Davide Casati

Mentre la Lombardia riduce a 22 settimane e 3 giorni il limite per l’aborto terapeutico, il primario di Ginecologia del San Carlo di Milano parla dei 5mila aborti praticati. “Ogni volta è un peso. Ineludibile”.
Mario Ramondini, unico ginecologo del S.Martino di Genova che compie aborti, dice di essere soprannominato “Erode” in corsia.
Lei si sente “Erode”?
No. E rifiuto la definizione di abortista. Io sono un medico che per motivi personali, storici, culturali ha scelto di praticare questa attività in favore delle donne. Consapevole che questo sia un dramma, per tutti.
Come ha cominciato?
Fui assunto alla clinica Mangiagalli di Milano nei primi anni ’70. Il mio primo studio fu un’indagine
sulla mortalità materna: fu così che scoprii che le migliaia di aborti clandestini erano la terza causa di morte.
Perché?
Le mammane, e i medici, li effettuavano con scarsissimo rispetto per sterilità e buone procedure. In clinica arrivavano donne con gli intestini devastati, o infezioni gravissime. Nel Paese il dibattito fu durissimo. E nel ’78 venne varata la 194.
La considera una buona legge?
Un approdo positivo, per quanto lo si possa dire di una realtà di fondo distruttiva. E che resta un peso sulla coscienza.
Da primario potrebbe smettere di praticare aborti. Perché continua?
La mia attività diretta è molto diminuita, ma se occorre partecipo tuttora. Credo sia giusto nei confronti degli altri medici non obiettori, che sono sempre meno. Si dice che sia perché si finisce a fare solo aborti, e non si fa carriera. Qui non è così, e posso solo sperare sia lo stesso altrove. Certo, non è una pratica gratificante. Inoltre, gli specializzandi sono in maggioranza donne: e per una donna praticare un aborto è ancor più problematico. Infine, i giovani non hanno vissuto la situazione pre-194. Che, in parte, c’è ancora.
In che senso?
Il 60% degli aborti, al San Carlo, riguardano le nuove povere, le donne straniere. E nel 2006, in Italia, ci sono stari 20mila aborti clandestini. Specie tra le immigrate, con le mammane o i farmaci antiulcera, il cui potere abortivo è più noto aloro che a molti medici…
Quali ragioni portano, oggi, ad abortire?
Per le straniere, soprattutto ragioni economiche. Per le italiane, il fatto che una gravidanza giunge in un momento in cui viene vista come ostacolo sul lavoro.
La nostra civiltà penalizza tanto le donne da far vedere un bimbo come ostacolo…
La 194, nella parte dedicata alla prevenzione, non è applicata a fondo. Anche per motivi economici: si dovrebbero far funzionare i consultori, educare alla contraccezione, fornire informazioni sulle associazioni di aiuto alla maternità difficile. Investire nella mediazione culturale, perché l’approccio delle donne straniere a questo dramma è diverso: le sudamericane, di cultura cattolica, ricorrono all’aborto come extrema ratio, mentre le donne dei Paesi dell’ateismo di Stato lo vivono in ben altro modo. Ma soprattutto servono politiche reali di sostegno alla famiglia. Escludere, ad esempio, i figli dei “clandestini” dagli asili (come deciso a Milano, ndr.) non va certo in questa direzione… Si discute anche sulla pillola abortiva, accusata di rendere “semplice e irresponsabile” l’aborto. Non credo. La si può usare solo nelle primissime settimane, stanno emergendo controindicazioni, e la procedura non è affetto semplice. È una tecnica relativamente nuova, da valutare. Mal’aborto resta, sempre, un’esperienza lacerante.
Si parla anche del rischio di deriva eugenetica: l’uso, cioè, delle diagnosi prenatali per “rifiutare” bimbi con problemi…
Le diagnosi prenatali si effettuano alla fine del terzo mese, e gli aborti del secondo trimestre sono meno del 3%. Siamo lontani dal rischio eugenetico, in Italia.
Per lei che cos’è un aborto? Ciò che toglie dall’utero è vita umana o cellule?
Dal momento del concepimento si forma una vita: e quella che si interrompe è una vita. Non lo dico da credente: non ho -purtroppo – una fede. Lo dico da medico. Ma non si parli di omicidio: non c’è volontà di far del male, ma la necessità di rispondere a una richiesta drammatica.
Ci sono per lei aborti giusti, o giustificati?
Nella misura in cui una donna arriva a sceglierlo, ogni aborto è giustificato. Perché arriva al termine di un percorso, previsto dalla legge, non breve, nel quale – lo vediamo spesso con gioia – capita che vi siano ripensamenti, Un percorso sempre doloroso. Al termine del quale a decidere deve sempre essere la donna.
Esiste però anche un soggetto terzo, l’embrione. Il filosofo laico Norberto Bobbio parlò di “diritto di nascere”.
È un discorso valido, da approfondire. Ma nel frattempo dobbiamo far fronte a drammi concreti. Che si fa davanti a chi, in lacrime, chiede un’interruzione nel 2° trimestre, per una grave malformazione, quando altri ospedali hanno detto no? Di fronte a queste richieste il medico è solo. Col suo, personale, dramma, ma col dovere di offrire risposte a quell’altro, ben maggiore. Perciò dico: è bene discutere, senza preconcetti. Ma non possiamo accettare che le donne siano ricacciate nella condizione degli anni ’70…

 

Paola Gaiotti de Biase

È con fastidio che si interviene nel dibattito aperto da quest’ultima provocazione di Ferrara, che riesce a dimostrare insieme il suo cinismo e la troppa disponibilità della stampa italiana a prendere sul serio strumentalizzazione e protagonismi che non servono a nessuno e si muovono con spregiudicatezza e insieme superficialità su terreni che meriterebbero ben altro spessore. Cosa hanno in comune la pena di morte e l’aborto tanto da dover collegare la moratoria dell’Onu (fra l’altro si badi bene iniziativa altamente meritoria e politicamente significativa per gli Stati, ma non vincolante per nessuno, non si sa come applicabile a singoli) alla legge sull’aborto. L’accoppiamento di due temi così diversi, nelle logiche e condizioni che ne sono all’origine, nelle pratiche che possono combatterli, nei soggetti che ne sono responsabili, nasce solo dall’evocazione di questa magica parola “vita”, una parola intorno a cui si è andato come coagulando, in una sostanziale fuga dalla politica reale e dagli strumenti che è in grado di usare, il rimando a qualcosa di intangibile e assoluto, che va oltre, e spesso ignora, l’unico assoluto e intangibile che per la politica è la persona reale.
Si tratta, infatti, di una espressione insieme ovvia e generica, politicamente inutilizzabile per la sua vaghezza, usata, proprio per la sua genericità quasi come una fuga dall’analisi approfondita di come e dove la vita umana si difende e garantisce, dei rischi che affronta, degli strumenti cui si può ricorrere. È entro quest’analisi che la laicità della politica è chiamata a trovare risposte coerenti ai diritti non genericamente della vita ma degli esseri umani nella loro concretezza.
Si può e si deve difendere la vita, ma per farlo davvero, in fedeltà alla propria coscienza bisogna maturare ben altra consapevolezza degli strumenti adeguati per farlo. Il primo dilemma che ci troviamo di fronte da questo punto di vista sta, a seconda dei problemi che ci troviamo ad affrontare, nella scelta fra strategie preventive e strategie repressive, in particolare in questo caso in cui siamo di fronte alla verifica oggettiva da secoli del fallimento da una parte e del danno aggiuntivo dall’altra legato alle strategie repressive.
In Italia, checchè se ne dica, la lettera della legge 194 non assume affatto il diritto all’aborto ma fa le scelta della strategia preventiva e la fece, (e vorrei ricordarlo per essermene occupata anche da storica in un saggio di qualche anno fa) con particolare forza grazie agli emendamenti introdotti da due cattolici esemplari, Gozzini e Pratesi. Ritengo che il no democristiano a questa scelta preventiva cui si approdò, abbia bloccato allora anche la possibilità di influire sulla legge riducendone qualche ambiguità. Il referendum che ne seguì fu condotto ignorando totalmente la natura del problema politico reale cioè la scelta politica concreta della strategia preventiva o repressiva, per concentrasi tutto polemicamente sul dilemma astratto e di principio, del si o del no alla vita, assai male riflesso del resto nello stesso dispositivo referendario. Questa scelta, politicamente errata e cieca, non solo favorì ulteriormente la sconfitta, comunque prevista, dell’iniziativa referendaria, non solo radicò nella grande maggioranza degli italiani il si all’aborto attraverso un voto personale, ma accreditò insieme alla vittoria della legge la lettura dell’aborto proprio nella chiave assolutizzante di fatto come un diritto. I colpevoli di quel clamoroso e prevedibilissimo, errore storico non solo non ne risposero mai, ma finirono coll’essere considerati dalla Chiesa come i figli più coerenti e affidabili.
Quest’errore ne portò con sé un altro ancora più grave: la prevalenza di un conflitto di natura ideologica, di principi, anziché di strumenti, fece si che non si affrontò né allora né poi proprio il problema centrale degli strumenti adeguati della prevenzione, salvo qualche tentativo di introdurvi elementi dissuasivi, di fatto repressivi. La scelta preventiva ha dato, come è stata puntualmente ricordato più volte in questi anni, risultati certamente importanti non trascurabili. Ma si tratta pur sempre di una scelta ancora parziale e da integrare nei suoi strumenti decisivi. Ricordiamo i punti centrali: aumentano significativamente i fondi destinati ai consultori, confidando su un loro insediamento sul territorio nazionale, che non ci sarà; si impone una informazione sui contraccettivi che certamente contribuirà a ridurre sempre più, ove praticata, il ricorso all’aborto; ma mancano e mancheranno a lungo le misure di sostegno economico e sociale alla maternità, senza le quali non ha fondamento pratico un’azione dissuasiva dei consultori.
I sostenitori della moratoria non ci stanno proponendo un ritorno alla strategia repressiva: ma che cosa allora? Una predica edificante? Una ripresa della informazione sulla contraccezione? O finalmente una vera politica delle famiglie? Ma se è questo perché chiamarla moratoria?
Qualcuno pensa che proibire gli asili ai figli degli immigrati clandestini possa dissuadere le migranti, che sono sempre i soggetti oggi più esposti, dal ricorrere all’aborto o è il contrario? La lotta contro l’aborto ha una sola via: creare condizioni economiche sociali, culturali, di solidarietà collettiva in cui la maternità possa essere vissuta serenamente e responsabilmente. Il resto è gioco verbale e impotente.

Il Senato delle donne di Como

Caro Presidente Formigoni, abbiamo seguito con attenzione tutto il recente dibattito sulla 194 e come donne ancora una volta abbiamo dovuto prendere atto che si parla di noi, si parla per noi, ma non si parla con noi e, soprattutto, nessuno pensa importante ascoltarci.
Eppure abbiamo tante cose da dire su questo tema, ci creda, perché non abbiamo mai smesso, noi, di occuparci della 194, della sua applicazione e non-applicazione, dei nostri diritti e delle nostre responsabilità ed anche delle responsabilità di tutti, del legislatore, del sistema sanitario, del nostro stato sociale, del nostro sistema scolastico.
Ci lasci dire che ci rattrista e che ancora, nonostante l’assuefazione, ci indigna, osservare come nel dibattito nazionale questo tema venga presentato, ovunque, con tante strumentalizzazioni, con tante manipolazioni, senza un barlume di interesse autentico per ciò che accade veramente nei percorsi applicativi della legge.
Così accade che si parli di restrizione dei tempi per l’aborto terapeutico come di un modo per ridurre il numero delle IVG ( Interruzione Volontaria di Gravidanza ), confondendo fenomeni assolutamente differenti e non connessi, creando nei cittadini una grande confusione e alimentando una discussione tutta ideologica e velleitaria, senza alcuna utilità per affrontare veramente i problemi ed utile , forse, solo ai giochi di reciproco discredito tanto praticati dalla nostra classe politica in questi tristi anni.
Per ricondurre la discussione in un ambito più dignitoso ci sembra necessario, prima di ogni altra considerazione, partire dalla realtà che conosciamo, che più ci riguarda da vicino, e quindi dalla realtà dell’applicazione della 194 in Lombardia.
Già l’esame dei numeri , anche se i dati ufficiali Istat si fermano al 2004, ci segnala alcuni fenomeni importanti: se infatti nel primo decennio di applicazione si assiste ad una costante diminuzione del tasso di abortività per tutte le classi di età ( e crediamo che l’attività dei Consultori pubblici abbia giocato un ruolo primario in tale diminuzione), nel secondo decennio il trend sembra invertirsi e si assiste da una parte ad un incremento di IVG di adolescenti (cresciuta di due punti nel decennio) e dall’altra all’aumento esponenziale di IVG di donne straniere ( più di 1/3 del totale). Per quanto riguarda le donne straniere, la Lombardia sembra avere un triste primato, essendo in assoluto la regione più interessata dal fenomeno, con 8.028 casi nel 2004 , più del doppio dei 3.277 casi del Lazio, al 2° posto.
A fronte di queste realtà appare desolante constatare come i Consultori pubblici, progressivamente svuotati di finanziamenti e di operatori, non abbiano più le risorse per la prevenzione, né per fare educazione sessuale nelle scuole, né per offrire un servizio gratuito ed accessibile agli adolescenti, né per attivare azioni di informazione e educazione sanitaria per le donne straniere.
Ma esistono altri indicatori che riteniamo assai preoccupanti per lo stato di salute della 194 nella nostra Regione: basti pensare all’altissimo (70%) tasso di obiezione di coscienza tra gli operatori sanitari, ginecologi ma anche anestesisti, per il quale si verifica che in ben 12 ospedali lombardi l’IVG sia appannaggio di gettonisti, con le conseguenze di inevitabili liste d’attesa ( e il tempo non è una variabile secondaria per l’IVG) e di sensibile aggravio di costi per il servizio sanitario regionale.
Di fronte a queste “emergenze” , reali e documentate, osserviamo con sorpresa ed anche con un certo sgomento che la nostra Regione Lombardia ” ha altre priorità”: la priorità di garantire la sepoltura agli embrioni, per esempio, oppure la priorità di disporre nuove linee guida sull’aborto terapeutico, oppure ancora la priorità, davvero scandalosa mentre i servizi pubblici muoiono d’inedia, di finanziare gli “amici” del CAV ( Centro d’Aiuto alla Vita ) della Mangiagalli.
Tutte priorità ideologiche, per non dire “confessionali”, esibite per nascondere una colpevole ed ipocrita indifferenza nei confronti delle emergenze vere.
Ci creda, i principi ispiratori dei codici di auto-regolamentazione per gli aborti terapeutici adottati dai sanitari dei due ospedali milanesi ci appaiono molto ragionevoli ed in linea con quanto la legge dispone all’art.7 ( non a caso non è previsto un termine per legge e la decisione viene lasciata alla scienza e coscienza dei sanitari, sulla base dell’evoluzione del loro sapere e del loro saper-fare) : il punto è che non c’è nessun bisogno, e quindi nessuna urgenza, di Linee Guida Regionali che tentino ( senza peraltro poterlo fare) di restringere l’ambito della responsabilità professionale e personale dei medici.
C’è invece un grande bisogno di investire in prevenzione vera ( non nella caritatevole ma illusoria pseudo-assistenza offerta dai CAV): per questo le proponiamo di aprire un bando per l’assegnazione dei 500.000€ di nostre tasse lombarde, affinchè accanto al CAV possa partecipare e concorrere anche il privato sociale “altro”, e perché soprattutto i nostri soldi vengano impiegati per obiettivi chiari, con progetti e programmi circostanziati, con preventivi e rendicontazioni trasparenti.
C’è, ancora, un grande bisogno di investire in qualità dell’assistenza ( sanitaria, psicologica e sociale) per accogliere senza demonizzare, per prevenire le recidive, per sostenere e dare spazio a scelte davvero libere e consapevoli, per ridurre i crudeli tempi di attesa : per questo Le proponiamo di mettere a punto Linee Guida Regionali non per introdurre inutili termini temporali ma per garantire in ogni ospedale lombardo la presenza di almeno un ginecologo ed un anestesista e personale infermieristico non obiettore e rendere più stabile e strutturale la connessione tra i servizi ospedalieri e i Consultori e i servizi sociali territoriali.
Ci auguriamo anche che con la recente introduzione della possibilità di ricorrere all’IVG farmacologica i costi globali per il sistema sanitario possano contrarsi e liberare risorse economiche e che la Regione Lombardia voglia decidere di reinvestirle per attività di prevenzione efficaci, per esempio ripristinando la gratuità ( da anni ormai perduta) per l’accesso alla contraccezione delle adolescenti.
Queste sono solo alcune delle molte proposte che potremmo presentarLe se Lei vorrà decidere di confrontarsi con noi, con le donne della Lombardia rappresentate dalle loro associazioni.
E’ un confronto che espressamente Le chiediamo e che riteniamo doveroso in un ambito come quello della legge 194: prima di decidere di noi e per noi, per favore parli anche con noi.

