realizzata da Barbara Bertoncin e Gianni Saporetti
La grandezza del femminismo, di dare dignità alla parola donna non più solo come qualcosa di accessorio all’uomo o al maschile, oggi rimossa, nel nome di un nuovo neutro; le parole sostituite: “donna” con “persona con utero” e “maternità” con “gestazione”; mentre si invoca un “rispetto della natura” in nome dell’ambiente si professa una “rivoluzione della natura” per l’essere umano; la rimozione del limite di ciò che è dato. Intervista a Olivia Guaraldo.Olivia Guaraldo insegna filosofia politica all’Università di Verona. È Studiosa di Hannah Arendt, a cui ha dedicato due monografie, e dei femminismi contemporanei. Ha curato e introdotto due edizioni italiane di testi di Judith Butler e ha scritto sui rapporti fra il femminismo della differenza e le gender theories. Dirige il Centro Studi politici Hannah Arendt presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona.
Vorremmo proseguire il dibattito sul tema dell’identità di genere aperto con la lunga intervista a Kathleen Stock uscita nello scorso numero.
Kathleen Stock tocca questioni cruciali, la prima delle quali è la forte censura che avviene nel contesto accademico britannico, per chi solo mostra di avere posizioni diverse rispetto a quelle dominanti sul gender. Personalmente sono a conoscenza di censure analoghe, magari non così plateali, anche in Italia. Per esempio, verso chi si occupa di questioni legate alla transizione dal punto di vista giuridico: se esprimi qualche dubbio, una lieve perplessità sulla facilità con cui gli adolescenti possono sottoporsi a terapia ormonale, vieni immediatamente escluso dal dibattito, ostracizzato, silenziato.
Da un punto di vista culturale forse è interessante chiedersi come mai si sia arrivati a instaurare queste nuove forme di censura e di dogmatismo. Cioè, all’apice della vittoria del relativismo, del multiculturalismo, della critica all’eurocentrismo, insomma, nel momento storico-culturale in cui ci troviamo, in cui ogni credenza viene messa in discussione, è come se risorgesse il bisogno di un nuovo dogmatismo. Il che è paradossale perché le teorie che propongono uno smantellamento della dualità dei sessi sono il frutto della filosofia post-moderna e decostruzionista, di una filosofia che mette in discussione, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, i concetti di uomo, soggetto, coscienza. Si tratta di un percorso anche concettuale che inizia con la volontà di smantellare, di decostruire e però, alla fine di questa parabola, scopriamo un rinnovato bisogno di dogmatismo o di quello che potremmo chiamare un nuovo conformismo.
L’altra faccia di questo fenomeno è che le forme ultime, più estreme, di radicalismo vengono oggi identificate con queste posizioni, per cui appunto la tua identità sessuale è quella che dichiari o che intenzionalmente assumi, indipendentemente da ciò che sei materialmente, biologicamente.
Quello che voglio dire è che oggi queste posizioni sono interpretate come quelle politicamente più radicali, e non solo rispetto al sesso o al femminismo, ma politicamente più radicali in genere. Come se la politica fosse tutta incentrata sulla capacità di smantellare la “natura” e assumere una identità che è solo intenzionale; come se, in altre parole, la politica coincidesse del tutto con la questione dell’identità, in una prospettiva molto soggettiva, iper-individualizzata direi. Come facciamo a portare avanti politiche ambientali se siamo così concentrati solo sulla percezione di noi stessi? Mi sembra che ci sia un grande scollamento in questo senso.
La preoccupazione è che, paradossalmente, si torni indietro. Se la donna è la femmina adulta della nostra specie, questo nulla dice su chi e come dobbiamo essere. Se invece questo termine è totalmente avulso dalla dimensione corporea, biologica, con quali criteri definiamo l’essere donna? Quali caratteristiche dovrebbe avere? È una strada insidiosa ed è emblematico che la rappresentazione del genere di arrivo di personaggi pubblici che hanno fatto la transizione tradisca un’idea di donna e di uomo molto stereotipata, conformista.
La questione femminista centrale è proprio questa. È curioso che la traiettoria intrapresa da quelle riflessioni abbia portato a un esito non previsto dalle stesse femministe. Dal punto di vista di molte femministe radicali, il femminismo ha liberato la parola donna dal suo uso patriarcale, stereotipato e legato a un preciso ruolo.
