Ringrazio dell’invito che mi è stato rivolto da Remina Cossu per la Cgil e per lo Spi Cgil e per il taglio di apertura che caratterizza questa iniziativa.
Non è la prima volta che vengo a Sondrio: sono legata a questa città da molti anni per via di relazioni nate nell’ambito della Politica delle donne, in particolare con Marina Salacrist e Anna Fistolera, ma anche altre e vengo spesso per lavoro sindacale.
Seguo la realtà produttiva della Levissima, le molteplici situazioni, anche travagliate che l’attraversano e partecipo alle riunioni dei Direttivi provinciali della Flai di Sondrio, ambiente vivace ed accogliente.
Ho ascoltato la riflessione proposta da Remina e di cui l’invito a questa iniziativa offriva alcuni spunti.
Condivido quanto affermato che trovo dia bene l’idea di quanto sia risultata improponibile, inaccettabile, anacronistica se non offensiva dell’umanità femminile la colpevolizzazione delle donne attraverso l’attacco alla 194, trent’anni dopo la sua approvazione e 25 anni dopo il Referendum che ne ha impedito l’abrogazione.
Questo attacco però non è stato imprevisto.
Certo mi ha indignato e per questo ho colto favorevolmente la mossa di Susanna Camusso e Assunta Sarlo.
Sarlo ha mandato una mail, della serie facciamo qualcosa, e Susanna Camusso, fra le prime, l’ha raccolta.
E’ stata una mossa che ha dato la possibilità all’indignazione diffusa di potersi esprimere in iniziativa politica: molti incontri e lavoro di confronto fino alla grande manifestazione, quella del 14 Gennaio a Milano alla quale è seguita quella del 11 Febbraio a Napoli.
Iniziative che per me, più che un”usciamo dal silenzio”, hanno significato dire “adesso basta!”
Molte di noi conoscono, nella vita concreta, la situazione in cui, ad un certo punto, dopo aver portato molta pazienza, una donna dice” adesso basta!”
E lo dice, indignata del fatto che nella pesantezza, nell’inaccettabilità di quanto sta accadendo, nell’ingiustizia che sente consumarsi intorno a lei, nessuno se non lei, si trova nella condizione di dire “adesso basta!”
E questa esclamazione, che nasce da una modalità precisa di rapporto con quello che accade, crea una sospensione, un cambio del verso delle cose, uno spazio in cui si afferma sé stesse, ma anche la possibilità di esprimersi per altre e altri.
Gli slogan che hanno attraversato il corteo di Milano, ma anche di Napoli, testimoniano di questo spazio di libertà.
· SIAMO USCITE DAL SILENZIO
· NON CI PROVATE, LE STREGHE SON TORNATE
· RUINI METTI GIU’ GLI ZAMPINI
· RUINI BASTA
· MA QUALE FAMIGLIA, MA QUALE MINISTERO, VOI CI SFRUTTATE CON IL LAVORO NERO
· LIBERI E LIBERE DI SCEGLIERE
· IL PAPA AD AVIGNONE
· L’UNICA LEGGE E’ IL DESIDERIO
· ATTENTI, LE DONNE VOTANO DI PANCIA
· IL DIRITTO D’ABORTO NON SI TOCCA
· MAI STATE ZITTE
· SEXYSHOC
· LA PRECARIETA’E’ IL CONTRACCETTIVO DEL FUTURO
· COME E QUANDO ESSERE MADRE LO VOGLIO DECIDERE IO
· ABBASSO IL PAPA RE
· MAMMA PER SCELTA
· AMO CHI MI PIACE, LIBERA DI PROCREARE, SENZA CASINI LA MIA VITA, VOGLIO INVENTARE
· STOP ALLE MOLESTIE CLERICALI
· DIFENDERE LA 194
· SIAMO GIA’ CONSAPEVOLI
· VOGLIAMO LA PAPESSA
· VI FAREMO PAGARE L’ICI
· LIBERA- MENTE
· NON USATE LA MATERNITA’ CONTRO LE DONNE
· E DOPO TRENT’ANNI MI TOCCA TORNARE IN PIAZZA
· LA 194 NON SI TOCCA
· LE LIBERTA’ NON SI CONCEDONO, SI PRENDONO
· SE NASCE UN BAMBINO NON L’HA VOLUTO DIO, L’HO VOLUTO IO
· MENO-PAUSA, PIU’ MOVIMENTO
· LIBERE VOI, LIBERI NOI
· TREMATE, TREMATE LE STREGHE SON TORNATE, CON LE FIGLIE E LE NIPOTI NON AVRETE I NOSTRI VOTI
· IO SONO MIA
· AUTODETERMINATE@ESSERE LIBERE@,SE,QUANDO,COME, CON CHI VOGLIAMO, SOGGETTI! NON OGGETTI
· 194PAROLEPERLALIBERTA’
Sono queste parle, alcune delle tante che hanno animato le manifestazioni. Dai giornali, il giorno dopo quella di Milano, abbiamo letto che la manifestazione era stata “silenziosa”. Probabilmente questo giudizio nasce dal paragone con cortei più rivendicativi, e chi l’ha espresso non ha considerato le modalità con cui si è dato il lungo percorso di affermazione della libertà femminile: una rivoluzione pacifica e “sotterranea”, forse la più grande dell’era moderna, che trova riconoscimento nella percezione diffusa, ma non ancora del tutto colta nella sua originalità e portata di modificazione.
Ora nel verso cambiato delle cose, occorre continuare ragionare
Dicevo prima che questo attacco non era imprevedibile.
La Legge 40, sulla procreazione assistita, in un certo modo lo aveva anticipato.
L’inscrizione nella legislazione italiana della soggettività giuridica dell’embrione, prevalente alla stessa soggettività giuridica riconosciuta ad una donna, il cui interesse soccombe in caso di conflitto con quello dell’embrione, oltre che essere uno stravolgimento del nostro sistema legislativo, fin dai sui principi fondamentali, quelli sanciti dalla Costituzione, ha dato l’avvio alla recente campagna di riduzione dell’umanità femminile, alla colpevolizzazione delle donne per via dell’aborto.
Una campagna che vuole le donne ridotte a soggetto minore, non sovrano sul piano della legge, al massimo oggetto di accompagnamento ed assistenza da parte dello Stato e della Chiesa, a condizione che si facciano contenitore e veicolo per una nuova vita, ad ogni costo.
Ricordo la considerazione del cardinale Ruini al Forum del Progetto Culturale della CEI, 2 Dicembre scorso: la legge 40, disse il cardinale, ha segnato uno “spartiacque importante, visto che ha rappresentato un forte motivo di impegno, di unità fra cattolici italiani” e soprattutto “di incontro e convergenza con significativi rappresentanti della cultura laica”
E la convergenza a partire dal potere ecclesiastico, dai livelli istituzionali e dai mass-media, ha messo sul banco degli imputati le donne.
Cattolici e laici, per lo più uomini, che in questo modo, attraverso la legge ed il dibattito che hanno offerto in questo ultimo periodo, spesso tollerato se non alimentato anche da donne, hanno svelato che cosa pensano dell’umanità femminile e del rapporto fra uomini e donne.
Nella consapevolezza di quanto stava accadendo, un gruppo di giuriste aveva proposto di combattere la Legge 40 attraverso l’impugnazione della stessa. Proponevano la strada dell’ eccezione di costituzionalità per la forte violazione in essa contenuta del principio di uguaglianza fra i sessi, sancito dalla Costituzione Italiana.
Per quanto mi riguarda ho raccolto e rilanciato la loro indicazione convinta della necessità di non scivolare in un dibattito che riducesse al sì e al no, o, in qualche modo, interferisse pesantemente su materie delicate come quelle che riguardano la scelta di ricorso alla maternità assistita, sulle quali occorreva sì aprire una riflessione, ma ampia e rispettosa.
Oltretutto questa posizione mostrava di tenere in considerazione la caduta del referendum come strumento capace di favorire la partecipazione alle scelte democratiche nel nostro Paese.
Sono rimaste inascoltate, ha prevalso nell’assenza di uno scambio diffuso con le realtà politiche che le donne si inventano e si riconoscono, con il loro punto di vista, il ricorso al Referendum.
Oggi sappiamo l’esito. Certo le motivazioni ed i comportamenti che l’hanno determinato, sono molteplici, ma non smentiscono quella che il Cardinale Ruini riconosce come convergenza.
Non ho condiviso la scelta del Referendum, ma una volta indetto mi sono adoperata per la sua riuscita, per l’abrogazione delle parti più offensive di quella Legge.
Adesso, a distanza, si tratta anche di aprire all’autocritica o, nella migliore tradizione delle pratiche inventate dalla Politica delle donne, di interrogare l’esperienza per trarne insegnamento.
Quanto accaduto dice di quanto resti da fare per affermare una pacifica e civile convivenza, fra esseri umani differenti ma capaci di innescare dinamiche virtuose attraverso relazioni libere e rispettose.
Oggi, mentre si apre il referendum contro quella che viene chiamata “riforma della Costituzione” ed invece, altro non è che lo stravolgimento nell’equilibrio dell’insieme di garanzie pensate per mantenere in equilibrio il sistema dei poteri democratici, prodotto dalla prepotenza e dall’ingordigia di alcuni esponenti che occupano in maniera indegna i luoghi più importanti del sistema istituzionale, questa questione dell’iscrizione della soggettività giuridica dell’embrione va tenuta presente.
La vita comincia dal sì di una donna.
Non sono in questione convinzioni diverse circa l’origine della vita, ma il livello di civiltà raggiunto nel rapporto fra uomini e donne espresso dalla Legge.
La riduzione femminile sul piano della legge, espressione degli uomini che l’hanno approvata, è inaccettabile.
Sappiamo dell’atteggiamento di tutela nei confronti delle donne contenuto nel sistema legislativo, la stessa Costituzione ne offre un esempio. E’ un atteggiamento figlio di tempi in cui prevaleva lo stato di oppressione nei confronti delle donne, a cui ha fatto seguito, sul piano della legge, in tempi più recenti, quello teso ad affermare la parità fra uomini e donne.
La libertà femminile, nell’insieme delle leggi, trapela qua e là, più come uno specifico delle donne che la legge sa affrontare solo ” a parte”.
La libertà femminile si esprime nella distanza fra l’umanità che siamo, i desideri e i bisogni che ci muovono e l’orizzonte della Legge. Questa, espressione di Parlamenti fortemente segnati dalla presenza maschile, risente della interpretazione e della traduzione che gli uomini fanno dei desideri e dei bisogni femminili.
Non escludo che le cose possano cambiare. Oggi ci sono donne che aspirano ad assumere, non il potere, ma la responsabilità a quel livello come nell’amministrazione della città, nelle istituzioni, ovunque si tratti di concorrere a determinare il livello di convivenza fra uomini e donne.
Trovo che sia legittimo e che sia un aspetto della realtà sotto i nostri occhi.
Quello che io sottolineo e che invito a non sottovalutare è la forza che la Legge ha nella sua capacità di orientare i comportamenti; il suo funzionamento sul piano simbolico. Sappiamo, e non perché lo dico io, molta è la ricerca e l’elaborazione femminile oggi a disposizione, che la Legge è una invenzione maschile, un dispositivo inventato dagli uomini per regolare i propri comportamenti.
Certo la legge, si è visto nella storia, nella sua migliore volontà non è stata e non è indifferente alle istanze femminili, ma le ha raccolte nella disponibilità e nella capacità di traduzione degli uomini che hanno legiferato.
La stessa 194 fu il risultato avanzato di un compromesso fra i partiti più determinanti sul piano politico di allora, il PCI e la DC.
Non fu esattamente l’espressione della richiesta delle donne: ricordo il dibattito che aveva animato la realtà del femminismo di allora e sull’onda del quale si era misurata la spinta alla Legge.
Per quanto mi riguarda ero d’accordo, in sintonia con la contraddizione viva, ben espressa da uno slogan coniato dal femminismo: “vogliamo l’aborto, ma non vogliamo abortire”, con la richiesta di depenalizzazione dell’aborto allora considerato reato.
E non sulla rivendicazione del “diritto di abortire”, espressione che ancora oggi , nell’ascoltarla, mi fa rabbrividire.
La discussione fra le donne, le diverse posizioni, trovavano un punto di incontro che metteva d’accordo tutte sul fatto che occorresse avere accesso alla Sanità Pubblica.
Oggi la 194, chiarito che non è una legge abortiva, resta una buona legge, non solo perché riconosce alle donne il principio autodeterminazione in fatto di maternità, ma anche perché rappresenta uno spartiacque alla volontà di non tornare indietro.
Come dire che in tempi di libertà femminile, senza il consenso delle donne, indietro non si torna.
Certo permangono riflessioni che la legge non ha certo tacitato, del resto differente è lo stesso rapporto di uomini e donne con la Legge e non solo per via del percorso storico in cui si è andato definendo l’impianto legislativo attuale, o per il fatto di Parlamenti a prevalenza maschile, ma anche per via della ” qualità” di questo rapporto.
Quello che ci è dato di capire, e in maniera sbrigativa, è che l’esperienza maschile si rivolge al dettato legislativo per orientarsi, mentre una donna non si affida completamente alla legge, ma si lascia orientare dal proprio senso del giusto.
Qui trova la spinta alla propria ricerca di soluzioni, di risposte, di indicazioni su come comportarsi. In questo modo mostra una modalità che per lo più viene letta come una sorta di maggiore concretezza femminile nell’affrontare le situazioni.
Come dire che la legge viene in seconda battuta.
Davanti ad un ostacolo o, in generale, a quanto succede, una donna fa leva sulla propria capacità di comprensione e si mette in gioco per trovare la soluzione, al contrario di un uomo che sembra, rivolgersi nell’immediato di quel che accade a dispositivi esterni, già pensati, come leggi, regole o quant’altro.
E’ una asimmetria di comportamento, viva, che dice di esperienze differenti nel rapporto con Leggi e Regolamenti.
Detto in altri termini: se l’uguaglianza è una pretesa che vale sul piano del diritto, nella realtà dei comportamenti le esperienze restano differenti.
Riformulando in modo da stare molto vicina a quello che mi capita di sentire ed osservare, le donne non vogliono essere considerate meno degli uomini; in fatto di dispositivi di legge non vogliono strade precluse alle opportunità, a diritti in essi previsti, per il fatto di essere donne, ma non vogliono le stesse cose che vogliono gli uomini.
C’è una originalità del desiderio femminile, del bisogno dell’umanità femminile che si esprime nella vita personale, sociale e politica.
E per quanto si incontri adattamento femminile, molto conformismo diffuso, questa originalità trapela ed è segno di una differenza non riducibile.
Questa irriducibilità è spesso letta nei diversi ambiti sociali e politici fortemente segnati dalla presenza maschile come una stonatura, “un non essere all’altezza”. In questa maniera pensieri e comportamenti femminili, rimanendo come unico termine di paragone quelli maschili nella loro pretesa universalità, sono oggetto di continua riduzione, fonte di sofferenza e motivo di indignazione per donne, ma anche per uomini mossi dalle migliori intenzioni nel condividere con donne spazi ed iniziative.
Di questa irriducibilità si fa continua esperienza nel rapporto fra uomini e donne, ma se non si porta al livello della comprensione può generare diffidenza ed essere motivo di una china rovinosa nei rapporti se non elemento scatenante di conflitti distruttivi. E all’origine di molta paura.
L’attacco alla Legge 194 è l’attacco alla libertà femminile, per tutto quello che resta di incompreso, per tutto quello che non sarà mai più come prima, per tutto quello che non permette.
Credo sia questo il punto in cui siamo.
Non voglio dire che non c’è più sofferenza femminile nel mondo, troppa ne resta, ma che dall’oppressione che hanno conosciuto molte delle nostre nonne alla libertà delle figlie, alla libertà che respiriamo, ci troviamo oggi in un gioco inedito, che ci chiede di portarci al livello delle novità che si presentano per via della guadagnata libertà femminile.
Non si tratta di una pura difesa della Legge 194.
Del resto, se penso alla mia vita, non ho fatto tutte le fatiche che ho fatto perché la Legge mi desse esistenza, ma per essere libera.
Le leggi sono costruzioni e in quanto tali sempre migliorabili, a condizione che rispettino il livello di civiltà a cui siamo arrivati in fatto di rapporti fra uomini e donne. Questo chiede che siano ricercate nella più larga condivisione possibile per sostenere l’umanità, donne e uomini, che siamo in scelte libere e consapevoli e non per prescrivere comportamenti.
