Dopo la legge 40 sulla PMA, ora tocca alla legge 194, al farmaco RU486 e ai Consultori pubblici
L’UDI, Unione Donne in Italia, reagendo allo stordimento allibito che quasi fa mancare alle donne la parola, a cui si aggiunge il vigile maschilismo di media, agenzie culturali varie e partiti politici non solo di destra, contrappone alcune ragioni alla marea montante di ispezioni, minacce, proposte, tutte contro la dignità e la salute delle donne, contro i Consultori e contro la legge 194.
Si è visto che l’obbiettivo dello schieramento anti referendario per le modifiche alla Legge 40 (sulla Procreazione Medicalmente Assistita), così come della “discesa in campo” delle gerarchie ecclesiastiche, era in realtà lo stravolgimento della legge 194 e dei Consultori.
Il ministro Storace, che ha perso la Regione Lazio, forse anche a causa delle sue note posizioni sui Consultori, da lui visti come luoghi mortiferi e sinistri, da bonificare con percorsi penitenziali e forche caudine, continua nella sua missione salvifica. Non preoccupandosi se e quanti Consultori vi siano nel paese, in che condizioni lavorino, se con organici sufficienti o no. O mandando ispettori per vedere se nei presidi ospedalieri e sanitari è rispettato l’obbligo di rispondere alle richieste di contraccezione d’emergenza, o se, invece, donne e giovanissime che osano chiedere la pillola del giorno dopo, non siano invece umiliate, costrette a cercare e chiedere qua e di là, o pretendendo che la prevenzione degli aborti, prevista dalla 194, ma, vorremmo ricordargli, infissa nel cuore di tutte le donne, comprese quelle che abortiscono, sia supportata da tutti gli ammortizzatori sociali che possono aiutare le mamme in difficoltà, sia presente nei contratti di lavoro, di affitto, sia oggetto di politiche locali, nazionali e vada verso una vera cultura di responsabilità sociale nei confronti della maternità. Queste quisquiglie non possono distogliere il nostro eroe dal suo pensiero fisso: affiancare le donne irresponsabili con “funzionari della scelta giusta”, operatori del bene che, loro sì, difendono la vita.
La questione, finalmente esplosa, del farmaco RU486, rende evidente il vero problema che scatena le reazioni di quanti stanno gridando all'”aborto facile”, presentando proposte sui Consultori sempre più misogine e lesive della dignità della donna.
Il fatto è che non sanno più come nascondere la verità e le loro responsabilità
La verità, che troppo pochi sapevano e che ancora in minor numero volevano affrontare, è proprio questo scandaloso ritardo sulla RU486, senza motivazioni che non siano quelle, ben poco nobili e cristiane, di farla pagare alle donne che decidono di interrompere la gravidanza.
Non sanno come spiegare il perchè di tanto ritardo, un po’ come dover nascondere che si è usata per anni una medicina sorpassata e ignorata una più efficace, perchè in realtà non si voleva che il paziente guarisse. Intanto i medici incominciano a parlare e parlano di ricatti durati anni, per non chiedere ciò che era giusto chiedere, altrimenti…addio alla 194.
La situazione in cui ci troviamo, il venir meno ad un patto di solidarietà e civile convivenza con le donne di questo paese, non è imputabile solo allo spazio che le istituzioni cattoliche più retrive si sono prese nel nostro Parlamento, nella nostra classe politica, ma anche a chi ha lasciato che tali spazi venissero presi. O addirittura li ha offerti in cambio di voti, di stabilità di governi, di equilibri nelle giunte.
Di fronte ad una realtà così severa l’UDI pone alcune questioni alla classe politica tutta sulle quali misurare la politica e i governi nei confronti delle donne.
Ricordiamo che:
– Non c’è nascita senza il consenso della madre, non c’è persona senza un corpo di donna che fa nascere, non si salvano i bambini e le bambine senza salvare le madri.
– L’interruzione volontaria di gravidanza non è un valore, una legge che la consenta, sulla base dell’autodeterminazione, è un diritto delle donne.
– La legge 194 non prevede pratiche o percorsi di dissuasione dall’aborto, ma solo prevenzione di esso. No dunque a volontari dissuadenti dentro ai Consultori e alle strutture pubbliche. Sì al potenziamento dei Consultori ed alla rete di sostegno alle madri in difficoltà.
– Chiediamo l’introduzione subito, su tutto il territorio nazionale della RU486, come tecnica abortiva dentro al percorso previsto dalla 194. Chiediamo garanzie che siano soddisfatte tutte le richieste di contraccezione d’emergenza (pillola del giorno dopo), in tutte le strutture pubbliche e convenzionate.
– Le donne che chiedono l’interruzione di gravidanza vanno rispettate, va salvaguardata la loro integrità fisica e psichica, la loro privacy. Predicatori ed esorcisti fuori dai Consultori!
– Ogni cinque anni, in media, anche le donne votano per le politiche, votano a sinistra, a destra, al centro, votano le cattoliche, le donne di altre religioni, quelle che non hanno nessuna religione, quelle che credono in ciò che vogliono, votano le suore, votano le giovani, le meno giovani e le anziane; diverse, ma sempre donne. Quelle stesse donne cercano nei programmi politici la loro presenza come parte integrante di questa società, cercano i loro diritti, la salvaguardia della loro dignità e della loro salute.
UDI-Unione Donne in Italia, via dell’Arco di Parma 15, 00186 Roma tel 06 6865884 udinazionale@tin.it
www.UDINAZIONALE.org
Oriella Savoldi, della Segreteria Flai Cgil Lombardia
E’ viva in me l’indignazione per l’iscrizione nella legislazione italiana e precisamente nella L.40, legge sulla procreazione assistita, della soggettività giuridica dell’embrione: prioritaria rispetto alla stessa soggettività giuridica riconosciuta a una donna, fortemente alimentata in questi tempi nel dibattito politico e nella campagna di colpevolizzazione dell’aborto, che, a partire dal potere ecclesiastico, dai livelli istituzionali e dai mass-media, mette le donne sul banco degli imputati.
Se è vero che il Parlamento italiano è pesantemente segnato dall’esperienza maschile, per via delle presenze, ma anche del pensiero prevalente, la Legge è traduzione diretta di questa esperienza del mondo e, per questo, svelatrice della idea maschile in fatto di rapporti fra uomini e donne.
Le donne vengono ridotte a soggetto minore, non sovrano, al massimo oggetto di cura, di assistenza, di sostegno da parte dello Stato o della Chiesa, a condizione che si facciano puro contenitore e veicolo di una nuova vita, ad ogni costo.
Che dire di diverso della nuova indagine sull’applicazione della 194 – da sempre sotto osservazione -, o dell’assegno di sostegno alla gravidanza a lavoratrici precarie, la cui condizione di precarietà di vita sembra non preoccupare, se non per via di una idea di maternità troppo legata alla condizione economica?
Chi come me opera nel sindacato, sa bene delle battaglie fin qui sostenute per garantire accesso e sostegno economico alla “maternità” di lavoratrici, tutte, contro posizioni, tutt’ora vive, di quanti, troppi, le vorrebbero fuori dal lavoro per via del loro essere madri potenziali e/o reali e sa bene delle differenze nei trattamenti che restano ingiuste.
Queste battaglie non hanno la pretesa di intervenire sulle scelte delle lavoratrici né, di ridurre la loro libertà nella scelta di farsi attraverso il proprio corpo portatrici di un’altra vita, a questione di condizioni economiche.
Queste condizioni sono importanti, ma interrogano la odierna situazione del lavoro, più che mai diventata fonte di incertezza e di sofferenza, soprattutto per le giovani generazioni di donne e uomini.
Del resto la stessa posizione espressa dal Cardinale Ruini al Forum del Progetto Culturale della CEI, il 2 dicembre, conferma la gravità di quanto ho espresso in premessa.
La Legge 40, dice il Cardinale, ha segnato uno “spartiacque importante, visto che ha rappresentato un forte motivo di impegno e di unità fra cattolici italiani” e, soprattutto, continua: “di incontro e convergenza con significativi rappresentanti della cultura laica.”
Cattolici e laici, dunque, uomini soprattutto e ahimè, donne che tollerano un confronto riduttivo dell’umanità femminile -per me fonte di indignazione e sofferenza-, e ne alimentano la posizione di miseria.
Posizioni incredibili, che riducono la maternità alla gestazione, riproponendo un’idea fascista della donna.
Fingono sollecitudine verso le donne, stanziano un miliardo di € per i bebè, contemporaneamente ne tagliano sei, di miliardi di €, su sanità, Comuni, politiche sociali e da anni tolgono risorse all’integrazione scolastica per gli alunni e le alunne in difficoltà.
Una maternità libera e serena ha bisogno di garanzie dallo Stato Sociale, nei suoi pilastri fondamentali: sanità, assistenza, istruzione, previdenza e disoccupazione.
Invece protervia ed ipocrisia sorreggono un attacco che potrebbe consentire di far attecchire, anche in Italia, movimenti e posizioni oltranziste antiaboriste di stile statunitense, violente ed estremistiche.
Questo confronto imposto resta molto distante dalla vita e dalla coscienza reale delle donne, dalle lavoratrici, così come il dibattito parlamentare sulle “quote rosa”; tuttavia queste posizioni non vanno sottovalutate.
Vanno, invece, contrastate e sconfitte, nella consapevolezza che le parole, il dettato della legislazione non sono privi di conseguenza sulla vita concreta e sulla formazione di nuovo pensiero.
Per questo prendo la parola, per questo ho partecipato alla assemblea promossa a Milano il 29 novembre scorso e sostengo l’iniziativa della Manifestazione Nazionale prevista nel prossimo gennaio: in gioco è la libertà femminile e con essa la qualità dei rapporti fra uomini e donne, della loro convivenza e quella del mondo che condividiamo.