Il femminismo ha riempito la parola donna di ulteriori significati, ma soprattutto ha aperto quella parola a una dimensione di libertà. Per me la parola più importante del femminismo non è uguaglianza, ma libertà. Ebbene, siamo passati da questa apertura della parola donna, la grande conquista del femminismo, a una sua chiusura. Invece, il femminismo ci ha insegnato che anche le donne che non si adattano perfettamente allo stereotipo del femminile sono donne. Questa è la grandezza del femminismo, di dare dignità alla parola donna nella sua autonomia, non più solo come qualcosa di accessorio all’uomo o al maschile. Già negli anni ’70 una parte del pensiero femminista radicale (su questo si veda F. Restaino, A. Cavarero, Le filosofie femministe, Pearson, 2022) riteneva che fosse necessario abbandonare la parola donna perché troppo compromessa con il patriarcato, troppo dipendente da esso. Invece, il portato cruciale del pensiero della differenza è stato di voler valorizzare quella parola -donna- e con essa le esperienze e l’autonomia del femminile. Tutto ciò però poteva darsi solo se il femminile cominciava a interrogarsi prescindendo dal maschile. Questa è stata la strada intrapresa dal separatismo femminista.
Oggi invece è come se tutta quella complicata vicenda della parola donna, della sua apertura, della sua liberazione, non ci fosse stata, per cui si torna a un uso di quella parola assolutamente tradizionale, conservatore, se vuoi addirittura reazionario, patriarcale. Come se essere donna rimandasse immediatamente solo alla eterosessualità, all’iperfemminilizzazione, ai ruoli di madre, moglie, seduttrice etc… È questo che spesso non si vede o non si vuole vedere.
C’è un’altra questione importante, che il :pensiero della differenza ha messo in evidenza ed è una questione filosofica. Noi abbiamo lottato per arrivare a riconoscere che “l’uomo”, inteso come il neutro universale, non va bene perché è un termine che pretende di valere per gli uomini e le donne, includendo le donne nel neutro della parola “uomo”. Il lavoro del femminismo è stato quello di dire: esiste anche l’essere umano sessuato al femminile con delle sue specificità, delle sue differenze, con un portato culturale e simbolico diverso. Si tratta di dare valore e dignità a questa differenza, segnalandone l’esistenza, persino la vitalità, senza ovviamente dettare a priori i caratteri o i modi in cui questa differenza si poteva manifestare. Chi accusa il pensiero della differenza di essere “essenzialista”, cioè di porre un’essenza del femminile come normativa, mistifica la questione. Che è semmai un’altra. Il pensiero della differenza dice: c’è un essere umano che si spartisce, prevalentemente, in due sessi. Del resto, la storia del patriarcato è segnata da una certa interpretazione maschile di questa differenza. Il femminismo della differenza vuole dare un significato nuovo a questa differenza, che valorizzi le donne, ma che smascheri anche la pretesa del termine “uomo” di parlare per entrambi i sessi. La logica filosofica dell’Occidente invece non accoglie questa originarietà del due: “Se all’Uomo con la maiuscola si aggiunge la donna, allora perché non aggiungere anche altri?”. Come se, in altre parole, l’emergere della differenza aprisse a infinite differenze. Come se questa rottura dell’uno portasse immediatamente all’apertura ai molti, e l’esito di questa operazione concettuale è una nuova cancellazione della donna come umano originario.
Inoltre, nella dialettica uno-molti la donna viene assimilata alle minoranze sessuali o a una categoria sociale, e questo è sbagliato. La portata radicale del pensiero della differenza, che non è un pensiero sociologico, bensì filosofico, sta proprio qui: c’è un’originaria differenza di corpi. Questo è un fatto anatomico, fisiologico, ormonale, ma non si tratta di definire con riduzionismo biologista l’umano a partire da questa differenza, ma nemmeno negarla. Si tratta di una differenza che è anche simbolica e culturale. Il problema è come dare significato a questa differenza in maniera non patriarcale. Il patriarcato ha sempre dato significato a questa differenza sessuale: le donne sono subordinate agli uomini, fanno i figli, sono impolitiche… La sfida femminista era volta a far sì che questa differenza significasse in maniera diversa.
Adesso noi vediamo arrivare al pettine tanti nodi perché quella differenza sessuale alla fine non è mai stata accettata fino in fondo. Il pensiero Lgbtq in qualche modo vuole superare questa originarietà del due e appunto dire che ci sono i molti; maschile e femminile, l’originario spartirsi in due sessi, sarebbe in realtà una imposizione eteronormativa, che quindi opprime e normalizza chi non si riconosce in questa dualità. Da lì si arriva a postulare la categoria di queer, che è ciò che appunto non si conforma al binarismo dei sessi. A mio avviso, il problema di questa posizione è che nel voler liberare le minoranze sessuali dalla discriminazione -cosa giustissima, per altro- finisce per cancellare non tanto l’uomo, categoria che anche le femministe volevano mettere in discussione, ma soprattutto la donna. Questo lo si vede nelle operazioni linguistiche che vogliono adottare, l’asterisco o la schwa o l’espressione “persona con utero” anziché donna.