 

Dipartimento Politiche della Salute Camera del Lavoro Milano

 

 

 

 

 

 

 

CONSULTORI  FAMILIARI: BOOM DEL PRIVATO

 

 

Dalla relazione annuale (2005/6) sull’IVG (interruzione volontaria della gravidanza) del Ministro della Salute Livia Turco:

 

Secondo un’indagine ISTAT (“Interruzione di gravidanza in Italia (anno 2004)” pubblicata il 7 dicembre 2007) i dati relativi alle IVG per 1000 donne in età feconda (15-49 anni) sono i seguenti:

 

dati Istat 1985 2000 2001 2002 2003 2004
Italia 14,75 9,36 9,13 9,22 9,10 9,43
Lombardia 14,34 9,17 9,42 9,26 9,80 10,9

 

Come si vede, la Lombardia, pur calando, è progressivamente passata sopra la media nazionale, così come altre regioni a forte tasso di immigrazione.

 

Il Progetto Obiettivo Materno Infantile del 1998 stabilisce: 1 consultorio ogni 20.000 abitanti.

Ministero della Salute

Regioni Consultori ogni 20.000 abitanti
Lombardia 0,5
Piemonte 0,8
Emilia Romagna 1,1
Liguria 1,1
Toscana 1,1

Media Italia            à             0,7

 

Dal  rapporto sull’attività dei consultori familiari accreditati 2003/2006

 -Assessorato Famiglia e Solidarietà Sociale, Regione Lombardia-

 

REGIONE LOMBARDIA

SEDI

                    2003                          2006
CF PUBBLICI

189

223

(di cui 154 principali

e   72 distaccati )  à +18%

CF PRIVATI

 

38

58

(54 principali, 4 distaccati )à + 53%

 

 

OPERATORI

                        2003                      2006
CF PUBBLICI

 

2.232

2.042 (- 8,5%)

CF PRIVATI

 

1.004

 

1.407 (+ 40%)

 

 

 

Assistiamo così ad un dato sensazionale. A fronte dell’aumento del 18% del numero di sedi principali e distaccate dei consultori pubblici corrisponde una diminuzione di operatori del  – 8,5%, mentre nel privato assistiamo ad un aumento del +40% degli operatori.

        SEGUE à

La riduzione di operatori nei C.F. pubblici ha comportato come conseguenza la limitazione degli orari di apertura del servizio o la chiusura totale. Molti C.F. non hanno equipe mediche complete.

 

 

LOMBARDIA

2003

2006

VARIAZIONE %

2003/2006

CF PUBBLICO

N° prestazioni

782.579

765.414

-2,2

Incassi

16.544.043

14.803.223

-10,5%

CF

PRIVATO

N° prestazioni

60.031

157.910

+163,0%

Incassi

1.875.657

4.355.776

+132,2%

LOMBARDIA

UTENZA DIRETTA (*)

2003

2006

VARIAZIONE %

2003/2006

CF

PUBBLICO

Utenza diretta

345.900

324.372

– 6,2%

CF

PRIVATO

Utenza diretta

26.667

51.351

+92,6%

Come si può notare, in soli tre anni, si registra, nei consultori privati, un enorme aumento del numero di prestazioni (+163%) e di incassi (+132,2%).

(*)  Utenza non italiana 62.876 (16,7%) –   Emerge il dato del forte incremento dell’utenza nel privato +92,6%.

A Milano, il  numero di CF pubblici è di 18 (**) mentre quelli privati sono 14.

(**) Dal 1/01/08 è stato chiuso il CF di via Poma, nonostante la contrarietà del Sindacato.

Comune e l’ex direttore  generale dell’ASL, dott. Mobilia, non hanno fatto niente per evitare la chiusura.

 

MILANO CITTA’

2003

2006

N°operatori     

 

 

 

 

N°prestazioni

 

 

 N° Utenti

 

 

introiti

N°operatori     

 

 

 

N°prestazioni

 

 

 N° Utenti

 

 

introiti

CF PUBBLICO

335

89.241

46.616

1.743.142

224

(-4,7%)

89.618

(+0,4%)

44844

(-3,8%)

1.811.086

(-3,9%)

CF

PRIVATO

45

19.950

573.270

      67     (+48,9%)

46.872

(+135%)

14.186

1.294.051

(+125,7%)

 

Mentre nel pubblico si registra un arretramento, nel privato, il numero di prestazioni, gli incassi sono ben oltre il raddoppio.

 

 Così come si registra nella sanità, ad un arretramento della sanità pubblica corrisponde un incremento molto forte della sanità privata: anche nei consultori familiari si verifica la stessa tendenza con incrementi vertiginosi.

 

                         SEGUE à

 

 

Se a tutto ciò aggiungiamo il fenomeno di una forte presenza di medici obiettori (IVG), ci accorgiamo che scelte integraliste sul piano etico si accompagnano troppo spesso ad aspetti organizzativi e di materialità che poco hanno a che fare con la libera scelta delle donne.

 

Questo quadro e questa tendenza dimostrano quanto siano strumentali le scelte politiche della Regione Lombardia e del Comune di Milano in questi ultimi anni su una maternità libera e consapevole a tutela  dei diritti del bambino/a e della donna.

 

 

 

 

Di seguito vengono riportate le conclusioni di Fulvia Colombini contenute nel

1° numero dell’Osservatorio Sanità Milano della CdLM, poichè ancora attuali (marzo 2006).

 

CONCLUSIONI

Sulla base dell’analisi analitica dei dati emergono, in modo chiaro, alcune indicazioni di percorso che, come Camera del lavoro Metropolitana di Milano, proporremo sia alla Direzione Generale della ASL Città di Milano come ente preposto alla programmazione, controllo e gestione delle politiche sanitarie e socio sanitarie sul territorio, sia al futuro Sindaco e Giunta Comunale di Milano per il loro ruolo di garanti della salute delle cittadine e dei cittadini.

[…]

-I consultori sono le strutture idonee a svolgere il compito di prevenzione.

 

Politiche di prevenzione mirata per le donne straniere

 

L’analisi dei dati ci dice che le donne straniere fanno ricorso in maniera evidente alla interruzione volontaria di gravidanza e che sono carenti di informazioni. Diviene indispensabile, soprattutto a Milano, avviare una campagna mirata alla popolazione femminile straniera, in età fertile per una diffusione delle informazioni su: funzionamento del servizio sanitario nazionale e delle sue strutture, funzionamento dei

consultori, campagne per l’utilizzo dei metodi contraccettivi e per la maternità consapevole, gravidanza assistita, preparazione al parto e cura del bambino nei primi anni di vita. E’ del tutto evidente che innescando processi virtuosi di questo tipo, non solo si fa prevenzione e politica sanitaria, ma si avvia un’importante azione di politica di integrazione.

 

I consultori diventano il luogo centrale di queste azioni. Si chiede pertanto:

 

–         il potenziamento in termini di organici qualificati ( ginecologhe/i, ostetriche, assistenti sociali, psicologi, infermiere, supporto amministrativo),

 

–         il miglioramento delle strutture fisiche e della strumentazione e alcune nuove aperture di sedi , soprattutto nei quartieri periferici dove si sta costruendo e si prevede un aumento della popolazione residente (ad esempio, zona Rogoredo).

La legge istitutiva dei consultori prevede un consultorio ogni 20.000 abitanti e a Milano questo rapporto è molto lontano dall’essere raggiunto, perché sono funzionanti 19 consultori pubblici e 12 privati accreditati).

 

–      l’ inserimento in ogni consultorio della figura della mediatrice sociale, come figura indispensabile dell’integrazione sociale. Le mediatrici culturali oggi sono presenti solo in alcune strutture e vengono assunte con contratto a tempo determinato solo per singoli progetti. Bisogna prevedere anche una formalizzazione contrattuale di queste nuove professionalità.

 

                                                                                                                                                                                                                      SEGUE à

 

 

 

Obiezione di coscienza dei ginecologi

 

Il problema dell’obiezione di coscienza dei ginecologi, sia consultoriali che ospedalieri si sta aggravando sempre di più tanto da mettere a repentaglio l’applicazione della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, compresa la parte di prevenzione.

 

Gli obiettori totali infatti non prescrivono, alle donne che si rivolgono a loro, neppure contraccettivi quali la pillola del giorno dopo e si rifiutano di inserire la spirale, causando disagi, rimandi ad altri medici e ritardi molto pericolosi per la salute psicofisica delle donne.

 

Per quanto riguarda l’interruzione volontaria della gravidanza, che ovviamente non viene praticata dagli obiettori, si registra una situazione per cui i medici non obiettori si trovano, a lungo andare, a dover sopperire con grave disagio personale e professionale a tutte le richieste che pervengono all’ospedale. Tale situazione mette a rischio il servizio per le cittadine, sia per quanto riguarda la qualità dell’assistenza, sia per la celerità dell’intervento.

 

Tutto ciò è aggravato anche dalla mancata sperimentazione a Milano della pillola RU-486 che potrebbe, oltre che rappresentare un passo avanti per la salute delle donne con un intervento meno invasivo sul loro corpo, risolvere almeno in parte la difficile situazione descritta.

 

 

Dipartimento Politiche della Salute

                                                                           Camera del Lavoro Milano

 

Milano, 14 gennaio 2008

 

CONSULTORI FAMILIARI: BOOM DEL PRIVATO

Dalla relazione annuale (2005/6) sull’IVG (interruzione volontaria della gravidanza) del Ministro della Salute Livia Turco:

Secondo un’indagine ISTAT (“Interruzione di gravidanza in Italia (anno 2004)” pubblicata il 7 dicembre 2007) i dati relativi alle IVG per 1000 donne in età feconda (15-49 anni) sono i seguenti:

 

dati Istat

1985

2000

2001

2002

2003

2004

Italia

14,75

9,36

9,13

9,22

9,10

9,43

Lombardia

14,34

9,17

9,42

9,26

9,80

10,9

 

Come si vede, la Lombardia, pur calando, è progressivamente passata sopra la media nazionale, così come altre regioni a forte tasso di immigrazione.

Il Progetto Obiettivo Materno Infantile del 1998 stabilisce: 1 consultorio ogni 20.000 abitanti.

Ministero della Salute

 

Regioni

Consultori ogni 20.000 abitanti

Lombardia

0,5

Piemonte

0,8

Emilia Romagna

1,1

Liguria

1,1

Toscana

1,1

 

Media Italia  0,7

Dal rapporto sull’attività dei consultori familiari accreditati 2003/2006

-Assessorato Famiglia e Solidarietà Sociale, Regione Lombardia-

REGIONE LOMBARDIA

SEDI

2003

2006

CF PUBBLICI

189

223

(di cui 154 principali e 72 distaccati ) +18%

CF PRIVATI

38

 

58

(54 principali, 4 distaccati )+ 53%

OPERATORI

2003

2006

CF PUBBLICI

2.232

2.042 (- 8,5%)

CF PRIVATI

1.004

1.407 (+ 40%)

 

Assistiamo così ad un dato sensazionale. A fronte dell’aumento del 18% del numero di sedi principali e distaccate dei consultori pubblici corrisponde una diminuzione di operatori del – 8,5%, mentre nel privato assistiamo ad un aumento del +40% degli operatori.

La riduzione di operatori nei C.F. pubblici ha comportato come conseguenza la limitazione degli orari di apertura del servizio o la chiusura totale. Molti C.F. non hanno equipe mediche complete.

LOMBARDIA

2003

2006

VARIAZIONE %

2003/2006

CF PUBBLICO

N° prestazioni

782.579

765.414

-2,2

Incassi

16.544.043

14.803.223

-10,5%

CF

PRIVATO

N° prestazioni

60.031

157.910

+163,0%

Incassi

1.875.657

4.355.776

+132,2%

LOMBARDIA

UTENZA DIRETTA (*)

2003

2006

VARIAZIONE %

2003/2006

CF

PUBBLICO

Utenza diretta

345.900

324.372

– 6,2%

CF

PRIVATO

Utenza diretta

26.667

51.351

+92,6%

 

Come si può notare, in soli tre anni, si registra, nei consultori privati, un enorme aumento del numero di prestazioni (+163%) e di incassi (+132,2%).

 

(*) Utenza non italiana 62.876 (16,7%) – Emerge il dato del forte incremento dell’utenza nel privato +92,6%.

A Milano, il numero di CF pubblici è di 18 (**) mentre quelli privati sono 14.

 

(**) Dal 1/01/08 è stato chiuso il CF di via Poma, nonostante la contrarietà del Sindacato.

 

Comune e l’ex direttore generale dell’ASL, dott. Mobilia, non hanno fatto niente per evitarela chiusura.

 

 

MILANO CITTA’

2003

2006

N°operatori

 

 

 

 

N°prestazioni

 

 

N° Utenti

 

 

introiti

N°operatori

 

 

 

N°prestazioni

 

 

N° Utenti

 

 

introiti

CF PUBBLICO

335

89.241

46.616

1.743.142

224

(-4,7%)

89.618

(+0,4%)

44844

(-3,8%)

1.811.086

(-3,9%)

CF

PRIVATO

45

19.950

573.270

67 (+48,9%)

46.872

(+135%)

14.186

1.294.051

(+125,7%)

Mentre nel pubblico si registra un arretramento, nel privato, il numero di prestazioni, gli incassi sono ben oltre il raddoppio.

Così come si registra nella sanità, ad un arretramento della sanità pubblica corrisponde un incremento molto forte della sanità privata: anche nei consultori familiari si verifica la stessa tendenza con incrementi vertiginosi.

Se a tutto ciò aggiungiamo il fenomeno di una forte presenza di medici obiettori (IVG), ci accorgiamo che scelte integraliste sul piano etico si accompagnano troppo spesso ad aspetti organizzativi e di materialità che poco hanno a che fare con la libera scelta delle donne.

Questo quadro e questa tendenza dimostrano quanto siano strumentali le scelte politiche della Regione Lombardia e del Comune di Milano in questi ultimi anni su una maternità libera e consapevole a tutela dei diritti del bambino/a e della donna.