Se questa è la posta in gioco, fuori dall’uso strumentale di una battaglia necessaria, un attacco e una riduzione delle donne così gravi, non riguarda uomini e donne? O sarà lasciata, ancora una volta, sulle spalle delle sole donne?
Un conto è riconoscere loro che in questo campo ne sanno più degli uomini, riconoscere la loro autorità, ma un altro è esonerarsi dalla lotta politica.
Carissime,
rispondo dopo l’assemblea alla Camera del Lavoro di ieri sera, raccogliendo anche l’invito di Assunta Sarlo ad essere propositive Sulla questione privacy in relazione al lavoro che il progetto di legge del Forum delle Famiglie (o Movimento per la vita) propone nei consultori “al servizio della vita” vi è da tenere presente il provvedimento 11 novembre 2005 del Garante per la protezione dei dati personali relativamente alle strutture sanitarie. Il provvedimento, che richiama sia il codice del giugno 2003 sia le direttive europee, determina il rispetto dei diritti degli interessati a garantire la segretezza dei propri dati sensibili, tutelandolo anche nei confronti di tutto il personale medico e paramedico, limitando al massimo la presenza di terzi anche coinvolti nei trattamenti sanitari e precisando che la corresponsione di notizie o alcune presenze potrebbero essere escluse da una volontà in tal senso del malato motivatamente espressa. Questo dovrebbe frenare l’intervento di volontari per la vita non scelti dal paziente a scopi di trattamento terapeutico. Il quesito è: viene osservata la legge negli Ospedali lombardi? che cosa dicono le ginecologhe, come si può aiutarle e costituire una forza di pressione per il rispetto delle garanzie di riservatezza, premessa utile per l’esercizio dell’autodeterminazione? Inoltre si potrebbe forse, qui chiedo il conforto di giuriste specializzate in materia, sollecitare un provvedimento del Garante sul progetto di Casini e soci rispetto ai consultori e alla presenze dei volontari per la vita (provvedimento analogo a quello reso il 27 ottobre 2005 sulla carta multiservizi della giustizia) Forse, questione da studiare. Sul menzionato progetto, che si riallaccia bene alla legge 40, va aggiunto che nella sua norma di chiusura (art. 25, a quanto pare, ma occorre che le Parlamentari lo facciano girare in rete al più presto) prevede la costituzione di un’Autorità Nazionale per le politiche famigliari che sorvegli e curi la compatibilità fra le funzioni pubbliche e private e le funzioni famigliari, in particolare l’educazione dei figli. Chi sarà sorvegliato? non credo Casini o Buttiglione, piuttosto le madri di famiglia. Si compie così il percorso di curatela maschile sul corpo/mente della donna fertile dalla gravidanza (o ricerca della, attraverso le PMA), che ovviamente è questione di libertà femminile oltre che di libertà individuale tout court. Propongo che tutte noi, in particolare le donne dei Partiti e dei Sindacati ci facciamo carico di un’opera molto seria di pressione sui dirigenti di queste istituzioni al fine di ottenere una verifica e revisione della liberticida legge 40 Infine, per la prossima assemblea del 15 dicembre propongo di seguire la modalità sperimentata con successo nelle riunioni internazionali, che sono fitte di parteciapanti, del Forum per la Democrazia Costituzionale Europea: due introduzioni di 8/10 minuti ciscuna e ogni intervento di 5 minuti con chiusura del microfono ai 7 minuti da parte della presidenza. Cari saluti a tutte e complimenti alle ideatrici della riunione di ieri, veramente ben riuscita.
Maria Grazia Campari
Lea Melandri
Dell’aborto e delle questioni legate alla maternità – legge 194, pillola abortiva, consultori e movimento per la vita, adozione degli embrioni – parlano oggi all’impazzata le massime autorità della Chiesa, dello Stato, della medicina, della giurisprudenza, della cultura e dell’informazione. Tacciono le dirette interessate, le donne che si sono già trovate o che potrebbero trovarsi nella condizione di dover rinunciare a una maternità e quelle che, pur non avendo mai abortito o non avendo più questo problema, ritengono comunque di dover sostenere la scelta delle proprie simili.
Più le voci si alzano, da destra e da sinistra, in nome di Dio o della laicità calpestata, per rispetto di una “natura” immodificabile o della libertà delle donne di disporre del proprio corpo, più si allarga la zona d’ombra e di silenzio in cui va a cadere un’esperienza di vita e di relazione tra gli esseri umani che non a caso suscita un interesse così esteso, un così impellente bisogno di definire limiti, concessioni e divieti. Nel momento in cui il loro corpo, e le traversie che l’accompagnano, diventa “pubblico”, le donne spariscono dalla scena, come se si fosse concluso un millenario esilio nell’unica ricomposizione prevista dalle polarizzazioni della storia, tra maschile e femminile, cultura e natura, privato e pubblico, ecc., e cioè l’assorbimento del “diverso”, dell’“anomalo”, del “minaccioso”, dentro l’orizzonte del sesso che ha imposto il suo dominio, e quindi il suo modello di civiltà.
Ma come capita quando si è troppo assuefatti al rumore, è il silenzio che finisce per sorprenderci e per farsi ascoltare. E allora viene immediata la domanda: perché le donne tacciono? Perché, anche quando parlano, è così impercettibile la consapevolezza che dovrebbe distinguerle dallo sguardo oggettivante con cui la scienza, la politica, la cultura in generale, hanno guardato alla loro vita, natura senza storia, umanità minore da sottomettere o da proteggere?
Perché appaiono così lontane, perse nel mito di una stagione senza ritorno, le appassionate discussioni che portarono all’approvazione della Legge 194, le testimonianze di esperienze vissute, rese nei luoghi meno protetti dalla riservatezza, come le assemblee e le manifestazioni?
Ma, soprattutto, per quale inspiegabile ottenebramento, o rimozione, si parla dell’aborto come se le donne si mettessero incinte da sole, e per leggerezza o sadismo decidessero poi di sgravarsi di quel peso? Che si chieda a gran voce la loro ribellione, come ha fatto qualche illustre ginecologo, che si pretenda il rispetto della loro sofferta decisione, che si sostenga il diritto all’autodeterminazione in fatto di maternità, si tratta pur sempre di proclami che parlano di un soggetto considerato di per se stesso debole, bisognoso di tutela e di rappresentanza, e, soprattutto, di un soggetto che porta in solitudine quel potere e quella condanna che è la capacità biologica di fare figli.
Maternità e aborto sono, senza ombra di dubbio, legate a un modello di sessualità penetrativa e generativa, contrassegnata, all’interno del dominio storico dell’uomo, da un carico di violenza materiale e psicologica che non accenna a diminuire neppure in presenza di culture altamente civilizzate.
Come scrisse Carla Lonzi, in uno dei brevi saggi di Rivolta femminile del 1971, «la donna gode di una sessualità esterna alla vagina, dunque tale da poter essere affermata senza rischiare il concepimento. L’uomo sa che il suo orgasmo nella vagina la donna lo accoglie più o meno coinvolta emotivamente e fisiologicamente, sa che in conseguenza di questo la donna può restare incinta…ugualmente l’uomo fa l’amore come un rito della virilità e alla donna accade di restare feconda nel momento stesso in cui le viene sottratto il suo specifico godimento sessuale».
Non ci sono anticoncezionali né politiche famigliari che riescano a impedire a un atto d’amore di trasformarsi nella realtà drammatica di una gravidanza non voluta. Se va salvaguardata la scelta della donna di poterla interrompere senza incorrere in sanzioni penali, non bisogna tuttavia dimenticare la limitatissima libertà che sembra ancora esserci nel rapporto più intimo tra i sessi, sia che essa derivi da antica soggezione, ignoranza del proprio piacere, esitazione a esigerlo da parte femminile, oppure da violenza sessuale manifesta da parte dell’uomo.
Limitarsi ad affermare il primato della donna nella procreazione, il diritto a decidere su una vicenda che trasforma non solo il suo corpo, ma la sua vita intera, tanto più quanto più “naturale” si continua a ritenere la cura materna dei figli (oltre che di mariti, genitori, suoceri, ecc.), vuol dire mettere al centro della scena pubblica, dello Stato e delle sue leggi, i due protagonisti dell’origine, la madre e il figlio, e sfocare fino a farlo sparire in una nuova rimozione quel rapporto uomo-donna che i movimenti femministi del novecento hanno portato faticosamente alla coscienza storica. Ma significa anche, purtroppo, offrire un’occasione facile alla misoginia di ogni tipo, e alle paure infantili più profonde di ogni individuo, per affermare il diritto del bambino a nascere, sulla base di quel gioco di identificazioni che agiscono quasi sempre inconsapevolmente e in modo diverso nella vita di ognuno.
La svolta che le forze conservatrici, incoraggiate e sostenute, non solo nel nostro paese, dal rinnovato interessamento della Chiesa per questioni che spetterebbero allo Stato, persegue in modo esplicito la volontà di affermarsi sul terreno che la cultura laica ha esitato a far proprio, nonostante sia stata in tempi non lontani attraversata da movimenti che ne hanno fatto il centro delle loro pratiche politiche.
Tra i “valori” su cui le destre, cattoliche e ateisticamente devote, intendono impostare la loro campagna elettorale, campeggia, come già si può vedere, il corpo femminile, il suo “naturale” destino di continuazione della specie, di negazione di sé per il bene dell’altro, di cerniera immobile tra la famiglia e la società, di urna domestica depositaria di tutte le virtù che vengono sistematicamente disattese dalla vita pubblica.
Se ci fa orrore e ci riempie di indignazione che i più accesi sostenitori della guerra e della superiorità dell’Occidente siano anche gli zelanti San Cristoforo ansiosi di traghettare neonati fuori dalle infide acque materne, dobbiamo anche chiederci se, opposto e speculare a questo atteggiamento, non sia la difesa a oltranza della donna “vittima”, l’insistenza sulla figura materna e sull’aborto come “questione femminile”, anziché portare l’attenzione, come sarebbe logico, alla forma che ha preso storicamente il rapporto tra i sessi.
