una riflessione che va oltre la resistenza ucraina, rispetto alla quale continuo ad avere alcuni dubbi (Putin interpreterebbe qualsiasi cessate il fuoco come conferma che solo l’uso della violenza paga). In che senso? Associare il coraggio, e dunque cose molto “virili” come l’onore, la dignità, l’eroismo, etc. al pacifismo e alla non-violenza, a me pare un gesto eversivo. Sono però convinto che questo gesto, apparentemente “scandaloso”, possa essere compreso soltanto dalle donne. Credo di non fare un outing personale così clamoroso se confesso che nei film di guerra, anche quelli risolutamente contro la guerra, un po’ mi eccito sempre quando sullo schermo ci sono azioni guerresche, operazioni di commando, assalti, bombardamenti spettacolari. Il mio immaginario è assai meno evoluto dei miei principi morali. Mentre mia moglie di fronte alle stesse scene si annoia e non nasconde una estraneità totale, di tipo antropologico. Si obietterà: ma la grande tradizione epica consiste proprio nella esaltazione di imprese eroiche, di guerre e avventure, dai poemi eroici ai western di John Ford. Eppure ci volevano due donne a rileggere genialmente l’Iliade e a vedere in esso non tanto e solo il poema della forza ma un’opera che assume la forza stessa come illusione, e non come verità ultima della condizione umana. Simone Weil e Rachel Bespaloff, ebree in esilio, nei primi anni ’40 si sono rivolte all’Iliade per capire la tragedia del presente (segnato dalla guerra), scrivendo due saggi gemelli – e certamente audaci – pur non conoscendosi e non incontrandosi mai!

Non si riflette mai abbastanza su come nel corso del ’900 solo il pensiero femminile ha saputo indicare una via d’uscita dalla crisi, dalla spirale autodistruttiva della nostra stessa civiltà.

Provo qui a indicare due saggi apparsi su rivista a distanza di venticinque anni che insistono giustamente su questo aspetto. Nell’estate del 1997 Giancarlo Gaeta, curatore e traduttore dell’opera di Simone Weil per Adelphi, scrisse un saggio – La libertà di pensare le cose come sono – (“Lo straniero”), che così cominciava: «Virginia Woolf, Simone Weil, Etty Hillesum. Provo a ragionare intorno a queste tre figure di scrittrici del Novecento tra un gruppo assai più vasto, la cui frequentazione è stata importante per la mia vita intellettuale e spirituale. Tra queste Marina Cvetaeva e Karen Blixen, innanzitutto, e poi altre che si sono espresse nei decenni successivi alla guerra, come Elsa Morante, Hannah Arendt, Anna Maria Ortese […] una generazione più giovane di pensatrici e di scrittrici, quella formatasi nel cuore drammatico del secolo, non aveva esitato a spingere lo sguardo fino al fondo dell’abisso, cercando risposte nuove alla crisi […] A me sembra che nell’insieme la risposta più alta alla crisi della civiltà occidentale sia venuta lungo l’arco di questo secolo da alcune donne». E aggiunge: «Non solo hanno saputo cogliere e interpretare perfettamente il carattere distruttivo della crisi, ma hanno anche trovato in se stesse energie sufficienti per indicare le porte strette per ricominciare, senza distogliere lo sguardo dal cumulo delle macerie». Insomma, nel pensiero femminile l’ultima parola non è mai la morte, il nulla, la distruzione, e poi solo lo sguardo femminile è capace di vedere le cose come sono, senza calcoli di dominio, senza secondi fini, senza alcuna volontà di controllo sulle cose stesse. L’idea stessa di conoscenza muta radicalmente: in María Zambrano, filosofa andalusa, diventa passività ricettiva, saper accogliere. In Zambrano la conoscenza è «un lasciar alle cose il tempo e il modo di manifestarsi nel loro essere proprio». E, al fine di «lasciare che l’altro venga alla presenza da sé», bisogna restare fiduciosamente in attesa e rinunciare a qualunque esito immediato. […]

Gaeta e Cacciari, studiosi pur diversissimi tra loro, giungono alle stesse conclusioni: solo nel pensiero di alcune donne del ’900 si schiude la possibilità di salvarsi per l’Occidente (salvarsi dall’autodistruzione cui porta la mera volontà di potenza). Solo una obiezione, o piuttosto una considerazione in margine: non bisognerebbe mai sottacere la radicalità di pensiero e di esistenza di queste donne. Zambrano, Weil, Bespaloff hanno attraversato gli orrori del secolo breve: sempre disperatamente in fuga. Per loro la “salvezza” è legata a una esperienza interiore di tipo mistico, inaccessibile e inscrutabile, a un salto vertiginoso così distante dalle nostre quiete, protette esistenze.