La Costituzione risente in qualche modo del sentimento d’amore per l’ umanità affamata e sofferente, per il Paese distrutto, dopo anni di guerra, provato da molti di coloro che si sono adoperati in fase di formulazione e approvazione e che la rende attuale e cara, qui,a coloro che vogliono combattere per salvarne l’integrità di fondo.
La sua “riforma” viene vissuta, anche per questo motivo, come una violazione; colpisce che la riduzione dell’umanità femminile prodotta nei suoi principi fondamentali, dalla Legge 40 non si sia posta negli stessi termini.
In conclusione, dopo aver detto “adesso basta”, cosa resta da fare?
Per rispondere richiamo la considerazione di Ilaria e le altre, le giovani donne precarie di Milano intervistate da Manuela Cartosio (Il Manifesto) sul cosa fare dopo la Manifestazione: “Non ci siamo promesse niente”! Questo hanno detto.
Sono d’accordo nel senso che non si tratta di porci degli obiettivi, ma di continuare a fare le cose che stiamo facendo nel contesto in cui siamo, quelle che contano nella propria vita, nella consapevolezza che tutto quello che facciamo e che mettiamo al mondo va continuamente verificato nello scambio.
Si tratta di smetterla di indaffararsi nel fare ordine nei luoghi dove siamo, nel sociale e nella politica.
La libertà femminile è al mondo.
Vantiamo relazioni, sapere, spazi, tutto quello che serve per autorizzarci ognuna, ognuno, non a fare da sé e per sé, ma a partire da quello che ci muove in termini di desideri e bisogni per andare verso altre ed altri, per cercare, inventare, creare situazioni e dispositivi, con generosità, costruendo ponti e non muri e avendo a cuore l’umanità che siamo.
Per amore di noi stesse e per le madri che ci hanno messo al mondo. Per i padri che ci hanno amato.
E se è vero, così come io penso, quello che scrive Clara Jurdans sul numero 76 di Via dogana, Marzo 2006, a proposito di libertà femminile, che si tratta di una libertà “altruistica”, un’esperienza relazionale e non un bagaglio individuale come suggerisce il liberismo imperante, il nuovo gioco che si prefigura non sarà tutto facile e pacifico, anzi chiederà di continuare a lottare.
La Gran Bretagna sfida gli Usa sull’aborto e crea un fondo per garantire sostegno alle associazioni che offrono alle donne dei Paesi in via di sviluppo interventi di Ivg sicuri. Per tutelare la salute delle donne alle prese con l’aborto nei Paesi piu’ poveri della terra, Londra sborsera’ 3
milioni di sterline nei prossimi due anni, rimpiazzando cosi’ i fondi statunitensi ritirati a causa della posizione anti-abortista di Washington.
(Sal/Gs/Adnkronos)
Carissime amiche e colleghe
scrivo queste poche righe perché mi sono sentita amareggiata dal tentativo di abrogare al legge 194 e dai commenti poco rispettosi delle donne che ho letto in queste settimane sui quotidiani.
Si sostiene che questa legge vada abrogata per “risolvere” il problema dell’aborto. A questo proposito voglio ricordare che fino al 1975 in Italia l’aborto era una pratica illegale. Le donne già svantaggiate da una legislazione punitiva nei confronti della contraccezione, quando incappavano in una gravidanza non desiderata si rivolgevano clandestinamente alle mammane che, con mezzi non idonei e con strumenti probabilmente non sterili risolvevano il problema, talvolta a costo di complicanze settiche anche mortali per la donna.
Il 22 maggio 1978 veniva approvata le legge 194 con la quale si riconosceva alla donna il diritto di interrompere gratuitamente, nelle strutture sanitarie pubbliche, la gravidanza indesiderata.
Non è una legge perfetta ma devo ammettere che:
-la legge 194 è riuscita ad eliminare quasi completamente la piaga degli aborti clandestini, ridottisi del 78.9%
-dall’approvazione della legge in poi si è registrata una riduzione sistematica delle interruzioni di gravidanza nelle strutture pubbliche, diminuite nel 2003 del 45.9%. L’ultimo rapporto del Ministero della Salute a firma Storace dimostra un’ulteriore riduzione del 6.1% relativa alle cittadine italiane.
Aumentano invece le interruzioni volontarie per le cittadine straniere. Sempre la relazione firmata da Storace mette anche l’accento sul tasso di abortività italiano tra i più bassi d’Europa (11.1%), preceduto solo da Olanda, Germania e Finlandia. Dopo di noi vengono Francia, Inghilterra e Svezia.
I dati ci dicono che la legge ha funzionato. Se l’obiettivo era quello di evitare che l’aborto diventasse un metodo anticoncezionale, possiamo dire che è stato raggiunto.
Questa non è una legge abortista, non è opera di legislatori abortisti, non autorizza l’aborto, al contrario ne condiziona la pratica entro i limiti della struttura pubblica.
Non si tratta di essere o meno d’accordo con l’aborto, non sta a noi medici-donne esprimere giudizi morali, si tratta di non negare un problema reale, di fare in modo che quando una donna si trova di fronte a questa scelta dolorosa possa usufruire di strutture pubbliche adeguate.
Abrogare la legge 194 significa ricacciare la pratica dell’aborto nella clandestinità.
Oltre a questo la legge mira a diffondere la cultura preventiva delle gravidanze indesiderate.
Se si deve fare una critica penso sia su quest’ultimo punto: a tutt’oggi solo il 4% dei fondi destinati ai consultori vengono spesi per la politica della prevenzione. In Italia mancano 900 consultori, non solo, la Regione Lombardia sta mettendo in atto un processo di privatizzazione che consegnerà i consultori ai privati, con minori costi ma probabilmente con peggiore qualità.
Dunque non mi sembra sia necessaria una commissione d’inchiesta per sapere come funziona questa legge, basterebbe leggere la relazione annuale del Ministero della Salute. Ma se avere dati non è l’obiettivo, quale è la vera ragione di questa bagarre sulla legge 194?
E’ plausibile pensare che l’imminenza delle elezioni politiche non sia casuale. Ogni qualvolta si presenta una scadenza elettorale le questioni che riguardano le donne diventano strumentalmente centrali e questo non può non insospettirci.
Non credo si possa accettare di fungere da merce di scambio fra destra e sinistra o di essere retrocesse dalla politica a soggetti deboli da tutelare, potenzialmente criminali. Mentre la destra propone un’indagine sull’applicazione della legge 194, la sinistra propone un assegno di sostegno alla gravidanza e entrambi sostengono di voler “aiutare le donne”!
Credo che abbiamo il diritto di essere considerate esseri pensanti in grado di decidere. La vita umana arriva in questo mondo attraverso il corpo femminile, attraverso il desiderio e l’accettazione di una donna che lo accoglie e lo consegna alla collettività. A questa donna va data parola, indipendentemente dalle ideologie e dalle opportunità politiche.
Credo che la nostra realtà di Donne e di Medici ci obblighi doppiamente a prendere la parola, non per difendere l’aborto sul quale ognuna di noi si regola secondo coscienza e credo religioso, ma per proporre un’immagine di donna non soggetto debole, non merce di baratti elettorali, ma persona autonoma in grado di scegliere per sé.
Continuo a credere che in una scelta così drammatica le donne non vadano lasciate sole ma accolte nelle strutture sanitarie pubbliche.
A presto
Mariagrazia Fontana
Rosy Bindi: le cure non si decidono per decreto, certe scelte spettano solo ai medici e ai pazienti
L’ indagine sulla 194 non è servita a nulla, oggi in commissione voteremo contro o abbandoneremo l’ aula per dissociarci Sugli immigrati Storace sta mostrando il volto feroce della destra alimentando le paure della gente
Mario Reggio
ROMA – «Il ministro della Salute Francesco Storace chieda scusa alle donne toscane e al sistema sanitario della Regione Toscana che ha criminalizzato, accusando i responsabili di non rispettare le procedure sulla 194. Si assuma la responsabilità di vietare l’ uso della pillola Ru486, ma eviti di modificare un decreto, quello che ho firmato nel ’97, perché altrimenti complicherà la vita di molti malati. è poi evidente che sta facendo una volgare campagna elettorale alimentando la paura e la diffidenza nei confronti degli immigrati». Rosy Bindi, responsabile politiche sociali della Margherita, toscana, per quattro anni ministro della Sanità attacca frontalmente Storace. Come valuta il suo operato? «Storace ha mostrato il volto feroce della destra. L’ ha fatto con gli immigrati, e strumentalizzando un tema molto delicato come quello della maternità, spingendosi fino a mettere a rischio la libertà di scelta dell’ assistenza farmaceutica. Stiamo assistendo da alcuni mesi al volto non solo feroce, ma anche cinico della destra: immigrati, Ru486, droga, salute mentale. Su nessuno di questi temi riuscirà a fare nulla, ma ha sollevato pericolosi polveroni». Perché firmò il decreto sui farmaci non commercializzati in Italia? «L’ ho firmato nel ’97 proprio perché, a volte, le case produttrici di alcuni farmaci decidono di non commercializzarli in Italia. Farmaci che sono utili e spesso vitali per molti malati. Sull’ uso della Ru486 Storace non può pensare di espropriare i medici e la stessa donna di una libera scelta. Perché le cure, secondo la Costituzione italiana, non si decidono per decreto di Stato. Alla faccia della Casa delle libertà». E sugli immigrati? «Il ministro si preoccupi di curare il razzismo e l’ antisemitismo dilagante in certe frange ultrà, invece di agitare impropriamente temi di salute pubblica che non conosce. Storace non conosce né il diritto del lavoro né le norme sanitarie, perché gli immigrati regolari per essere assunti devono sottoporsi, con qualsiasi altro lavoratore italiano, alle visite mediche e devono essere assicurati dall’ Inail. Pensa forse ai clandestini? Li vuol curare o rimandarli nel deserto del Sahara? Molte indagini confermano che queste persone arrivano in buona salute e si ammalano proprio per le condizioni di abbandono e di privazione in cui spesso sono costretti a vivere e a lavorare». Oggi approda in Commissione la relazione sul funzionamento della 194. «Il contenuto dimostra l’ inutilità di questa indagine conoscitiva, che non ha aggiunto nulla a quello che già sapevamo e che si conclude con un nulla di fatto. Valuteremo se votare contro o abbandonare la Commissione, prendendo le distanze da una manovra elettoralistica presa sulla pelle delle persone». Storace ha anche annunciato di voler modificare la 180. «Un’ altra mossa elettoralistica. Quella legge non va cambiata bensì applicata. Dove è stata applicata funziona e comunque Storace non riuscirà a fare nulla. Il tempo è scaduto. Sugli immigrati, sulle questioni che riguardano le scelte della vita, la salute mentale, l’ atteggiamento di questo governo dimostra che non c’ è nessun rispetto per le persone. Un sigillo nefasto, come la legge sulla droga, corona cinque anni nei quali il governo ha pensato solo agli interessi di pochi ed ha abbandonato ogni fragilità».
Giovanni Cesareo
“Lavorare stanca” scriveva Cesare Pavese. Di questi tempi, però, stanca, a quanto sembra, perfino discutere del lavoro, del cosiddetto “mercato del lavoro”, dei problemi presenti e futuri dei lavoratori. Tra l’altro, sembra che con le profonde trasformazioni intervenute negli anni più recenti e con la proclamata scomparsa della classe operaia (?), di lavoratori non meriti più parlare altro che genericamente. Hanno perfettamente ragione Christian Marazzi e Sergio Bologna (il manifesto del 13 gennaio, ndr) a dire che alle tematiche del lavoro attualmente non si danno l’attenzione, lo spazio, il rilievo che meriterebbero nemmeno dalla parte dell’Unione. Semmai ci si attiene alla più ovvia ritualità nei confronti tra centrosinistra e centrodestra. Da una parte ci si riferisce alla difficoltà di trovare lavoro, dall’altra si risponde che il numero dei lavoratori è aumentato. Da una parte si continua a sottolineare la precarietà, dall’altra si risponde che la maggioranza assoluta delle assunzioni è a tempo indeterminato (ma non si dice, ovviamente, dove, a quali condizioni, con quali effettive garanzie). Debbo dire che nemmeno il manifesto – che, pure, è un giornale che continua controcorrente a condurre inchieste e approfondimenti sul campo – si dedica sufficientemente a indagare e riflettere sui problemi del lavoro. Eppure, a tutt’oggi, il lavoro occupa un posto centrale nella vita di ciascuno e il rapporto col lavoro condiziona decisamente i comportamenti e i destini di milioni di persone anche nel nostro paese. Alcuni anni fa – forse molti lo ricorderanno – i giovani cominciarono a discutere della possibilità che il lavoro non fosse più, com’è stato per tutto il secolo scorso, la parte centrale della vita. E si cominciò anche a pensare che il lavoro potesse diventare un terreno di realizzazione di sé (lo rivendicava in particolare il movimento femminista) anziché un percorso obbligato sottoposto a pesante sfruttamento. Non si può certo dire che quelle aspirazioni, quelle rivendicazioni siano state soddisfatte dai profondi mutamenti intervenuti nell’economia e nella vita sociale. Non più tardi di domenica scorsa, molte delle giovani donne intervistate durante la manifestazione milanese in difesa del diritto di aborto ricordavano quanto oggi sia difficile mettere al mondo un figlio nel timore di perdere il lavoro per questo. E tanto basti.
Ora, non dovrebbero essere queste tematiche al primo posto nelle riflessioni e nei programmi dello schieramento di centrosinistra, come giustamente chiedono nella loro lettera Marazzi e Bologna? E non sarebbe, più che opportuno, necessario incalzare incessantemente in particolare la sinistra, estrema e non, su questo terreno? Se ci sono, come certo ci sono, condizioni generali, comportamenti personali e collettivi, prospettive differenti, decisamente differenti rispetto al passato, tanto più sarebbe il caso di indagare, approfondire, scegliere, confrontandosi con la realtà presente e con le ipotesi possibili di cambiamento radicale in favore dei lavoratori per le quali battersi nel concreto fin da subito. Altrimenti, non resta che la rassegnazione.
Abbiamo visto che nell’articolo di domenica 15 gennaio (“E adesso ascoltateci”), Manuela Cartosio ha ripreso lo striscione “Ruini, basta!” dicendo che era firmato dalla Libreria delle donne. In realtà la firma era www.libreriadelledonne.it, che non esaurisce le posizioni della Libreria delle donne di Milano.
In particolare, quella scritta è una citazione dal nostro sito, sul quale si possono trovare – con un’ampia articolazione – alcune delle posizioni emerse in libreria e altrove.
Un saluto dalla redazione del sito.
www.libreriadelledonne.it
Nessuno lo dice, ma l’obiettivo finale dell’offensiva della destra è proprio quello di cancellare la legislazione sull’aborto. Anche Casini smentisce l’intento, ma poi rispunta l’idea del controllo dei consultori
BIianca la Monica*
L’attacco strisciante alla legge 194 – che ha trovato linfa nella sconfitta al referendum sulla legge 40/04 – si è fatto negli ultimi mesi assai più pressante e più subdolo: non passa attraverso proposte di modifica della 194 – che tutte le forze politiche ripetono di non voler toccare – ma attraverso altre proposte legislative che non solo renderebbero sempre meno praticabile l’aborto legale, ma rafforzerebbero la tendenza a invasioni autoritarie nel privato e a relegare il corpo della donna a contenitore-riproduttore della specie. In particolare, lo strumento prescelto per svuotare la 194 è la modifica legislativa della disciplina dei consultori familiari. La legge che regola attualmente i consultori (legge 29/7/1975, n.405) trovò origine in diverse proposte di legge presentate dal `72 al `75 dai vari gruppi dei partiti dell’arco costituzionale: alcune erano nate contemporaneamente alle proposte di regolamentazione dell’aborto; altre erano state presentate in precedenza, per fare “pulizia” della legislazione fascista in materia demografica e di propaganda sui sistemi anticoncezionali. Certamente, l’approvazione della legge fu favorita dalla forte spinta venuta dal movimento delle donne per la legalizzazione dell’aborto e più in generale dall’esito del referendum per il divorzio.
La legge 405, nel contesto culturale che viviamo oggi, ci sembra di straordinaria laicità. Basti considerare l’articolo 1: “Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi: a) l’assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile (….); b) la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile (…); c) la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento; d) la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso..”.
Incredibile: si parla di “procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche.. degli utenti” e di “tutela della salute della donna”; e il “prodotto del concepimento” viene proprio così definito!