Guia Soncini
Il bello è che non ne parla mai chi sa di che cosa si stia parlando. Ne discettano tutti da studiosi, col loro bravo riflesso pavloviano “l’aborto-è-un-dramma”. L’altra sera, a Matrix, l’aborto era un dramma per tutti i dibattenti. Detto da chi difendeva la 194, faceva un po’ tenerezza: una legge che è come un parente un po’ scemo, da difendere pur vergognandosene. A un certo punto è comparsa una signora e ha detto che è inutile continuare a parlare di contraccezione, nei paesi ad alto tasso di contraccezione le donne abortiscono come altrove. Ottimo. Quindi la contraccezione non serve, l’aborto è una tragedia dell’umanità, riproducetevi come coniglie e andate in pace.
Il bello è che non parla mai chi è interessato all’argomento. A dibattere di quel che devi fare se ti accade di aspettare un figlio senza averne alcuna voglia sono sempre uomini senza figli (vescovi e non) e donne ormai al sicuro da quello scivoloso crinale che è l’arco dell’età riproduttiva e che, mi piace pensare, in gioventù abortirono – con dramma interiore, si capisce – e ora ne sono talmente pentite da voler risparmiare a tutte noi questa possibilità. Non si può dire che non siano altruiste. Certo hanno le stesse probabilità di finire in un consultorio a elemosinare Ru486 e a ricevere buoni consigli da quelli che preferiscono la riproduzione (specie se praticata da altri) che ho io, e la somma di queste probabilità è zero.
Il direttore di questo giornale, che ha fatto la sua brava campagna per astenersi dal voto e dalla creazione di embrioni, e l’ha fatta giurando che era orrendamente in malafede chi pensava quella per la fecondazione fosse la prima tappa di una lunga campagna che aveva per obiettivo ultimo l’aborto, ha detto che per carità lui non vuole tornare all’aborto illegale. Pochi secondi dopo ha dichiarato il proprio obiettivo: il numero di aborti effettuati dev’essere portato a zero. Enrico Mentana avrà avuto le sue buone ragioni per non chiedergli come pensi di conciliare le due cose: niente aborti legali, niente aborti illegali… iniezioni obbligatorie di senso materno? Sterilizzazione? Certo non semplice contraccezione, visto che di lì a poco la sua sparring partner ha appunto argomentato che è inutile, le cittadine di quei paesi sciamannati in cui si fa dissennato utilizzo di contraccezione fanno uso altrettanto dissennato di interruzione di gravidanza. Avrò sicuramente capito male, ma mi è sembrato di cogliere il percorso auspicato dal direttore di questo giornale nella sua risposta a una domanda sui volontari del Movimento per la vita. Usando più o meno le stesse parole che di lì a poco, in un servizio, avrebbe usato proprio uno dei volontari in questione, l’uomo che vuole zero aborti legali e zero illegali ha detto che le donne convinte dai volontari pensavano di non volere figli “in un primo momento”, ma “poi sono contente”. Queste sciocchine. Puoi convincerle a cambiare idea sulla loro volontà di fare un figlio con la stessa facilità con cui le puoi convincere a comprare una gonna in saldo. Puoi convincerle a fare un figlio e poi non potranno che esserne contente, è ineluttabile, tutti i genitori amano i figli, si sa, tutti gli esseri umani sono dotati di istinto genitoriale, diamine. La settimana scorsa questo giornale, che quando si tratta di sostenere le proprie idee non va troppo per il sottile, ha pubblicato la lettera dei genitori di Holly Patterson, che due anni fa morì di infezione dopo aver preso la Ru486. Aveva diciassette anni. Io non ho ben capito, ma è sicuramente un limite mio, perché da queste parti ce la si abbia tanto con la Ru486. Ho l’impressione che non sia perché si sta con la salute delle donne invece che con la lobby dei medici, che sia piuttosto un problema di “se devi abortire, che almeno la cosa ti sia di un qualche peso, niente vie brevi e niente anestesia generale, ché devi stare ben sveglia e renderti conto della porcata che stai facendo” – ma sono certa di stare travisando. Dunque c’era questa lettera, in cui i genitori – che avendo scelto all’epoca di generare e non di abortire sono evidentemente persone migliori di me e persino della loro stessa defunta figlia – scrivevano che “Holly non era una ragazza sola, disamata, senza protezione o appoggio”. Quella ragazza amata e appoggiata dai genitori, quell’abitante di una famiglia felice di quelle che si creano solo in una cultura della vita, preferì morire piuttosto che rivelare ai suoi genitori che aveva fatto una cosa turpe come scegliere di non avere un figlio a diciassette anni. Lo so, non bisogna infierire su persone devastate dal dolore. Ma loro per quanto devastati sono vivi, e mi piacerebbe sapere se alla povera Holly, morta di emorragia per non farsi sgridare, avevano insegnato i fondamentali della contraccezione. Aveva diciassette anni, mica sette.
Io ero certamente disattenta. Probabilmente confusa dalla visione dei volontari del Movimento per la vita, impegnata a pensare che “fanatismo religioso” fosse una tautologia, con un calo di concentrazione dovuto all’ora tarda. Perché giurerei che, nel dibattito su Canale5, il direttore di questo giornale abbia detto che “la salute della donna risiede nella sua capacità di generare” – e questo non può essere vero, giusto? Non può averlo detto, dico bene? Non tanto e non solo perché sarebbe troppo sprezzante nei confronti di tutte le donne che scelgano di non generare, perché sancirebbe la figura della donna-come-fattrice- punto. Quanto perché giurerei che, nel corso del dibattito sull’astensione dalla procreazione assistita e dal voto, lo stesso direttore di questo stesso giornale argomentasse che la sterilità non è una malattia che va curata, ma una condizione naturale da accettare come tale. O forse ero distratta anche allora, e ho capito male.
Facciamo finta di essere d’accordo su una premessa: si abortisce a quindici anni, non a trenta. Una donna adulta che non abbia ancora imparato a mandare a quel paese gli uomini che “con il preservativo non mi tira”, gli uomini che “stai tranquilla ci penso io”, e in generale a gestirsi accortamente le poche ore di fertilità che le capitano ogni mese, una donna così è adulta solo formalmente. Le gravidanze indesiderate sono un accidente di gioventù, di quell’età dell’innocenza in cui è ancora lecito pensare che gli uomini preferiscano essere informati della questione e partecipare alla decisione se abortire o procreare, di quel periodo di incertezza in cui è lecito non sapere se un figlio lo si vuole o no, e magari fare conversazione con un volontario può convincerti in un senso o nell’altro. Una donna adulta che – ops – resta incinta per sbaglio, e – ops – credeva di voler abortire ma le si può far cambiare idea come sull’acquisto di un cappotto che tutto sommato non le dona, una donna così è un’idiota. Vanno protette, le idiote, quelle che credono “che all’ottava settimana sia un grumo” e quando vedono l’immagine con le braccine sono così commosse che improvvisamente sono pronte a essere madri? Vanno salvate da loro stesse? E, se sì, è più protettivo nei loro confronti forzarle a riprodursi, mettendo al mondo figli indesiderati (al netto della poetica poi-sei-contenta), o a lasciar perdere, ché la maternità è questione che necessita di un po’ di sale in zucca, e non si capisce perché aprire una salumeria richieda una licenza e prendersi a vita la responsabilità di un altro essere umano neppure richieda un test psicoattitudinale? (Sì, sì: i figli si sono sempre fatti senza tante storie. Sì, sì: torniamo nelle caverne).
Siccome Dio esiste e traccia i palinsesti, a interruzione del dibattito sull’aborto c’era uno spot della Mister Baby: la città pullulava di donne col pancione, e la voce fuori campo spiegava, casomai ce ne fosse bisogno, che da quando ci sono meravigliosi biberon e gadget assortiti della Mister Baby “cresce la voglia di diventare mamma”. Diteglielo, ai volontari, che basta così poco: invece di stordirle di chiacchiere, le gravide, si presentassero con un biberon in omaggio. Le sciocchine si lasceranno convincere.
(Poi c’è la questione del “sostituirsi a Dio” e “chi sei tu per scegliere di dare la vita e la morte?”. Lieta di apprendere che Dio c’è per certo – mica ci si può sostituire a qualcuno che non c’è, no? – provo a rispondere: sono una che può dare la vita, e anche decidere di non darla. Spiacente, è una discussione impari. Magari nella prossima vita sei fortunato, nasci con un utero, ma per ora non puoi praticare nessuna delle due opzioni. Quanto al delirio di onnipotenza, segnalo il caso di scuola del “dare la vita per interposto parto”: la signora della Mangiagalli e l’orgoglio del suo sguardo nel raccontare, fingendo di schermirsi, delle madri che dicono ai neonati “non fosse per questa signora tu non saresti nato”. Poi lo scaricano a lei, il pupo, quando si accorgono di non essere portate per il mestiere di madre?)