Di seguito vengono riportate le conclusioni di Fulvia Colombini contenute nel

1° numero dell’Osservatorio Sanità Milano della CdLM, poichè ancora attuali (marzo 2006).

CONCLUSIONI

Sulla base dell’analisi analitica dei dati emergono, in modo chiaro, alcune indicazioni di percorso che, come Camera del lavoro Metropolitana di Milano, proporremo sia alla Direzione Generale della ASL Città di Milano come ente preposto alla programmazione, controllo e gestione delle politiche sanitarie e socio sanitarie sul territorio, sia al futuro Sindaco e Giunta Comunale di Milano per il loro ruolo di garanti della salute delle cittadine e dei cittadini.

[…]

-I consultori sono le strutture idonee a svolgere il compito di prevenzione.

Politiche di prevenzione mirata per le donne straniere

L’analisi dei dati ci dice che le donne straniere fanno ricorso in maniera evidente alla interruzione volontaria di gravidanza e che sono carenti di informazioni. Diviene indispensabile, soprattutto a Milano, avviare una campagna mirata alla popolazione femminile straniera, in età fertile per una diffusione delle informazioni su: funzionamento del servizio sanitario nazionale e delle sue strutture, funzionamento dei consultori, campagne per l’utilizzo dei metodi contraccettivi e per la maternità consapevole, gravidanza assistita, preparazione al parto e cura del bambino nei primi anni di vita. E’ del tutto evidente che innescando processi virtuosi di questo tipo, non solo si fa prevenzione e politica sanitaria, ma si avvia un’importante azione di politica di integrazione.

I consultori diventano il luogo centrale di queste azioni. Si chiede pertanto:

La legge istitutiva dei consultori prevede un consultorio ogni 20.000 abitanti e a Milano questo rapporto è molto lontano dall’essere raggiunto, perché sono funzionanti 19 consultori pubblici e 12 privati accreditati).

– l’ inserimento in ogni consultorio della figura della mediatrice sociale, come figura indispensabile dell’integrazione sociale. Le mediatrici culturali oggi sono presenti solo in alcune strutture e vengono assunte con contratto a tempo determinato solo per singoli progetti. Bisogna prevedere anche una formalizzazione contrattuale di queste nuove professionalità.

Obiezione di coscienza dei ginecologi

Il problema dell’obiezione di coscienza dei ginecologi, sia consultoriali che ospedalieri si sta aggravando sempre di più tanto da mettere a repentaglio l’applicazione della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, compresa la parte di prevenzione.

 

Gli obiettori totali infatti non prescrivono, alle donne che si rivolgono a loro, neppure contraccettivi quali la pillola del giorno dopo e si rifiutano di inserire la spirale, causando disagi, rimandi ad altri medici e ritardi molto pericolosi per la salute psicofisica delle donne.

Per quanto riguarda l’interruzione volontaria della gravidanza, che ovviamente non viene praticata dagli obiettori, si registra una situazione per cui i medici non obiettori si trovano, a lungo andare, a dover sopperire con grave disagio personale e professionale a tutte le richieste che pervengono all’ospedale. Tale situazione mette a rischio il servizio per le cittadine, sia per quanto riguarda la qualità dell’assistenza, sia per la celerità dell’intervento.

Tutto ciò è aggravato anche dalla mancata sperimentazione a Milano della pillola RU-486 che potrebbe, oltre che rappresentare un passo avanti per la salute delle donne con un intervento meno invasivo sul loro corpo, risolvere almeno in parte la difficile situazione descritta.

 

Dipartimento Politiche della Salute

Camera del Lavoro Milano

Milano, 14 gennaio 2008

Eugenio Scalfari

[…]

Post scriptum. Molti lettori mi chiedono di intervenire a proposito della campagna per una moratoria sull’ aborto. L’ ho già fatto nei miei due ultimi articoli domenicali e non mi sembra di dover aggiungere altro. Mi chiedono anche un’ opinione sulla disponibilità di Veltroni a dialogare su questi temi con Giuliano Ferrara, l’ ateo devoto che ha promosso quella moratoria. Non ho opinioni in proposito. Anche a me capita talvolta di dialogare con il conduttore di «Otto e mezzo» in qualcuna delle sue trasmissioni. Certo Veltroni è un capo partito, ma questo non cambia molto le cose. Mi permetto semmai di incitare Veltroni a discuterne con le donne che sono le vere protagoniste, anzi le vere vittime di questa campagna di stampa regressiva. Il corpo delle donne, dal momento in cui è stato fecondato dal seme maschile e quali che siano le circostanze di quella fecondazione, dovrebbe diventare di proprietà della legge, cioè dello Stato? Questo sarebbe l’ illuminismo cristiano di cui si scrive sul «Foglio»? Se questo è il tema, credo e spero che Veltroni avrà usi più utili per impiegare il suo tempo.

Paola Meneganti

Torna la questione aborto e legge 194, secondo cicli che poco hanno a che vedere con la realtà a cui tale questione rimanda, ma molto con la polemica tra partiti, dentro i partiti, dentro il governo, tra governo ed opposizione, nell’ennesimo teatrino parapolitico. Si parla di aborto: quindi di vita, di morte, del corpo a corpo tra madre e figlio, di sessualità e di desiderio. Si parla di aborto e si legge della “trasversalità” degli schieramenti in campo: Tizio sta con Caia, con B si schiera A. Che vergogna.
Proviamo a ragionare. Nell’ordinamento giuridico italiano, la legge 194/1978, all’art. 1, afferma che l’interruzione volontaria della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite.
I guardiani della morale pubblica e privata fingono di ignorare che, dal 1978 a oggi, il ricorso all’aborto è sceso del 45%. Grazie alla crescita di consapevolezza e di conoscenza della propria sessualità, favorita anche dalla legge che dedica molto del suo contenuto agli strumenti di prevenzione, in primis il ruolo dei consultori (ecco un terreno su cui una pratica politica ed amministrativa seria potrebbe impegnarsi di più).
Non c’è da stupirsi delle posizioni del cardinal Ruini, non nuovo ad accostamenti assai discutibili, come quando mesi fa mise insieme l’aborto e la “pratica di selezione genetica diventata ormai una routine”. Non dimentichiamo poi le furibonde prese di posizione durante la campagna referendaria sulla procreazione medicalmente assistita.
Esponenti dei vari partiti che si erigono a censori, a giudici delle scelte altrui: è assolutamente sconsiderato e assolutamente poco caritatevole utilizzare drammi umani per sostenere posizioni ideologiche.
Ma soprattutto, ancora una volta, secondo un punto di vista che non muta, almeno nelle gerarchie cattoliche e nelle loro espressioni politiche – i distinguo sono necessari, la chiesa cattolica non è certo un monolite – ciò che si nega è la soggettività delle donne nel suo declinarsi in libertà femminile. Quella soggettività che sostanzia il principio regolatore della responsabilità verso il proprio corpo, il corpo dell’altro ed il mondo.
È stata la ministra Pollastrini a ricordare, in questi giorni, l’autonomia e la responsabilità delle donne.
In un testo del 1975, in pieno dibattito sulla legge, Letizia Comba scriveva “tra il concepimento biologico e la maternità ci sono tante e tali mediazioni che non possiamo permetterci facili arrangiamenti decisionali”. Pochi anni dopo, Maria Luisa Boccia parlava del discorso sulla maternità non solo come funzione riproduttiva ma come orientamento alla nutrizione e alla realizzazione di sé attraverso l’altro, come radice del rapporto che la donna ha con se stessa e con il mondo.
Si tratta di punti di vista complessi, che danno conto di un dibattito che fu altrettanto complesso, acceso, doloroso e ricco. Parliamo del necessario grembo psichico, accompagnato al grembo corporeo, che una donna si costruisce man mano che la grande avventura del dar vita ad una creatura nuova cresce nella sua mente e nel suo desiderio – “nella stagione che illumina il viso”, cantava Fabrizio De Andrè – oltre che nel suo corpo. Se, per i motivi di cui solo lei può giudicare, il grembo psichico non può formarsi, una legge civile, nel nostro paese, le consente l’aborto, in modo protetto e sicuro. Le donne si assumono probabilmente da sempre questa responsabilità. Non è cosa nuova, per loro. La stessa chiesa che ha raccolto per anni le loro confessioni dovrebbe saperlo molto bene: è incredibile questa pervicace negazione.
Altri sarebbero i motivi di scandalo: ne nomino alcuni, ovviamente per me. A partire dai sette operai morti atrocemente alla Thyssen Krupp di Torino, in un vero e proprio omicidio sul lavoro, simbolo di tutte le morti sul lavoro, alle situazioni di miseria e degrado che vediamo intorno a noi e a cui non facciamo caso, fino a quando non muoiono quattro bambini rom in un incendio, alla notizia per cui tra i 2,5 e i 4,5 miliardi di euro provenienti dal programma di aiuti alle aree disagiate del paese (legge 488/92) sono finti ad imprenditori disonesti ed alle organizzazioni criminali, prima la mafia.
Inoltre, non si affermerebbe la cultura della vita combattendo l’inquinamento, il traffico impazzito, l’uso dissennato del territorio che porta ad incendi e ad alluvioni, la solitudine, spesso mortale, di poveri, vecchi ed emarginati?
Ritengo che un tentativo di costruire un’etica nuova dovrebbe partire da qui, e non dall’ossessivo interesse per il corpo, la sessualità e le sue libere declinazioni.

Le Comunità cristiane di base italiane

La vita è un valore troppo grande per essere ancora rinchiusa nella gabbia della cultura patriarcale che continua a imporre il proprio autoritario paternalismo amministrando e strumentalizzando le paure che l’uomo e la donna hanno di fronte alle pulsioni della vita e alla finitezza della esistenza. Riteniamo distruttivo e opposto alla cultura della vita colpevolizzare le donne che vivono il dramma dell’aborto, definirle «assassine», accostare l’aborto stesso alla pena di morte, accusare la legge 194 di «genocidio» dei feti.
Non è deprimendo la soggettività femminile e il senso di responsabilità della donna che si difende la vita. Quando il potere ecclesiastico avrà compiuto una riparazione storica facendo finalmente spazio alla maternità che non è solo dare vita in senso biologico ma è cultura, è visione femminile di Dio, della Bibbia, di Cristo, della fede e dell’etica, allora potrà intervenire credibilmente sull’etica della vita. Ma in quel momento si sarà dissolto come «potere». Sarà un bel giorno. Merita lavorare perché si avvicini.

Ida Dominijanni

Quanto sia sacra la vita umana, ultimativa la decisione di metterne o non metterne una al mondo (e abissalmente diversa da quella di sopprimerne un’altra per punirla di un delitto), impegnativa la cura per inserirla nell’umano consorzio, sono verità che ciascuna donna del pianeta, in qualunque latitudine, sotto qualunque dio e qualsivoglia regime, conosce assai meglio di qualunque papa, qualunque principe e qualsivoglia consigliere di papa e di principe. Papi, principi, aspiranti principi e zelanti consiglieri lo sanno benissimo, come sanno benissimo che una legge può riconoscere questa sapienza femminile e il potere sulla vita che ne deriva, ma nessuna legge può revocarli. Punto.
A capo. Che cosa muove dunque la mobilitazione permanente sulla questione dell’aborto che agita le democrazie occidentali, i loro angeli teodem e la cupola vaticana sopra di loro? Non certo il tentativo, perso in partenza, di sottrarre alle donne questo primato. Bensì quello di colpevolizzarlo, privatizzarlo, ricondurlo nell’ombra di quella dimensione «naturale» da cui la parola femminile lo strappò alcuni decenni fa per portarlo alla luce del sole, della politica, del diritto. Non è un conflitto sulla sacralità della vita. È un conflitto, nient’affatto sacro e tutto mondano, per il potere di parola sulla vita, un conflitto nel quale alcuni uomini si allineano al Dio creatore che dicono di adorare per alimentare il proprio desiderio di onnipotenza e rimuovere il limite imposto a questo desiderio dalla parola dell’Altra.
È un conflitto antico e ritornante, e non ci sarebbe niente di nuovo se la strumentalità del momento non ci mettesse, di volta in volta, il sale e il pepe di qualche macabra aggravante. Non si tratta solo dell’osceno paragone – più osceno nell’implicita versione papalina che in quella esplicita del direttore del Foglio – fra l’aborto e la pena di morte. C’è sotto un altrettanto torbido rimestio fra religione, scienza, politica, morale e diritto che confonde, piuttosto che rilanciare, il dibattito pubblico, e non solo in Italia. Anche negli Stati uniti, dove l’aborto è come sempre una delle issues centrali della competizione elettorale, la richiesta pressante di una «ridefinizione» morale, giuridica e politica della questione (e di altre, come l’omosessualità) passa – si veda il New York Times di domenica – attraverso il cambiamento dei paradigmi scientifici e dei protocolli medici e farmacologici. In una sequenza neo-deterministica in cui biologia, genetica, morale e religione si alleano a produrre un nuovo ordine «oggettivo» del discorso che fa fuori la soggettività delle donne e degli uomini in carne e ossa. L’unica tutt’ora in grado di avere la meglio su una politica laica balbettante, e su un’autorità religiosa evidentemente così incerta da appoggiarsi alle protesi che trova.