Questa prospettiva trova poi riscontro nell’articolo 2 della legge 194, che, con riferimento all’assistenza alla donna in stato di gravidanza, pone a carico dei consultori compiti informativi (sui diritti spettanti alla donna in base alla legislazione statale e regionale, sui servizi sociali, sulle modalità per ottenere il rispetto delle norme sul lavoro della gestante..) e di supporto (“..contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione volontaria di gravidanza..”). Va anche sottolineato che l’articolo 2 della legge 194 prevede la possibilità di “..collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato..” con riferimento all’aiuto alla maternità difficile “..dopo la nascita..”, escludendo così i volontari dalla delicata fase decisionale.
E’ comprensibile, quindi, che questa regolamentazione dei consultori sia stata più volte attaccata: a partire dalla Proposta di Legge di Iniziativa Popolare del Movimento per la vita del 1977 (che proponeva di affiancare ai consultori i Centri di Accoglienza e Difesa della Vita Umana).
Tra le proposte modificative più recenti, va segnalata la numero 5206, presentata il 30/7/2004 d’iniziativa dei deputati Francesca Martini (Lega) + altri che propone una nuova disciplina dei consultori familiari, caratterizzata da un forte impegno nella “tutela sociale della genitorialità e del concepito”. La proposta, di soli 7 articoli di legge, inserisce tra i compiti dei consultori indicati all’articolo 1 anche “la tutela della vita umana fin dal suo concepimento”. E tali compiti elenca poi all’articolo 3, intitolato “Tutela della maternità e del concepito”, prevedendo, tra l’altro, che i consultori
e) sostengono psicologicamente le donne durante la riflessione in materia di prosecuzione della gravidanza e in caso di eventuale possibilità di patologie o malformazioni del nascituro;
f) sulla base di appositi regolamenti o convenzioni si avvalgano, ove presenti, della collaborazione delle associazioni a difesa della vita fin dal suo concepimento.
Questa proposta – già assegnata il 7/10/04 in sede referente alla commissione XII Affari Sociali della Camera – risulta ripresentata alla Camera in data 23 novembre 2005, col numero 6196, e annunciata nella seduta 711 del 24 novembre 2005: identico il testo; identica la relazione di accompagnamento; identici i 13 deputati presentatori (tranne uno).
Proprio il 23 novembre si è tenuta presso la Camera dei Deputati una conferenza stampa nel corso della quale è stato presentato un «progetto cattolico di riforma dei consultori» sottoscritto da quaranta organizzazioni cattoliche (elaborato dal Forum delle Associazioni Familiari in collegamento con il Movimento per la vita): è una proposta attualmente priva di rilievo giuridico (l’iniziativa delle leggi compete ai cittadini solo nel caso in cui la proposta provenga da almeno 50.000 elettori), ma con fortissimo valore politico (e nulla esclude che questo testo, anche solo in parte, sia fatto proprio dal Governo o da membri delle Camere). E’ quindi utile prenderla in considerazione.
La proposta cattolica sui consultori familiari consiste in uno sconcertante elaborato di 34 articoli che, anche richiamando e rielaborando a proprio uso e consumo alcuni principi costituzionali, rappresenta un vero e proprio Manifesto dell’eticae del familismo cattolico. E’ opportuno riportare qualche stralcio:
articolo 1: Lo Stato riconosce il valore primario della famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio e quale istituzione finalizzata al servizio della vita…e ne tutela l’unità, la fecondità, la maternità e l’infanzia.
articolo 2: Lo Stato riconosce alla famiglia, alle associazioni di famiglie e alle organizzazioni senza scopo di lucro, che promuovono la stabilità familiare, la cultura familiare e i servizi per la famiglia.. la funzione ed il ruolo di istituzioni sociali, costituite nell’esercizio dei diritti fondamentali della persona, i cui fini conformi all’ordinamento sono recepiti come fini pubblici.
articolo 9: I consultori familiari tutelano la vita umana fin dal concepimento (è sempre utile ricordare che nella legge 194 troviamo la diversa espressione della tutela della vita umana dal suo inizio).
E come avviene la tutela? Il successivo articolo 10 prevede che il medico (cui una donna che intende ricorrere alla interruzione di gravidanza può rivolgersi, come è consentito dall’articolo 5 della legge 194) allorchè invita la donna “a soprassedere per sette giorni” (qualora lo stesso medico non riscontri un caso di urgenza) e le rilascia copia di un documento attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta di interruzione, “..immediatamente informa il consultorio familiare del luogo dove risiede la donna…”. Di tale comunicazione è informata la donna alla quale viene ricordato il suo dovere morale di collaborare nel tentativo di superare le difficoltà che l’hanno indotta a chiedere l’interruzione volontaria della gravidanza..”
L’articolo 9, secondo comma, della proposta prevede che “..il Consultorio, ricevuta la comunicazione..anche di propria inziativa prende contatto con la donna..e le offre ogni possibile aiuto al fine di favorire la prosecuzione della gravidanza..” Il ruolo attivo dei consultori familiari in questa conclamata nuova azione preventiva e di sostegno alla famiglia si svolgerebbe anche all’interno dei procedimenti giudiziari per separazione e divorzio, perché, secondo l’articolo 18 della proposta, il giudice “..dovrà sospendere il procedimento, rinviando il caso ad un Consultorio familiare..” che sentirà i coniugi per aiutarli alla composizione del conflitto: il contenuto a dir poco stravagante della regola e il suo possibile contrasto con alcuni principi costituzionali non elimina il valore simbolico di questa smodata pretesa di governo autoritario delle relazioni e delle scelte più intime e profonde dei singoli.
Ma il vero scandalo della proposta sta nel voler portare a compimento l’innaturale separazione tra la madre e il concepito, negandone l’inscindibile relazione, e privilegiando un diritto a nascere comunque del concepito rispetto al diritto all’autodeterminazione e alla salute della madre, soggetto ritenuto inaffidabile cui sottrarre, in nome di una mistificante “naturalità” del ruolo materno, libertà e responsabilità nella procreazione.
*Collettivo Donne Diritto di Milano
Manuela Cartosio
Giovani e precarie parteciperanno alla manifestazione di sabato a Milano per difendere la 194 e per dire che la precarietà non deve essere «l’anticoncezionale del futuro». Per le donne cococo, cocopro, partite Iva, assunte a termine, fare un figlio è un lusso impossibile.
Due stanze, bagno e cucina. E’ la casa di Ilaria, quella vera, in zona Lambrate. Quella telematica – acasadilaria@yahoo.it – funziona da un paio di settimane come contatto tra giovani&precarie. Tra tante signore di una certa età, saranno la new entry alla manifestazione nazionale di sabato a Milano in difesa della legge 194 e per la libertà femminile. Sul grande tavolo, tra bucce profumate di mandaranci e gusci di spagnolette (che non viaggiano ancora in rete), c’è il volantino «Donne in saldo», da distribuire lungo il corteo. Oltre alla padrona di casa, ci sono Fiorella, Ada, Emanuela, Iolanda, Flavia, Gloria, Selva (e pazienza se l’allegra confusione ci farà attribuire a una quel che ha detto un’altra). La più giovane ha 22 anni, la più «vecchia» 28, tanti come la legge sull’aborto. Sono lavoratrici-studentesse o studentesse-lavoratrici variamente atipiche: cococo, cocopro, partite Iva, assunte a tempo determinato in archivi, biblioteche, enti locali. Guadagnano tra i 500 e i 1.000 euro al mese, pagate «a 90 giorni», ma anche dopo un anno. Selva, che insegna musica, è pagata a ore. Gloria è l’unica con un «lavoro vero», retribuito decentemente: fa la fisioterapista in un centro di riabilitazione. Un «lusso» attenuato dal contratto a termine. Non abitano più con mamma e papà. Qualcuna, rimasta a secco, ha dovuto tornare sotto il tetto familiare. «Metter su casa è una faccenda più complicata di come la racconta la pubblicità dell’Ikea», dice Flavia. Chi si avvicina a un mutuo si ferma ai preliminari. «Lei cosa possiede?», chiede la banca. «La vespa», ha risposto una della brigata.
Soldi a parte, «per affittarti un appartamento ti vogliono sposata, per darti un lavoro ti vogliono single». E, rigorosamente, senza il ghiribizzo di fare un figlio. Persino per fare la commessa interinale alla Rinascente, «vogliono sapere che progetti familiari hai per il futuro». In molte aziende, «prima di assumerti, ti fanno firmare l’impegno che non resterai incinta. Se succede, il licenziamento è automatico».
Le nostre precarie sono delle grandi esperte in colloqui per essere assunte. «Devi risultare né troppo leader, né troppo passiva. Così vai bene allo psicologo aziendale che ti fa il test. Sei affidabile, non romperai le scatole. Ovviamente, devi dire che il lavoro viene prima di tutto». Bisogna mentire, mimetizzarsi, come si faceva alle visite di leva. La differenza è che lì si raccontavano palle per essere riformati, «noi dobbiamo mentire per ottenere un lavoro». Non mancano i colloqui new age. A Flavia hanno chiesto segno zodiacale e ascendente.
L’impossibilità di programmare il proprio futuro grava sui precari ambosessi. A fare la grossa differenza è la maternità. «Per noi donne a 40 anni suona l’orologio biologico», riassume Fiorella. La prospettiva di arrivarci passando da un lavoretto all’altro è deprimente. E la scelta di fare prima o poi un figlio si paga con la perdita del lavoro e di quel minimo di reddito che permette di sopravvivere. Di qui lo slogan «la precarietà è il contraccettivo del futuro» che il gruppo «A casa di Ilaria» porterà alla manifestazione di sabato.
Difendere la legge 194 e lo spazio pubblico dei consultori dalle invasione barbariche preme anche a loro. Per questo, senza conoscere nessuna della vecchia guardia femminista, sono andate alle gremite assemblee di «Usciamo dal silenzio». Lì hanno ascoltato cose che, pur dette con un linguaggio diverso dal loro, le toccano e le coinvolgono. Nello stesso tempo, hanno percepito una «mancanza»: la precarietà, e le sue conseguenze materiali sul vivere quotidiano, non era messa a tema in quelle assemblee. «Ci siamo riconosciute, ci siamo fatte avanti, abbiamo dato il nostro contributo». Accolto a braccia aperte dalle femministe degli anni Settanta, felici di trovare non delle eredi (non è scattato alcun riflesso di maternage e tutoraggio), ma delle interlocutrici autonome e adulte.
Le riunione a casa di Ilaria sono solo tra donne. Per il resto, niente separatismo. Morosi e conviventi contribuiscono cucinando, mettendo su un blog, tutti parteciperanno alla manifestazione. «Siamo sulla stessa barca precaria, neppure ai maschi si schiudono rosee carriere». E però la differenza di genere continua a pesare anche nell’incerto mondo del precariato. «All’università le borse di studio, i posti per i dottorati si tende a darli ai maschi». A proposito di università, Emanuela – due lavoretti malpagati per poter fare la pubblicista gratis – racconta un illuminante episodio. Ha fatto una tesi su due riviste femministe messicane. Il giorno della laurea la sua relatrice l’ha «consigliata» di focalizzare il discorso sul tema del lavoro, non dell’aborto. «Non che lei sia contro l’aborto. L’ha fatto per cautela, per non irritare i prof maschi. Preoccupante».
Sondiamo il rapporto tra queste giovani donne e la politica. Iolanda, consigliera comunale a Samarate, eletta in una lista di sinistra, è l’unica «dentro le istituzioni». Un’esperienza che nessun’altra sembra intenzionata a fare. Nessuna passione per le quote rosa, qualcuna è astensionista, chi alle urne ci va vota a sinistra. Sanno tutto della legge 30, ma non dimenticano che lo smottamento è cominciato con il pacchetto Treu. Per «colpa» del centro sinistra. Una, ferratissima, si ricorda che l’attacco all’articolo 18 è partito con D’Alema presidente del consiglio. Il centro sinistra non passa l’esame neppure sulla legge 194: la sua è una difesa troppo tiepida e paurosa, sempre in cerca di mediazioni al suo interno, sempre per conquistare il «famoso centro». Sull’aborto «tutti corrono dietro al Vaticano», dice Fiorella, e sul mercato del lavoro anche il centro sinistra concede parecchio al liberismo. La parola «sindacato» suscita sbuffi di impazienza e di scarsa considerazione.
Dopo la manifestazione di sabato, cosa succederà del gruppo che si ritrova a casa di Ilaria? «Non ci siamo promesse niente». Una risposta in linea con la precarietà. Una volta tanto, nessuno si impanca a sostenere che «è nato un nuovo movimento». Magari porta bene.
Ida Dominijanni
«Usciamo dal silenzio», lo slogan che ha accompagnato la preparazione delle manifestazione sull’aborto di sabato prossimo a Milano in concomitanza con quella sui Pacs a Roma, è uno slogan da discutere. In verità sull’aborto, e su una vasta materia connessa che riguarda la procreazione e la sessualità, dal silenzio le donne sono uscite più di trent’anni fa, e non ci sono mai più rientrate. Non va scambiata per silenzio una produzione di parola e di sapere che manca la scena politica e mediatica ufficiale; perché proprio con la battaglia di trent’anni fa sull’aborto, che non fu fatta solo di manifestazioni ma soprattutto di elaborazione, è diventato chiaro una volta per tutte che l’ordine del discorso della politica delle donne eccede quello della politica ufficiale, delle sue parole d’ordine riduttive, dei suoi schieramenti rigidi. Il che non vuol dire che questa distanza vada incoraggiata – al contrario, andrebbe ridotta; vuol dire però prendere bene le misure del conflitto in corso sull’aborto, sulla procreazione, sulla sessualità. Letizia Paolozzi, ad esempio, giustamente si chiede (www.donnealtri.it) se a essere sotto attacco oggi sia l’aborto come tale, o non piuttosto «la parola delle donne, giudicata poco credibile, poco seria, irresponsabile». E chiunque abbia seguito le argomentazioni zelanti dei teocon nostrani in questi mesi, nonché la debole risposta della cultura laica, sa quanto l’una e l’altra si avvalgano di una sistematica adulterazione della parola femminile (la riduzione dell’aborto a diritto, del desiderio a capriccio, del primato femminile nella procreazione a strapotere autarchico e via dicendo).
Un effetto auspicabile della manifestazione di sabato è che questa parola torni più potentemente in circolo e contamini esperienze e generazioni diverse, anche al di là della manifestazione stessa e del suo impatto immediato. Non si tratta di «trasmettere» ad altre l’esperienza degli anni settanta: la genealogia femminile non vive di trasmissione ma di scommesse, non si nutre solo di continuità ma anche e soprattutto di differenze. Ciò che scarta dalla battaglia per l’aborto di trent’anni fa è rilevante quanto ciò che le assomiglia; e dunque è tanto importante ricostruire il discorso sull’aborto di allora, quanto rilanciarlo all’altezza delle domande di oggi.
Ed è infatti su questo crinale fra continuità e discontinuità che molte si interrogano nei siti femministi (un segno non trascurabile del mutamento intervenuto nelle forme della comunicazione e della scrittura). Il rifiuto di ridurre l’aborto a un diritto; la consapevolezza del carattere compromissorio della 194 di quante volevano che l’aborto fosse semplicemente depenalizzato; l’autocoscienza sui legami fra aborto e sessualità maschile: le «scoperte» degli anni settanta (una utilissima ricostruzione in un intervento di Laura Colombo, www.libreriadelledonne.it) possono funzionare da griglia per non affidarsi oggi alla grammatica dei diritti, per non attestarsi su una trincea puramente difensiva (Luisa Muraro, stesso sito), per squarciare il silenzio sulla sessualità, e soprattutto sulla sessualità maschile e sullo stato attuale dei rapporti fra donne e uomini, che il rumore sull’aborto copre.
Giacché se silenzio c’è, è soprattutto nel campo degli uomini che va denunciato. Ancora Letizia Paolozzi si chiede se nell’aggressività politica maschile di oggi contro l’aborto sia più giusto vedere «un desiderio di revanche contro la libertà femminile o la spinta ad assumersi una nuova responsabilità», che pure non trova le parole per dirsi. Lea Melandri (in un articolo su Liberazione riportato nel già citato sito della Libreria delle donne di Milano) mette in guardia dal rischio che la pura riaffermazione del primato femminile nella procreazione presti il fianco «alla misoginia di ogni tipo, e alle «paure profonde» che riattivano negli uomini «il fantasma di una madre distruttiva e poco accogliente» (Sara Gandini). La stessa Gandini, con l’intento di «interpretare il presente partendo dalle conquiste del passato», traccia una discriminate interessante fra ieri e oggi: se ieri la riappropriazione del desiderio femminile richiedeva il taglio della separazione dagli uomini, oggi viceversa la libertà femminile guadagnata consente e domanda una relazione più forte con l’altro sesso. Nella quale gli uomini accettino lo squilibrio del primato femminile nella procreazione, ma mettano in gioco la loro esperienza. La prima parola e l’ultima restano femminili, ma in mezzo non può esserci vuoto di parola maschile.