Il bello è che non parlano mai quelle che non sono né me né le dibattenti televisive. Quelle che, in caso di bisogno, vanno davvero in un consultorio. Ne parliamo noi, che abbiamo stipendi sufficientemente alti e assicurazioni sanitarie sufficientemente buone da, in caso di bisogno, andare non dal macellaio da ambulatorio mostrato in tv l’altra sera, ma in una qualche serissima casa di cura privata che scriva “raschiamento” sulla cartella clinica. L’abbiamo sempre fatto, perché sulla legalità prevale la comodità, lo faremmo anche se l’aborto fosse illegale. Il rappresentante del Movimento per la vita, osasse questionare sulle nostre decisioni, verrebbe trattato come un rappresentante di aspirapolveri. Ma non se ne darà l’occasione, perché noi dal consultorio non ci passeremo comunque. Non è un nostro problema. E’ un problema delle extracomunitarie, delle pocotenenti, e delle tredicenni. Quelle stesse tredicenni di cui, sempre l’altra sera in tv, un infermiere di un ospedale romano lamentava non usassero il preservativo e poi andassero a chiedere la pillola del giorno dopo. Ecco, io preferirei che qualcuno, magari genitori che si organizzino prima per non piangerne la morte per aborto malfatto dopo, insegnasse loro un paio di banalità sulla contraccezione. A quel punto, potrò anch’io iniziare a scandalizzarmi per le cose veramente importanti, quelle per cui l’altra sera in tv si scandalizzava il direttore di questo giornale: che per l’infermiere la pillola del giorno dopo fosse affare così banale da trattarlo con strascicata cadenza romanesca. A quel punto potremo tutti riguadagnare un po’ di stile, smettendo di sporcarci le mani con una bruta realtà fatta di sangue, sperma, dialetti.
«La legge 194 è una conquista di civiltà». Su aborto, pillola, «volontari» la destra ribolle
No ai «volontari» Forza Italia nel pieno dello scontro sui «volontari» del Movimento per la vita nei consultori. L’Udc accusa la sinistra e Prestigiacomo di «mistificazioni»
Carla Casalini
Le parole di Stefania Prestigiacomo non necessitano delle chiose talora richieste dalle ambiguità, le mezze frasi lasciate cadere dagli esponenti politici. Certo non concede spazio al mellifluo Storace e alle sue pericolose manovre sull’aborto. «La legge 194 rappresenta una conquista di civiltà per le donne», è l’esordio secco della lettera inviata dalla ministra delle Pari opportunità al neoministro della Salute. «E la proposta di avviare una `indagine conoscitiva sullo stato di applicazione della norma’ a fine legislatura, può avere il sapore della battaglia ideologica». Chiarezza cristallina. Ma ci sono le precisazioni – «nessuno vuole modificare la legge, io intendo solo applicarla, e spero di farlo in accordo con le regioni» – che il ministro di An si è affrettato ieri a buttare là a mo’ di polverone, per coprire la manovra in atto contro l’aborto, e Stefania Prestigiacomo anche su questo ha una parola che suona come un avvertimento: «Prendo atto con piacere che tu confermi che non è tua volontà modificare la legge», meglio comunque che fin d’ora ministri e leader del centrodestra sappiano che «dinanzi alle ventilate intenzioni di modifica della 194», il ministero delle Pari opportunità è «tempestato da mail e telefonate di protesta».
Ma la ministra di Forza Italia non si ferma qui: certo, la 194 va «applicata in tutte le sue parti», come sostiene Storace, compreso dunque l’articolo 9 sull’obiezione di coscienza, e però va applicata anche nelle altre parti da «tutte le strutture». Invece: «sono tante le donne che vorrebbero avvalersi della `pillola del giorno dopo’, ma siccome l’acquisto in farmacia richiede la prescrizione medica, in molti casi trovano nei presidi sanitari pubblici medici che avvalendosi, legittimamente, dell’obiezione di coscienza prevista nella 194, si rifiutano di prescriverla». Ma la pillola Ru-86 va presa con urgenza, e ne vanifica l’effetto il ritardo per queste «inadempienze dei presidi pubblici» dove evidentemente mancano medici «non» obiettori, perciò: «Ti vorrei chiedere se questa tua volontà istituzionale e tecnica di verifica della 194 hai intenzione di estenderla anche a questi casi di eventuale violazione della normativa». Né la lettera manca di notare che «i dati di conoscenza» invocati da Storace, il ministero della Salute dovrebbe già averli da un pezzo.
Una presa di posizione, quella di Prestigiacomo, che apre lo scontro dentro la stessa Forza Italia, con Chiara Moroni che minaccia di «incatenarsi da qualche parte», e Margherita Boniver che tocca il tasto delicato «la Cdl perderà voti fra le donne se si identifica in Storace».
Il vicecoordinatore di Fi Cicchitto, tenta una mediazione – «la 194 ha funzionato bene ma non sono contrario alla proposta dell’Udc di una commissione parlamentare di indagine» – ma secco è il suo no sui volontari nei consultori: «lo stesso presidente del Movimento per la vita Carlo Casini ha candidamente ammesso che la loro missione sarebbe quella di impedire gli aborti», si vuole, manipolando i consultori, che le donne «tornino ad abortire clandestinamente»?. Cicchitto chiama poi in causa Berlusconi, magnificandone l’«intuizione» che ha fatto nascere la Cdl «e soprattutto Forza Italia» dall’incontro tra laici e cattolici: pretendere di farle diventare «univocamente» cattoliche sarebbe «un errore culturale e strategico». Tirato in ballo, Silvio Berlusconi va coi piedi di piombo e da Tunisi manda a dire «ne parleremo».
Ma lo scontro nella destra non si placa. L’Udc difende l’introduzione dei «volontari» del Movimento per la vita (ricordandoci gli spettri antichi di un Gedda e dei suoi comitati civici); il segretario Lorenzo Cesa si permette di dire «noi vogliamo aiutare le donne» e accusa insieme Prestigiacomo e «la sinistra» di «mistificazioni». I leader dei Ds, dello Sdi, dei Verdi, Fassino, Boselli, Pecoraro Scanio accusano Storace e la destra di voler mettere la 194 «sul banco degli imputati». Dalla Margherita Franceschini chiede di togliere la discussione dallo scontro politico-elettorale, in sintonia con Oscar Luigi Scalfaro che parla di «polemica sbagliata» (e dalla sponda opposta la Lega, con Calderoli, esprime una posizione simile); anche Mastella preferisce parlarne «dopo le elezioni» ma esprime concordia cona la proposta Udc della commissione d’inchiesta.
Stefania Giorgi
Dalla sua approvazione, anno di grazia 1978, la guerra contro la 194 ha registrato solo brevi armistizi. Nonostante quella legge – tutt’altro che permissiva – fosse figlia di mediazioni e compromessi che rendevano possibile per le donne dell’Italia cattolica l’interruzione di gravidanza solo sotto tutela statale e solo sottoponendosi a un iter lungo non facile e aggravato dal ricorso all’obiezione di coscienza. Mediazione ben lontana dalla proposta di depenalizzazione portata avanti, su posizioni diverse, dai Radicali e da una parte non piccola del movimento femminista. La legge ha retto l’urto del tempo, gli anatemi del Vaticano, i ripensamenti/pentimenti di uomini di sinistra e un referendum, grazie soprattutto a una pratica che è riuscita a superare ostacoli e farraginosità che quel testo contiene. Ed è esattamente quella pratica sotto attacco ora. La nuova strategia è chiara: quella legge “intoccabile” va aggirata. Lasciata apparentemente intatta, ma svuotata dall’interno. Ecco dunque la commissione d’indagine uscita dal cappello dell’Udc che non potrà che tramutarsi in un processo di massa alle donne; ecco il nuovo ossimoro – sinistro come quello della guerra umanitaria – dei “volontari professionali” del Movimento della vita assoldati da Storace e sguinzagliati nei consultori per convertire le donne alla maternità forzosa.
La lotta inesausta della Chiesa contro le donne con a fianco vecchi/nuovi chierichetti disseminati nel centrosinistra e nel centrodestra – ringalluzziti dal vittorioso referendum sulla procreazione assistita – si ammassano nel ventre di questo cavallo di Troia: ripensare le modalità applicative della legge, battere il tasto di quanto non è stato fatto per la tutela della maternità. La prevenzione – affidata ai consultori e presente nella 194 – ben presto è scivolata nella dissuasione cui il testo della legge non fa alcun cenno. Non è difficile immaginare l’esito di una campagna di indagini e dissuasori tutt’altro che occulti: una versione pesantemente riduttiva e autoritaria, penalizzante e umiliante dell’aborto. Un’esperienza – mai semplice, lineare, indolore – che le donne di tutto il mondo, da che mondo è mondo, conoscono e vivono sulla propria pelle. Un attacco che sottintende (la legge 40 docet) un’idea delle donne come creature egoiste e incapaci di decidere da sole se, quando e come essere madri. Esseri deboli e instabili da tenere sotto controllo e tutela per evitare eccessi e sregolatezze.
Sull’aborto, prevenzione e dramma sono le paroline magiche che troppo spesso anche la sinistra continua a tirar fuori dal cassetto per rintuzzare gli attacchi alla libertà femminile. Risposta debole e reticente, incapace di far proprio il principio della scelta femminile, dell’autodeterminazione. Di fidarsi e affidarsi alla responsabilità delle donne italiane che, i dati lo confermano, non ricorrono mai a cuor leggero all’interruzione della gravidanza.
Di fronte a vecchie e nuove alleanze che giocano sul corpo delle donne, alla vigilia del voto di aprile, fra prevenzione/dissuasione, vescovi, crociati dell’embrione, neoconvertiti alla preghiera, imboscati (come è accaduto per il referendum sulla procreazione assistita), è giunta l’ora di pretendere che la libertà delle donne in materia procreativa diventi un punto qualificante dei programmi elettorali. Che chi aspira a diventare nostro governante e legislatore, dica una parola chiara e definitiva su questo. Le donne, responsabilmente, faranno di conseguenza le loro scelte di voto.
Post scriptum della redazione: Stefania Giorgi, i sostenitori della legge 40 non hanno VINTO i referendum, non c’è nessuna vittoria. Ai referendum è mancato il quorum!
Luisa Muraro
Una settimana fa, da Roma dove si teneva l’assemblea (il Sinodo) dei vescovi cattolici, è venuta una notizia che riguarda l’aborto. Leggo dai giornali: “È peccato votare i candidati politici che ammettono leggi a favore dell’aborto”, ha detto il nuovo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (monsignor Levada, il successore di Ratzinger, che è diventato papa). Sostenere leggi favorevoli all’aborto e votare i politici che le sostengono, è un peccato grave che comporta l’esclusione dalla comunione.