Un confronto tra passato e presente
Eleonora Martini

Esiste ancora in Italia l’aborto clandestino? La risposta, inaspettata forse, è sì. Non si muore più, per fortuna, perché si ricorre più ai farmaci che alla chirurgia, e le mammane rimangono solo un brutto ricordo del mondo precivilizzato. Ma il problema esiste ancora e riguarda sempre più donne immigrate e anche giovanissime italiane. Dati certi, ovviamente, non ce ne sono ma le ultime stime ottenute con differenti metodologie parlano di circa 15 mila casi l’anno, troppo pochi per essere presi in considerazione dalla relazione annuale dell’Iss. Nel 1998 erano invece circa 27 mila.
Che la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza abbia funzionato in maniera eccellente, è, come ha ricordato ieri il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, un dato «ampiamente noto e incontrovertibilmente dimostrato, avendo ridotto il numero di aborti di circa il 56%» dal 1980 ad oggi. Il sottosegretario si riferisce a quelli legali, secondo il ginecologo Silvio Viale del Sant’Anna di Torino: «La 194 ha ridotto dell’80% gli aborti clandestini che nel 1982 erano circa 130 mila». Una pratica non debellata, dunque, e anzi a quanto pare perfino un po’ in ripresa negli ultimi anni soprattutto tra le donne immigrate. Le quali, come ha sottolineato Manconi ricorrono all’aborto volontario e legale 3-4 volte di più delle italiane, arrivando a incidere per il 29,6% del totale nazionale. «La metà delle richieste di aborto da parte delle donne straniere – spiega il professor Mario Buscaglia, primario del San Carlo di Milano che ha studiato a lungo il tasso di abortività delle immigrate – avviene nel primo anno di permanenza in Italia e nel 25% dei casi nei primi tre mesi». Sono soprattutto le donne sudamericane e dei paesi dell’est europeo a ricorrere più facilmente all’aborto: «Dipende – aggiunge Buscaglia – dalla non conoscenza dei metodi contraccettivi e dalle gravi difficoltà economiche e di solitudine in cui spesso si trovano». A volte poi si aggiunge la paura, la mancanza di conoscenza e di fiducia nei servizi italiani, e così le donne preferiscono risolvere da sé. Il metodo più usato è l’assunzione di Citotec, un farmaco gastroprotettore per le ulcere e quindi prescrivibile dal medico (anche se con alcune restrizioni, introdotte ultimamente dell’Iss proprio per combattere questo tipo di utilizzo) ma che, come tutte le prostaglandine, viene venduto in molti paesi del mondo come farmaco abortivo. «L’Oms lo promuove al secondo posto dopo la Ru486», spiega il radicale Silvio Viale. «I cinesi invece, che usano la Ru486 dal 1988, spesso se la portano dietro clandestinamente – aggiunge Viale – Ma il fatto che sia illegale non vuol dire che questo tipo di aborto è anche insicuro, come è invece quello chirurgico a cui ancora alcune donne, soprattutto al sud, continuano a ricorrere clandestinamente. Il problema è che usano questi farmaci in modo errato». Viale racconta poi anche di donne italiane che «hanno vergogna e rifuggono il lungo iter stabilito dalla legge che le costringe a venire a contatto con decine di persone sconosciute». Oppure donne che si rivolgono al medico sbagliato: fanno la trafila, attendono l’appuntamento e solo dopo molti giorni, magari quando è troppo tardi, scoprono che si tratta di un obiettore di coscienza. «Provengono soprattutto dal sud Italia o da feudi del movimento per la vita come Pavia dove i medici sono praticamente tutti obiettori, ma abbiamo avuto notizie anche da donne incappate nel medico sbagliato perfino alla Mangiagalli di Milano». Viale ricorda che l’obiezione viene scelta ormai dai medici «solo per convenienza, o per stanchezza: non siamo tutelati dal sistema, per noi non ci sono indennità e abbiamo invece la responsabilità della vita della donna, al contrario di quanto avviene per chi lavora con le tossicodipendenze».
«Il problema è che in Italia esistono almeno due sistemi sanitari diversi: – aggiunge Carlo Flamigni, ordinario di Ginecologia di Bologna – quello del sud è pieno di medici obiettori e con poche strutture, mentre bisognerebbe investire sui consultori, agevolarne l’accesso, e far crescere la cultura del controllo della fertilità, come si faceva negli anni ’70 quando si andava nelle fabbriche, nelle scuole, e le donne del movimento parlavano con i medici». La chiesa, conclude Flamigni, «allora era molto più invadente e aggressiva di oggi». «Negli anni ’60 era proibito perfino parlare di anticoncezionali. Oggi è solo in difesa, munita non di un potere vero, personale, ma di un potere concesso dai politici».

M. Antonietta Calabrò

ROMA – Sul tema dell’ aborto, i cattolici «debbono farsi un esame di coscienza». Parola del ministro della Famiglia, Rosy Bindi. «Se la legge 194 è stata applicata solo limitatamente agli articoli sull’ interruzione della gravidanza e non anche, come dovrebbe essere, a quelli sulla tutela della maternità – ha detto il ministro – è perché quella legge è stata combattuta e chi lo ha fatto è stato principalmente il mondo cattolico». Parlando durante una manifestazione del Pd a Jesi, Bindi ha ribadito che «bisogna dire no a un nuovo iter legislativo per la 194», anche perché «non so se ci sono oggi nel Parlamento le condizioni per una legge così equilibrata». In ogni caso secondo la Bindi, dal punto di vista scientifico «non ci sono stati cambiamenti talmente grandi da giustificare la riapertura di un iter legislativo», anche perché il «Paese non è pronto per un’ altra lacerazione così profonda». C’ è stato, però, ha aggiunto, «un cambiamento positivo nel clima culturale». «Non ho mai sentito parlare dell’ aborto come di una conquista – ha detto ancora – ma come qualcosa che bisogna fare di tutto per evitare. Su questo bisogna lavorare, creando le condizioni perché la donna sia davvero aiutata a scegliere liberamente». «Sono confortata dalle parole di Rosy Bindi. Mai le donne hanno inteso l’ aborto come una conquista» ha commentato Manuela Palermi, capogruppo dei Verdi-Pdci a Palazzo Madama. Anche per Walter Veltroni la 194 «è una legge importante che va difesa». Ma il leader del Partito democratico, in un’ intervista, tiene a precisare che «non mi spaventa una discussione di merito che tenda a rafforzare gli aspetti di prevenzione perché l’ aborto non è un diritto assoluto ma è sempre un dramma da contrastare». Quanto all’ iniziativa del direttore del Foglio, Ferrara, il ministro Bindi si è chiesta che «senso ha usare il termine moratoria per l’ aborto, appropriandosi così di un risultato importante ottenuto dall’ Italia per le esecuzioni capitali» dal momento che l’ aborto «non è uno strumento usato dagli Stati» ma è la conseguenza dell’ «applicazione di leggi che regolano l’ esercizio di una decisione individuale». All’ appello per la moratoria invece ha aderito Bologna Sette, inserto domenicale di Avvenire e voce dell’ Arcidiocesi del cardinale Carlo Caffarra. «È un’ esigenza di coerenza con la risoluzione dell’ Assemblea generale dell’ Onu sulla pena capitale – si legge – richiedere che gli Stati facciano ogni sforzo perché si giunga a una sospensione della pratica dell’ aborto: la più abominevole e ingiusta tra le pene di morte perché comminata a una vita umana innocente».

 

Stanchezza e indignazione, sentimenti contrastanti ma saldati assieme di fronte all’attacco alla legge sulla regolamentazione dell’aborto. Stanchezza e indignazione di fronte alla necessità di ricominciare a lottare per quanto ritenevamo acquisito con una legge equilibrata, scritta sul filo della prevenzione, della tutela della salute della donna, del rifiuto degli aborti clandestini, e confermata da un referendum di grande mobilitazione e risultato.
Stanchezza e indignazione di fronte alla manipolazione di uno strumento come la moratoria, che propone una incredibile assimilazione con la straordinaria conquista – tutta di matrice italiana, innegabile successo della diplomazia e della politica estera del nostro Paese – del rifiuto della morte come possibile, massima, sanzione comminata da uno Stato.

[…]

http://www.donatagottardi.net

Il 19 dicembre sulla prima pagina del Foglio Giuliano Ferrara scriveva a favore di una moratoria internazionale sull’aborto, all’indomani di quella uscita abbiamo preparato un appello che si rivolge a tutte le donne e gli uomini che hanno una sensibilità democratica, per affermare che non accettiamo più di essere oggetto delle battaglie mediatiche che vogliono strumentalizzare le libere decisioni delle donne per fini politici e interessi di parte e che la Legge 194 del 1978, seppure frutto di una mediazione difficile, non deve essere messa in discussione.
Ad oggi abbiamo ricevuto oltre 190 firme e stiamo ancora raccogliendo adesioni all’indirizzo andremonia@genie.it
Le promotrici
Monia Andreani, Olivia Guaraldo, Francesca Palazzi Arduini, Emma Schiavon

 

Dead women walking

 

Il patriarcato da bar è il modo più semplice che ha il simbolico patriarcale e maschilista di fare presa e di riprodursi all’interno del discorso comune, della chiacchiera riportata e non ragionata, dello stereotipo senza argomentazione e logicità. Tutto questo si ritrova nell’ultima idea di Giuliano Ferrara, quella di prendere adesioni per una moratoria sull’aborto. Ma nell’intento di aprire nuovamente questo discorso stantio c’è anche la malafede di coloro che fanno di ogni discorso un’arma politica contro l’avversario per cui, con il PD debole sulla bioetica e di fronte ad una bella figura internazionale del governo ottenuta con il voto all’ONU sulla moratoria per la pena di morte, Ferrara e altri hanno deciso di strumentalizzare l’aborto per aumentare i malumori nel governo e sperare in un cedimento sui nodi scoperti.
Siamo davvero stufe che i nostri corpi e le nostre vite vengano invase da discorsi opportunistici e di bottega. Ci appelliamo a Giuliano Ferrara perché rivolga la sua crociata altrove: mai pensato di diventare animalista? La questione della libera scelta della maternità non deve più essere argomento su cui imbastire lotte per poltrone e potere politico.
Utilizzare la moratoria sulla pena di morte per fare un parallelo con l’aborto è arrampicarsi sugli specchi. Infatti non c’è nesso logico tra una decisione che per legge uno Stato prende per togliere la vita di qualcuno che è nato ed ha diritti anche se ha commesso qualche grave delitto, e la decisione di una donna di far nascere, amare e crescere un figlio o di non poterlo fare per motivi che riguardano le sue singole e personalissime decisioni di vita e di coscienza. Già lo Stato italiano si è arrogato diritti di decisione per parte delle donne, ponendo limiti alla libera maternità attraverso le limitazioni imposte dalla 194 e con il diritto all’obiezione di coscienza, e decidendo per noi su quando e come avere dei figli o non averne. Si è raggiunto il paradosso della Legge 40 del 2004 con la quale lo Stato ha preso chiara posizione su come bisogna che noi donne abbassiamo la testa alle decisioni degli altri, a decisioni ideologiche e di principio, perché non possiamo scegliere liberamente di avere dei figli neanche in caso di problemi di sterilità.
ll femminismo italiano, come ha ricordato Adriana Cavarero intervistata da Il Foglio, ha già ribadito che sul corpo e sulla sessualità, sulle decisioni di vita delle donne non si deve legiferare, pertanto nessun appello ad un “diritto universale” a favore di ipotetici nascituri può permettersi di andare a contrastare con il diritto di autodeterminazione (autonomia) e di libera scelta che è tra l’altro anche uno dei fondamenti della bioetica, e che spetta a ogni donna. Il dibattito dovrebbe essere posto sul versante dell’etica della responsabilità che deve coinvolgere le donne e gli uomini in ogni parte del mondo, per una decisione matura rispetto alla nascita di un figlio che è un progetto di vita, un impegno fondamentale perché questo nuovo nato abbia possibilità di una vita felice e sviluppare tutte le sue potenzialità. E non funziona neppure l’argomentazione che vuole le donne vittime di una selezione delle nascite in paesi considerati meno civili di quelli europei, questa tragica piaga infatti non si vince con un’ipotetica imposizione statale alla nascita ma con il miglioramento delle situazioni economiche delle donne e con i diritti politici effettivi dati alle donne. Solo così e con una cultura dell’autodeterminazione le donne di questi paesi saranno libere di scegliere quanti figli avere, e solo se non saranno costrette a mandare le loro bambine a prostituirsi o a venderle come spose bambine, allora la nascita delle loro figlie sarà una gioia e non un dolore mortale.
Noi donne, di nuovo trattate pubblicamente come contenitore da maneggiare in talk show abbiamo ora il compito di gridare forte non solo il nostro NO a queste strumentalizzazioni. Dobbiamo pubblicamente rifiutare il ruolo di “dead women walking” che vogliono appiopparci, perché in questo gioco mediatico siamo noi le sottoposte a pena di morte simbolica.
In questa società nella quale il diritto alla vita è sempre più messo in pericolo, e non certo per le scelte della popolazione femminile ma semmai per la cultura scellerata maschilista che ci considera proprietà del marito, del fidanzato, del padrone, dello Stato, noi donne dobbiamo rivendicare la nostra responsabile autodeterminazione.
Ci chiediamo infine come mai lo pseudo-neo-tomista Giuliano Ferrara non abbia invocato gli universalissimi principi della vita e della difesa degli innocenti quando volenterosamente il suo governo appoggiava – quella sì – la silenziosissima strage di innocenti in Afghanistan e Iraq. C’è da chiedersi infatti come mai il realismo politico di certi maschi rimanga tale per quanto riguarda la guerra – ultima e preziosissima ratio della politica di cui solo loro colgono l’essenza – e si trasformi in un melenso idealismo che difende i feti quando si tratta del corpo femminile. Ferrara – e molti uomini con lui – è realista e cinico quando si tratta delle bombe in Iraq, diventa idealista e mistico quando si tratta del corpo delle donne.
Che dire infatti di quei bambini carbonizzati dalle bombe al fosforo bianco lanciate sull’Iraq dagli aerei americani: innocenti forse non lo erano più per il fatto di essere venuti al mondo dalla parte sbagliata? Perché ci fu il silenzio, allora, su quella vera e propria strage di innocenti – vivi e coscienti – avallata dall’occidente? Quello è sì uno dei tanti crimini contro l’umanità passati sotto silenzio per il quale le madri gemono e continueranno, inascoltate, a gemere.
22 dicembre 2007
Monia Andreani, Olivia Guaraldo, Francesca Palazzi Arduini, Emma Schiavon

 