Torno al papa. Se pensiamo che l’essere umano consiste solo in una volontà di potenza che «assale il diverso e lo conosce solo come barbaro», sia esso il migrante o il nemico in guerra, non capiremo mai il papa. Se invece riteniamo che «siamo capaci anche nel più duro conflitto di rispettare l’avversario» (Cacciari), allora potremmo farlo. La conclusione del poema, il ritorno del corpo di Ettore a Priamo, il piano che accomuna Priamo ad Achille, uccisore di suo figlio, interrompe la logica della guerra e – pur riconoscendo per intero il tragico della nostra condizione – ci fa intravedere qualcos’altro: gli antagonisti irriducibili possono riconoscere reciprocamente il proprio valore, entro una umanità comune. Non sempre prevalgono inimicizia e odio. La pace contiene una verità forse più profonda della guerra. Ecco, anche soltanto immaginare questa possibilità – che ci hanno mostrato alcune pensatrici del secolo scorso e poi la chiesa nei suoi momenti più alti –, è oggi un dovere per tutti noi.

Olga Karatch è una giornalista e attivista per la pace e per i diritti civili bielorussa. Il 3 marzo, a Bolzano, ha ricevuto il Premio internazionale “Alexander Langer” per il suo lavoro contro la guerra, a favore dei diritti umani e per una svolta democratica in Bielorussia. A causa del suo impegno, il regime di Aljaksandr Lukashenko l’ha accusata di terrorismo, crimine per il quale nel suo Paese è prevista la pena di morte. Oggi vive a Vilnius, in Lituania, dove le è stato negato l’asilo politico perché considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale”.


Karatch, per quale motivo il governo del suo Paese l’ha accusata di essere una terrorista?

Durante le proteste del 2020, scoppiate dopo le elezioni presidenziali fraudolente, ho contribuito a organizzare una linea telefonica per le vittime della repressione di Lukashenko, avviando una raccolta fondi per coprire le loro spese legali. Nel 2021 il governo ha interrotto il nostro lavoro, arrestando alcuni di noi e costringendo altri alla fuga all’estero. Il Kgb ha quindi inserito il mio nome nella lista dei terroristi. Questa è la realtà dei fatti. Ufficialmente il regime mi ha accusata però di aver tentato un attacco kamikaze nei pressi di un punto di comunicazione russo su ordine di Angela Merkel.


Il suo impegno con “Our house” è iniziato nel 2005. In quali ambiti si sviluppa l’attività dell’organizzazione?

“Our house” si è dedicata inizialmente a supportare le donne, che in Bielorussia sono vittime di abusi di diversa natura. Con la campagna “252+1”, ad esempio, abbiamo fatto pressione affinché venisse consentito alle donne di accedere ad alcune professioni a loro proibite, spesso lavori meglio retribuiti o legati a stereotipi di genere. Fino a qualche tempo fa la lista comprendeva 252 professioni. Oggi, grazie alla nostra campagna, sono 186. Un focus particolare lo dedichiamo poi ai minori. “Children 328”, per esempio, mira alla liberazione dei minori incarcerati. In Bielorussia, infatti, i ragazzi dai quattordici anni in su possono essere condannati a dieci anni di carcere per il consumo di sostanze stupefacenti. Le conseguenze per la salute fisica e mentale per un giovane possono essere tremende, date le condizioni in cui versano gli istituti di pena bielorussi: non c’è la possibilità di frequentare la scuola, l’assistenza sanitaria è carente e sono frequenti violenze e torture.


Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, due anni fa, avete dato vita alla campagna “No means no”. Di che cosa si tratta?

“No means no” è una campagna per promuovere e difendere il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, 43mila bielorussi hanno ricevuto la cartolina di precetto dell’esercito. Abbiamo risposto diffondendo materiale informativo per esortare gli uomini a non rispondere alla chiamata e a fuggire. Il nostro obiettivo è l’istituzione di corridoi umanitari per tutti coloro che rifiutano di combattere. Noi garantiamo assistenza legale a chi si rifugia in Lituania. Siamo convinte che l’obiezione di coscienza contribuirebbe a risolvere ogni conflitto sul Pianeta. Si potrebbero combattere le guerre senza soldati?


Quanti sono gli obiettori di coscienza nel Paese e quali conseguenze devono affrontare?