Proviamo sentimenti contrastanti rispetto alle due manifestazioni del 14 gennaio. Certamente ci riguardano entrambe ma, nello stesso tempo, avvertiamo una distanza che ci fa sentire, ancora una volta, “soggetti eccentrici” – come scrive Teresa De Lauretis – cioè in posizione laterale, fuori centro.
Perchè?
Siamo consapevoli della necessità di affermare il diritto di ogni donna all’autodeterminazione. Quello di ciascuno/a ha diritto alla libera espressione della propria affettività e ad essere tutelato/a dalla legge qualora scelga di dare una forma di riconoscimento istituzionale al proprio rapporto amoroso.
Parteciperemo a questo due iniziative anche per rendere visibili la nostra specificità e il nostro desiderio, criticando un sistema e una cultura che, avendo alla radice il principio dell’eterosessualità obbligatoria, sono inconciliabili con l’autonomia delle donne e stanno all’origine dell’omofobia così diffusa in tutti gli strati della società.
Nel movimento delle donne ancora una volta percepiamo una pericolosa semplificazione che fa dire: “Sempre di sessualità si tratta”, come se soggettività diverse fossero omologabili nello stesso calderone indifferenziato di sessualità deboli e asessuate. Come se gay, lesbiche, transgender e donne avessero in comune, alla fine, gli stessi obiettivi essendo una specie di “minoranze” da tutelare. Minoranze, quindi, e non soggetti di pari valore, fondanti e portatori di una ricchezza che deve poter essere determinante per la società in cui viviamo.
In questo orizzonte culturale “maschile” e “femminile” sono assunti come categorie ontologiche e non come prodotti sociali. Ogni diversità quindi diventa, paradossalmente, solo dialettica o complementare all’unico centro fondante: lo sguardo dell’uomo.
Per noi lesbiche emerge allora l’inquietante sensazione di tornare ad essere invisibili nel “riemerso” movimento delle donne, la cui priorità – la difesa della 194 – potrebbe non riguardarci nei suoi effetti squisitamente pratici.
L’attacco a questa legge, invece, ha a che fare con il nostro vivere quotidiano perché è un tentativo di riaffermare il controllo sul corpo delle donne e sul loro desiderio. Per una lesbica sarà ancora più difficile vivere liberamente la propria sessualità in una cultura che cancella i corpi e le soggettività e pretende di legiferare in nome di astratte verità universali.
E’ evidente che il patriarcato, per niente morto, non sopporta l’autonomia affettiva delle donne, sia nel momento in cui decidono di sottrarsi ad una gravidanza indesiderata, sia quando vivono una sessualità non prevista come quella lesbica.
Avvertiamo un rischio di semplificazione anche nella comunità gay e lesbica quando promuove una manifestazione che sembra avere come unico scopo il riconoscimento giuridico della coppia – in un momento strategicamente importante per la vicina scadenza elettorale.
Il movimento omosessuale ha forse perso la sua carica eversiva nel desiderio di “normalizzazione”?
E’ giusto rivendicare la legittimazione sociale per sessualità diverse e i pieni diritti di cittadinanza
per gli omosessuali. Ma è necessario anche affermare la singolarità del desiderio e dell’espressione di sé nel momento in cui si chiedono istituti e ordinamenti sociali (famiglia, matrimonio…) che di fatto pretendono di regolamentarli.
Parteciperemo dunque alla manifestazione di Milano ma ci piacerebbe che ogni donna sentisse la stessa necessità di reagire quando a una lesbica è negato il diritto a vivere liberamente la sua sessualità e affettività.
E saremo anche alla manifestazione di Roma, sostenendo la necessità di ritornare a riflettere insieme su quale tipo di relazioni, sia amorose che sociali, vogliamo per le nostre vite e per il nostro paese.
Perché un altro mondo è possibile e noi vogliamo contribuire a realizzarlo.
Gruppo “Soggettività Lesbica” – Libera Università delle Donne di Milano – gruppogsl@yahoo.it
Forum uomo-donna del Gruppo Promozione donna (Testo redatto da Teresa Ciccolini, Betti Cambieri, Adriana De Benedictis, Grazia Villa)
Condividiamo lo spirito e gli obiettivi della Manifestazione indetta per il giorno 14 gennaio 2006, pur denunciandone la forzatura che l’incalzare delle decisioni politiche e degli eventi esterni al movimento delle donne hanno determinato.
Partecipiamo da tempo al cammino di consapevolezza e di libertà delle donne e perciò desideriamo anche noi “uscire dal silenzio” di una invisibilità apparente perchè favorita dalla sordità di chi non vuole ascoltare.
Siamo costrette a difendere ancora una volta una legge nonostante riteniamo che il diritto sia solo uno strumento necessario, ma inadeguato a garantire o a consentire l’espandersi delle libertà per tutti, in particolare per le donne che da
secoli ne sono l’oggetto più che il soggetto!
Crediamo poi che la posizione di “difesa” del già costituito limiti il procedere delle idee, la creatività dell’agire, la fantasia del cambiamento, il retrocedere per aspettare o raggiungere qualcuno, o solo il beato sostare all’ombra di quello che altre ci hanno regalato.
Non vogliamo rischiare di essere rinchiuse nuovamente nel recinto della presunta visibilità o udibilità di un corpo di donna toccato, molestato, violato o controllato, a scapito della pienezza della nostra realtà di donne che scelgono di vivere indivise nel corpo, nella mente, nel cuore, nella libertà.
Difendere la 194 allora significa non difendere un diritto d’aborto che non c’è nè può essere secondo noi considerato una conquista di civiltà, ma una legge promulgata per eliminare la piaga degli aborti clandestini e per decriminalizzare le donne, in questo senso e solo in questo senso “conquista di civiltà”.
Crediamo infine che il nostro essere laiche credenti ci autorizzi a prendere parola a pieno titolo anche all’interno della Chiesa istituzionale, richiamandola ad un ascolto attento e ad un confronto leale non gerarchizzato, libero da posizioni pregiudiziali e proteso al rispetto ed al sostegno della libertà di coscienza.
Tiziana Plebani
Nel 2000, come si ricorderà, Karol Wojtila fece una pubblica confessione degli errori commessi dalla Chiesa e dai cristiani nel passato, dalle Crociate alla tratta dei neri, dallo sterminio degli Indios agli eccessi dell’Inquisizione sino all’Olocausto.
L’ammissione delle colpe è un evento assai importante nella storia perché interrompe un processo lineare, dà voce alle sofferenze e alle ingiustizie procurate e crea le basi per una riconciliazione col passato. Tuttavia essa non è sufficiente: l’ammissione degli errori dovrebbe provenire da un sincero accoglimento dell’esistenza e delle istanze degli altri, quelli a cui si sono inflitte le pene, e, conseguentemente, inaugurare la volontà di non percorrere più la strada che ha condotto a tali errori, che, val la pena di ricordarlo, ha lastricato la storia di guerre, morti, bruciati nel rogo, donne disprezzate e condannate, individui torturati nel corpo e nell’anima ed espulsi violentemente dalla società attraverso il potere della Chiesa.
Questo accoglimento si era palesato nella strada imboccata da Giovanni XXIII ed espressa nel Concilio Vaticano II, soprattutto in quella volontà di uscire dalla logica delle condanne e di aprirsi alla dialettica interna ed esterna alla Chiesa. Tale direzione è stata abbandonata con Giovanni Paolo II, che ha inoltre rafforzato, come ben si vede, la struttura di potere delle più alte gerarchie ecclesiastiche e negato la parola a comunità di base, teologi dissidenti e al per nulla uniforme “popolo della fede”.
La logica della condanna, arma di potere e di rafforzamento dell’autorità, impone norme rigide e punitive e cristallizza i rapporti tra i fedeli e il capo spirituale, istaurando un’equazione pericolosa tra la sua figura e la figura del giudice del potere secolare, in assenza tuttavia di processo e di strumenti di difesa da parte dell’accusato.
Sono una laica e dunque qualcuno potrà chiedermi perché mi interesso di tutto ciò e non mi accontento di ribadire i necessari confini tra gli ambiti del potere religioso e quelli dello Stato. Più di una ragione invece mi spinge a pensare che la pura difesa della separazione delle sfere sia insufficiente e che alle idee che animano una cultura – perché quando si parla di religione si parla di cultura che come tale non è statica e astorica – si deve controbattere con altre idee. E chi vive in questo paese, come me, sa che la separazione tra le due sfere non è né esistente nel presente, dato l’ancora permanente confessionalità dello stato italiano, né tantomento nel passato. L’influenza della cultura religiosa, nel complesso delle credenze che hanno un significativo peso nel plasmare i comportamenti e la mentalità degli individui (un’influenza che è cresciuta a dismisura, come ben si vede, in tutto il mondo attuale), e la presenza di una struttura ecclesiastica di potere, sono altre ragioni che spingono chi voglia occuparsi criticamente della propria cultura di appartenenza a non ripararsi dietro a confini più immaginari che reali e a prendere parte nel discorso. Inoltre, proprio perché le idee, le pratiche e le cornici di senso non sono statiche, e non lo sono state nemmeno nel passato, è necessario evidenziarne i cambiamenti e, in quanto studiosa di storia, sono attenta alle svolte di pensiero che condizionano o vogliono condizionare la nostra vita.
E quella che è sotto ai nostri occhi è una svolta autoritaria delle più alte gerarchie ecclesiastiche che si sta prepotentemente acuendo e a cui bisogna rispondere non tanto e non solo fissando i limiti dell’influenza della Chiesa (visto che abitiamo lo stesso paese e la stessa cultura) ma confliggendo in merito ai metodi, alle questioni e all’oggetto delle condanne.
Gettare condanne e non assumere su di sé le sofferenze del mondo, la fragilità dei viventi, respingere e non accogliere, non perdonare, fare della minaccia di peccato un’arma di potere è, a partire dalla critica ai metodi, davvero un percorso violento, non tollerabile e che si è allontanato dalla strada dell’amore che lo stesso Cristo indicava perdonando la meretrice, proteggendo i deboli e gli umili (tematiche che non appartengono solo ai credenti ma alla storia dell’etica).
E in quanto ai contenuti, ciò che mi colpisce profondamente è l’incapacità dopo tanti secoli, dibattiti, scontri e alleanze, di guardare alla corporeità dei viventi come a un bene prezioso e non a un luogo di smarrimento e di bassezza, bensì a ciò che ci fa umani, viventi, bisognosi, nati da un corpo di madre che insegna il valore e la necessità dell’amore e del suo corpo, sessuato, finito, reale.
Perché ancora questa Chiesa (come molti ambienti politici, culturali, religiosi) non riesce ad accettare la realtà dei corpi e la differenza sessuale come ricchezza? Perché quest’insistenza sul celibato e sul rifiuto di entrata alle donne (presenti invece nella storia della Chiesa con figure di rilievo), che fa dei sacerdoti delle figure emotivamente fragili, e in profonda difficoltà a gestire la propria sessualità? Perché queste alte cariche ecclesiastiche non si prendono carico della radicale misoginia culturale di cui sono imbevute e non ne disinnescano la carica esplosiva?
La loro irrisolta ossessione verso le pratiche corporee li conduce a guardare il corpo femminile, il corpo Altro in assoluto per il clero maschile, come l’emblema della vita di pulsioni, umori, cicli biologici, godimento e bisogno, scandita da fecondità, da cui tutti originiamo e dipendiamo. E la dipendenza, se non è accolta “culturalmente”, è fonte di oscure paure e repulsioni.
La risposta attuale alla radicale diversità del corpo femminile rievoca la misoginia dei clerici medievali, rinfocola drammi ed errori del passato, quelli stessi per cui Wojtila ha fatto ammissione di colpa.
E il dominio, il controllo attraverso dettami e prescrizioni della vita sentimentale e sessuale, pare voler tendere a depotenziare le donne e gli uomini delle loro energie vitali e a convincerli di lasciare il governo del proprio corpo e di pulsioni, desideri e necessità – l’insieme del “disordine” del corpo – in mano a uomini ordinati (sacerdoti, prelati ecc) che invece dovrebbero ammettere la loro debolezza e il loro difficile equilibrio. Non è un caso dunque che ad essere oggetto delle maggiori condanne sia la direzione della sessualità, (che le donne e anche gli uomini, hanno voluto separare dalla fecondità) schiacciando i fedeli tra l’impossibilità di agire la contraccezione e l’imposizione della maternità e rinviando all’intera comunità di individui, credenti o meno, un’immagine misera e sporca del proprio desiderio.
Tuttavia, sia perché gli individui sempre più costruiscono il senso e il valore della vita a partire dalle proprie esperienze e dai propri sentimenti sia perché l’oggetto della repulsione dei clerici, le donne, ha risposto con una propria elaborazione culturale e con autonome pratiche politiche, tale presunto dominio sui cuori e sulle camere da letto sta mostrandosi sempre più nudo ormai agli occhi del mondo. E visibile così com’è – privo di amore e povero di accoglienza – resta solo un linguaggio violento e rozzo, svuotato di quella profonda umanità e rispetto della soggettività femminile che si riscontra nella cultura religiosa più autentica e pulsante.
Ed è quindi, attingendo anche a quel patrimonio, valore universale anche per i laici come me, che io, rispondendo agli attacchi sulla libera scelta della maternità che abbiamo voluto e praticato, guardo a Maria e a quell’episodio centrale non solo nella sua vita ma nel Cristianesimo tutto, incentrato nell’Annunciazione, una scena che ci è stata consegnata solo dal Vangelo di Luca. Uno degli elementi cruciali e non a caso sottaciuto, riguarda, nel colloquio con l’angelo Gabriele, il consenso della Vergine: solo l’accettazione consapevole di Maria dà corso alla storia, apre la possibilità all’avvento. E’ solo il suo sì che accoglie nel corpo e nella mente la vita.
Dunque le materie sulle quali alcuni esponenti delle più alte gerarchie ecclesiastiche stanno emanando condanne, dettami e divieti non sono tematiche che appartengono solo al popolo della fede ma riguardano la vita di tutte e di tutti e i valori e i simboli della nostra cultura e di ciò dobbiamo essere pienamente consapevoli.
Sara Gandini e Laura Colombo hanno introdotto il terzo incontro al Circolo della Rosa, per il ciclo Donne a confronto con quello che capita: Sessualità, maternità, procreazione, aborto è un vecchio titolo di uno dei primi Sottosopra (1975). Vale la pena parlare della 194 senza tirare fuori la sessualità e il conflitto tra i sessi?
Dov’è l’amore della chiesa?
In questo periodo ho molto riflettuto sul moralismo imperante della chiesta sulla questione dell’aborto. E lo trovo fuori luogo.
Soprattutto rispetto al mio pensiero in seguito alla lettura di Luce Irigaray e alla mia esperienza passata di cattolica praticante
La cultura cristiana è una cultura dell’amore. E anche la gravidanza è una questione d’amore.
Per spiegare il mio pensiero faccio riferimento appunto all’articolo di Luce Irigaray ‘Dentro il corpo di tutte le donne’
Luce Irigaray parla della nascita di un figlio come il perpetuarsi di un atto d’amore. Comprende quindi il corpo della donna assieme a esperienze, vissuti, emozioni, sentimenti propri di lei e in rapporto con il corpo, l’esperienza, i vissuti, emozioni e sentimenti del suo partner.
Gravidanza come il perpetuarsi di un atto d’amore, quindi. La sua interruzione avverrà per mancanza di questo o a seguito di gravi altre difficoltà. Non sono certo io la prima a pensare che abortire non sia una scelta facile o indolore.
Luce Irigaray sostiene che la maternità è una questione che riguarda la sfera dell’amore e non il moralismo. Questo il punto che mi ha colpito e su cui concordo..
L’amore però è anche il centro della cultura cristiana. “E se rileggo i Vangeli portatori della ‘Buona novella’ – scrive Luce Irigaray-, è di amore che sento parlare e non di morale, un amore che passa anche attraverso i corpi, che si toccano e diventano così capaci di compiere miracoli”.
Scrive anche di Maria che concepisce Gesù a seguito dell’Annunciazione dell’Angelo che le chiede se vuole diventare madre del Salvatore
“Questo passo in più nello sbocciare dell´umano – scrive – è stato possibile perché il Signore ha condiviso con Maria un soffio divino prima di metterla incinta ‘naturalmente’. Questo ci insegna l´evento dell´Annunciazione in cui l´angelo del Signore chiede a Maria se vuole essere la madre del Salvatore del mondo”
Ma io, Serena, sentendo i media e le sentenze moraleggianti dei portavoce della cultura cristiana, non sento il messaggio d’amore come si fosse perso per strada.