In molti paesi (fra cui gli Usa e l’Italia), alla presa di posizione dei vescovi sull’aborto si risponde da parte delle forze laiche con accuse d’ingerenza clericale nella vita politica. Questo tipo di risposta ha dei limiti che vorrei segnalare, per tentare di seguire un’altra strada che è di far intendere all’autorità religiosa il buono che c’è nel nuovo venuto con la fine del patriarcato. La separazione tra la politica e la religione, oltre a non essere universale, ha il limite ulteriore di non essere vera, nel senso che non è primaria, è una separazione importante e va mantenuta, ma è secondaria, introdotta per fare ordine nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra certi poteri e altri poteri, ecc. Nel concreto della vita i sentimenti religiosi o antireligiosi si mescolano con quelli politici, inutile negarlo, lo dice la storia e lo dice la testimonianza interiore. (La storia dice anche che il risultato di queste mescolanze non è univoco, ma, al contrario, molto e molto vario.)
Passo così alla cosa che più m’interessa, e cioè che i commenti sia favorevoli sia contrari alla presa di posizione dei vescovi, hanno dato per scontata che questa colpiva (anche) la legge 194 della nostra legislazione, che regolamenta la pratica dell’aborto. Ma è sbagliato, perchè la legge 194 non è abortista e non è opera di legislatori abortisti, basta leggerla per rendersene conto. I politici che la hanno votata e quelli che oggi la difendono, per questo semplice fatto non sono degli abortisti. (Potrebbero esserlo per altri aspetti, ma è tutto da vedere.) La lettura della legge mostra infatti che essa fu scritta e approvata dal Parlamento per tutelare la salute delle donne. La legge, infatti, non autorizza l’aborto, al contrario condiziona la sua pratica a certi limiti, fra cui l’obbligo di rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica. Oltre a questo, essa mira a diffondere la cultura preventiva delle gravidanze indesiderate, che portano spesso le donne alla decisione di abortire. Tant’è vero che l’introduzione della legge 194 non avrebbe portato ad un aumento degli aborti ma, al contrario, oltre a renderli meno pericolosi per la salute delle donne, essa avrebbe contribuito a limitarne il numero.
Sto dicendo cose già dette e provate. Le richiamo per impedire che la presa di posizione dei vescovi prenda un significato abusivo, entrando nel discorso politico contingente. C’è una competenza di valutazione della realtà di questo mondo che non è dei vescovi, ma dei laici, come ha insegnato Montini, da prete, da vescovo e da papa (Paolo VI). Una donna come me, simile a tante altre che hanno riflettuto a lungo sull’aborto, è in posizione per conoscere il senso di quella legge meglio di qualsiasi vescovo. Non ero una sostenitrice della 194, devo dire, ero infatti per la semplice depenalizzazione dell’aborto, ma anche da questa posizione critica vedo il valore di quella legge e dico, con la necessaria autorità, che non è una legge abortista, al contrario.
Non deve ripetersi l’errore del card. Ruini nei confronti di Prodi impegnato a disegnare, con i Pacs, una risposta sensata e praticabile alla domanda di riconoscimento che viene dalle coppie che non possono accedere al matrimonio. L’errore di Ruini viene da una certa prevaricazione, non rara in quell’uomo. Se però vogliamo che la competenza e l’autorità di coloro – noi – che si misurano anima e corpo con le cose di questo mondo, valgano nella mente dei vescovi o di altri capi religiosi, facciamole valere anche nella nostra. Non difendiamoci dal clericalismo con la separazione Stato-Chiesa, questo voglio dire, ma con la dimostrazione del vero e del giusto.
Marina Terragni
Al direttore – Quando sento parlare di aborto nel modo in cui se ne sta parlando,mi chiedo: ma sanno davvero di che cosa si tratta? Anch’io non lo sapevo. Poi un giorno l’ho saputo. Per me – non per tutte sarà andata così – è stato l’imprinting del senso di morte. Tutte le volte che in seguit oho incontrato la morte somigliava a quella prima esperienza: il risveglio allegro della città alle sei del mattino (era ancora un tempo in cui le città erano molto allegre), il profumo del caffè e brioche nei bar, la mia amica che mangiava con appetito e senza nausee prima di accompagnarmi in macchina all’ospedale, il vuoto del digiuno pre-anestesia nel mio stomaco. Per me la morte, in seguito, è stata per sempre quello stesso vuoto nauseato, quel sentimento tenace e appiccicoso che ci si mette molto, il tempo giusto del lutto, a scrollarsi di dosso per tornare a vivere. La legge 194 era appena passata, io ero una ragazza di sinistra e avrei avuto tutte le possibilità di ideologizzare difensivamente l’evento. O per banalizzarlo, come si direbbe oggi. L’operazione a me non è riuscita. Non penso che l’aborto sia banalizzabile. Per l’inconscio non lo è mai. Per l’io cosciente forse un po’ di più, le difese esistono. Non penso che sarebbe banalizzabile neppure se bastasse uno schiocco di dita o un tocco pranoterapeutico. Ma a maggior ragione non è banalizzabile quando richiede, come nel caso della Ru486, un paio di giorni di visite e manovre, e la terribilità dell’attesa solitaria dei dolori e del sanguinamento facendo zapping davanti alla tv. Io, oggi dovessi scegliere,sceglierei ancora il Karman: un po’di sedazione e di anestetico locale, cinque minuti, un dolore acuto e poi è finita, almeno la parte brutalmente fisica della questione. A me pare anzi che la Ru486 tenga la coscienza più vigile sulla cosa. Insopportabilmente e inutilmente vigile, a mio parere: perché quando ti succede non vuoi sapere, non c’è proprio niente da sapere, vuoi solo piangere un po’ per lavare via tutto, aspettare le nuove mestruazionie voltare pagina. Una proporzionalità che non esiste ma ammettiamo pure che la Ru486 renda l’aborto “più leggero”. Non per questo le donne abortiranno di più. Si potrebbe allora orribilmente sostenere che renderlo “più pesante”, tornare al vecchio raschiamento senza anestesia e magari senza cautele sanitarie, potrebbe far diminuire il numero degli aborti. Tutte le donne morte per “appendicite”, come si diceva pudicamente una volta, stanno a dimostrare che anche quando l’aborto era pesante, faceva male e magari ti uccideva per emorragia o setticemia, le donne abortivano. Non è aumentando il male che gli aborti diminuiranno, né diminuendolo che gli aborti aumenteranno. Questa proporzionalità inversa non esiste, ed è molto crudele nei confronti delle donne, perché il pensiero sotteso è che l’aborto è un vizio o un lusso di cui, se ne aumenti il prezzo, si dovrà fare a meno, come la benzina e le sigarette, e, peggio ancora, che i figli sono una punizione e una privazione che accetti di infliggerti solo per evitare un male più grande. Be’, piantiamola. Il male e il danno devono essere ridotti, ogni volta che si può. E’ uno dei principi politici a cui mi sento più affezionata. Il male dell’aborto deve diminuire, e anche il numero degli aborti deve diminuire, e le due cose vanno insieme, non sono l’una il contrario dell’altra.La coscienza deve aumentare e non sarà l’aumento del dolore fisico e nessun’altra strategia sadica a farla crescere. E qui sono costretta a essere banale, dicendo che c’è ancora un gran lavoro di decolpevolizzazione da condurre sulla contraccezione. Contraccezione, a me non piace la contraccezione, personalmente la detesto, specialmente quella ormonale. Ma anche qui, si tratta di mettersi dal punto di vista di una riduzione del danno. Non viviamo in un mondo in cui i figli possono venire quando e quanto vogliono, e sarebbe un gran bel mondo, e questo giornale ha dato avvio a una bella e sacrosanta battaglia perché questo possa succedere sempre di più, e mi sembra una delle battaglie politiche più rilevanti di questi anni. Ma stare tra l’obbligo morale della contraccezione e il divieto morale della contraccezione è come stare tra Scilla e Cariddi. Le donne diventano il terminale di un conflitto che nell’aborto ha fatalmente il suo exitus. Si abortirà di meno solo quando cesserà il proibizionismo sui figli, quando il mondo si ricalibrerà sulla nascita, quando la differenza femminile sarà autorizzata e benvoluta e non più costretta a cancellarsi nell’emancipazione. C’è un gran lavoro da fare, come si può capire. Nel frattempo la contraccezione può dare una mano. E vietare la Ru486, se è vero, come credo, che può ridurre il danno e il male, o quanto meno costituire per molte un’alternativa preferibile all’aborto chirurgico, sarebbe solo ideologia. Io qui, come hanno fatto anche Paola Tavella e Alessandra di Pietro, ho parlato un poco di me, ho radicato nelle cose della mia vita le riflessioni che ho proposto. Oggi sono interessata a parlarne con gli uomini, anche con i molti uomini che nella loro vita hanno obbligato le donne ad abortire, aborto “leggero” o “pesante” che fosse: statisticamente un buon numero di gravidanze interrotte si deve al rifiuto o all’abbandono maschile. Ma di outing non ne ho sentito uno. Che si tratti di figli, di amore o di violenza, nella testa degli uomini la verità della vita resta tenacemente distinta dalla neutralità della teoria politica o morale. Per ridurre il numero degli aborti, bisogna invece anche che i maschi accettino di rischiare, e comincino a parlare di questa faccenda, come di molte altre faccende, in questo modo.