Per aderire inviare una email all’indirizzo andremonia@genie.it

Pietro Bianchi*

Da uomo, penso che la questione posta dalla manifestazione del 24 novembre contro la violenza sulle donne non stia tanto, per noi uomini, nel dilemma partecipare-non partecipare. Quanto piuttosto nella povertà della parola maschile quando si arriva sulla soglia dell’inestricabile intreccio che lega politica e sessualità. Diceva Lacan che l’Altro rimanda al mittente il suo messaggio in forma invertita. Ecco, un articolo come quello di Tamar Pitch sul manifesto del 24/11, o la scelta «separatista» delle organizzatrici della manifestazione, rimandano al mittente la figura di una parola maschile assente, muta, incapace di esprimere qualcosa di più che solidarietà verso un Altro da sé separato e vittimizzato. E quindi comprensibilmente esclusa e relegata nel fondo del corteo. Dalla scelta separatista personalmente dissento (il dibattito a riguardo su siti e mailing list è stato significativo), tuttavia poche volte mi è capitato di vedere nella configurazione di una manifestazione un’allegoria così carica di senso. La parola maschile sulla violenza maschile – e più in generale sulla relazione tra i sessi, perchè è di questo che si parla – non c’è. E’ un problema politico e soggettivo enorme, che è sempre più urgente affrontare.
Concordo con Ida Dominijanni (24/11) che nelle forme contemporanee di violenza e appropriazione del corpo della donna non ci sono solo persistenze patriarcali. Né penso che si tratti solo del backlash di un dispositivo culturale messo in crisi dalla libertà femminile. Il fenomeno ha una sua specifica pregnanza contemporanea. Qual è precisamente il problema? L’altra faccia della libertà? O la crisi del rapporto tra i sessi?
Lo stato del rapporto tra i sessi parla di un’asimmetria strutturale e di una crisi del dispositivo di soggettivazione, non solo della competizione tra due identità di genere bell’e fatte, o delle velleità narcisistiche dell’uomo che stentano a morire. Nel suo contributo al volume Si può sulla legge 40 pubblicato da manifestolibri, Stefania Giorgi analizzava le tecnologie riproduttive come figura del desiderio mancante che sempre più spesso tormenta il rapporto tra i sessi: «La coppia generativa è sempre meno generativa e le tecnologie riproduttive possono essere interpretate come una necessaria ‘stampella’ per rendere fecondo un incontro altrimenti sterile, mancato. Riparo e copertura di una ‘incompatibilità’ non solo fisiologica fra maschi e femmine, di un desiderio sfasato, non coincidente, o inesistente e dunque da surrogare, di conflitti sul terreno della libertà…. in una economia di coppia dove sempre più spesso la sessualità resta un tassello mancante». Bisognerebbe cominciare ad indagare perchè nella relazione fra uomini e donne la sessualità sia sempre più un tassello mancante o mancato, che più viene mancato e più si esprime inversamente con la violenza appropriativa.
Se però confrontiamo questo «mancamento» della sessualità nella relazione tra i sessi con il dispositivo sessuale che abita l’immaginario contemporaneo, i conti non tornano del tutto. La coppia desessualizzata vive infatti in un mondo che invece è totalmente sessualizzato, dove la pornografia non è più una trasgressione marginale ma è il veicolo per eccellenza dello scambio di merci. C’è una strana coincidenza degli opposti tra deseussalizzazione e nudità, tra l’esposizione del sesso e il suo ritrarsi. La psicoanalisi ci dice (e il boom delle relazioni su portali come MySpace lo confermano) che viviamo in un tempo sempre più caratterizzato dalla sconnessione tra desiderio e godimento, dove il secondo è sempre più esposto e onnipresente ma non è più mediato dal primo. E cosa succede quando il godimento si separa dal desiderio, e il desiderio non incontra la parola dell’Altro? La pulsione si fa acefala, si chiude in se stessa, non trova parole per dirsi, si blocca in un nodo che non riesce a iscriversi in una storia e in un progetto soggettivi.
Le mille forme in cui la sessualità oggi si mercifica e si esprime la rendono dunque al contempo muta, pura ripetizione di un godimento pulsionale. La «libertà» sessuale ci riconsegna dunque una sessualità deprivata del desiderio, una sessualità da incubo dove il corpo è «solo corpo» e non si fa segno di nessuna relazione intersoggettiva, dove il desiderio dell’Altro non ha bisogno di essere attraversato, perchè la soddisfazione del godimento è a portata di mano. E’ in questo senso che dobbiamo leggere la proliferazione della miriade di identità/comunità sessual/perverse che popolano l’immaginario sessuale collettivo: come un modo per evitare di interrogare il desiderio, che con le sue aporie e impossibilità ci espone al baratro dell’incontro con un’Alterità irriducibile, e per questo inquietante. Scriveva Ilaria Bussoni su DeriveApprodi più di dieci anni fa: «Ecco l’oscenità del sesso, che non ha l’esempio più alto nelle riviste porno, ma in quell’esposizione senza sosta di nudi corpi senza più nulla di erotico né sensuale, che rimandano come segni del potere alle misere esistenze che li abitano. L’ars erotica è lasciata ai giornali femminili che insegnano come far godere il partner toccando le zone erogene come fossero pulsanti di una lavatrice».
Il desiderio è ciò che viene sacrificato nelle forme contemporanee delle relazioni sessuali deprivate dalla mediazione dell’Altro, e quindi strutturalmente masturbatorie e in definitiva solitarie, e forse abitate perfino da una vena di disperazione. Forse c’è molto di questo nel fantasma di appropriazione del corpo femminile che sta dietro le violenze sessuate. E c’è molto di un immaginario affollato dal boom dei rapporti con le prostitute di maschi di ogni dove, dei matrimoni fatti per procura in Tailandia, a Cuba, nell’Europa dell’Est: tutte manifestazioni di un desiderio che ha paura di aprirsi all’Altro e trova la scorciatoia nella mediazione del denaro o nelle relazioni telematiche.
Quanto ha di propriamente «maschile» questa forma della soggettività, e quanto invece è sempre più trasversale, disincarnata come la sessualità che la connota? Ogni movimento che voglia mettere a tema il desiderio (e tutti i movimenti lo fanno, esplicitamente o no) non può non focalizzare innanzitutto la soggettività sessuale. Partendo ciascuno da sè, se questa formula non significa la rinuncia a ogni universale ma l’ implicazione soggettiva nell’oggetto del proprio discorso. Di che forma di soggettività vogliamo farci portatori come uomini e donne che incarnano la strutturale asimmetria della differenza sessuale? Forse, per ri-pensare politicamente queste domande, dovremmo farci aiutare dalla psicoanalisi, gettandola nei sentieri tortuosi dell’immaginario collettivo.
* Associazione «Millepiani» di Bergamo

Clara Jourdan

[…]
I puntuali e ripetuti interventi delle gerarchie cattoliche su testamento biologico, eutanasia, staminali, procreazione assistita, aborto, vengono spesso contestati in nome della laicità, intendendolo quindi come un conflitto tra poteri, e in nome dei diritti individuali. È questo che secondo me fa problema oggi, più problema delle stesse pretese normative della Chiesa: la discussione pubblica sui delicati temi dell’inizio e della fine della vita si è di fatto appiattita sul linguaggio dei diritti e va a parare sempre nella legge, come se tutti condividessero il medesimo ordine simbolico, maschile, individualista, giuridicista.
In questa situazione, una cosa che colpisce è che è la Chiesa a essersi adeguata ai principi della modernità, sposandone in particolare la concezione dei diritti individuali secondo la visione giusnaturalistica: i diritti fondamentali sono diritti naturali (la parola gius vuol dire diritto), cioè appartengono a tutti gli esseri umani indipendentemente dal tempo e dal luogo e dalle leggi in vigore, e sono le leggi e gli stati a doversi modificare qualora gli ordinamenti non riconoscano e non tutelino tali diritti. È ormai risaputo che i teorici dei diritti naturali avevano in mente l’uomo adulto e come modello di uomo il proprietario inglese, ma nonostante le difficoltà a includervi tutte le altre forme di vita umana e di realtà storiche la teoria ha avuto enorme successo. È uno dei pilastri della cultura occidentale, si trova scritta nelle costituzioni e negli accordi internazionali, ed è sostenuta ancor oggi, esplicitamente, da molti di coloro che lottano contro le violenze e le ingiustizie dicendo che si battono per i diritti umani nel mondo. Anche la Chiesa cattolica ha adottato in pieno questo linguaggio, per lo meno nei suoi documenti ufficiali e nei suoi organi di stampa: “La Chiesa proclama senza riserve il diritto primordiale alla vita, dal concepimento fino alla morte naturale, il diritto a nascere, a formare e a vivere in famiglia”. “Essi sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità” (Benedetto XVI, in “Il Papa su famiglia, matrimonio e pacs”, La Civiltà Cattolica, 15 luglio 2006, pp. 170-179). Ma questo venire della Chiesa alla modernità dei diritti non è percepito, nella cultura laica e di sinistra, come una vittoria, sia pure conflittuale (su quali siano i diritti); al contrario, è sentito per lo più solo come una ingerenza. Ricordo le polemiche quando due anni fa il papa disse che i diritti fondamentali vengono da Dio e non dalle costituzioni. Eppure che ci sia un fondamento superiore alle leggi e alle costituzioni è proprio ciò che sostengono quelli che vogliono che gli ordinamenti positivi riconoscano i diritti umani. Costituzioni come quella italiana fanno propria tale concezione, e cioè che tali diritti preesistono allo stato, che come non li ha dati neanche li può togliere. Allora, che un papa dica che i diritti fondamentali vengono da Dio mi pare un di più, non un di meno, e certamente fa gioco a chi nel mondo lotta per il rispetto dei diritti umani.
Quindi c’è uno stare della Chiesa cattolica sul terreno della modernità, che non viene colto nella sua portata da coloro che condividono quel terreno. Un terreno che però non è il mio. Io che apprezzo l’aiuto che la Chiesa dà contro le violenze nel mondo, quando lo dà, non ritengo un guadagno l’adozione e l’estensione del linguaggio dei diritti e del regno della legge. Perché l’individualismo non può rappresentare con verità situazioni che sono intrinsecamente relazionali, come gli inizi della vita (sempre) e la fine della vita (spesso). In questo appropriarsi del linguaggio dei diritti da parte della Chiesa vengono infatti estremizzati i limiti e le aberrazioni di tale linguaggio già evidenziati proprio sul piano giuridico da Elizabeth Wolgast come “diritti sbagliati” (La grammatica della giustizia, Editori Riuniti, Roma 1991). Basta riflettere su cosa significhi, per esempio, il “diritto a nascere”, per coglierne l’insensatezza. Chi sarebbe il titolare di tale diritto? L’anima dell’ovulo fecondato che apparirebbe in sogno al pubblico ministero affinché chiami in giudizio la donna nel cui corpo si trova per obbligarla a fargli da madre? Andiamo! Caso mai apparirebbe alla donna stessa per chiederglielo con buone maniere.

Tra donne e tra femministe si è lavorato ed elaborato molto, negli anni, per tirar via dal terreno dei diritti esperienze umane femminili, bisogni primi, desideri, ma sempre troviamo a trattenerveli saldamente dentro, alleate tra loro, gerarchie religiose e sinistre laiche. C’è però anche lì qualche segno di movimento, importante, come il gesto di Amnesty International Italia, il cui presidente ha scritto al presidente della Conferenza episcopale italiana dicendo di non aver mai affermato che l’aborto è un diritto umano, ma se una donna decide di interrompere la gravidanza, “vogliamo che non sia obbligata a rischiare la propria vita né che finisca in prigione per la decisione che ha preso” (il manifesto, 19 settembre 2007). È una presa di posizione che ritengo molto significativa perché la polemica intercorsa durante l’estate tra Vaticano e Amnesty International riguardava appunto la nominazione dell’aborto come diritto, e significa uno spostamento nel linguaggio di una associazione che ha sempre ritenuto indispensabile per la sua azione il riferimento all’esistenza di diritti umani.
E dunque, a chi dice che l’aborto non è un diritto umano, intendendo implicitamente che debba essere proibito dalla legge, si può rispondere uscendo dall’alternativa diritto o divieto. Si può dire: “È vero, l’aborto non è un diritto, ma il sì della donna non si può saltare”. È una risposta che ha origine nel movimento delle donne, e che negli anni Settanta in Italia ha trovato espressione giuridica nella proposta di depenalizzazione dell’aborto. Ed è una risposta condivisa da molte femministe che pure hanno partecipato a mobilitazioni pubbliche in cui veniva usato il linguaggio dei diritti. Persino in America: Grace Paley racconta che lei e le sue amiche andavano alle manifestazioni ma erano a disagio per slogan come “aborto a richiesta”, che sentivano come una banalizzazione di quell’esperienza (L’importanza di non capire tutto, Einaudi 2007, p. 27). È ascoltando questo disagio infatti che si è sviluppata quella riflessione tra donne sulla sessualità e sulla maternità che ha preso le distanze dai diritti. Una riflessione che fino a pochi anni fa ha avuto echi ed elaborazioni anche tra giuristi e giuriste – ricordo negli anni Novanta i numeri della rivista Democrazia e diritto, “Diritto sessuato?” e “La legge e il corpo” – ma che sembra essersi fermata.

Casa delle donne maltrattate di Milano

Riteniamo che la manifestazione contro la violenza, indetta per il giorno 24.11.2007 a Roma, risponda ad un bisogno diffuso di dire basta alla violenza quotidiana contro le donne ed in particolare alla violenza esercitata in famiglia.
Indignazione e sgomento stanno toccando donne giovani ed adulte e ci sembra sia condivisa una sensazione di rischio collettivo.
Detto questo le risposte della politica tardano a venire e si accentrano sulla questione della sicurezza, mentre noi riteniamo che la libertà femminile più consolidata insieme alla reazione di molte donne che non vogliono più stare in relazioni violente od oppressive, stia creando una forte reazione da parte maschile.
Con questo però non vogliamo fare passi indietro, e vorremmo continuare a dialogare con quegli uomini che prendono parola e costruiscono azioni contro la violenza.
L’esperienza dei nostri centri, attivi da circa 20 anni sul territorio nazionale, ha esplorato il fenomeno della violenza in famiglia e da estranei ed ha posto all’attenzione pubblica la complessità e la vastità di questo fenomeno, rispondendo alle situazioni di violenza con: la pratica della relazione fra donne; la valorizzazione ed il sostegno delle donne in disagio; la costruzione di progetti di contrasto alla violenza a livello nazionale.
La nostra adesione alla mobilitazione è ovviamente scontata, ma non siamo d’accordo con la contrapposizione uomini/donne, senza distinzioni.
Ciò che maggiormente ci interessa è che lo stalking diventi finalmente una fattispecie specifica di reato, anche per poter avere uno strumento giuridico per intervenire nei casi di persecuzioni e molestie che spesso portano agli omicidi di donne.
Riteniamo che sia indispensabile che gli uomini prendano parola e che per tutte le donne la violenza di genere deve diventare una priorità da agire in ogni luogo della politica e della società civile.
La manifestazione di Roma può essere un momento importante, ma certamente non lo scopo, mentre vanno definiti con precisione gli obiettivi da portare avanti anche dopo il 24 novembre e per il futuro.

Casa delle donne maltrattate di Milano

CONVOCAZIONE

MANIFESTAZIONE NAZIONALE
CONTRO LA VIOLENZA
MASCHILE SULLE DONNE

L’assemblea di singole donne e di realtà associative femminili, femministe e
lesbiche, provenienti da tutta Italia, che si sono riunite in assemblea
pubblica domenica 21 ottobre a Roma presso la Casa Internazionale delle
Donne sulla base dell’appello diffuso dal sito www.controviolenzadonne.org

In occasione della
Giornata Internazionale
contro la violenza sulle Donne

convoca una

MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA
SABATO 24 NOVEMBRE 2007 – ORE 14

Le donne denunciano le continue violenze e gli assassinii che avvengono in
contesti familiari da parte di padri, fidanzati, mariti, ex e conoscenti.
E’ una storia senza fine che continua a passare come devianza di singoli,
mentre la violenza contro le donne avviene principalmente all’interno del
nucleo familiare dove si strutturano i rapporti di potere e di dipendenza.
Ricordiamo che l’aggressività maschile è stata riconosciuta (dati Onu) come
la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne in tutto il
mondo.
Il tema, soprattutto in Italia, continua a essere trattato dai mezzi di
informazione come cronaca pura avallando la tesi che sia qualcosa di
ineluttabile, mentre si tratta di un grave arretramento della relazione uomo
donna.
La violenza contro le donne non deve essere ricondotta, come si sostiene da
più parti, a un problema di sicurezza delle città o di ordine pubblico. La
violenza maschile non conosce differenze di classe, etnia, cultura e
religione.
Non vogliamo scorciatoie legislative e provvedimenti solo di stampo
repressivo.
Senza un reale cambiamento culturale e politico che sconfigga una volta per
tutte patriarcato e maschilismo non può esserci salto di civiltà.
Scendiamo in piazza e prendiamo la parola per affermare, non come vittime ma
come protagoniste, la libertà di decidere delle nostre vite nel pubblico e
nel privato. Scendiamo in piazza per ribadire l’autodeterminazione e la
forza delle nostre pratiche politiche.

www.controviolenzadonne.org

Prossima assemblea organizzativa sabato 27 ottobre ore 12.00, Casa
Internazionale delle Donne, via della Lungara 19, Roma

Dal sito della Libera Università delle donne

Seminario A partire da …… Letture d’archivio e testimonianze sulle lotte di liberazione delle donne a partire dal corpo/identità di genere.