Ora non è che le femministe siano delle bigotte. La rivolta delle femministe vecchio stampo o terf, come ora vengono chiamate, non è certo contro le pratiche sessuali non eterosessuali, ma contro la cancellazione delle donne!
In effetti anche il ddl Zan metteva assieme donne e disabili…
Esatto. È come se non fossimo mai usciti dal neutro universale. Gli effetti di quella impostazione sono ancora molto visibili: vige un modello di umano che non viene minimamente scalfito dal fatto che tutto quello che non è a esso riconducibile sia minoranza.
Ripeto, una delle sfide del pensiero femminista, dal punto di vista filosofico, era mettere in crisi un certo modello di soggettività e far emergere la legittimità teorica di altri modelli di soggettività: relazionale, dipendente, eccetera e non sempre e solo l’indipendenza, l’autonomia, la razionalità. Invece è come se fosse stato codificato solo quello come modello legittimo, sovrano.
La maternità in questo quadro che fine fa? Emerge quasi un’avversione anche per questa parola…
Il femminismo nelle sue molteplici forme ha avuto sempre un rapporto ambiguo con la maternità. Per molte femministe l’idea era: solo se superiamo questo “destino biologico” -per citare Simone de Beauvoir- saremo veramente libere. Questa è stata la posizione di molta parte del femminismo, anche radicale. Poi invece, sempre dentro al femminismo, per dire quanto ricca è questa galassia, ci sono state importantissime teorizzazioni sulla maternità, a partire dal testo di Adrienne Rich Nato di donna,del 1976, dove l’autrice fa una distinzione fra la maternità come istituzione e la maternità come esperienza. Attraverso una ricostruzione della storia della maternità, ma anche attraverso un processo di presa di consapevolezza di sé, come donna, femminista. Ecco, Rich dice: dobbiamo mettere in discussione l’istituzione patriarcale della maternità, riappropriandoci invece dell’esperienza esclusivamente femminile della maternità. Lo dice una donna che è sia madre sia severa critica del patriarcato e teorizzatrice del pensiero lesbico.
A partire da Rich c’è tutto un filone che valorizza la maternità come esperienza femminile. Questo è un elemento importantissimo del femminismo. Proprio quando negli anni Settanta la maternità non diventa più un destino ma una scelta o appunto un percorso di libertà, c’è la possibilità di attribuirle altri significati.
Dalla valorizzazione dell’esperienza della maternità in chiave femminista emergono successivamente interessanti filoni di pensiero che tematizzano la relazionalità originaria di ogni essere umano, la sua originaria vulnerabilità e quindi la necessità di pensare l’etica della cura.
Molta riflessione contemporanea su vulnerabilità, cura, relazione scaturisce dalla riflessione femminista.
Il tentativo del pensiero della differenza ma anche di parte del femminismo radicale degli anni Settanta è stato quello di riappropriarsi della maternità come esperienza incarnata, vissuta, reale e concreta.
Adesso invece siamo arrivati all’aberrazione di chiamare la maternità “gestazione”, un’operazione linguistica per cui l’esperienza della maternità, cioè dell’avere nel proprio corpo una forma di vita che poi diventa un essere umano, viene definita con un termine medico, scomponendo il processo di creazione della vita in varie fasi, così da smantellare del tutto l’esperienza complessiva della maternità, che non è solo biologica o ormonale.
Qui si apre tutta la questione del dibattito sulla gestazione per altri, detta anche maternità surrogata o utero in affitto.
Quello che personalmente trovo davvero triste è questo. I dispositivi tecnologici e scientifici sembrano oggi inarrestabili, per cui sinceramente penso che sia difficile fermarli, o che sia per lo meno complicato. Ciò che mi stupisce e che mi delude è che una parte della sinistra assuma in maniera del tutto acritica questa stessa direzione, presentandola come un’esperienza di libertà o di diritti.
È chiaro, ad esempio, che la chirurgia plastica, la possibilità di modellare il proprio corpo, anche senza parlare di transizione sessuale, è un segno dei nostri tempi. Però non penso che sia una battaglia di sinistra potersi rifare il seno, le labbra o gli zigomi. Come mai invece è diventata una battaglia di sinistra quella di assecondare questi dispositivi, e il mercato che c’è dietro, facendola passare per qualcosa di progressista, in materia di maternità surrogata? Questo per me è un grande mistero. Soprattutto perché ci sono interessi economici e processi di sfruttamento molto evidenti nei mercati della gestazione per altri e l’argomento contrario che la ammette, ma solo nella forma del dono, mi sembra una grande ipocrisia. Non puoi donare un altro essere umano; è come trasformare l’essere umano in un oggetto che tu produci e doni a qualcun altro. Filosoficamente è molto problematico: si può decidere di produrre un essere umano per donarlo?