di Luisa Muraro
“L’aborto, una risposta violenta e mortifera” (documento femminista del 1975)
Quelle e quelli che parlano di un ripensamento femminista sull’aborto (e che poi lamentano che non abbiamo il coraggio di sostenerlo), rispetto alle posizioni degli anni Settanta, fanno un madornale errore: confondono la battaglia impostata dai radicali (fra i quali spiccava Emma Bonino) per il diritto d’aborto, con il movimento femminista, che non aveva questa impostazione individualistica e liberistica. Non c’è dubbio che la battaglia dei radicali sia stata sostenuta anche da molte femministe, specialmente a Roma, ma, primo, ciò non vuol dire che quelle femministe ne condividessero l’ideologia, secondo, il pensiero politico femminista, quando si è espresso con documenti suoi, non era d’accordo perché vedeva nell’aborto, legale o illegale che fosse, una conseguenza di una sessualità femminile subordinata a quella maschile e lavorava intanto perché la questione trovasse risposta in una più ampia concezione della libertà femminile. Cito da un documento del 1971: “Una procreazione coatta e ripetitiva ha consegnato la specie femminile nelle mani dell’uomo di cui ha costituito la prima base di potere. Ma oggi anche una procreazione ‘per libera scelta’, quale contenuto liberatorio può avere in un mondo dove la cultura incarna esclusivamente il punto di vista maschile sull’esistenza?” (Rivolta femminile). E da un documento del 1973: “Per gli uomini l’aborto è questione di legge, di scienza, di morale, per noi donne è questione di violenza e sofferenza. Mentre chiediamo l’abrogazione di tutte le leggi punitive dell’aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri nostri problemi, dalla sessualità, maternità, socializzazione dei bambini, ecc.” (Collettivo di Via Cherubini). Lo stesso collettivo, in un documento del 1975, intitolato “Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso” (sottinteso: da quello che fanno i radicali con le manifestazioni di piazza), scriverà che “l’aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà perchè è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e, per di più, colpevolizza ulteriormente il corpo della donna”. Smetto di citare; per un racconto più dettagliato si può leggere il capitolo secondo di Non credere di avere dei diritti della Libreria delle donne di Milano (Rosenberg e Sellier, 1987, 1998). Può bastare, credo, a far capire il senso della reazione di molte femministe alla tesi del “ripensamento”: nessuna di noi nega che, con i cambiamenti di cultura in corso, possa esserci e anzi debba esserci un arricchimento del pensiero femminista. Ma nel senso di una ripresa e di un approfondimento, unicamente.
C’è un problema a monte di questo fasullo “ripensamento”, che forse è venuto il momento di affrontare. Ed è che il pensiero politico delle donne ha interessato – ed è stato registrato, dalla cultura ufficiale, sia politica sia giornalistica – nella misura in cui stava dentro al quadro che questa cultura aveva già presente. Dicevamo: l’aborto esorbita dalle cose che il diritto può regolare, per tutto quello che chiama in causa della sessualità umana e per tutto quello che significa nell’esperienza femminile. Ma questa posizione non interessava né i sostenitori di una legge sull’aborto né il fronte contrapposto dei sostenitori di una legge contro l’aborto. E così si è continuato a discutere a forza di contrapposizioni e con ripetute semplificazioni, attraverso gli anni Ottanta e Novanta. Adesso, quelle nostre parole sull’aborto “risposta violenta e mortifera”, che ho dissepolto dall’ignoranza storica dei più, tornerebbero buone, buonissime, ad alcuni di questi più, ma solo per usarle dentro un altro schieramento, e siamo daccapo con l’operazione di tacitare esperienza e pensiero di donne.
Dicendo questo, rovescio in parte la posizione di Lucetta Scaraffia (sul Corriere della sera del 6 febbraio): secondo lei ci sarebbe stato un conformismo della parola pubblica femminista che ha occultato la complessità del pensiero che certo gruppi portavano avanti. A me risulta che l’opera di semplificazione non sia venuta dal femminismo, ma al contrario da chi del femminismo conosceva poco e capiva meno ancora. A me risulta, per esempio, che gli intellettuali, con qualche eccezione, gli hanno prestato scarsa attenzione, che i giornali e la televisione lo hanno divulgato secondo stereotipi pigri e qualche volta stupidi, e che la politica ufficiale, quella delle scadenze elettorali, lo ha assimilato in una versione semplificata e direi quasi mutilata.
È successo così che è mancato, alla cultura politica generale, un incontro e confronto fecondo con il pensiero che il movimento delle donne ha prodotto. Per tre quarti, lo dico senza esagerare, è una questione di linguaggio: quello che le donne hanno da dire a questo tipo di civiltà, e che, bene o male, hanno cominciato a dire, sporge fuori dai suoi quadri. E non si può scrivere sugli striscioni, come vorrebbe una simpatica giornalista del Foglio: bisogna farsi l’orecchio per intenderlo. Non si dimentichi che, se noi femministe abbiamo detto qualcosa, lo abbiamo potuto dire grazie ad un ascolto fine di noi stesse e delle altre. E che molto resta nel silenzio. Ora ci chiediamo, e da almeno vent’anni cerchiamo risposte, se e come quella capacità di ascolto e quel qualcosa che siamo riuscite a formulare, possano diventare un’eredità per le nuove generazioni, che rischiano altrimenti di ereditare il femminismo ultrasemplificato che sta dentro al quadro del consumismo e delle “facilità” di una società opulenta.
Il dibattito in corso può essere visto come il segnale che qualcosa sta cambiando? Sì, mi sento di rispondere, purchè migliori nettamente la qualità dell’ascolto degli uomini nei confronti della parola delle donne: la parola delle femministe, per cominciare, ma anche quella più corrente delle donne che essi incontrano nei luoghi della vita lavorativa e familiare. Siamo ancora distanti da ciò. Un esempio? Nell’intervista sul Corriere della sera del 10 febbraio, l’on. Martinazzoli, che ha fama di attento e riflessivo, ha creduto di leggere un ripensamento femminista sull’aborto (“non un’abiura, ma più prudenza, più dubbi”), che è parecchio distante da quello che è venuto invece fuori dal dibattito, il presunto ripensamento essendo comunque moneta buona, per lui, da spendere nella prossima campagna referendaria.
Torna insomma ad agire il quadro dentro il quale dovremmo esprimerci per esserci e contare, lasciando fuori un certo numero di “cose”. Fuori dal quadro del “pensiero cattolico”, per esempio, restano quelle femministe cattoliche che hanno parlato e scritto in favore della legge 194. Fuori dal quadro resta, per fare un altro esempio, il fatto che alcune femministe si sono espresse contro il ricorso allo strumento referendario per cambiare o migliorare l’attuale legge sulla procreazione assistita. Fuori dal quadro resta la nostra consapevolezza che in queste materie la macchina politica degli schieramenti contrapposti è deleteria. Fuori dal quadro restano le pratiche che abbiamo inventato. Fuori dal quadro continua in sostanza a restare la differenza femminile.
(libreriadelledonne.it, 12 febbraio 2005)
In mezzo a tante domande e polemiche circa le sue origini, quello che sappiamo per certo è che, per venire a questo mondo, deve passare da una donna.
È bene che ci poniamo anche noi, comuni mortali, gli interrogativi che vengono da una ricerca scientifica che avanza a modo suo (umanamente limitato, oltre che squilibrato dagli enormi interessi economici che ci sono di mezzo) sui confini della vita. Bene anche che si voglia ascoltare quello che hanno da dire “le femministe”, alle quali si chiede, con un’impazienza insolita, di prendere posizione. Purchè si ascolti davvero, mi limito ad aggiungere.
Io prendo la parola per dire una cosa soltanto, che si riferisce al pensiero femminista che ha accompagnato il dibattito intorno alla legge istitutiva e al referendum abrogativo dell’aborto, negli anni Settanta. Sembra a qualcuna che fu un pensiero rozzo, giudicato alla luce della nostra odierna sensibilità, s’intende. Altre sono intervenute a precisare che non è vero e che l’unica rozzezza, semmai, è in una certa ricostruzione del passato. Sono d’accordo con queste ultime, accettando però la sfida di un confronto sul tema di fondo, che è la cultura della vita, ieri e oggi.
Su questo tema il pensiero femminista ha dato un contributo che, a mio giudizio, resta valido anche oggi e che può estendersi, con le necessarie mediazioni, anche ai temi più recenti della procreazione assistita e della ricerca scientifica sulle cellule staminali. Non si tratta di una risposta, ma di un criterio, che però nelle cose umane, sempre relative e sempre in tensione fra gli estremi assoluti, ha il valore di un principio. Dirò “noi” facendo riferimento a quelle con cui ero in contatto, che vuol dire – nel movimento in espansione del pensiero attraverso una rete vastissima di rapporti – migliaia di donne e più ancora, molte più ancora, fuori dal numerabile.
Noi dunque, in quegli anni ci siamo regolate, in primo luogo facendo tacere le ideologie e ascoltando le donne (noi stesse, in primis) in carne ed ossa, comportamenti, sentimenti, paure, desideri, vergogne, aspirazioni… Da questa pratica siamo arrivate alla conclusione che la cosa migliore sia regolarsi in tutto seguendo un semplice criterio e cioè che la vita umana, vita di un essere senziente ma anche parlante, desiderante ma anche capace di regolarsi, ecc., questa vita arriva a questo mondo passando necessariamente attraverso l’accettazione di una donna che la accoglie, la coltiva per consegnarla al resto dell’umanità, rappresentata di solito da un gruppo sociale, e in primo luogo, se in questa vicenda lei ha avuto un compagno, a lui che, nelle nostre culture, è di solito il padre della nuova creatura. Non siamo ancora nella sfera dei diritti-doveri, che viene dopo, tant’è che noi, diversamente dai radicali, non abbiamo parlato di un diritto all’aborto e che, in campo legislativo, quello che abbiamo chiesto è stata la sua depenalizzazione.