Roma 27 gennaio 2007 ore 10.00 – 18.00
Casa Internazionale delle Donne Via della Lungara, 19 Roma
(Ingresso Via della Penitenza, 37 II piano)

 

Relazione di Sonia e Maria Grazia (gruppo donne CSOA Ex Snia Viscosa);
Emanuela Rita e Olivia (Assemblea femminista di Via dei Volsci 22)

 

La proposta di partecipare alla costruzione di un convegno sulla sessualità a partire dalla lettura di documenti d’archivio ci è arrivata nel momento in cui cercavamo di precisare i contorni di una riflessione sul corpo che tenesse insieme la sessualità e la salute ed alcune di noi (le scriventi, quelle che partecipano a questo convegno) hanno visto in questo convegno un’occasione di scambio con altri gruppi di donne di età ed esperienze diverse su un tema che ci sembrava difficile affrontare.
Il nostro primo istinto è stato quello di impostare la nostra partecipazione a partire da un confronto tra esperienze politiche: quelle che facciamo noi oggi e quelle che hanno fatto le donne che hanno scritto quei documenti. Primo passo è stato dunque quello di provare a raccontarci, a raccontare i gruppi di cui facciamo parte.
I nostri rispettivi gruppi (alcune di noi fanno parte dell’assemblea femminista del 22, altre di un gruppo di donne del csoa ex-snia) si sono costituiti proprio per rispondere al sistematico e sempre più insistente attacco all’autonomia delle donne nelle scelte che riguardano la nostra vita e in primo luogo il nostro corpo.
Abbiamo sentito in molte come insostenibile il tentativo a livello regionale di stravolgere l’impianto e la finalità dei consultori familiari e a livello nazionale di legiferare sulla procreazione medicalmente assistita, chiari esempi della volontà di affermare il principio del controllo di stato sui nostri corpi, sui nostri desideri, sulle nostre scelte.
I nostri percorsi e discorsi sulla salute sono partiti da qui, con la consapevolezza quasi immediata che su questo terreno si giocava qualcosa di molto più grosso del semplice “servizio alla persona”: si giocava il tentativo di controllo del nostro corpo e quindi di noi stesse, agito dallo stato (e dalla chiesa), davanti al quale è emerso il nostro bisogno di riappropriarci della prima e dell’ultima parola, il bisogno di conoscere e ascoltare il nostro corpo, nei suoi desideri e nei suoi malesseri, il bisogno di non vivere più passivamente il rapporto con la medicina e con le istituzioni mediche, interrogandole e controllandole, informandoci, parlando tra di noi, costruendo un nostro sapere basato sulle esperienze. In questo anno abbiamo seguito l’attività di vari consultori e della consulta, abbiamo monitorato l’attività dei prontosoccorso nell’obiettivo di sapere e sperimentare in prima persona le difficoltà che ogni donna incontra anche nella semplice richiesta di un servizio come la contraccezione d’emergenza, abbiamo creato occasioni di confronto con ginecologhe e operatrici dei consultori. Abbiamo sentito il bisogno di condividere questo sapere pubblicamente, anche con donne non interne a percorsi politici o che non frequentano luoghi dove è possibile informarsi o confrontarsi su queste tematiche, e abbiamo tentato di avviare un dialogo che fosse una nuova fonte di conoscenza per tutte: abbiamo prodotto e diffuso opuscoli e questionari, organizzato iniziative nelle piazze, occupato simbolicamente alcuni consultori in varie zone di Roma.
Il nesso tra il tema della salute intesa come riappropriazione del corpo e la sessualità ci è apparso, nei nostri percorsi, via via più chiaro e imprescindibile. E tuttavia ci sembra che tanto nella nostra esperienza quanto in quella di altri gruppi e collettivi femministi un discorso radicale ed esplicito sul tema della sessualità sia mancato. Abbiamo così letto con interesse i documenti che ci sono stati sottoposti. La lettura è stata guidata da un interrogativo di fondo: come veniva affrontato dal movimento femminista degli anni ‘70-‘80 il discorso sulla sessualità? Con che linguaggio, con quali contenuti, quali consapevolezze o difficoltà, quale concretezza, quali proposte di azione e trasformazione dell’esistente? Ragionare su questo ci ha portate contemporaneamente a chiarirci sulle modalità con cui noi, femministe del 2000 (senza movimento), stiamo affrontando il discorso sulla sessualità nel nostro percorso politico e personale.
Una delle prime considerazioni che ci sentiamo di fare è che il nostro discorso sulla sessualità è cambiato mentre lo affrontavamo, mettendo in discussione le nostre concezioni e dandoci una nuova (ma non definitiva) consapevolezza politica.
In questo senso i testi letti (estratti di documenti di Carla Lonzi, Lea Melandri, Cloti, il Movimento femminista romano, il Consultorio autogestito di San Lorenzo, il Crac, il Cli) ci forniscono la testimonianza della netta presenza di un discorso “pubblico” sulla sessualità, a fronte dell’assenza di questo discorso nella nostra azione politica. Non che oggi di sessualità non si parli, ma questo discorso fatichiamo a portarlo avanti con continuità e soprattutto fatichiamo a portarlo all’esterno dei nostri luoghi protetti e a renderlo visibile. I documenti invece ci parlano di un discorso essenziale, sostanza del femminismo, punto di partenza della presa di coscienza delle donne sull’oppressione subita nelle relazioni sessuali e sociali codificate e vero momento di rottura. Il linguaggio di questi documenti ci colpisce: è diretto, immediato, forte, non usa giri di parole per sfumare e addolcire i contenuti, non si preoccupa delle reazioni delle interlocutrici, delle fratture che può provocare, della difficoltà di comunicazione con altre donne, delle contraddizioni delle vite delle singole. Anzi, parla proprio a quelle contraddizioni, è provocatorio, segna la fine dell’epoca delle mediazioni, dell’accettazione, del mancato rispetto di sé. E’ un linguaggio radicale che esprime un’analisi radicale, frutto di un percorso collettivo di presa di coscienza basata sullo scambio di esperienze.
Ci siamo chieste: quest’analisi è la nostra analisi, questo linguaggio è il nostro linguaggio? Leggendo questi documenti sentiamo di condividerne il messaggio e l’impianto, il linguaggio ci colpisce e ci affascina, ci sentiamo parte di una storia comune, però conosciamo la differenza dei nostri discorsi, del nostro linguaggio e del nostro percorso politico. I documenti con cui sentiamo una maggiore vicinanza sono quelli legati alle attività dei consultori autogestiti, a una pratica territoriale, alla pratica dell’aborto, ma quelli che ci interrogano di più e ci mettono più in discussione sono gli altri, quelli che ci parlano di sessualità, di piacere e di relazioni, che ci propongono una lettura dei rapporti tra i generi e un’analisi dell’oppressione e delle violenze subite dalle donne senza ricorrere a giri di parole o di pensieri.
C’è un aspetto in particolare, presente o presupposto in tutti i documenti proposti, su cui si è concentrata la nostra riflessione, cioè la messa in discussione della sessualità maschile procreativa imposta in quanto norma sessuale e l’individuazione della responsabilità dell’uomo nel provocare gravidanze non volute.
E’ chiaro quanto questo discorso sia alla base di una lettura di genere della sessualità, delle relazioni e dei rapporti sociali e quanto non venga mai esplicitato in questa forma chiara nei nostri percorsi politici. Da sempre siamo abituate a porci in un atteggiamento di difesa nei nostri rapporti eterosessuali, assumendo il carico e la responsabilità della contraccezione, sapendo di non poterci fidare dell’altro con cui pure la maggior parte di noi sceglie di avere un rapporto intimo e di amore. Questa nostra assunzione di responsabilità nella contraccezione viene sicuramente da una presa di coscienza collettiva di alcune dinamiche interne alle relazioni, però è ancora chiaramente un palliativo. Nonostante la sessualità procreativa non ci appartenga, ne assumiamo psicologicamente e fisicamente le conseguenze affidandoci a noi stesse, alla nostra coscienza e al nostro senso di responsabilità e cercando di limitare i danni della sopraffazione che subiamo. Ci sembra che questo atteggiamento di difesa invece che di conflitto accomuni negli ultimi anni molti percorsi di donne e femministe: la nostra voce esce fuori pubblicamente e collettivamente nella difesa dei diritti e degli spazi di autonomia conquistati nelle lotte passate ma non esprime necessariamente una critica radicale dei rapporti tra i generi, anzi troppo spesso gli uomini sono chiamati a condividere i nostri percorsi e i nostri momenti di lotta, come se nel frattempo i rapporti tra i generi si fossero effettivamente trasformati.
È stato a partire da queste considerazioni che ci siamo interrogate su quella che secondo noi è una difficoltà diffusa non tanto a parlare di sessualità, quanto a farlo a partire dalle proprie esperienze concrete, che possono essere molto differenti e potenzialmente conflittuali. Ci siamo domandate se questo non sia in parte da attribuire al fatto che negli anni è venuta a mancare al femminismo una pratica di movimento che permetteva l’incontro ed il confronto tra donne portatrici di storia, bisogni e consapevolezze differenti. Ci sembra che dopo le rotture dirompenti di cui ci parlano, tra gli altri, i documenti che abbiamo letto, ci sia stata in qualche modo un’evoluzione in senso teorico della discussione sulla sessualità a scapito della pratica del confronto concreto, anche conflittuale, sulle esperienze.
Ci siamo anche domandate se l’abbandono di pratiche fondate sulla concretezza dei corpi, come ad esempio il self-help, sia parte di questo processo. Pur avendo avviato nelle nostre realtà un percorso sul corpo e sulla sua riappropriazione, soprattutto a partire dal controllo sulla nostra salute, non abbiamo mai praticato il self-help. Ci siamo confrontate con il dominio totalizzante che il potere medico agisce sul corpo delle donne, pretendendo di detenere il monopolio dei saperi su di esso, e ci siamo rese conto che riappropriarci della conoscenza e del rapporto intimo con il nostro corpo è un momento fondamentale della nostra presa di coscienza personale e politica: in questo senso la pratica del self-help, nata all’interno di un movimento più ampio che aveva alla base l’idea della riappropriazione, consente da un lato l’assunzione diretta della responsabilità sulla propria salute e la coscienza di possedere una serie di saperi non differibili ad altri soggetti, dall’altro presuppone e contribuisce a creare un rapporto intimo con le altre donne, nella consapevolezza che il nostro corpo è il luogo in cui si incrociano, e spesso si combattono, la dimensione intima e quella delle norme sociali. Questa pratica ci affascina, la immaginiamo come possibile e al tempo stesso ci spaventa perché ci propone da un lato un’intimità e una condivisione, dall’altro una fiducia nelle nostre possibilità conoscitive a cui non siamo abituate, forse a cui collettivamente non siamo pronte: la medicalizzazione del corpo e di molte esperienze della nostra vita che ci viene trasmessa/imposta quotidianamente, ci fa sentire profondamente insicure nel momento in cui proviamo a rinunciare alla parola dell’“esperto” ma non abbiamo ancora un nostro sapere di riferimento.
Altre questioni ci sembrano poi assolutamente interne a un discorso sulla sessualità – che è un prodotto sociale e culturale – ma anche estremamente problematiche, proprio perché mettono in gioco questioni intime e profonde:
– il corpo è il luogo in cui vengono incorporate ansie che spesso si traducono nel terrore della malattia, dell’ammalarsi. Abbiamo riscontrato come la percezione del corpo e della sessualità sia legata al pensiero di malattie come l’Aids (che rende più difficile godere di una sessualità libera, per esempio una serie di esperienze come i rapporti orali vengono vissuti con ansia e timore) o come il cancro, che nella donna colpisce con maggior frequenza proprio i punti del corpo associati al piacere e che su un piano culturale e simbolico definiscono in questa società l’“essere donna” (il seno, l’utero-vagina).
– a fronte di un discorso di “liberazione” sulla sessualità e della liberalizzazione dei costumi nella nostra società, ci ritroviamo a fare i conti con una sessualità che a livello mediatico è sempre più pervasiva, esibita, falsamente disinibita, merce di scambio, o merce per vendere altra merce, che crea una norma “corporea”, un modello che più o meno coscientemente entra in gioco nella relazione con il proprio corpo.
– parlare di sessualità significa parlare di relazioni, e dunque del confronto e dei conflitti con l’altro/altra: qui entrano in gioco le esperienze ed emozioni rimosse, le pratiche di dominio o sottomissione, il bisogno di fusione con l’altro/altra che annulla la coscienza della soggettività individuale, la sopportazione o l’accettazione di ciò che sappiamo non dovremmo sopportare né accettare, le ansie da prestazione, la sessualità come mezzo di riconciliazione o di scambio, l’accettazione di standard sessuali considerati presupposto di una relazione felice, ecc…
– la famiglia è poi, ancora oggi, quel nucleo in cui la donna deve assumersi la responsabilità di un’incessante attività di cura resa tanto più necessaria e disperata dallo smantellamento dello stato sociale, elemento fragile del mercato del lavoro, corpo funzionale e non desiderante, che non deve avere tra le sue aspirazioni primarie quelle dell’appagamento di sé.
– la tendenza all’individualizzazione del rapporto con i propri problemi e difficoltà (psicologici, di relazione, sessuali ecc.) considerati come qualcosa di privato e quindi non socializzabile. Non riconoscendo, o non volendo riconoscere, la matrice comune e di genere della maggior parte di essi, ci si affida più facilmente all’esperto che ai discorsi e alla pratica tra donne.

 

Avviare un confronto sulla sessualità che superi queste difficoltà presupporrebbe uno spazio in discussione in cui sia praticabile sul lungo periodo un percorso di presa di coscienza. Questo richiederebbe alcune condizioni che nei nostri gruppi in questo momento non si verificano: ad esempio un numero ristretto e stabile di donne partecipanti, o la chiusura verso l’esterno che consenta una maggiore intimità e che ci faccia sentire interne a un percorso di crescita comune. La scelta di questa pratica rimane per il momento nei nostri gruppi una questione aperta.
Per concludere ci sembra che, attraverso il confronto di questi mesi tra di noi e con i documenti, il nostro dibattito si sia orientato intorno a due nodi centrali:
1) il potere della “norma” nelle nostre esistenze e nella percezione di sé.
Ciò che si allontana dal modello socialmente dominante diventa patologico, anormale. Il paradigma “della norma”, al di fuori del quale risulta arduo percepirsi, viene a essere in-corporato cioè inserito dentro di sé senza mediazione critica, creando un bisogno di adesione allo standard.
E’ a partire da questa riflessione che ci sembra necessario sperimentare il tentativo di pensare il corpo al di fuori dei modelli (medico, estetico, sessuale, ecc…) e, in quest’ottica, la messa in comune di esperienze e percezioni che partano dalla propria storia diventa parte centrale di un percorso di lotta e cambiamento.
2) il corpo e la sessualità come luogo di passaggio tra l’individuale e il sociale.
Abbiamo sperimentato la difficoltà a parlare di sessualità se non all’interno di una più ampia riflessione sulla realtà (sulle relazioni, sui rapporti sociali). Per questo parlare della nostra sessualità significa, per esempio, confrontarsi con la violenza che, anche solo a livello di immaginario, tende a essere prodotta e riprodotta nelle nostre relazioni. Ci sembra quindi che un discorso sulla sessualità per essere realmente dirompente debba essere inserito all’interno di pratiche che mettano in discussione in modo più ampio l’esistente.