Eppure nella mia esperienza passata di cattolica ho vissuto molto amore. Un amore che ho sentito nella relazione con dei preti maschi, in particolare con uno, Padre Vittorio. Un’esperienza che non ritrovo nel pensiero della Chiesa che sento nei media.
Dov’è l’amore della cultura cristiana? Perché è l’amore in questione anche quando si parla di aborto. Perché allora non ci si intende?
Il moralismo sulla questione dell’aborto che aleggia, impera e si espande mi lascia perplessa.
Non sono certo la prima a dire e pensare che abortire NON FA CERTO PIACERE ALLE DONNE. Si tratta di una questione che lega corpo e sentimenti, emozioni, storie vissuti propri di lei e in rapporto con quelli del suo partner.
Mi colpiscono molto le parole di Luce Irigaray quando nel suo testo ‘Dentro il corpo di tutte le donne’, parla della gravidanza come perpetuazione di un atto d’amore.
Irigaray scrive inoltre: “Se la gravidanza risulta da un atto d´amore, non c´è dubbio che il desiderio della donna sarà di perpetuare in sé l´unione amorosa. Certo, ospitare l´altro in sé durante nove mesi non è una cosa solo agevole e gradita in ogni momento. Ma per amore, per l´amore, le donne sono capaci di oltrepassare i limiti della solita umanità.
Sfortunatamente, succede troppo spesso che la gravidanza non sia il frutto di un´unione amorosa di corpi e di anime”
Mi trovo molto in sintonia con queste parole anche se ci sono alcuni punti nel resto dell’articolo che mi lasciano un po’ perplessa.
Il primo è quando scrive “…La donna non ospita solamente un futuro individuo ma l’unione dei due corpi e delle anime che l’hanno generato” Mi chiedo se questa frase lasci forse intendere che nell’interruzione di gravidanza sia fortemente coinvolto l’uomo. In questa prospettiva il padre avrebbe quindi dei diritti. Se questo intende non sono d’accordo. La legge 194 lascia la decisione SOLO alla donna. E questo, almeno secondo, me, è importantissimo e deve restare così.
La gravidanza, anche se porta in sé un’esperienza di due, è comunque un fatto che riguarda il corpo di lei solo. E’ lei che genera, porta avanti il progetto di vita e infine mette al mondo la creatura. L’uomo, a parte l’inseminazione che avviene durante il rapporto sessuale, con la gravidanza e la sua eventuale interruzione non c’entra nulla.
C’è anche una parola dell’articolo su cui mi sono imbattuta e su cui ho voluto riflettere. Luce Irigaray definisce il feto ‘straniero’. Dice: “ma spesso accade che la gravidanza non è il frutto di un’unione amorosa di corpi e anime. E l’ospite non sia la perpetuazione di un atto d’amore.
L’ospite è uno straniero e questo non è facile…”
Straniero lo interpreto come Altro da me, però può capitare di intendere questo termine come ‘corpo estraneo’. Non penso che Luce Irigaray intendesse questo, tuttavia vorrei chiarire che ‘straniero’ per come l’ho interpretato io, intendo straniero come Altro da me.
Tornando ai punti dell’articolo a me cari, riporto alcuni passi che mi hanno profondamente colpito in quanto coinvolgono la cultura cristiana.
“L´interpretazione più positiva della ‘Buona novella’ del Cristianesimo consisterebbe nella riconciliazione fra corpo e anima. Il Cristo ne sarebbe il primo frutto se lo consideriamo come l´avvento o il ritorno del divino nella carne…
…il possibile incamminarsi dell´umanità verso il suo compimento grazie alla redenzione della carne per l´amore.
Questo passo in più nello sbocciare dell´umano è stato possibile perché il Signore ha condiviso con Maria un soffio divino prima di metterla incinta ‘naturalmente’. Questo ci insegna l´evento dell´Annunciazione in cui l´angelo del Signore chiede a Maria se vuole essere la madre del Salvatore del mondo…
…L´accento posto sull´aborto naturale non risulterebbe da una cecità rispetto a un aborto spirituale all´opera nella storia del Cristianesimo? Per mancanza di attenzione e fedeltà all´unione del corpo e dell´anima che può compiere l´amore? La morale non c´entra granché, in questo mistero. La sua preminenza avviene per la nostra incapacità ad amare. Certo, un diritto civile positivo deve tutelare la possibilità per la donna di assumere in modo responsabile la sua identità di donna. Il resto è un affare d´amore per cui difettiamo tuttora di un insegnamento adeguato, sia laico sia religioso.
E se rileggo i Vangeli portatori della ‘Buona novella’, è di amore che sento parlare e non di morale, un amore che passa anche attraverso i corpi, che si toccano e diventano così capaci di compiere miracoli.
Lo ribadisco: ci manca ancora una cultura dell´amore e del desiderio all´altezza della nostra tradizione”.
Quindi nella cultura cristiana si parla di amore e non di moralismi e pregiudizi. Oggi sembra tutto il contrario guardando la televisione o leggendo le dichiarazioni sui giornali.
Quello che mi ha fatto riflettere è anche la mia esperienza di cattolica praticante. Posso dire che quello che ho vissuto e ricordo è un’esperienza di amore e non di critica morale.
Frequentavo una chiesa di rione. Era piccola.
Certo seguivo i corsi di dottrina e venivo a contatto con tanti insegnamenti. Non posso negare che sentivo i sensi di colpa, che spesso venivano alimentati. E ne soffrivo.
Ma non posso neanche rinnegare esperienze speciali. Che sono quelle che ricordo con una lucidità che non dà quasi margine di errore. Parlo di una relazione positiva con un prete, padre Vittorio.
Non era il mio padre spirituale ma seguivo molto i suoi consigli.
Era positivo e sorridente.
A 17 anni ho avuto una crisi molto forte. Credevo che esistessero peccati per cui non si venisse mai perdonati.
Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse. Lo ha fatto un prete non uno psicologo. Ed è stato proprio lui. Padre Vittorio, in un incontro privato con lui, un incontro bellissimo. Mi ha fatto capire che Dio è Amore e Perdono. Sorrideva, evocava l’immagine di Dio come un oceano blu soleggiato (un oceano d’amore).
Comunque anche in altre occasioni padre Vittorio mi tranquillizzava sempre. Questo avveniva quando mi confessavo e durante il pulpito. Dava messaggi di speranza e non di ‘castrazione morale’.
Non era il solo. Anche Padre Marino era così, e anche Padre Alberto.
Ce n’era uno bacchettone invece, uno solo però. Le sue prediche, come anche quando ti confessavi da lui, erano infarcite di angoscia e di sensi di colpa.
Ma non ero solo io ad avere problemi con lui. Se ne parlava.
Io poi mi sono allontanata da quella cultura.
Per una crisi mistica che ho avuto mentre ero molto malata. Un discorso lungo.
Ora non so bene cosa fare, ma non c’entra adesso.
Quello che c’entra è che ho sentito amore nella mia esperienza cattolica e umanità che niente ha a che fare con Ruini, cardinali e tutti quelli che vedo in tv e leggo sui giornali.
La cultura cristiana è una cultura dell’amore. E anche la gravidanza è una questione d’amore. Dov’è l’amore della cultura cristiana? Perché è l’amore in questione anche quando si parla di aborto. Perché allora non ci si intende?
Sara Gandini e Laura Colombo hanno introdotto il terzo incontro al Circolo della Rosa, per il ciclo Donne a confronto con quello che capita: Sessualità, maternità, procreazione, aborto è un vecchio titolo di uno dei primi Sottosopra (1975). Vale la pena parlare della 194 senza tirare fuori la sessualità e il conflitto tra i sessi?
In Italia fino al 1975 l’aborto era una pratica illegale. Utilizzato da sempre dalle donne per far fronte a maternità indesiderate, era tuttavia perseguibile penalmente.
Nel 1975 un’importante sentenza della Corte Costituzionale stabiliva la differenza tra un embrione e un essere umano – precisamente la donna incinta -, e sanciva la prevalenza della salute della madre rispetto alla vita del nascituro.
Ecco un frammento della sentenza della Corte Costituzionale n. 27, del 18 febbraio 1975: “non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare” (fonte http://www.cortecostituzionale.it)
Il 22 maggio 1978 viene approvata la legge 194, una legge di compromesso – e leggendola si sente. Non si deve dimenticare che fu firmata da ministri democristiani e da un presidente della Repubblica anch’egli democristiano (Giovanni Leone). Già nel 1981 Laura Conti nel libro Il tormento e lo scudo parlava di “compromesso contro le donne”.
La 194 riconosce il diritto della donna a interrompere, gratuitamente e nelle strutture pubbliche, solo in queste, la gravidanza indesiderata.
Inoltre si stabiliscono politiche di prevenzione da attuarsi presso i consultori familiari.
Ed è ammessa la possibilità di non operare per il medico che sollevi obiezione di coscienza.
Il Movimento delle donne assume sostanzialmente due posizioni nei confronti della richiesta di una normativa sull’aborto, posizioni che sono ben riassunte nella voce Aborto (scritta da Clelia Pallotta) del Lessico politico delle donne / Donne e medicina, una pubblicazione del 1978: “Mentre i laici e i cattolici contrapposti portavano avanti la battaglia per l’aborto a livello parlamentare, il Movimento delle donne ha continuato separatamente il suo dibattito. Schematizzando si possono individuare due posizioni di fondo: una che ha visto nella formulazione di una legge che legalizzasse e rendesse assistito e gratuito l’aborto, la conquista di un diritto civile e il riconoscimento sociale dei diritti e della forza delle donne; l’altra posizione non ha invece ritenuto utile per le donne una riforma sociale, come è una normativa sull’aborto (…) Rimanere incinte senza desiderarlo o essere costrette ad abortire anche se si desidera un figlio provoca nelle donne conflitti e situazioni tali che nessuna legge può pensare di regolare, sistematizzare o risolvere. (…) Per questo si è chiesta semplicemente l’abolizione del reato di aborto, la depenalizzazione; la cura medica sarebbe stata garantita, come lo è per qualsiasi altra necessità de assistenza dei cittadini“.
Il fascicolo speciale del Sottosopra rosso del 1975 inizia con queste parole: “Recentemente nella società è prevalsa l’idea di trovare un compromesso meno ipocrita e meno iniquo su tale problema (l’aborto n.d.r.), salvo restando che tocca e toccherà sempre alle donne assicurare la limitazione delle nascite con i vari sistemi esistenti dei quali l’aborto è quello principale.
Noi donne invece diciamo: (1) che non vogliamo più abortire; (2) che non si può parlare di aborto senza chiamare in causa la sessualità dominante e la struttura sociale“.
I nodi posti alla discussione dalle donne che sostenevano la depenalizzazione dell’aborto sono pregnanti e a mio parere quelle questioni sarebbero da porre alla discussione anche oggi, in una società profondamente cambiata anche grazie all’avvento della libertà femminile. Naturalmente, in una situazione così modificata, alcune delle risposte potrebbero essere – a mio avviso – profondamente diverse. Vediamo le questioni in gioco nel movimento di allora:
1) Principio dell’autodeterminazione.
Rivolta femminile (gennaio 1975 – identità femminile e aborto): “L’inconscio della donna registra che la nascita di un altro essere avviene al prezzo dell’accettazione della sua propria morte. E nessuno, se non la donna stessa, può decidere se è giunto per lei il momento di tale accettazione”.
Gruppo donne di Torino (Sottosopra 1975 – la perdita del nostro corpo): “Diritto di decidere sempre e in ogni momento in prima persona quanto è bene per noi”.
2) Necessità di una presa di coscienza femminile a partire dalla sessualità e, da qui, messa a fuoco della centralità del conflitto tra i sessi, necessità che il conflitto si apra nella società (e non venga invece “pacificato” con la legge).
Rivolta femminile (luglio 1971 – Sessualità femminile e aborto): “Libera maternità e libera sessualità devono trovare i loro significati all’interno della nostra presa di coscienza: solo così saremo sicure che la libertà di cui si parla è la nostra e non quella del maschio che si realizza attraverso di noi, attraverso al nostra più occulta oppressione”
“L’uomo fa l’amore come un rito della virilità e alla donna accade di restare fecondata nel momento stesso in cui le viene sottratto il suo specifico godimento sessuale, nel momento in cui si compie l’atto che la rende sessualmente colonizzata. Una volta incinta la donna scopre l’altro volto del potere maschile che fa del concepimento un problema di chi p
ossiede l’utero e non di chi detiene la cultura del pene”.
Collettivo cherubini (febbraio 1973 – A proposito dell’aborto): “Mentre chiediamo l’abrogazione di tutte le leggi punitive sull’aborto (…) ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri nostri problemi (sessualità, maternità, socializzazione dei bambini e del lavoro domestico). (…) Perché l’aborto non sia un nuovo strumento di oppressione, esso deve rientrare in un programma di mutamento radicale delle nostre condizioni”.
Sottosopra 1975 (p.3): “Non è nel nostro interesse trattare del problema dell’aborto per se stesso. Il nostro sforzo è invece, mi sembra, di legare questo problema a tutta la nostra condizione, e a una questione in particolare, che è quella della nostra sessualità e del nostro corpo”.
Gruppo donne di Torino (Sottosopra 1975 – la perdita del nostro corpo): “Abbiamo così iniziato un discorso che oltre a contestare l’impostazione alienata della questione “aborto”, era un tentativo di incentrare il discorso sul nostro corpo, sulla nostra sessualità, nel convincimento che solo da questa riflessione può emergere una pratica autonoma originale, che facci esplodere la contraddizione dell’essere donne in un mondo che ci nega continuamente in quanto tali”.
Collettivo cherubini (Sottosopra 1975 – noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso): “Emerge qui la contraddizione tra sessualità femminile e sessualità maschile, la realtà del dominio maschile sulla donna (…) La clandestinità dell’aborto è una vergogna degli uomini, i quali spedendoci negli ospedali ad abortire ufficialmente si metteranno la coscienza in pace in modo definitivo. (…) Al contrario noi donne preferiamo: o essere lasciate in pace (le statistiche sulla frigidità parlano chiaro) o cercare godimento e gioia in altri modi”.
Collettivo cherubini (Sottosopra 1975): “[necessità di] mettere l’accento … sulla violenza, cioè sull’attuale rapporto di potere, di forza, che c’è tra uomini e donne. (…) Io credo che sarebbe utile analizzare tale rapporto di potere sia da parte di chi ha avvertito in modo tremendo la violenza che gli uomini hanno fatto sul corpo della donna ed è stata frigida completamente, sia da parte di chi non è arrivata a questa censura e magari ha somatizzato in modo diverso ad esempio è ricorsa alla finzione o alla seduzione per sostenere il proprio desiderio, per non dover tagliare e censurare totalmente il proprio corpo”.
Gruppo donne di Torino (Sottosopra 1975 – la perdita del nostro corpo): “[esigenza di parlare dell’aborto] in relazione alla legge, a ciò che il vecchio capitale esprime nella proibizione di questo intervento sul corpo della donna, che permette di far crescere nell’illegalità i traffici che vanno dai meno redditizi (alcune ostetriche ecc) ai più redditizi (cliniche di lusso). Distinguiamo da questi interessi quelli di un capitale più avanzato che preme per la pianificazione dei problemi inerenti alla crescita demografica e che quindi vuole l’aborto libero in condizioni igienico-sanitarie accettabili. (…) In tutti e due i casi l’atteggiamento è sempre univoco, astratto: dalla negazione di questo atto si passa alla proposta di “renderlo legale” senza andare alla radice dei motivi che avevano prodotto questo divieto, trasgredito peraltro continuamente (…)D’accordo sulla depenalizzazione dell’aborto in condizioni igienico-sanitarie buone, controllato da noi donne (..) Ma non ci basta. L’aborto non è la soluzione”.
3) Nell’analisi, nell’autocoscienza, emerge in forma molto forte la frigidità come sintomo di una sessualità che resiste all’asservimento. Cosa dice il sintomo della frigidità? Che cosa permette di mettere in luce? Attraverso la pratica dell’autocoscienza e dell’inconscio, i collettivi femministi cercano una via politica che permetta di far fronte ai nodi che via via emergono senza “delegare” alla legge un’improbabile soluzione. Viene messo al centro il rapporto con la madre, luogo dell’origine e contemporaneamente di una censura che non ha permesso la libera significazione del corpo e del desiderio sessuale femminile.