In Bielorussia, dove non esistono tribunali indipendenti, gli obiettori di coscienza vanno incontro a una condanna da sette a dieci anni di carcere. Nel 2023, fonti governative hanno dichiarato che i ricercati per non aver risposto alla chiamata alle armi erano cinquemila. Se chi decide di non arruolarsi – o diserta – fugge in Russia, rischia la deportazione. Lo stesso accade in Lituania, dove si aggiunge la sospensione di cinque anni per un visto di ingresso nei Paesi dell’Unione europea.


Dal punto di vista sociale invece quali effetti produce questa scelta?

Chi rifiuta di imbracciare le armi fa i conti con un forte stigma all’interno di una società, quella bielorussa, in cui si è riaffermato un unico modello di uomo, ossia colui che combatte. La donna, invece, ha il solo compito di ispirarlo e sostenerlo nel compimento del suo dovere. Gli obiettori di coscienza, così come i reduci che non vogliono o non possono più combattere, sono considerati cittadini di livello inferiore.


Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron ha paventato la possibilità di un intervento delle truppe Nato in Ucraina. Vladimir Putin ha risposto ventilando la minaccia delle armi nucleari. In Europa e non solo si assiste a una sorta di corsa alle armi. Come giudica questa escalation?

Oltre al fatto che, ovviamente, senza veri percorsi di pace l’escalation bellica continuerà con risultati potenzialmente catastrofici per l’umanità, da quello che osservo nella regione e nei Paesi limitrofi – Polonia e Paesi baltici – la militarizzazione ha effetti sulla vita quotidiana di adulti e bambini. “Our house” accende i riflettori sulla militarizzazione dei minori in atto in Bielorussia, dove, nel 2022, 18mila bambini dai sei anni in su hanno partecipato a 480 campi militari estivi sotto l’egida del ministero della Difesa. Di questi, duemila giovani sono stati poi selezionati per un vero e proprio addestramento e oggi sono in grado di sparare, guidare mezzi militari e gestire parte della logistica militare. In molti casi i bambini coinvolti provengono da famiglie marginalizzate, che vedono in questa iniziativa la possibilità di migliorare la propria condizione sociale. Insomma, stiamo assistendo a una escalation che agisce su più livelli e che non sembra facilmente arrestabile.


In Lituania, dove vive, le è stato negato l’asilo politico. Quanto si fa sentire la pressione del governo bielorusso anche al di fuori dai suoi confini?

Enormemente. A me è stato negato l’asilo e ora ho un permesso di soggiorno per motivi umanitari che scadrà tra un anno. Ero arrivata in Lituania, un Paese dell’Ue, con molte speranze, ma ho capito presto di essermi illusa. Anche qui siamo vittime delle operazioni di discredito da parte del regime di Lukashenko. Per essere considerati “minaccia per la sicurezza nazionale” dal Dipartimento di sicurezza nazionale lituano – come nel mio caso – basta solo un sospetto. Nel Paese poi sta prendendo piede un sentimento di avversione nei confronti di chi scappa dalla Bielorussia. Alcuni obiettori di coscienza che hanno presentato domanda di asilo sono stati rinchiusi in strutture simili a prigioni e sono sottoposti a maltrattamenti basati unicamente sulla loro pregressa esperienza militare. Il governo lituano, inoltre, cerca di limitare proprio le nostre attività in sostegno ai rifugiati bielorussi.


Quali richieste vorrebbe avanzare al Parlamento europeo, in vista delle elezioni del prossimo giugno?

Nel Parlamento europeo abbiamo bisogno di persone che lavorino per la pace e che creino spazio per la forza della società civile e dei costruttori di pace, finora esclusi da qualsiasi dibattito. Se davvero si vuole fermare la guerra bisogna puntare sulla diplomazia, creando strumenti alternativi alle armi. Il sostegno agli obiettori di coscienza, a cui finora l’Ue non ha garantito alcun supporto, può essere una misura importante.


Domenica 3 marzo le è stato consegnato il Premio internazionale “Alexander Langer” 2023, dedicato al politico ed eurodeputato altoatesino scomparso nel 1995 e assegnato ogni anno a personalità o organizzazioni che si sono distinte per la loro attività a favore della pace, dei diritti umani e civili. Quale aspetto dell’eredità di Langer la guida nel suo impegno per la pace?

«Meglio un anno di trattative che un giorno di guerra». Questa frase di Alexander Langer deve essere il nostro faro. Per quanto sia complicato e faticoso, in una società in cui le opinioni sono polarizzate e le persone non si ascoltano, dobbiamo continuare a credere nella comunicazione non violenta e nella possibilità di costruire ponti. La via per la pace passa anche dall’affermazione di questi principi.


Da altreconomia.it