 

 

Tiziana Garlato – Femminismo Libertario

PREMESSA

Il presente documento, che ci accingiamo a rendere pubblico e divulgare per quanto ci sarà possibile – e con la volontà di organizzare diversi momenti di incontro per la sua discussione con altre donne – nasce da un moto di ribellione: il gruppo cui chi scrive appartiene – Femminismo Libertario – aveva aderito alla manifestazione dello scorso 14 gennaio organizzata da “Usciamo dal Silenzio”, ma da una posizione critica – espressa e ribadita in assemblea e nel Forum – rispetto all’impostazione “difensivista” sulla legge 194.
Dal 1975 al 1982 ho preso parte attiva in prima persona a tutte le fasi che precedono e seguono quella legge, avendo militato nel Movimento di Liberazione della Donna e coadiuvato il C.I.S.A. (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto) nel percorso politico che andò dalle autodenunce per procurato aborto alla raccolta di firme per la sua depenalizzazione, fino alla reazione consumatasi in ambito parlamentare con il varo della 194 e ai due referendum contrapposti del 1981. Sulla scorta di quella esperienza, insieme a Vanna Perego, nuovamente compagna di strada e allora attivista nel C.I.S.A. , che qui ringrazio per il prezioso contributo, ho cercato di ripercorrere con le compagne di Femminismo Libertario le tappe di quella stagione per poter meglio affrontare l’attualità.
Che quella fosse una pessima legge, e che il suo “funzionamento” (oggi da più parti sbandierato) sia dipeso da una sostanziale “non applicazione letterale”, son cose, queste, di cui siamo tutt’ora convinte .
Ci è parsa quindi inquietante l’ondata di richieste di una sua “piena applicazione” (si badi bene: sia dal fronte “abortista” che da quello antiabortista), e urgente l’esigenza di ricompattare quella consapevolezza che le donne certamente avevano avuto quando affermavano che nessuna legge avrebbero accettato sul proprio corpo.
L’impressione è quella che, in particolare le nuove generazioni di donne, questa legge non l’abbiano letta: siamo convinte che sia necessario leggerla (o ri-leggerla), e conoscerne la storia; e questo è l’invito che ci sentiamo di rivolgere a tutte le donne che incontreremo.


L’intento di questa analisi è pertanto quello di fornire uno strumento comune, una base minima per tracciare un percorso diretto a valutare insieme l’opportunità e la praticabilità di azioni politiche in ordine alle leggi di cui si tratta.
Lo sforzo sarà quello di limitare il più possibile lo spazio delle “opinioni”, per privilegiare invece quello riservato a una successione coerente di eventi storici e citazioni testuali documentati o documentabili, evitando al massimo possibili interpretabilità.
L’eccezione che mi consentirò sarà relativa alla sottolineatura di quanto gli elementi di tale successione possano far emergere per deduzione logica.
Infine: il senso conferito a questo lavoro – anche per il suo carattere grossolanamente riassuntivo – esula decisamente dall’accademismo ed è innanzitutto quello di mostrare quanto le Leggi siano indicatori che consentono di guardare, cercandone la coerenza e il senso, agli accadimenti storici in chiave politica: in particolare le tre leggi prese in esame sono indicatori di una vicenda che si dipana nell’arco di 30 anni, e in qualche modo sono il riscontro della risposta reazionaria alla “rivoluzione femminista”. Si tratta di un percorso che – alla luce del risvolto e del precipitato istituzionale frutto dell’impianto giuridico analizzato – può mettere in evidenza l’ovvietà consequenziale dell’attuale recrudescenza del dogmatismo cattolico, nella sua pretesa di essere dirimente nelle questioni legate alle libertà individuali e nell’intento di informare lo spirito del Legislatore.
Al lavoro collettivo il compito di trarre e di elaborare eventuali spunti di azione.

 

Il Movimento Femminista degli anni ’70, la forza di rottura degli anticoncezionali.

 

E’ cosa nota quanto di rivoluzionario abbia prodotto il percorso di autodeterminazione delle donne, a partire dall’affermazione di una gestione libera e non subordinata della propria sessualità: non di sola contraccezione si parlava, ma di una messa in discussione a 360° del rapporto con il maschio e in particolare delle pratiche sessuali che relegavano le donne nel ruolo passivo/riproduttivo.
Si andava affermando anche una pratica denominata “self-help” (auto-aiuto), che attaccava l’atavico strapotere della classe medica sui corpi femminili, e specialmente quello del “ginecologo”: le donne del Movimento davano vita a Consultori autogestiti, avvalendosi della collaborazione di ginecologhe compagne di lotta, iniziando ad esempio ad utilizzare tra di loro lo speculum.
Questo percorso – di necessità qui solo sommariamente tracciato -proprio perché centrato sulla sessualità metteva in crisi e ridisegnava in maniera irreversibile i rapporti con l’altro sesso.
Se è vero che la legge sui consultori, varata nel 1975, esprimeva in ogni caso una logica familistica basata su una sessualità eterodiretta, tuttavia indubitabilmente fotografava il mutamento profondo che il femminismo aveva impresso, se non altro perché la contraccezione, che liberava la sessualità femminile dalla mera sfera riproduttiva, diveniva strumento di massa promosso da una legge dello Stato, veicolando (al di là degli effetti pratici) un immaginario collettivo in radicale mutamento.
Complice la propulsione data dall’affermazione del divorzio, la centralità data dal Movimento alla sessualità determinava in generale l’erompere nel pubblico di questioni private: la stampa dava sempre più frequentemente conto delle denunce che le donne iniziavano ad avere il coraggio di sporgere nei casi di stupro. Si assisteva alla mobilitazione di donne avvocato che si battevano contro l’inveterata impostazione data ai processi da corti giudicanti e colleghi maschi difensori degli stupratori, consistente nel teorema per il quale la donna stuprata ha in ogni caso “provocato” o non ha opposto adeguata resistenza.
Nascevano in tutta Italia i “centri antiviolenza” autogestiti, cui le donne potevano rivolgersi per avere assistenza legale o semplice ascolto e solidarietà.
Dai dati raccolti in questi centri emergeva un tasso elevatissimo di violenza domestica.
Il M.L.D. (Movimento di Liberazione della Donna) stendeva, insieme all’avv. Tina Lagostena Bassi, una proposta di legge di iniziativa popolare, per la quale raccoglieva 300.000 firme che consentivano la sua presentazione in Parlamento. La proposta sarebbe stata discussa assieme ad altre di iniziativa parlamentare, e si sarebbe arrivati al varo di una legge in materia di violenza sessuale: il reato di stupro cessò di essere “reato contro la morale” per divenire “reato contro la persona”, con mutate conseguenze di ordine penale e procedurale.
E’ in questo clima, in cui la sessualità, la “maternità libera e cosciente”, la gestione del proprio corpo erano istanze che si affermavano anche oltre l’ambito del Movimento, che venne varata nel 1975 la Legge 405 che istituiva i Consultori Familiari http://temi.provincia.milano.it/serv_soc/famiglie/normativa/1975_legge405.pdf ; questa Legge, pur con tutti i limiti più sopra evidenziati, tuttavia registrava il mutamento avvenuto nei costumi sulla spinta dell’azione femminista: all’art.1 si parla di “maternità e paternità responsabili”; si individua tra gli scopi dei consultori “la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile, nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica e psichica degli utenti”, e ancora “la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza, consigliando i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso”. Infine, per una comparazione con la 194, è utile sottolineare il contenuto dell’art.3, che riporto integralmente: “Il personale di consulenza e assistenza addetto ai consultori deve essere in possesso di titoli specifici in una delle seguenti discipline: medicina, psicologia, pedagogia ed assistenza sociale, nonché dell’abilitazione, ove prescritta, all’esercizio professionale”. Vedremo in seguito quanto più “laico” ed avanzato sia questo articolo paragonato a quanto previsto dalla 194 circa il personale addetto.


Aborto clandestino, referendum, Legge 194, referendum del 1981.

 

Va detto, a proposito dell’accennata pratica del “self-help” adottata in veri e propri consultori autogestiti dalle donne del Movimento, che naturalmente in quel contesto si poneva anche il problema delle gravidanze indesiderate.
Come si sa il fenomeno massiccio quanto sommerso degli aborti clandestini registrava interventi praticati in cliniche private a prezzi elevatissimi per chi poteva permetterselo e, per tutte le altre, interventi praticati con decotti di prezzemolo e ferri da calza dalle cosiddette “mammane”, a prezzi più abbordabili ma con serissimi rischi per la vita delle donne e in ogni caso per la loro salute.
Nei consultori del Movimento si ricorreva all’aiuto delle compagne ginecologhe: ovviamente, data la situazione di clandestinità, anche qui i rischi non erano indifferenti. Tuttavia le ginecologhe attive nel Movimento iniziarono a diffondere un metodo abortivo più sicuro, sia perché non richiedeva l’anestesia (ed era anche, perciò, molto meno doloroso) sia perché non comportava il “raschiamento”, ovvero l’asportazione dell’ovulo fecondato raschiando l’endometrio con un arnese chiamato “cucchiaio” (il metodo usato nelle cliniche private dai “cucchiai d’oro”).
La nuova metodologia era denominata “Karman”, dal nome dell’ideatore dell’apparecchiatura che consentiva di “aspirare” l’ovulo senza ledere per abrasione i tessuti dell’utero.
La vastità del fenomeno degli aborti clandestini indusse il M.L.D., nel 1972, ad abbozzare una proposta di Legge per una regolamentazione. Tuttavia da un lato la più parte del Movimento era contraria a legiferare, propendendo per la totale depenalizzazione, dall’altro si era aperto con le donne dell’U.D.I. (Unione Donne Italiane), perlopiù legate al PCI, un dibattito di retroguardia: l’UDI sosteneva ad esempio che le donne cattoliche non sarebbero state ancora pronte per un’apertura sull’aborto.
Il MLD fu convinto dalle posizioni maggioritarie del Movimento, abbandonò l’idea del progetto di legge e si risolse poi a supportare l’azione del Partito Radicale per un referendum totalmente abrogativo della legge che perseguiva l’aborto come reato.
Tale azione aveva preso l’avvio con la nascita, su iniziativa di Adele Faccio, del C.I.S.A. (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto): i consultori del CISA divennero il maggiore riferimento per i milioni di donne che decidevano di interrompere la gravidanza, sia perché i costi erano “politici” (ma anche pari a 0 se la donna non disponeva di denaro) sia perché le condizioni di sicurezza erano le più elevate possibile: metodo Karman, ginecologi più o meno politicizzati, donne che “assistevano” instaurando anche rapporti di solidarietà e aiuto psicologico. L’attività dei consultori CISA si estendeva all’organizzazione di viaggi in Inghilterra per gravidanze oltre il 3° mese e per le minorenni, oltrechè ad una capillare informazione sui metodi contraccettivi.
Si era creata in tutta Italia una “rete” di luoghi fisici in cui praticare gli aborti: al di là della clinica del dr. Giorgio Conciani di Firenze (messa a disposizione con intento dichiaratamente politico), si trattava di abitazioni private che molte donne – del CISA ma anche del MLD e del Movimento in generale – mettevano a disposizione periodicamente. La sottoscritta all’epoca dava la propria casa due volte alla settimana, avendone adibito una stanza allo scopo: qui si trovava un lettino ginecologico e nel box veniva rimessato l’apparecchio Karman .
Va da sé che eravamo in tante e in tanti a rischiare la galera, oltre alle donne che abortivano.
E, appunto, l’occasione politica era quella di una azione nonviolenta che, obbligando lo Stato ad applicare una sua propria legge, ne smascherasse l’ingiustizia e l’ipocrisia portando in emersione la piaga degli aborti clandestini.
Si iniziò con le autodenunce per aborto e procurato aborto. Nulla: nessuno arrestava nessuno. Dopo un’escalation di autodenunce anche da parte del CISA come intera associazione, del Partito Radicale in quanto tale, del dr. Conciani in quanto medico, l’autorità costituita non potè più ignorare la cosa.
Era il gennaio1975: finirono in galera Adele Faccio, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia e Giorgio Conciani.
L’eco di cronaca fu vastissimo, la solidarietà popolare altrettanto e prese il via nello stesso anno la raccolta di firme per l’abrogazione totale della Legge (inserita nel Codice Rocco, di epoca fascista) che vietava l’aborto.
Questa iniziativa, che naturalmente non esauriva i temi dell’ampio percorso di elaborazione femminista sulla sessualità, tuttavia andava nella direzione auspicata di una totale depenalizzazione e non furono poche le donne del Movimento che presero parte attiva nella raccolta di firme. Le quali firme superarono le 500.000 prescritte per l’indizione del referendum abrogativo.
Sennonché nel 1976 si sarebbero tenute le elezioni politiche e la data utile per indire il referendum sarebbe slittata di parecchio (se non erro di 2 anni).
E’ cosa nota che l’asse DC/PCI non aveva alcuna intenzione di indire il referendum per il palese nocumento e intralcio che questo avrebbe comportato all’avanzato stato dei lavori sul Compromesso Storico. (Del resto solo pochi anni prima la stessa ritrosia aveva caratterizzato l’atteggiamento del PCI sul divorzio).
La prima deduzione logica dai fatti esposti si innesta esattamente a questo punto: perché è a questo stadio che la cronaca dei fatti, unita alla lettura dei testi di legge, autorizza a dedurre l’inizio di una fase di “reazione” alla “rivoluzione” femminista.
Mentre con la legge 405 sui consultori si era verificato il recepimento in sede istituzionale delle istanze di un’opinione pubblica ormai orientata dalle lotte femministe, dopo la raccolta di firme per la depenalizzazione dell’aborto, se si volle evitare il referendum attraverso un disegno di legge parlamentare fu perché si temeva (anche questa volta a fronte di un’opinione pubblica orientata) la vittoria dei “sì”; tanto più che le piazze si andavano riempiendo di donne che mettevano in guardia: “nessuna legge sui nostri corpi”.
E, in ogni caso, la Legge che sortì dalla mediazione parlamentare, la 194, ebbe l’unico pregio (certo non indifferente) di stabilire le regole per le quali l’aborto non sarebbe più stato reato. Ma appunto queste regole esprimono il carattere reazionario e restauratore dell’intervento statale da quel momento in avanti (il culmine sarà palesato dal testo della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita). Si allega a questo proposito l’intervento di Emma Bonino alla Camera nel 1976, intervento di voto contrario al testo della 194.
Entriamo nella 194 http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l194_78.html. Una prima osservazione sul titolo; il quale, prima di riferirsi all’i.v.g., esordisce così: “Norme per la tutela sociale della maternità…”. Non dovrebbe apparire forzato osservare che, forse, un primissimo vizio di fondo si annida proprio in questo espediente agito da una stessa Legge che accorpa, come in una medaglia con il suo rovescio, maternità e aborto, quand’anche fosse accettabile che la maternità possa essere oggetto di “tutela” (si spera di stampo non fascista). Ci torneremo; veniamo ora all’ art.1: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. […] …evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.
Questo incipit ha lo stesso sapore che avrebbe lo Statuto dei Lavoratori se si premurasse di sottolineare il “valore sociale” del diritto alla serrata da parte dei padroni. Ma soprattutto è l’inizio della “sterzata”: passiamo cioè da una legge dello Stato che promuove “i mezzi […] liberamente scelti dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile” a una legge dello stesso Stato che promuove “il valore sociale della maternità”. Può piacere o meno, ma non ci si può sottrarre alla constatazione per cui lo spirito laico, non “confessionale” della 405 viene rimpiazzato da una formulazione tipica dello “Stato Etico”. Non sarebbe azzardato immaginare che le forze conservatrici (di tutto l’arco costituzionale), avendo dovuto “obtorto collo” tollerare il fatto compiuto di costumi sessuali mutati, non si sia piegata a tollerare il possibile venir meno della rappresentazione patriarcale della “donna = madre”, sancendone per legge “il valore” in assoluto.
In effetti tutto il testo di legge è improntato alla valorizzazione etica, nemmeno troppo occultata, della donna che decide di proseguire la gravidanza, a tutto scapito dell’immagine di quella che, dopo avere superato tutti i “paletti” previsti, decide di non volere un figlio, tanto che lo Stato le chiede di motivare la sua decisione escludendo che una donna possa in modo autodeterminato dire semplicemente “non voglio un figlio”.
Per l’approfondimento di tali “paletti” si rimanda alla lettura integrale dell’art.2, il cui spirito è comunque ben riassunto al comma d), che prescrive ai consultori di contribuire “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” (si noti che l’uso del condizionale prefigura già la Donna – qualunque donna – bisognosa di tutela e incoraggiamento unidirezionale, nella sua supposta e presunta incapacità costitutiva di decisione. In ogni caso non è dato conoscere come si contribuirebbe “a far superare le cause che potrebbero…”: soldi? psicofarmaci? Sensi di colpa?).
La stessa cosa viene ribadita all’art.5: “Il consultorio e la struttura socio sanitaria […] hanno il compito in ogni caso […] di esaminare […] le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza, […], di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza che dopo il parto […]”.
Anche al medico, più sotto nello stesso articolo, è prescritto il compito di informare la donna “sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può far ricorso”. Già fin qui è evidente lo stampo dissuasivo del testo: teniamo presente sin d’ora (servirà poi) lo scenario che si proporrebbe qualora anche il poco che abbiamo esaminato dovesse essere attivato per la richiesta di una “piena applicazione”.
Ma se questo non bastasse, lo stesso art.5 prescrive altri tentativi atti a scongiurare la decisione finale che non dovesse essere quella della prosecuzione della gravidanza: il medico infatti “valuta con la donna […] le circostanze che la determinano a chiedere l’interruzione della gravidanza”. A questo punto la donna esce dalla scena decisionale già angusta, perché il “carattere di urgenza” non può essere ravvisato dalla donna stessa, e nemmeno insieme alla donna stessa come per tutto il resto; no: arbitro per l’urgenza è solo il medico. Il quale – verrebbe fatto di pensare: con le spalle al muro! -, se non ravvisa l’urgenza, “di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all’art.4” (problemi economici, psicologici, fisici ecc.), “[…] la invita a soprassedere per 7 giorni”. Trascorso il biblico termine di 7 giorni l’intervento potrà finalmente essere richiesto e, obiezione di coscienza permettendo, aver luogo.
Torneremo alla fine sulla parte dell’art.2 che fa riferimento al volontariato nei consultori “per i fini previsti dalla legge”.
Ma attenzione fin d’ora: “i fini previsti dalla legge” sono ben dettagliati dall’intero articolo, che non fa minimamente riferimento all’i.v.g., della quale si inizia a parlare solo all’art.4, in un totale di 6 righe che definiscono l’ambito temporale in cui è consentita e i motivi per cui è richiesta ed in base ai quali è ritenuta lecita.
Dell’art. 5 si è detto.
Se ne riparla all’art.6 in termini di aborto terapeutico, regolamentato dalle procedure previste all’art.7.
L’art.8 stabilisce quali siano le strutture abilitate agli interventi, procedure e termini dell’abilitazione, ma soprattutto occulta proditoriamente la possibilità reale di obiezione di coscienza di un’intera struttura ospedaliera. L’obiezione di coscienza è l’oggetto dell’art.9, e se è vero che, tra l’altro, si legge: “gli enti e le case di cura autorizzati sono tenuti in ogni caso a garantire l’effettuazione degli interventi richiesti…”, occorre tornare all’art.8 e leggere: “Gli interventi possono altresì essere praticati presso gli ospedali pubblici specializzati, gli istituti ed enti di cui a […], sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta”. Come accaduto e accade, se l’ente ospedaliero non ne fa richiesta in quanto l’organo di gestione è formato da obiettori, in quell’ente non si praticano interventi punto e basta.
Dal punto di vista della fruibilità del servizio restano da salvare gli artt. 14 e 15, che prevedono la promozione della formazione del personale da parte delle Regioni, con un apprezzabile riferimento alle “tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”.
Tutto il resto del testo attiene a questioni burocratiche, all’entità delle pene per i trasgressori e ai casi relativi alle minorenni (per cui varrebbe la pena di aprire un capitolo a parte…) e le interdette per infermità mentale.
Insomma: una legge che si pretenderebbe essere (con evidente falso storico) una “conquista delle donne” in tema di aborto, di fatto si palesa, a chiunque si voglia prendere la briga di leggerla, come lo specchio di un atteggiamento culturale che veicola come “positivo assoluto” il ruolo di madre e come “assoluto negativo” il momento decisionale di una donna che non vuole una gravidanza: allo scopo la legge prescrive norme comportamentali del personale medico e paramedico, rafforzando questo “esercito della salvezza” con la possibile immissione del volontariato a tutela della maternità e del concepito (si passa d’un balzo dall’autodeterminazione alla “tutela”) e, per altro verso, contrasta in ogni modo la decisione di interruzione della gravidanza, che pure dovrebbe essere oggetto della legge medesima.
Torniamo alla questione, di particolare attualità (sollevata grazie allo zelo dell’ex Ministro Storace, apripista del Movimento per la Vita), dell’utilizzo del volontariato nei consultori pubblici.
Con riferimento agli allegati che riportano l’intervento del Collettivo Donne Diritto di Milano, si nota che anche giuriste politicamente orientate non certo in senso antiaborista, dopo aver in qualche modo misconosciuto l’intento dissuasivo dell’art.2, addirittura “valorizzano” la formulazione riferita al volontariato, per piegarla ad una interpretazione perlomeno curiosa, quando sostengono che: “l’art.2 prevede la possibilità di collaborazione volontaria di idonee formazione sociali di base e del volontariato, con riferimento all’aiuto alla maternità difficile dopo la nascita, escludendo così i volontari dalla delicata fase decisionale” (il grassetto è mio).
Rileggiamo però il passo della legge in questione: “i consultori possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
Ora: i “fini previsti dalla legge” li abbiamo visti; il volontariato deve essere “idoneo” (si suppone idoneo ai fini) e l’avverbio “anche” non limita affatto, anzi amplia l’intervento del volontariato. Anche volendo propendere per una interpretazione addomesticata del passo, è però lecito supporre che, in presenza di una decisa volontà politica al riguardo, attivata al momento opportuno, il testo di legge, richiesto di “piena applicazione”, supporti, anziché scoraggiare, la legittimità della richiesta del Movimento per la Vita.
Ci si trova poi di fronte alla bizzarria per cui di fatto si ventila la pretesa applicazione di spezzoni di una stessa legge ritenuti “buoni” per sperare che altri, ritenuti “cattivi”, seguitino a non venire applicati; e sarebbe una ben strana concezione della legalità quella che prevedesse, da parte di entrambi i contendenti, la possibilità di una cernita “ad usum delphini” degli articoli da applicare.
Sorprende che questo si intravveda nell’impostazione delle “difensiviste”.
Comunque la si voglia mettere, la legge prevede, eccome, la presenza del volontariato nei consultori, che infatti è invocata dal Movimento per la Vita. Non solo: si può evincere dall’allegato prodotto quanta parte della legge venga chiamata a supportare le richieste e le proposte di Carlo Casini.
E qui veniamo al nodo centrale dell’intera questione: se, per ottenere effetti diametralmente opposti, due parti contendenti chiedono la “piena applicazione” di una medesima legge, qualcosa non quadra; qualcuno non ha debitamente valutato le conseguenze della “piena applicazione”.
E, in effetti, se si guarda all’intera vicenda alla luce dei testi esaminati, dovrebbe risultare chiaro che, non potendosi esporre al rischio di una sconfitta con la proposta dell’abrogazione della 194 e il ripristino del reato d’aborto, il fronte antiaborista cerca – e trova – il miglior alleato proprio nel testo della 194 “applicato alla lettera”, salvo tornare al braccio di ferro tra i contendenti circa gli articoli su cui far leva (e va da sé che non sono i medesimi).
Per conseguenza è una svista quella di chi afferma che la 194 sarebbe “attaccata”, magari attraverso il trucco della modifica della 405: l’obiettivo antiaborista è, viceversa, perseguibile “attaccando” la 405 attraverso il supporto di gran parte della 194 così com’è e proprio per così com’è.
Nella 405 infatti non si parla di volontariato e l’accento è posto sui requisiti di professionalità del personale addetto ai consultori, mentre la 194 parla di “idonee formazioni sociali di base e del volontariato” senza nemmeno menzionare requisiti di professionalità.
Che l’impianto della 194 sia assolutamente funzionale agli intenti del fronte antiaborista, che difatti ne chiede (e non certo per finta) la letterale applicazione, è messo bene in luce dall’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto del 17.1, anch’esso allegato.