Collettivo cherubini (Sottosopra 1975):”C’è secondo me una mancata scoperta, perché non poteva avvenire autonomamente, liberamente, in un rapporto libidico con la madre (…) la madre è l’altra donna che doveva aiutare, quindi a investire in senso sessuale, in senso fantastico, positivo, il proprio corpo; mancando questa cosa, c’è una proposta di tipo coloniale e cioè ti dicono “guarda noi come ti desideriamo, vedi il nostro desiderio e riconosci lì che sei sessuata””.
Sottosopra 1975 (p.10): “La madre che ci è mancata (…) la nostra sessualità, legata alla percezione del nostro corpo, è censurata, muta; non esprime un desiderio autonomo nei confronti dell’uomo, ma rimane in attesa della chiamata dell’uomo al suo desiderio”.
Sottosopra 1975 (p.13): “Si parlava di questo rapporto con la madre, che è il primo rapporto che abbiamo avuto tutti, con la differenza che gli uomini l’hanno avuto con una donna, e noi invece … anche. (…) Ho l’idea di trovare proprio lì qualche cosa che ci dia un’indicazione diversa, nuova, che ci individui davvero come donne. (…) Da donna a donna si può forse ricostruire qualcosa di perso e che non ha mai avuto modo di crescere e di diventare reale. Tra noi potremmo ritrovarci madri l’un l’altra e ricominciare da lì, dalla percezione di un corpo uguale e potremmo al fine trasmetterci qualcosa di diverso che non questa censura del nostro desiderio, o questo rifarsi al desiderio dell’uomo che ci chiama a soddisfarlo”.
Torniamo alla legge, che sancisce in parte il principio dell’autodeterminazione femminile, per quanto, come dicevamo, sia un compromesso.
Contro questa legge vennero avviate tre raccolte di firme per indire altrettanti referendum: una da parte dei Radicali (che ne chiedevano una modifica in senso più ampio), e due da parte del Movimento per la Vita (una per un’abrogazione “minimale”, una per l’abrogazione totale). Quest’ultimo verrà poi dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale.
Il 17/18 maggio 1981 il voto: la proposta cattolica venne bocciata a schiacciante maggioranza (68%), quella radicale anche (88%).
Tuttavia gli attacchi (in senso restrittivo) alla legge, o meglio, i tentativi di una sua correzione non sono mancati dopo il referendum abrogativo, anche da parte di uomini del centrosinistra.
Mi chiedo: qual è il fine di questi attacchi? Di fatto, dopo la perdita secca del referendum abrogativo del Movimento per la vita la posta in gioco della politica istituzionale non ha più potuto essere il ritorno nell’illegalità dell’aborto. Infatti questa legge è considerata una legge forte, su una materia delicata e difficile da legiferare. Non mi pare che sia tanto la legge la cosa da difendere, ma sicuramente c’è da portare avanti una battaglia culturale perché non passino alcune idee sulle donne, sul piacere, sulla vita, sulla morte, il fatto che l’aborto sia qualcosa di immorale ecc…. perché altrimenti si forma un BLOCCO IDEOLOGICO, con personaggi anche molto distanti come Ferrara e Ruini, che però per esempio sull’aborto sono alleati. Certamente poi c’è il calcolo politico, che è di ottenere i favori della chiesa cattolica (irriducibilmente contraria alla pratica abortiva).
Andando a rileggere articoli che riguardano questo tema, ho notato una sorta di ripetizione: ogni volta, e anche questa volta, c’è in ballo la paura degli uomini, il tentativo di introdurre nei consultori personaggi del Movimento per la Vita che dissuadano le donne, la questione dei diritti dell’embrione.
Rossana Rossanda, in un articolo del manifesto del 2 giugno 1988 commenta la posizione di Giuliano Amato che pone in discussione il fondamento stesso della legge sull’aborto: la decisione autonoma della donna. La 194 ha riconosciuto che spetta alla donna la decisione per un processo che si compie in lei sola; ma ciò non significa negare la partecipazione affettiva dell’uomo in una scelta così importante. Significa solo che l’uomo non potrà più dire, come dice Amato, “non tollero che non nasca un figlio che io voglio“.
Qui emerge il tema ricorrente della paura dell’uomo, paura della perdita di controllo, paura dell’unico potere in mano alla donna – potere di dare la vita ma anche toglierla.
Annamaria Guadagni, in un articolo dell’8 marzo 1989 pubblicato sull’Unità scrive: “fuori dal corpo della donna si combatte un’altra battaglia. La guerra non dichiarata tra l’uomo che vede se stesso embrione davanti al fantasma di una madre distruttiva e non accogliente. E quella dichiarata e combattuta da millenni per il diritto patriarcale sulla prole, che ha fatto scempio del corpo delle donne, ridotto a strumento e oggetto di contrattazione“.
Lea Meandri in un recente articolo pubblicato su Liberazione (27-11-2005) dice: “Limitarsi ad affermare il primato della donna nella procreazione (…) significa anche, purtroppo, offrire un’occasione facile alla misoginia di ogni tipo, e alle paure infantili più profonde di ogni individuo, per affermare il diritto del bambino a nascere, sulla base di quel gioco di identificazioni che agiscono quasi sempre inconsapevolmente e in modo diverso nella vita di ognuno“. E propone di rimettere al centro il conflitto tra i sessi nella sessualità, propone di ricominciare a parlare di sessualità, oltre a manifestare in difesa della legge.
Nel 1989, in un articolo del manifesto, Grazia Zuffa (allora senatrice del PCI) evidenzia come l’allora ministro democristiano Donat-Cattin, antiabortista di ferro, nella sua relazione annuale ha di mira la trasformazione dei consultori statali in presidi di dissuasione dell’interruzione di gravidanza. Anche oggi, come noto, siamo alla riproposizione di questo punto. Stefania Giorgi sul manifesto del 22-11-2005 scrive: “La lotta inesausta della Chiesa contro le donne con a fianco vecchi/nuovi chierichetti disseminati nel centrosinistra e nel centrodestra – ringalluzziti dal vittorioso referendum sulla procreazione assistita (qui c’è un’errata valutazione politica: ai referendum è mancato il quorum, non c’è stata vittoria) – si ammassano nel ventre di questo cavallo di Troia: ripensare le modalità applicative della legge, battere il tasto di quanto non è stato fatto per la tutela della maternità. La prevenzione – affidata ai consultori e presente nella 194 – ben presto è scivolata nella dissuasione cui il testo della legge non fa alcun cenno“.
Un articolo dell’Unità del 4-3-1989, Emanuele Lauricella (ginecologo, si è occupato di procreazione assistita con Flamigni) parla di RU-486 dicendo che se esistono i mezzi che producono il distacco dell’uovo nelle primissime fasi non vede perché non debbano essere usati. E sottolinea come vi sia una mistificazione del termine “embrione“, che non deve essere usato per tutto lo sviluppo, dall’uovo fecondato alla nascita del bambino. È necessario usare “termini differenziati, che tra l’altro collimano con la grande tradizione teologica, filosofica, anche della patristica cristiana“. Il termine “zigote” indica l’ovulo fecondato, che ancora non ha iniziato la moltiplicazione cellulare. “Embrione” è il termine che indica che le cellule si sono differenziate in tessuti. Sente l’esigenza di “assicurare il legislatore che l’ammasso di cellule finché è divisibile meccanicamente per dar luogo a due individui differenti non è un individuo umano. Quando si sviluppano i tessuti allora questo organismo diventa indivisibile. E quando l’individuo ha possibilità di vita autonoma? Anche questo lo possiamo dire: verso la fine del 6 mese“.
Questo in parte si incrocia con la controversa questione della legge 40, la cui esistenza è in contraddizione con la 194. Addirittura Gianfranco Fini, in un’intervista del 6 giugno 2005 afferma: “Ma il provvedimento approvato (legge 40 n.d.r.), a mio avviso molto restrittivo, pone un problema di coerenza legislativa con altre leggi dello Stato. A partire dalla legge che regola l’aborto. Il comitato che si oppone al referendum ha coniato lo slogan “sulla vita non si vota”. Rispetto questa posizione, però mi chiedo: il principio della sacralità della vita è tutelato integralmente nella nostra legislazione? Come far finta di nulla dinnanzi alla legge 194 e alla possibilità di interrompere la gravidanza in certi casi? Ecco la contraddizione insanabile: se l’embrione è vita, non lo è ancor di più il feto?”.
E Stefano Rodotà, in un bellissimo articolo di Repubblica del 21 novembre 2005 intitolato “Se l’embrione è più importante di una donna” scrive: “Tutto per l’embrione, purché nasca. Nulla a chi è già nato, ai bambini adottabili, che possono rimanere privi della possibilità di inserimento in un nucleo familiare anche quando vi sia la richiesta di adozione da parte di una persona sola“.
Certamente le questioni sono delicate, i piani molteplici, ma a me pare che il criterio in base a cui regolarsi sia che la vita umana passa necessariamente attraverso l’accettazione di una donna che la accoglie, la coltiva per consegnarla al resto dell’umanità. È la posizione che Luisa Muraro ha espresso in un articolo per il sito, “Sulla vita umana”, e che ha ribadito in un recentissimo pezzo, sempre per il sito, in cui afferma la necessità che “il diritto inscriva il principio della libertà femminile all’inizio della vita umana“.
Sul cosa fare e come procedere il movimento delle donne non ha mai avuto – per fortuna a mio avviso – una compattezza e una risposta univoca. Accanto a una risposta di tipo “movimentista”, che pure ritengo importante, si è sempre affiancata la necessità di parlare, approfondire, discutere, fare ricerca. E queste esigenze, accompagnano anche la storia della 194.
In un articolo del maggio 1989 pubblicato su Noi Donne, Roberta Tatafiore e Silvia Tozzi si interrogano: Ma la legge ci piace? Interrogano cioè la risposta di piazza a sostegno di una legge che presenta molte ombre. E riportano le parole di Silvia Vegetti Finzi: “Bisognerebbe davvero creare occasioni di incontro tra noi dove mettere insieme parti della nostra identità senza fughe e senza deleghe. Non per rimettersi a fare figli per obblighi sociali. Per accettarci, col nostro istinto di procreazione, quello che a volte ci fa incorrere nello “scacco” dell’aborto, e però anche col nostro bisogno di scelta“.
Alessandra Bocchetti, in occasione della grande manifestazione del giugno 1995 diceva: “Noi del Virginia Woolf/B pensavamo di fare una convention, ma da altri gruppi è venuta una forte spinta per il corteo. Riteniamo che il corteo significhi più che altro rabbia; è una forma significante rivendicazione, protesta. A mio avviso il salto che si deve fare è di non mostrare la rabbia, ma far agire la forza, la fermezza, la determinazione che abbiamo. Il corteo quindi non ci sembrava una forma adatta ad esprimere questa forza reale. In seguito abbiamo pensato a questa soluzione della convention all’aperto dove la forma corteo potesse confluire, unirsi. Questo mi sembra un modo per stare insieme rispettando i due sensi“.
Ora mi chiedo: oggi cosa fare? La macchina organizzativa della manifestazione del 14 gennaio è in moto, benissimo, sarà un successo anche per la forza e l’impegno che molte ci stanno mettendo. Tuttavia ritengo che il campo in cui spendere le energie più preziose non sia quello disegnato dalla reazione, anche se dalla reazione all’ingiustizia possiamo trarre la forza per tratteggiare la contraddizione più stridente, quella che è necessario far scoppiare perché vi siano reali modificazioni. In causa, qui, ci sono gli uomini. Non certamente come i “soli responsabili” del “problema aborto” in quanto portatori di una sessualità che riproduce il dominio sessista. Gli uomini e la nostra relazione con loro. Che non deve rimanere (per chi ce l’ha) nel privato, ma deve essere analizzata politicamente (quindi anche insieme alle donne che non hanno una relazione affettiva con l’uomo) per disegnare un nuovo spazio pubblico, politico.
Non si tratta qui di correggere la legge per introdurre l’assenso dell’uomo (che si dichiara il padre). Non voglio mettere sotto tiro il fatto che sia la donna sola a decidere se sì o no alla vita che porta dentro. Si tratta piuttosto di capire se l’altro, che è un uomo, in una relazione di scambio, mi è necessario per un lavoro politico che parta dalla vita, dai problemi, dagli scacchi, da quello che per lui è una frustrazione che si trasforma spesso in attacco (intendo: il non poter decidere, perché è la donna che ha l’ultima parola sul suo corpo) per creare nuovo pensiero, una nuova civiltà, che forse, un giorno, il diritto potrà registrare. Insomma, per non restare sempre in una posizione di “retroguardia”, che si limita a difendere i diritti già ottenuti, ma che non si pone come posta in gioco un cambiamento nel sentire comune, e lascia all’avversario, alla mentalità conservatrice e di destra, il monopolio dei valori.
È per questo che bisogna coinvolgerli, perché si crei nuova cultura, un senso comune, condiviso. Abbiamo visto che invece da parte degli uomini si è sempre sentita paura, variamente espressa, oppure si sente un’accettazione intellettuale, di chi ha presente l’istanza democratica, ma poi esce questa paura, la paura della sproporzione.
Gli uomini di oggi sono cambiati, perché le donne sono cambiate con il femminismo. Non si tratta più – a mio avviso – di separare, di dividere, mossa importantissima del primo femminismo per una presa di coscienza radicale, quanto di guadagnare cambiamenti, saper vedere i punti di scacco, in una relazione politica con gli uomini (politica nel suo senso più largo, che comprende la vita di tutti e ciascuno).
Se l’altro mi è necessario, allora devo lottare per trovare lo spazio di praticabilità di questa relazione, perché questo spazio ancora non c’è: non può essere quello della manifestazione, non è quello della politica istituzionale (possiamo vederlo anche nello scambio tra Lea Meandri e Bertinotti su Liberazione di Ottobre).
Alcuni uomini iniziano a interrogarsi – faticosamente – a partire dalla propria esperienza. L’abbiamo visto, per esempio, su Liberazione, dove Angela Azzaro ha chiesto il contributo ad alcuni a partire dalla domanda “maschi, perché uccidete le donne?”. C’è stato anche un convegno a Parma nel giugno di quest’anno, intitolato “Per amore della differenza. Percorsi di uomini e di donne per un altro rapporto tra i sessi”…
Ripartiamo a parlare di sessualità con gli uomini, e con le donne in età feconda, con quelle che ricorrono all’aborto, quelle che ne fanno a meno, in uno spazio di ascolto che è da inventare.
Alcuni numeri dell’aborto
Come nota finale, indispensabile secondo me per la discussione oggi, è necessario fornire alcuni dati, prodotti dallo stesso ministero della salute. Infatti, al fine di sorvegliare l’andamento del fenomeno, la legge prescrive che il Ministro della salute presenti una relazione annuale sull’applicazione della legge stessa. A ottobre 2005 è stato reso noto il rapporto che raccoglie i dati definitivi per il 2003 e quelli generali del 2004.
Nel 2004 gli interventi sono stati 136.715, il 2,6% in più rispetto ai 132.178 interventi del 2003. Tuttavia bisogna sottolineare che il decremento dal 1982 (anno in cui, con oltre 234 mila casi, si è registrato il picco più alto) è del 41,8%.
In particolare, il contributo maggiore all’aumento della tendenza è stato dato dalle regioni del centro (+6%) e del nord (+4,8%), mentre nel sud e nelle isole è stato registrato un leggero calo (-0,1%).
La valutazione della tendenza si basa sul tasso di abortività, ossia il numero di IVG per 1000 donne in età feconda (15-49 anni). Il tasso di abortività è passato dal 9,6 per 1000 del 2003, al 9,9 per 1000 del 2004.
Dal 1983 al 2003, i tassi di abortività sono diminuiti in tutti i gruppi di età, con riduzioni meno marcate per le donne con meno di 20 anni (-12,5%), inoltre, dal 1995, è stato osservato un leggero aumento per le classi di età 20-24 e 25-29 anni.
La distribuzione per titolo di studio segue un andamento già rilevato negli anni precedenti con prevalenza di donne in possesso di licenza media inferiore (46,4%) e superiore (40,4%).
Per quanto riguarda lo stato occupazionale si è evidenziata una prevalenza di donne con un lavoro (48,9%), mentre il 27,1% è casalinga e il 10,1% studente.
Un dato rilevante è quello relativo alle donne straniere, che hanno praticato l’aborto in Italia, e che sono passate da quasi 9 mila nel 1995, anno in cui si è iniziato sistematicamente a rilevare l’informazione sulla cittadinanza, a 29 mila nel 2002, con un aumento complessivo del 226,3%, per arrivare a circa 32 mila del 2003. Nel 2003 gli interventi di interruzione delle donne straniere hanno rappresentato il 25,9% del totale delle IVG, mentre, per esempio, nel 1998 tale percentuale era del 10,1%.