Il passaggio della libera accettazione di una donna, noi lo abbiamo sentito come un criterio regolatore che esonera da domande del tipo oggi corrente e così fuorvianti, come “ma l’embrione è vita umana?”. Ma attenzione che questo criterio vale come un principio, perché più a monte c’è altro, sì, ma non si può andare ad indagare saltando quel passaggio, pena la caduta in quella mostruosità che la cultura medico-scientifica, lasciata da sola, ha conosciuto e può tornare a conoscere, non dimentichiamolo.
Vuol dire che, stando a questo criterio, si eviteranno sbagli, disordini e sofferenze ingiuste? Oh no, ci saranno abusi, ci sono stati, non faccio l’elenco perché li conosciamo, ma due cose vorrei aggiungere: primo, che finora, da parte femminile questi abusi non sono stati molti né gravi; secondo, che i criteri umani non sono mai automatici e proprio nella loro fragilità ci invitano a prendere la strada più sicura, che non è una legislazione capillare ma una buona, sobria legislazione integrata da usi e costumi civili e da relazioni sociali non strumentali, insomma da quella che molte abbiamo imparato a chiamare politica prima. In ogni caso, la lotta contro gli abusi in questo campo, secondo me comincerà a dare risultati nel momento in cui quel criterio che è più di un criterio, quel principio che non è un principio, sarà entrato nella nostra civiltà, definitivamente. Siamo ancora molto lontani da ciò, non c’è dubbio che molta scienza resta opera di uomini che sono in concorrenza rivale con le prerogative femminili nel campo della vita.
Immagine di Bibi Tomasi, Archivio Libreria delle donne di Milano
Luisa Muraro
È bene che ci poniamo anche noi, comuni mortali, gli interrogativi che vengono da una ricerca scientifica che avanza a modo suo (umanamente limitato, oltre che squilibrato dagli enormi interessi economici che ci sono di mezzo) sui confini della vita. Bene anche che si voglia ascoltare quello che hanno da dire “le femministe”, alle quali si chiede, con un’impazienza insolita, di prendere posizione. Purchè si ascolti davvero, mi limito ad aggiungere.
Io prendo la parola per dire una cosa soltanto, che si riferisce al pensiero femminista che ha accompagnato il dibattito intorno alla legge istitutiva e al referendum abrogativo dell’aborto, negli anni Settanta. Sembra a qualcuna che fu un pensiero rozzo, giudicato alla luce della nostra odierna sensibilità, s’intende. Altre sono intervenute a precisare che non è vero e che l’unica rozzezza, semmai, è in una certa ricostruzione del passato. Sono d’accordo con queste ultime, accettando però la sfida di un confronto sul tema di fondo, che è la cultura della vita, ieri e oggi.
Su questo tema il pensiero femminista ha dato un contributo che, a mio giudizio, resta valido anche oggi e che può estendersi, con le necessarie mediazioni, anche ai temi più recenti della procreazione assistita e della ricerca scientifica sulle cellule staminali. Non si tratta di una risposta, ma di un criterio, che però nelle cose umane, sempre relative e sempre in tensione fra gli estremi assoluti, ha il valore di un principio. Dirò “noi” facendo riferimento a quelle con cui ero in contatto, che vuol dire – nel movimento in espansione del pensiero attraverso una rete vastissima di rapporti – migliaia di donne e più ancora, molte più ancora, fuori dal numerabile.
Noi dunque, in quegli anni ci siamo regolate, in primo luogo facendo tacere le ideologie e ascoltando le donne (noi stesse, in primis) in carne ed ossa, comportamenti, sentimenti, paure, desideri, vergogne, aspirazioni… Da questa pratica siamo arrivate alla conclusione che la cosa migliore sia regolarsi in tutto seguendo un semplice criterio e cioè che la vita umana, vita di un essere senziente ma anche parlante, desiderante ma anche capace di regolarsi, ecc., questa vita arriva a questo mondo passando necessariamente attraverso l’accettazione di una donna che la accoglie, la coltiva per consegnarla al resto dell’umanità, rappresentata di solito da un gruppo sociale, e in primo luogo, se in questa vicenda lei ha avuto un compagno, a lui che, nelle nostre culture, è di solito il padre della nuova creatura. Non siamo ancora nella sfera dei diritti-doveri, che viene dopo, tant’è che noi, diversamente dai radicali, non abbiamo parlato di un diritto all’aborto e che, in campo legislativo, quello che abbiamo chiesto è stata la sua depenalizzazione.
Il passaggio della libera accettazione di una donna, noi lo abbiamo sentito come un criterio regolatore che esonera da domande del tipo oggi corrente e così fuorvianti, come “ma l’embrione è vita umana?”. Ma attenzione che questo criterio vale come un principio, perché più a monte c’è altro, sì, ma non si può andare ad indagare saltando quel passaggio, pena la caduta in quella mostruosità che la cultura medico-scientifica, lasciata da sola, ha conosciuto e può tornare a conoscere, non dimentichiamolo.
Vuol dire che, stando a questo criterio, si eviteranno sbagli, disordini e sofferenze ingiuste? Oh no, ci saranno abusi, ci sono stati, non faccio l’elenco perché li conosciamo, ma due cose vorrei aggiungere: primo, che finora, da parte femminile questi abusi non sono stati molti né gravi; secondo, che i criteri umani non sono mai automatici e proprio nella loro fragilità ci invitano a prendere la strada più sicura, che non è una legislazione capillare ma una buona, sobria legislazione integrata da usi e costumi civili e da relazioni sociali non strumentali, insomma da quella che molte abbiamo imparato a chiamare politica prima. In ogni caso, la lotta contro gli abusi in questo campo, secondo me comincerà a dare risultati nel momento in cui quel criterio che è più di un criterio, quel principio che non è un principio, sarà entrato nella nostra civiltà, definitivamente. Siamo ancora molto lontani da ciò, non c’è dubbio che molta scienza resta opera di uomini che sono in concorrenza rivale con le prerogative femminili nel campo della vita.
Giovanni Valentini
Qualunque ne sia la causa, sembra legittima la questione se in una società forgiata secondo i paradigmi della deregulation, imposti per ogni dove dai media, possano funzionare condizioni minime per lo sviluppo di una cultura del limite etico, dunque della norma anche in ambiti futuristi, come l´ingegneria genetica, la biologia embrionale, l´impatto psichico e politico dei media di massa.
(da “Benedetto XVI – Un successore al crocevia” di Giancarlo Zizola – Sperling & Kupfer Editori, 2005 – pag. 362).
Non c´è bisogno di arruolarsi nelle file dei teo-con, di abbonarsi al Foglio di Giuliano Ferrara e neppure di convertirsi improvvisamente al cristianesimo, per essere contrari all´aborto. Laici o cattolici, credenti o non credenti, siamo tutti contro l´aborto, contro la cosiddetta “cultura della morte”. E siamo, o almeno dovremmo essere, tutti favorevoli alla difesa della vita, al rispetto della persona umana e in particolare della donna: tanto più davanti all´immagine sacra del bambino nella mangiatoia, in attesa dell´Epifania.
Ma proprio perciò siamo contro l´aborto clandestino, una piaga sociale che minaccia tuttora la salute e la condizione femminile. E quindi, contro l´aborto inteso e applicato come mezzo di contraccezione o di controllo delle nascite. Non era questo – nel lontano ‘78 della Prima Repubblica – l´obiettivo della legge 194 sull´interruzione di gravidanza, di quanti l´approvarono in Parlamento e di quanti, laici o cattolici, la sostennero nell´opinione pubblica. Non è e non può essere questo l´intento di chi, a trent´anni di distanza, difende quella legge come una conquista civile.
Si faccia pure, allora, l´indagine parlamentare voluta dal presidente della Camera Casini e dal ministro Storace, per verificare se la 194 ha bisogno di essere corretta, integrata o aggiornata. Per la gran parte dei medici e degli esperti, è una delle poche leggi italiane che ha funzionato bene. Ma l´argomento comunque è troppo delicato e importante per essere sottoposto a strumentalizzazioni elettorali o propagandistiche, da una parte e dall´altra.
Vedremo a tempo debito quale sarà l´esito dell´indagine e giudicheremo di conseguenza. Per il momento, però, su un punto sarebbe opportuno che convergessero tutti, cattolici e laici: e cioè sulla necessità di prevenire l´aborto, proprio per farne a meno, per evitarlo nel maggior numero possibile di casi, per ridurlo a un´eccezione sempre più rara. Se è vero che si ricorre all´aborto in condizioni estreme di necessità, cerchiamo di impedire che si arrivi fino a questo punto. E se anche risultasse che a volte l´aborto è servito o serve a interrompere gravidanze indesiderate, a maggior ragione occorre contrastarlo in anticipo, risalendo all´origine del problema.
“Lo Stato – si legge nell´articolo 1 della legge 194 – garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”. La stessa Chiesa cattolica predica opportunamente la “procreazione responsabile”. Come si fa, dunque, a renderla effettivamente tale, a favorire la massima responsabilità nel concepimento, ad aiutare soprattutto i più giovani, i più poveri e i più sprovveduti a procreare in modo responsabile?
Lo strumento privilegiato non può che essere l´informazione: cioè l´educazione sessuale e quindi la contraccezione, attraverso la diffusione di quella “cultura del rispetto” che l´ex ministro della Salute e oncologo di fama internazionale, Umberto Veronesi, auspica in un recente intervento pubblicato su un settimanale familiare come Oggi. Per procreare responsabilmente, dunque, bisogna essere innanzitutto informati ed educati fin dall´età scolastica. Questa è la più grande “campagna etica”, afferma Veronesi con la coscienza di chi ha messo al mondo sei figli, che si può lanciare contro l´aborto, in difesa della vita e della famiglia, “pilastro fondamentale della società” come giustamente l´ha definita ancora ieri il Papa.