 

Solo per inciso occorre ricordare che nel 1981 fu indetto un doppio referendum parzialmente abrogativo della 194: uno del Movimento per la Vita in senso restrittivo (avrebbe in sostanza lasciato solo l’aborto terapeutico) e uno del Partito Radicale, che avrebbe scarnificato la legge, epurandola innanzitutto dall’art.1 (di stampo etico), ma in generale da tutta la struttura dissuasiva degli articoli 2 e 5, oltrechè dalle restrizioni dell’art.4 e dal “trucco” nascosto all’art.8 sull’obiezione di coscienza.
Vinse il “doppio no”: entrambe le proposte vennero respinte e la 194 rimase intatta, proprio così come era stata partorita dal connubio DC/PCI. Curioso: la Sinistra istituzionale, la stessa che a suo tempo aveva fatto di tutto per scongiurare il successo divorzista, e già avvezza al corteggiamento dell’elettorato cattolico, era riuscita nell’intento di egemonizzare ogni “questione femminile”. Malaccorte in questo senso, le donne in piazza, le stesse che avevano aborrito quella legge, gridavano ora “giù le mani dalla 194”! Il PCI aveva riportato sotto la sua ala la maggior parte del Movimento, che non aveva colto l’occasione per rendere la legge più avanzata e meno “eticista”. L’argomento a favore del “no” al quesito referendario radicale era quello per cui l’i.v.g. avrebbe poi potuto essere praticata anche nelle strutture private.
Mi limito ad osservare due cose: nelle strutture private si continua a poter partorire (cosiccome a poter usufruire di ogni altra prestazione), senza che questo comporti il venir meno da parte dello Stato dell’obbligo di fornire il servizio sanitario; inoltre limitare al servizio pubblico proprio l’i.v.g. significa di fatto consegnare al controllo statale il corpo delle donne (così come in precedenza denunciato dal Movimento femminista): lo Stato monopolista mi dirà – mi dice – come, se, quando e per quali motivi posso abortire.
Forse quel doppio no fu un errore, ma qui siamo davvero nell’ambito delle opinioni che mi riproponevo di evitare.
Quel che ci fa tornare ai fatti storici è che in ogni caso da lì ebbe origine, anche e soprattutto tra le donne, il filone “difensivista” e – mi permetto di dire – “totemista” sulla 194, che fece piazza pulita delle originarie istanze femministe, le quali – chissà – potrebbero, magari con profitto, “uscire dal silenzio”.

 

Il culmine della reazione: la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita.


E’ cosa recente e nota. In questa sede non c’è spazio per l’argomento, pur rilevantissimo, della ricerca scientifica.
Il cenno indispensabile è quello riferito al trait d’union tra l’art.1 della 194 (la tutela della vita umana “fin dal suo inizio”) e la new entry tra le figure giuridiche, inaugurata dalla legge 40: l’embrione.
Essendo l’intento quello di evidenziare la sequenza, scandita dalle leggi, che da una rivoluzione di stampo laico e libertario porta alla reazione di stampo restauratore, ci si limita qui a constatare innanzitutto l’assurdo giuridico generato dalla legge 40: l’embrione gode di diritti primari e prevalenti rispetto alla possibile futura madre quando si trova ancora all’esterno dell’utero di questa; perde in un sol colpo tali diritti una volta inoculato, potendo essere abortito, per ritrovarsi di nuovo titolare di diritti una volta fattosi neonato e uscito dal “contenitore”.


Conclusioni


Per come sono andati i fatti storici scanditi dalla sequenza delle leggi 405, 194 e 40 sembrerebbe di assistere alla messa in scena (drammatica quando non tragica) di una contesa a colpi di leggi tra Stato/Chiesa e Donna (i primi non contemplano “le” seconde), contesa che in ogni caso ha per oggetto, in un crescendo di contorsioni giuridiche, il corpo femminile e la sessualità, quasi simbolici detentori del potere di vita e di morte.
Che la sessualità sia stata in qualche modo liberata dal vincolo procreativo all’interno del matrimonio, e che questa liberazione abbia trovato un riscontro giuridico nella legge 405, tutto questo sembra aver prodotto un rigurgito reazionario, il cui riscontro giuridico è evidente nelle leggi successive, che penalizzano scelte di libertà sia nel caso in cui una donna non desideri la maternità sia nel caso esattamente contrario.


Si potrebbe terminare domandando se sia proprio frutto di arbitraria opinione concludere sinteticamente che:


a) quella che in realtà andrebbe “difesa” è la legge 405, semmai mirando ad ampliare esplicitamente le funzioni dei consultori: l’uso del profilattico, ad esempio, non è necessariamente funzionale alla contraccezione ma anche a garantire rapporti protetti, esistendo con auspicabile pari dignità diverse forme di sessualità (omosessualità, lesbismo, transessualità), e posto quindi che la “salute sessuale” è diritto di chiunque.


b) la legge 194 non è un totem, proprio perché è di stampo reazionario. La sua formulazione non è l’unica possibile per fronteggiare la clandestinità dell’aborto e l’intervento che interrompe la gravidanza può (dovrebbe?…) essere compreso nel novero di ogni altro intervento garantito dalla sanità, pubblica e privata, senza che lo Stato abbia il monopolio degli aborti dettando persino i principi morali cui attenersi e con ciò stesso divenendo, come si è visto, “Stato Etico”.


c) la legge 40 può essere smantellata: il referendum non è stato “perso”, ma stravinto da un quorum per legge insufficiente. Se la legge referendaria non avesse previsto il quorum (ovvero se anche lo avesse ridimensionato), come in altri Paesi, non ci sarebbe stata alcuna campagna astensionista: i “no” si sarebbero, in un dibattito limpido, confrontati con i “sì”. E la campagna astensionista dice che il numero presumibile di quei “sì” faceva paura.


Per tutto questo, certo, occorrerebbe la capacità politica di individuare il momento propizio, per il quale possiamo ancora prenderci un po’ di tempo (speriamo…), prima che alla prossima folata di vento favorevole altri non provveda ad assestare nuovi colpi proprio con l’aiuto offerto dal contenuto formale e sostanziale della 194.
Così come sarebbe fondamentale che le donne ripercorressero con serenità di giudizio la propria storia, che è portatrice di un patrimonio di cui riappropriarsi.
Solo allora si potrebbe iniziare ad andare oltre facili slogans difensivisti quanto improduttivi, e cercare assieme strategie e possibili alleanze per tornare ad imporre le istanze irrinunciabili di una libertà autentica a livello anche istituzionale – perché è lì che, piaccia o meno, concretamente vengono messe in gioco l’esistenza e la dignità dei singoli e delle singole, è lì che, in assenza di interazioni, possono prodursi conseguenze pesanti per tutti e per tutte.
Pensarsi organizzate nella costruzione dei presupposti di un’azione politica volta a cambiare la qualità del tessuto istituzionale non significa affatto differenziarsi strategicamente da chi – penso agli interventi di Lea Meandri e molte altre – ravvisa la necessità di tornare a rendere centrale il dibattito sulla sessualità: significa semmai aggiungere alla ricchezza delle ri-elaborazioni un piano ulteriore di riflessione circa la possibilità e la natura del rapporto con le istituzioni.


Questo lavoro ha pertanto anche la pretesa – certo immodesta – di riaprire, sul binario della possibilità di un tale rapporto, un dibattito troppo presto esauritosi nel pantano di logiche approssimative e, peggio, nell’oblio delle origini di un pensiero forte.