(fonte http://www.ministerosalute.it/)
Sara Gandini e Laura Colombo hanno introdotto il terzo incontro al Circolo della Rosa, per il ciclo Donne a confronto con quello che capita: “Sessualità, maternità, procreazione, aborto” è un vecchio titolo di uno dei primi Sottosopra (1975). Vale la pena parlare della 194 senza tirare fuori la sessualità e il conflitto tra i sessi?
Circolo della Rosa
La proposta che e’ uscita dall’incontro alla Camera del lavoro, riguardo alla manifestazione, e’ una proposta valida. Come diceva Irigarai, essere insieme a camminare, a cantare, ad affermare la necessaria liberta’ del proprio corpo e della propria parola puo’ regalare cose inaspettate. L’energia comincia a circolare tra le persone, tra esse e la citta’. Puo’ succedere qualcosa di imprevisto. E se anche fosse solo piu’ gioia non sarebbe poco.
Pero’ qui vorremmo anche continuare a riflettere, e mettere in circolo pensiero, per capire cosa sta capitando.
La prima considerazione importante, da cui non si puo’ prescindere, e’ che la vita umana arriva a questo mondo passando necessariamente attraverso la libera accettazione di una donna che la accoglie e la coltiva. Che deve dire Si’. Quindi prima di tutto bisogna chiederle il permesso e riconoscerle competenza. Il punto della competenza femminile sulla maternita’ e della necessita’ del suo assenso e’ una cosa molto importante e pero’ fa problema, perche’ crea uno squilibrio, una disparita’ che fa paura.
Infatti le reazioni che leggiamo ci dicono che la parte contraria alla 194 non ha accettato la situazione di diritto, come pare invece sia avvenuto per il divorzio. Ma ha continuato ad organizzare la propria opposizione puntando all’erosione del consenso alla legge. Perche’?
Innazitutto la legge mette in discusione sentimenti profondi e stratificati come quelli che derivano dal valore simbolico che attribuiamo alla sessualita’ e alla riproduzione, e che nella civilta’ cristiana si e’ concentrato prevalentemente in una valorizzazione della donna in quanto madre e del bambino.
Le manovre a cui abbiamo assistito dalla 194 alla fecondazione artificiale potrebbero stare in una strategia volta a spostare la cultura politica, la civilta’ del paese, ma potrebbero essere legate anche alla volonta’ di mantenere il controllo sulla famiglia da parte della destra. Mentre la cultura della sinistra e’ debole sulla vita e non ha neanche personalita’ femminili forti e combattive, come ci sono a destra tra Prestigiacomo e Mussolini che hanno avuto il coraggio di parlare al di fuori degli schieramenti.
In piu’ sessualita’ e riproduzione sono il luogo originario in cui la differenza tra i sessi diventa dominio sulle donne; e’ evidente che la legge sull’aborto pone in primo piano l’autodeterminazione della donna rispetto alla sua vita e la sua sessualita’.
A questo proposito ho trovato interessante l’intervento della Soncini sul Foglio che sottolinea la dispartita’ di potere che c’e’ in gioco con la maternita’. Lei afferma che tra le altre cose c’è adddirittura il “sostituirsi a Dio”. Cito: “chi sei tu per scegliere di dare la vita e la morte?”. “Sono una che può dare la vita e anche decidere di non darla.” Lei dice. “Spiacente, è una discussione impari. Magari nella prossima vita sei fortunato, nasci con un utero, ma per ora non puoi praticare nessuna delle due opzioni.”
Amato a suo tempo diceva: non tollero che non nasca un figlio che io voglio. Sofri su Repubblica di settembre, quest’anno, scrive: “Come posso parlare dell´aborto, senza ricordarmi che non posso abortire, ma che in cambio posso spingere apertamente una donna ad abortire, o vietarle furiosamente di farlo, o lavarmene vilmente le mani, o fare una faccia compunta e partecipe e scongiurare dentro di me che abortisca” e va avanti cosi’ e poi finisce dicendo” E sono, nel loro “seno”, nel loro “grembo” – nel loro utero – figli nostri.” Qui e’ evidente che da un punto di vista intellettuale lui accetta lo squilibrio, pero’ è altrettanto chiaro che e’ dura per lui, lo accetta con difficoltà. Infatti alla fine gli scappa la frase dove si riferisce a “I nostri figli”. Quando in realta’ sono solo potenzialmente i suoi figli. C’e’ quindi in gioco il desiderio di paternita’, oltre alla difficolta’ per l’uomo di accettare questo squilibrio. Uno squilibrio riconosciuto dalla legge, la quale rispetta una disparita’ naturale. Per l’uomo e’ dura accettare di essere escluso dalla quella decisione. Ma a questo punto deve chiedere alla sua compagna e quindi abituarsi all’ascolto e al confronto con lei, senza avere in mano il potere decisionale. Deve quindi accettare il limite della paternità.
Molto probabilmente c’e’ in gioco anche la paura rispetto al fantasma di una madre distruttiva e non accogliente. Gli uomini non vogliono essere abortiti, e su questo a destra e a sinistra non c’e’ grande differenza. Piu’ o meno consciamente sono dentro entrambi a questa contraddizione.
In realta’ fermarsi alla 194 e non arrivare alla semplice depenalizzazione ha voluto dire che consentivamo allo stato e agli uomini di mantenere un certo controllo sulla riproduzione. La legge 194 non è abortista. Infatti non autorizza l’aborto, al contrario condiziona la sua pratica a certi limiti, fra cui l’obbligo di rivolgersi ad una struttura sanitaria pubblica.
Tra le altre cose e’ interessante notare che molti uomini attaccano la 194 sostenendo che la vita e’ sacra, senza rendersi conto che esprimono una contraddizione enorme, visto che la civilta’ della guerra, o degli immigrati che regolarmente annegano nel tentativo di emigrare – e’ una civilta’ sostenuta principalmente dagli uomini – e qui la vita non e’ per nulla sacra.
Detto questo pero’ varrebbe la pena riparlare anche di sessualita’, come hanno detto alcune anche alla Camera del lavoro, e tra queste Lea Melandri.
Negli anni ’70, le donne di Rivolta dichiaravano che il concepimento era il frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna. Affermavano che era il piacere imposto dall’uomo alla donna a condurre alla procreazione. Dichiarazioni forti, legate alla scelta della separatezza che ha svolto un ruolo simbolico fondamentale negli anni 70. La rottura relazionale era necessaria per significare la libertà femminile, per valorizzare l’autonomia dal giudizio dell’uomo, proprio per far nascere libertà femminile nelle relazioni tra donne. Questo ci ha messo in condizione di avere un rapporto contrattuale e libero con l’altro. Il gesto della separazione era quindi un gesto di chiamata all’interlocuzione nella libertà e non più nella complementarietà, nella subordinazione.
Grazie al femminismo abbiamo conquistato una liberta’ che ha permesso una consapevolezza e una contrattualita’ all’interno della coppia che rende sempre piu’ esplicita e di valore la disparita’ fra i sessi. La forza acquisita dalle donne ha inoltre portato un guadagno anche per gli uomini grazie alla scoperta di una sessualita’ poliedrica, in cui l’altra e’ divenuta un soggetto autorevole con precise richieste.
Pero’ rispetto agli anni 70 tante cose sono cambiate ma soprattutto e’ cambiata l’interpretazione delle cose, lo sguardo sulla realta’. Una volta si parlava molto della firigidita’, ora dell’impotenza o dei problemi legati alla fecondita’. Noi vorremmo interpretare il presente, partendo dalle conquiste del passato.
L’acquisizione della liberta’ da parte delle donne ha fatto si’ che ora per molte anche la sessualita’ vaginale possa rientrare in una libera scelta basata sulla ricerca del piacere tanto quanto per gli uomini. E il concepimento ora piu’ che mai chiama in causa la responsabilita’ di entrambi. Non possiamo piu’ dire che la contraccezione o il sesso vaginale sono un problema solo degli uomini, che non ci riguardano. Non possiamo piu’ dire che le donne vogliono essere lasciate in pace o che cercano godimento in altro modo. Ora quella parola libera che abbiamo conquistato bisogna scambiarla.
Il punto essenziale è quindi la libertà femminile. Che rende possibile la relazione politica con l’altro. Ma questo non significa che la rende obbligatoria: infatti, da una posizione di libertà, è possibile anche scegliere la NON relazione con l’altro, e questa continua a essere la scelta di molte donne.
Dal mio punto di vista, però, penso che non si possano più lasciare fuori gli uomini da questa lotta. Io vorrei evitare la ripetizione, e vorrei lottare invece per una civiltà in cui la donna non sia colpevolizzata e l’uomo accetti profondamente – e non solo intellettualmente – lo squilibrio in gioco quando c’è in ballo il suo desiderio di paternità, quando si appella al principio morale legato alla vita che deve nascere.
Dopo l’assemblea del 29 novembre a Milano, “usciamo dal silenzio” è ormai una realtà in tutta Italia. L’invito rivolto alle donne e agli uomini di altre città ad organizzare, per la giornata del 18 dicembre e dintorni, assemblee analoghe a quella che si terrà a Milano in quella data (alle 21 in Camera del lavoro, Corso di Porta Vittoria 43) in preparazione della manifestazione nazionale del 14 gennaio a Milano “per la libertà delle donne, premessa e compagna della liberta’ di tutti, per l’autodeterminazione e la difesa della 194”, ha raccolto molte adesioni, e le risposte non hanno tardato ad arrivare.
Ecco gli appuntamenti previsti; per alcuni non ci è ancora pervenuta le sede o l’orario, ma vogliamo segnalarli ugualmente:
Palermo 12-12 ore 15.30 Palazzo dei Normanni “A trenta anni dalla nascita: i consultori familiari tra ostacoli e prospettive l’incontro è organizzato dalla CGIL Sicilia”
Bergamo 13-12 sala Lama della Cgil di Bergamo in via Garibaldi 3
Vigevano 15-12 ore 21.00
Camera del lavoro Venezia Mestre 16-12 ore 19 Assemblea delle donne, aula Magna Istituto Pacinotti – Mestre, Via Caneve Ferrara 17-12
Genova 17-12 in Piazza Matteotti presidio e volantinaggio
Genova 18-12 ore 20.30 Assemblea sala blu dopolavoro ferroviario – via A.Doria 9 zona Principe
Milano 18-12 ore 21,00 assemblea in preparazione della manifestazione nazionale (presso la Camera del lavoro di Milano, Corso di Porta Vittoria 43)
Bologna 18-12 assemblea per organizzare una grande partecipazione da Bologna alla Manifestazione in difesa della 194
Roma 18-12 Casa internazionale della donna, Via della Lungara 19
Firenze 18-12 Giardino dei Ciliegi L’Aquila 18-12 ore 16,00 Assemblea delle donne – Centro civico di Paganica
Ravenna 19-12 ore 18 ARCI via Rasponi 5
Varese 19-12 ore 21 Assemblea c/o Circolo Viale Belforte 177
Mantova 20-12 ore 21,00 assemblea delle donne
Pistoia 20-12 ore 21,00 3° incontro presso il Circolo ARCI Bugiani
Torino 20-12 ore 20,30 Aula Magna Istituto Avogadro,via Rossini 18,incontro pubblico promosso dal Coordinamento cittadino delle donne
Pistoia 20-12 ore 21.00 3°incontro presso il Circolo ARCI Bugiani
Milano – Sabato 14 gennaio 2006, alle ore 14, manifestazione nazionale
La rete di comunicazione è il sito www.usciamodalsilenzio.org, attraverso il quale si sta realizzando uno scambio continuo di opinioni: sono già oltre mille le adesioni individuali e collettive alla manifestazione del 14 gennaio e, dal 29 novembre, sono state visitate quasi 8.000 pagine, con una media di 600 pagine al giorno, 1286 sono le iscrizioni alla mailing list e 188 i commenti ricevuti.
L’impegno continua!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Per informazioni, il numero di servizio per l’organizzazione della manifestazione, che entrerà in funzione a partire da domani è: 335/8778529
L´attacco dell´arcivescovo di Bologna Caffarra: gravi responsabilità
Marco Politi
ROMA – Femministe sotto attacco nell´omelia che l´arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra dedica alla Madonna Immacolata. Sul banco dell´accusa mette «l´ideologia femminista», colpevole di aver costretto la donna a vivere in situazioni contrarie a dignità.
Parte dalla festa mariana dell´8 dicembre monsignor Caffarra per riaprire il discorso sulla posizione della donna nella società contemporanea. Con riflessioni amare. «La diversità è negata – spiega – quando in cerca di lavoro la donna si sente chiedere “Signora, pensa di avere presto dei figli?”, se non ne ha. Oppure, se è già madre: “Ne avrà degli altri?”». Domande analoghe, sottolinea l´arcivescovo, non vengono mai rivolte agli uomini in cerca di impiego.
Partendo da questa descrizione realistica, Caffarra sente il bisogno di attaccare il femminismo storico. «La deturpazione e degradazione del bene della femminilità – ha esclamato durante la celebrazione nella basilica di San Petronio – non ha solo un risvolto soggettivo, non è solo opera di singoli. Essa ha anche un risvolto oggettivo. Non raramente la donna oggi è costretta a vivere in un contesto contrario alla sua dignità, di cui porta gravi responsabilità, nonostante le intenzioni, anche l´ideologia femminista».
Tra i capi d´accusa l´arcivescovo elenca la negazione teorica e pratica della diversità femminile. Confondere l´eguale dignità della persona con l´eliminazione della ricchezza propria della femminilità. Dimenticare – così dichiara – che la pienezza e la perfezione dell´umanità si ha nell´integrazione tra la sua forma maschile e la sua forma femminile.
In realtà, il rifiuto del maschile, il separatismo, una certa critica radicale della “femminilità” appartengono a epoche remote del femminismo italiano e internazionale. È da decenni che la riflessione femminista punta a valorizzare in positivo e in rapporto con il mondo maschile la ricchezza della diversità della donna. Semmai il femminismo storico ha permesso il sorgere e lo svilupparsi anche di un femminismo cattolico e ha lasciato persino tracce positive nell´ultimo documento scritto sulla donna da Joseph Ratzinger, quando era ancora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Caffarra preferisce insistere sulle «gravi responsabilità» delle femministe. Resta il fatto, nota il presule, che la costruzione di una società a misura del «bene proprio della femminilità» è una sfida ancora «senza risposta». Missione della donna, ha concluso l´arcivescovo di Bologna, è quanto indica la persona stessa della Madonna: «Custodire, salvare, generare (non solo in senso biologico) la vita della persona» e non permettere mai che sia privata della sua dignità.
Alle donne nella basilica Caffarra ha rivolto un´esortazione precisa e pressante: «Nella vostra libertà sta la possibilità di deturpare e degradare il bene della femminilità… o di vivere interamente lo splendore della femminilità, facendone un dono all´umanità».
Nota Bene della Redazione: La notizia non è l’arcivescovo Caffarra che parla male del femminismo, lo hanno fatto in tanti, ma Politi, il giornalista della Repubblica, che ne parla bene, nel senso basico di bene/male: essendo o non essendo informato della cosa che si vuole giudicare. Finalmente del femminismo italiano, a livello giornalistico di massa, parla uno che si è informato. Fino ad ora ce n’era una, adesso, con Marco Politi, sono due, siamo speranzose – detto senza ironia.
Luisa Muraro
Stiamo assistendo ad una pantomima di politici, intellettuali ed ecclesiastici, intorno alla legge che ha legalizzato l’aborto in Italia.
Alcune donne cominciano a reagire, in parlamento, sui giornali e in altre sedi. Un’assemblea autoconvocata, donne e uomini, alla Camera del lavoro di Milano, ha indetto una manifestazione nazionale per il 14 gennaio, a Milano. Ma occorre capire meglio il significato di quelle strane manovre maschili. C’è bisogno di pensiero, Quello che dirò viene da una riflessione che sto facendo con donne della Libreria e altre, uomini non esclusi.
È piuttosto evidente che c’entrano le elezioni politiche, ma non è l’essenziale. Le elezioni sono vicine e il centrodestra avrà pensato di allearsi con “i preti”, cioè con vescovi e parroci di cui si sa che insegnano e predicano che l’aborto è un peccato molto grave (non proprio un omicido, come qualche volta si sente dire, ma quasi). Niente di molto nuovo, certo, ma rispetto al passato c’è una novità. Ancora pochi mesi fa, arrivavano attacchi ai politici “abortisti” (chi erano? probabilmente quelli del centrosinistra, Prodi in testa, che non intendono modificare la 194). Gli attacchi di questo tipo sono cessati. In passato dicevano: bisogna abrogare o quanto meno “migliorare” la legge 194, adesso non più. Come mai? Credo che si siano resi conto che la legge 194 non è una legge abortista. Da qui un cambiamento di rotta: bisogna applicare “meglio” la legge, facciamo una commissione d’inchiesta, ecc. Quest’impostazione ha ricevuto l’assenso del Vaticano, così com’è successo per la difesa della legge 40 sulla procreazione assistita, contro i referendum, sebbene anche questa sia una legge che non rispecchia la morale cattolica. Da parte cattolica si sono giustificati per queste scelte con il principio del minor male, ma non mi convince perché lo stesso principio non è stato applicato all’uso del preservativo contro l’epidemia dell’AIDS. Dunque, si tratta di scelte politiche.