La controprova è nelle statistiche sulle interruzioni di gravidanza che hanno registrato un trend continuamente in discesa. Nel 1982 gli aborti volontari furono 240 mila; nel 2004 si sono dimezzati, scendendo a 120 mila. Da allora a oggi, la consapevolezza delle donne è certamente cresciuta, mentre l´uso della pillola anticoncezionale è passato dal 6 al 20 per cento. Una maggiore informazione, insomma, ha favorito quella “procreazione cosciente e responsabile” che la legge del ‘78 contemplava nel suo primo articolo.
Di questi dati, dovrebbe tener conto anche la Chiesa per adeguare una dottrina morale che – secondo alcune inchieste prodotte dall´interno dello stesso mondo cattolico – proprio a causa della sua impraticabilità tende ad allontanare le coppie dei fedeli dalla frequentazione dei sacramenti. E´ noto, del resto, che nella pratica quotidiana molti confessori preferiscono assolvere i loro penitenti quando ammettono di aver usato la pillola o il profilattico nei rapporti matrimoniali, distinguendo l´atto sessuale dall´atto procreativo. E così questi sacerdoti contribuiscono a combattere l´aborto e spesso anche a salvare l´istituzione della famiglia: meglio un figlio non concepito che un “figlio del peccato”, concepito per caso o per sbaglio e quindi non voluto.
“Nell´educazione della gioventù e nella pastorale – ricorda Giancarlo Zizola nel suo libro citato all´inizio – la Chiesa esercitava un ruolo di disciplinamento della sessualità, mediante campagne sulla purezza, l´uso non di rado intrusivo della confessione sacramentale, la direzione spirituale, la separazione fra i sessi nelle associazioni cattoliche e negli istituti scolastici dipendenti dalla Chiesa, la proibizione dei rapporti prematrimoniali, la lotta al ballo e alla masturbazione, la censura cinematografica, accanita contro baci e licenze sessuali, una morale precettistica, persino occhiuta sulle misure delle braccia e gambe scoperte delle donne in chiesa, oggetto talora di lettere pastorali severe”. E lo stesso autore aggiunge: “Il sesso si lasciava facilmente considerare, insomma, come strumento di eterodirezione, di segno generalmente repressivo, da parte del clero celibatario sul gregge; il veicolo di un controllo sociale che assicurava alla Chiesa, quasi senza competitori, il rango di una grande agenzia morale per la stabilità dell´ordine pubblico”.
E´ così ancora oggi? Può essere così nella società della comunicazione di massa, sottoposta nel bene e nel male al bombardamento mediatico? O non sarebbe meglio, piuttosto, affrontare la sfida sul piano dei valori, della libertà individuale, della coscienza, della scelta responsabile?
Combattiamo allora tutti insieme l´aborto, laici e cattolici, senza scatenare guerre di religione che evocherebbero fantasmi del passato. Difendiamo la vita, credenti e non credenti, in nome di quel destino comune che unisce tutto il genere umano. E infine, evitiamo di strumentalizzare a scopi elettorali una grande questione di civiltà.
Maria Luisa Boccia
I segnali di una grande e diffusa insofferenza femminile rispetto all’ennesima offensiva sull’aborto sono molti; da quelli direttamente politici, le tante e affollate riunioni nel paese alle reazioni personali. La manifestazione del 14 gennaio a Milano, riunendo corpi e voci plurali, sarà una messa in scena teatrale di questa insofferenza, come l’ha definita Rosetta Stella alla Casa internazionale delle donne di Roma.
Prima e dopo c’è la politica, la tessitura di un discorso e di un percorso tra donne differenti, per esperienze, per pratiche, per saperi, ma che concordano sull’essenziale: contrastare la pretesa di controllare il corpo femminile, dettando norme, etiche e giuridiche, in nome di principi e valori assoluti. In realtà gli antiabortisti sono i primi a sapere che non vi è modo di sottrarre la decisione alla donna, nell’esperienza prima che nella legge. Il loro intento è quello di stravolgerne il significato: negando autorità politica alla parola femminile, svilendo la responsabilità della singola donna, rendendo più onerosa e condizionata la sua scelta.
E’ evidente che il conflitto più aspro è quello sull’autorità politica della parola femminile. Perché tra gli anni ’70 e l’oggi non c’è stato affatto silenzio. Al contrario. Se all’invito “usciamo dal silenzio ” abbiamo risposto in molte, riempiendo da un giorno all’altro spontaneamente le sale, è perché in questi anni, abbiamo continuato a fare politica tra donne, giovani e meno giovani, femministe e non, mettendo in parola l’esperienza femminile, cambiando noi stesse e i rapporti privati e pubblici. Il problema, allora, non è il nostro silenzio, ma quello altrui su questa politica. Silenzio di uomini su come e cosa è cambiato anche per loro; silenzio delle istituzioni, dei media, della cultura su questi cambiamenti, e su come debbano, quindi, mutare i temi, le priorità e i modi della politica, per non scollarsi dalla realtà.
E’ un silenzio non innocente, poiché rovescia su noi donne la crisi di autorità maschile, inevitabile conseguenza della nostra sempre più forte e diffusa autonomia. Per romperlo non serve visibilità, come spesso sento dire nelle nostre riunioni. La rappresentazione pubblica della nostra insofferenza, per me benvenuta, potrà soltanto interromperlo. Molto di più ci servirà, come ha scritto Lea Melandri su Liberazione (18 dicembre), consolidare i rapporti politici “tra le realtà diverse in cui le donne si trovano a vivere”, per “operare da qui in avanti insieme e separate”. Abbiamo iniziato a farlo in occasione dei referendum sulla legge 40 e le molte iniziative di questo periodo sono anche effetto di quel lavoro.
Molte di noi avevano facilmente previsto che la sconfitta nel referendum avrebbe portato ad una nuova, più arrogante, offensiva sull’aborto. In quell’occasione abbiamo preso parola contro una legge proibizionista.
Ma ci siamo anche opposte all’appello a valori astratti: da un lato la libertà della ricerca scientifica ed il progresso dello sviluppo tecnologico, dall’altro la sacralità del concepito e del legame biologico a fondamento della famiglia. Sono convinta che questa contrapposizione era distante dalle domande di donne ed uomini, e dunque abbia favorito l’astensione dal voto. Per contrastare il proibizionismo della legge 40 c’era e c’è bisogno di un discorso critico sulle tecnologie. Infatti il paradosso di questa legge è che assume in pieno, legittimandolo, il nocciolo essenziale del discorso scientifico-tecnologico, quello del riduzionismo biologico. E’ in nome di una verità biologica, scientificamente accertata, che vengono affermati i diritti del concepito: alla vita, all’identità genetica, ai genitori biologici. Ed è su questo che si è avuta la convergenza sulla tutela della Vita fin dal suo inizio; la stessa Chiesa cattolica ha adottato argomenti scientifici più che teologici, nei quali potessero riconoscersi laici e cattolici, di destra o di sinistra, con l’intento di allargare lo schieramento politico proibizionista.
In realtà il dibattito sulla Vita ed i diritti del concepito non è affatto nuovo, si ripropone identico da quando si è posta la questione dell’aborto. Il fatto nuovo è che il concepimento avviene fuori dal corpo femminile. Poiché l’embrione in provetta appare del tutto autonomo dalla donna, su questa apparente autonomia si fa leva per dare un fondamento oggettivo alla tesi che vi è persona etica e giuridica fin dal concepimento. Con la conseguenza inevitabile di negare la libertà e responsabilità femminile, nell’aborto come nella fecondazione assistita. Poiché è suo il corpo, suo il desiderio, non può che essere lei a decidere se accettare o no un concepimento come inizio, non solo biologico, di un essere umano. Questo è il nocciolo, etico e politico che lega la riflessione femminista degli anni ’70 sull’aborto a quella più recente sulle tecnologie riproduttive.
Se la legge sulla fecondazione assistita configura un vero e proprio dovere di maternità, sottoponendo la donna ad interventi invasivi e obbligati, per fare di ogni concepimento una nascita, riguardo all’aborto, caduto il divieto penale, si afferma da più parti che il vero scopo della legge 194, fino ad oggi disatteso, è dare valore alla maternità. Chi sostiene questa posizione nega che possa trattarsi di una scelta consapevole. Una donna abortisce, perché è costretta da cause esterne alla sua volontà, o perché quest’ultima è deviata dalla sua naturale, autentica, disposizione. E abortire è comunque una ” colpa ” da stigmatizzare: ieri giuridica, oggi etica.
L’etica della Vita dai cieli della metafisica dei valori assoluti precipita così in picchiata nella retorica sul dramma sociale di donne che vorrebbero ma non possono essere madri. Prevenire è insomma la parola magica che autorizza a sottoporre la donna al controllo sociale e dello Stato, con l’evidente conseguenza di ridurre l’ambito nel quale legalità dell’aborto significa autonomia della scelta, e di allargare il ricorso alla clandestinità.
L’impegno a non lasciare “sole” le donne, dissuadendole con attiva ingerenza, può essere perseguito con ogni mezzo: dall’incentivo economico, all’adozione prenatale, alla pressione psicologica e riprovazione morale, aprendo i consultori pubblici all’attività dei diversi, solleciti, portatori di “aiuto” alla donna.
Se è certo che la vera posta in gioco è quella delle tecnologie, del loro ruolo nel governo e nel controllo dei corpi sessuati, femminili e maschili, dettare legge sull’aborto è, in questa prospettiva, un nodo cruciale. Ed è altresì certo che per noi donne non è in gioco soltanto la possibilità di scegliere se e come abortire. Non si tratta, allora, di difendere una legge e neppure un principio, quello dell’autodeterminazione, per garantire la possibilità di scegliere se e come abortire. Contro la pretesa di controllare i nostri corpi, e contro la riduzione della differenza femminile a funzione materna dovremo far valere l’autorità del nostro punto di vista, non solo su procreazione e sessualità, ma sulla politica.