A questo punto vorrei inserire una nota. Fra noi molte s’indignano perché “i preti” fanno politica, io no, la politica è un’espressione della propria presenza nel mondo e non si può proibirla a nessuno. C’è da indignarsi solo quando negano di fare politica, perché questo è falso. Se non sei d’accordo con la loro politica, entra nel merito e combatti.
Per combattere bene, una buona regola è di non fare d’ogni erba un fascio. Voglio dire: non confondiamo le recenti manovre dei politici con la posizione dei cattolici sull’aborto. Quest’ultima rientra in una dottrina morale che ha una sua dignità e, purché non pretenda d’imporsi con una legge penale, va ascoltata. Le manovre dei politici sono operazioni contingenti e in buona parte strumentali. Per esempio, i parlamentari che hanno richiesto la commissione d’indagine sulla 194, poi ridimensionata in indagine conoscitiva, pare che non avessero mai letto i rapporti annuali del ministero della Sanità in proposito. Va detto che fra questi ultimi, contingenti e strumentali, ci sono anche uomini di Chiesa, moralmente neutri come sono gli uomini di potere.
Tutto questo significa che, passate le elezioni, dell’agitazione presente non resterà più nulla? Non credo, perché in gioco c’è dell’altro. Dietro alla pantomima intorno alla 194 e a questioni come i Pacs, l’omosessualità, le tecnologie della riproduzione, è riconoscibile il tentativo di alcuni, non ancora un movimento, a sviluppare una proposta culturale che prenda il posto lasciato vuoto dalla fine del comunismo e che ne elimini ogni possibile eredità. Si voltano dalla parte del cattolicesimo, perché la destra, in Italia, non ha una vera tradizione culturale, mentre la Chiesa indubbiamente ce l’ha, grande e variamente orientabile, non di rado a destra, oltre al fatto che le tematiche religiose servono a rivestire la miseria simbolica del liberismo. Forse, si sta formando un blocco ideologico di destra esteso anche ad una parte della Chiesa cattolica. Da questo punto di vista il racconto di Rosetta Stella, La nostra inviata speciale in Laterano, è istruttivo, compresa la sua vivace reazione che appartiene sì al temperamento di lei ma non è esagerata, lucidamente parlando. Quello che lei ha visto ed ascoltato, è molto grave per una che ha a cuore la cultura religiosa. Non c’è dubbio che la cultura religiosa esca danneggiata dal tentativo dei cosiddetti teo-con, sebbene molte non si accorgano di questo fatto, perché della cultura religiosa poco sapevano e poco si curano.
Spiegherò perché io, invece, ci tengo. La nostra civiltà, con tutto quello che ha di buono, si è sviluppata secondo una razionalità di tipo scientista ed economicistico che chiude l’orizzonte dell’umano dentro i confini dell’egoismo e del materialismo. La cultura di sinistra ha portato dei correttivi nell’interesse della giustizia sociale e della pace, ma non ha aperto l’orizzonte. Che l’apertura di quell’orizzonte avvenga ad opera di una cultura di destra, la considero una catastrofe perché, oltre a calpestare le esigenze della giustizia sociale e della pace, mette fuori gioco la libertà femminile che sola, a mio giudizio, può operare quell’apertura senza esiti reazionari. Questo l’ho intuito leggendo le scrittrici mistiche, poi ci ho lavorato con la ricerca personale e con altre, come Rosetta Stella, come Romana Guarnieri, come Adriana Sbrogiò e la sua associazione.
Questa prospettiva, che affida alla libertà femminile la capacità di orientarci nella realtà che cambia, vale anche per le discussioni intorno alla legge 194. Alcuni dicono: sommato tutto, ha dato buona prova di sé, oltre ad essere una legge che ha passato vittoriosamente la prova di un referendum (un vero referendum, non boicottato con l’assenteismo come invece è successo con i recenti referendum sulla legge 40). Non tocchiamola, dicono perciò.
Pensiamo che sia veramente necessario chiudersi sulla difensiva? Io non lo penso, non da parte nostra che abbiamo guadagnato, con la libertà, un orientamento positivo verso qualcosa di meglio.
Il nodo problematico, al di là degli attacchi pretestuosi e delle risposte reattive, è costituito dal fatto che la 194 è il frutto di un compromesso (cosa che in politica spesso è necessaria) fra i democristiani e le forze laiche progressiste di quegli anni. Il testo ne risente. C’erano istanze irrinunciabili, quella del rispetto della vita umana, in primo luogo, e quella di accordare la salute e la libertà della donna con la vita nascente dentro di lei, che sono state formulate con difficoltà. Si è cercato di rimediare con il linguaggio dei diritti, oggi inflazionato, con esiti non buoni perché si finisce per opporre quello che nella vita reale è solidale, esiti per altro criticati dai giuristi.
A suo tempo, alcune di noi hanno lavorato sull’ipotesi della semplice depenalizzazione dell’aborto, non quella della sua legalizzazione. Non importa adesso la parola d’ordine, ma forse conviene tornare mentalmente a pensare le cose al di qua delle formulazioni di legge, che sono comunque sempre secondarie rispetto ai convincimenti più profondi e condivisi. Tra questi c’è, fin da allora, oggi più chiaramente, il convincimento che non si possa obbligare una donna a diventare madre e che la relazione materna, indispensabile alla vita umana, si stabilisce nell’attimo in cui lei l’accetta.
Il passo da fare, dunque, è di sapere e affermare che tocca alla donna singola dire sì alla vita che comincia in lei. Questa competenza femminile, che nessuno, nella nostra cultura, forse, potrebbe veramente negare, va basata sul principio che la vita umana comincia da questo sì di lei liberamente pronunciato. Non siamo ancora arrivati ad una formulazione comunemente accettata di questo principio e bisogna dunque che ci pensiamo e ne parliamo, come anche che teniamo il terreno del confronto sgombro da inutili polemiche e da fossati pregiudiziali di tipo antireligioso e anticlericale. Ci sono molti riferimenti religiosi nei discorsi dei teo-con, ma la loro è una cultura di destra che non riguarda la religione come tale. Fra di loro ci sono eminenti personaggi del mondo cattolico, ma costoro non sono la Chiesa cattolica, ecc.
Il che non elimina la polemica anche nei confronti della religione e delle chiese nel loro insieme. La Chiesa cattolica, ad esempio, sembra ignorare che il suo insegnamento, troppo imbevuto di cultura patriarcale, ha indotto molte donne all’aborto. La più valida delle prevenzioni contro l’aborto, finora l’ha fatta il movimento femminista incoraggiando la nostra autonomia nei confronti della sessualità maschile e togliendo la vergogna tipicamente patriarcale, sia clericale sia borghese, che fino a tempi recenti colpiva la donna non sposata che restava incinta.
Bisogna dunque che la donna sia libera, questo è il nodo dell’intera questione, in pratica e in teoria. Molto giustamente, la libertà femminile è il tema della manifestazione del 14 gennaio. In questo senso ben vengano anche le proposte di aiuto economico alle donne che fanno bambini, infatti il bisogno toglie libertà, purché siano proposte consistenti e rispettose della dignità materna. Ciò che si esige è che il diritto inscriva il principio della libertà femminile all’inizio della vita umana. Da lì, poi, il resto.
Maria Grazia Campari
La questione della legge 194/78 che consente l’aborto, va secondo me affrontata interrogandosi principalmente sul senso dei ricorrenti attacchi all’autodeterminazione procreativa delle donne, un capitolo nel quale si inserisce a pieno titolo anche la legge 40/04 sulla PMA.
Non sfugge che il Forum delle Famiglie, recentemente aggregato ad altre associazioni nella formazione del Partito della Vita, sia all’origine dell’art. 1 della legge 40, quello che attribuisce diritti soggettivi all’embrione, in evidente contrapposizione alla madre. E’ la stessa formazione che elabora un progetto di legge per la presenza di “volontari della Vita” nei consultori e per la costituzione di un’Autorità Nazionale per le politiche famigliari, deputata alla sorveglianza della compatibilità fra funzioni pubbliche e private e le funzioni famigliari, con particolare riguardo all’educazione dei figli.
Facile intuire quale dovrà essere il sesso del sorvegliante e quale quello delle sovegliate.
Si rivela una trama intessuta di attacchi alla libertà femminile di scegliere e perseguire il proprio autonomo progetto di vita; esattamente di ciò è questione con la legge 40. Per questo donne come me, evidentemente disinteressate al tema specifico della riproduzione, si sono impegnate nella battaglia referendaria ed oggi sentono doveroso partecipare al rinnovato conflitto sull’aborto.
Partecipare, ognuna usando la propria competenza per leggere, attraverso gli atti, la trama.
Una trama che a me mostra non solo il segno pesante della specifica invidia maschile per la “creatrice del mondo” (vedi A. Sofri e E. De Luca), ma anche e soprattutto l’esito del monopolio maschile sulla politca istituzionale che persegue lo scopo di concettualizzare la donna come l’altro, l’oggetto del discorso e della norma, passibile di gesti quotidiani di prevaricazione.
Un clima sociale che rende atti di violenza come la violazione dei diritti della personalità, una possibilità istituzionale continuamente presente per le donne, con passaggio di piano dall’illecito al legittimato (alla lettera).
Ciò arreca un grave danno alla democrazia costituzionale, la forma meno incivile di convivenza (che è di tutti), poichè esiste un nesso fra questa e i diritti fondamentali attribuiti ad ognuna/o come frammenti di sovranità contro la prepotenza del potere costituito.
Per questo sono, a mio parere, importanti gesti quotidiani, anche piccoli, di contrasto a questo piano inclinato che si ripropone incessantemente in varie forme, come l’uso del diritto alla privacy sui propri dati sensibili contro i “volontari della vita” nei consultori pubblici, che proponevo.
Compiere gesti affermativi di autonomia contro prevaricazioni istituzionalizzate può avere ricadute positive anche in termini più ampi: può sciogliere un blocco interiore di passività complice e favorire pratiche di responsabilità che alimentino conflitti non distruttivi, ma evolutivi
Resta in ogni caso ormai ineludibile il problema spinoso di una diversamente partecipata politica istituzionale in questo Paese che il saldo comando in mani maschili sta precipitando nel Mediteraneo.
Ciao a tutte
Maria Grazia Campari
Natalia Aspesi
Si resta frastornati dal fiorire di proposte per convincere le donne a non ricorrere all´interruzione di gravidanza prevista dalla legge 194, da giorni sotto tiro clericoparlamentare: soldi, pochi, durante la gravidanza, oppure soldi, pochi e una tantum, alla nascita, soldi solo alle donne di provata indigenza, oppure soldi a tutte, anche a quelle che già da mesi in vista del lieto evento hanno prenotato a caro prezzo una nanny abilitata solitamente a far crescere piccini di gran casato: e meno male che è stata chiesta dalla sinistra anche la tutela alla maternità per le disoccupate e le lavoratrici a tempo determinato, che oggi quindi, e in tanti distratti non lo si sapeva, non hanno alcun diritto e vengono ancora considerate noiose portatrici di bambini in dovere di arrangiarsi da sole.
Duello politico tra assegno di gravidanza e bonus bebè, e comunque sempre e solo di soldi si parla (compreso i preservativi gratis per la prevenzione), e va bene, soldi certamente necessari pur nella loro esiguità, a chi non ne ha: ma a tutte le altre, non pressate da un urgente bisogno economico ma da altre angosce e preoccupazioni e dal pensiero del futuro, chi ci pensa? Limitarsi a un aiuto finanziario momentaneo non è un po´ come lavarsene le mani, non è forse troppo poco per persuadere le donne indecise (e solo quelle, ovviamente) a non ricorrere alla interruzione di gravidanza? Siamo sempre lì: da noi imperano varie società totalmente maschili, come la gerarchia ecclesiastica, o quasi del tutto maschili, come il nostro parlamento, che al solo pensare alle quote rosa si allarma come per un´intrusione pericolosa ai disegni terreni e divini: è normale quindi che questi gruppi di inscalfibile potere virile siano rimasti indietro rispetto alla realtà femminile e continuino quindi a pensare alle donne come popolo incapace di cavarsela anche economicamente e quindi tendente all´accattonaggio, come care persone da proteggere, dagli altri ma soprattutto da sé stesse, come cittadine non del tutto in sé davanti a decisioni importanti, ma anche come sciattone amorali e pericolose portate al crimine per ragioni fatue (voglio mantenere la taglia 40). Da qui l´idea sollecitata dai vescovi e accolta entusiasticamente dalla CdL quasi al completo (tranne l´eroica e inascoltata perché troppo carina Prestigiacomo) di istituire una Commissione di indagine sulla legge 194; il che alla fine non sarebbe neppure male se servisse, anziché a renderla impraticabile come auspicano silenziosamente i suoi nemici, a limitare l´eccesso di obiezione di coscienza da parte dei medici e soprattutto a verificare se è vero che abbia ricominciato a diffondersi l´aborto clandestino a caro prezzo in certe eleganti cliniche private. Adesso come capita ciclicamente alle cosiddette conquiste femminili, sempre messe a repentaglio, talvolta perdute, spesso riconquistate, si ritorna nella polvere stantia degli stessi discorsi di 27 anni fa, delle stesse contrapposizioni molto politiche e poco etiche, delle stesse ipocrite angosce virtuose, della stessa barba, attorno a una legge che è scivolata dentro la quotidianità di un paese che l´ha applicata ed usata con semplicità, impegno, attenzione, gratitudine, mai sfruttata dalle donne come frivolo passatempo (come si ostinano a immaginare il ministro Storace e i cosiddetti protettori della vita). Si potrebbe pensare che l´indagine conoscitiva sulla legge approvata dalla Camera non serva a nulla se non come ennesima trappola elettorale, anche se poi fu proprio il 68% degli italiani (tra cui si immagina molti cattolici) a riconfermarla nel referendum abrogativo del 1981: invece serve, perché tutto questo discutere infiammato metterà a disagio i pochi medici che la applicano e spaventerà le donne più fragili. Come si voleva, tutto torna ad essere difficile, colpevolizzante e anche, nel dramma, un po´ ridicolo. Ne dicono infatti di ogni colore certi sapienti che sorridono beati in televisione. Massimo comunicatore criptico l´antico Gustavo Selva, che ha definito peccato per chi è cattolico “l´aborto volontario o no” ed è quel no che potrà mettere in ansia le donne cattoliche cui potrebbe capitare un aborto spontaneo. Dove non si capisce più niente è però quando l´onorevole afferma che l´interruzione di gravidanza “è un reato per chi è tenuto a osservare la legge dello Stato” a meno che si riferisca a chi pratica clandestinamente, reato che la legge già contempla. Ma tornando alla messe di denaro che ipoteticamente potrebbe essere elargita alle dubbiose già con un piede nel consultorio, è strano che non si capisca che, si trattasse solo di soldi, molte donne anche in ristrettezze economiche non rinuncerebbero a un figlio. Saranno peccatrici, egoiste, farfallone, atee o quel che si vuole, ma ci sono donne che semplicemente non se la sentono di essere madri, che pensano che il mondo sia già troppo pericolosamente affollato e con un futuro troppo oscuro, che già faticano a occuparsi dei figli che hanno; che hanno un lavoro e temono di perderlo come è già capitato a loro colleghe, che non riescono a trovare una casa a prezzo abbordabile, che conoscono il disordine o la mancanza dei servizi sociali; senza contare gli eventuali padri che non ne vogliono sapere, o l´esperienza delle amiche che separate dal marito e responsabili di uno o più figli, non hanno più potuto ricostruirsi una vita affettiva. Forse bisognerebbe avere meno paura, avere più fiducia nell´avvenire: oggi? Con le difficoltà sempre più insormontabili che colpiscono anche il ceto medio e naturalmente soprattutto le donne? È proprio un´idea insufficiente, anche se proba, questa santificazione con assegno della maternità finché il bambino non nasce o per i suoi primi mesi di vita: ma poi, crescendo, per favore che si arrangi e non scocci più, lui e sua madre e anche suo padre, naturalmente.