Su questo riflette in maniera filosoficamente interessante Alessio Musio sulla rivista “Vita e Pensiero”, affermando che “se ogni persona può sempre donare qualcosa di sé, questa facoltà di dono non può estendersi al dono di un’altra soggettività (il figlio). A poter essere donate sono solo le cose e non le persone”. Questa è un’importante riflessione sul piano etico che almeno segnala un problema piuttosto grande. Nel dibattito si fa tanto parlare del benessere di bambine e bambini nati dalla surrogazione, nei cui confronti chi vuole vietare la surrogata non ha alcun rispetto. Eticamente però, bisognerebbe chiedersi che rispetto hanno per i bambini e le bambine coloro che li commissionano ad altri o se li fanno “donare”? Quale rispetto per chi è coscientemente progettato per essere donato o venduto? Mi sembra tutto incongruente, se non folle.
Io trovo lo stesso processo linguistico che sostituisce maternità con “gestazione” molto violento: non si parla più della madre, ma della portatrice, della donatrice di ovuli… Una nuova cancellazione delle donne e della loro esclusiva potenzialità generativa: mi pare che si compia qui una nuova ingiustizia storica. Io penso a tutte le donne del passato che hanno lottato per veder riconosciuta la propria esistenza, la propria identità. È come se adesso con un colpo di spugna tutto venisse cancellato.
E badate bene, non è solo una questione dei cattolici, interessati ovviamente all’aspetto etico, e nemmeno una questione del femminismo “eterosessuale”. È interessante, infatti, che siano le lesbiche le donne che più soffrono di questa cancellazione. Anche in Italia la posizione di Arcilesbica rispetto sia all’identità di genere sia alla maternità surrogata è molto chiara, molto forte e ha avuto un ostracismo pazzesco da parte di tutto il movimento Lgbt.
C’è questo bellissimo libro di Arcilesbica, Noi le lesbiche, Preferenza femminile e critica al Transfemminismo (Il dito e la luna, Milano, 2021) un testo sia teorico che di racconto di come sono andate le cose dentro il movimento dopo la grande battaglia per le unioni civili. Il fatto che sin dal giorno dopo si sia subito passati a discutere del tema della maternità surrogata è stato vissuto come una profonda violenza dentro il movimento.
Come si spiega?
Carla Lonzi negli anni Settanta scrive contro un femminismo dell’uguaglianza e della parità perché in quella operazione dell’emancipazione lei vede una trappola di assimilazione. Alla fine per avere gli stessi diritti degli uomini o di un ipotetico soggetto neutro dobbiamo in qualche modo rinunciare a essere donne, diventare come i maschi. Questo processo di assimilazione è un processo di cancellazione della differenza ed è esattamente quello che avviene adesso per esempio in queste operazioni linguistiche, dove la parola donna viene rifiutata perché ritenuta non inclusiva.
Anche qui c’è un ritorno. C’è di nuovo un fastidio per la differenza femminile, per la differenza sessuale e quindi una sua neutralizzazione proprio nel doppio senso di neutralizzazione linguistica ma anche di neutralizzazione politica.
Fino a che le donne sono soggetti vulnerabili, deboli, da tutelare, rientrano cioè nel paradigma familiare di una “minoranza”, allora va bene parlare di violenza contro le donne o di ingiustizia e discriminazioni. Se invece le donne vogliono essere riconosciute come soggetto alla pari degli uomini, nella loro differenza, ecco che questo non va più bene e all’improvviso la donna diventa un soggetto che esclude altri soggetti!
Se ci pensate è curioso. Qui ci sono tanti cortocircuiti anche dal punto di vista concettuale. Questo lo dico spesso alle mie studentesse con cui ho sovente delle discussioni. Loro sarebbero più orientate verso una prospettiva diciamo queer, le nostre discussioni sono spesso molto accese e interessanti, istruttive anche per me.
Se mi limito a raccontare in classe il percorso di discriminazione subìto dalle donne nella storia, le ingiustizie nei loro confronti, eccetera, loro mi seguono con interesse ed entusiasmo. Se però faccio un discorso più “positivo” sulle donne, in un’ottica del pensiero della differenza sessuale, affermando che c’è una differenza femminile che va valorizzata, subito si ritraggono, diventano sospettose, perché interpretano la differenza sessuale come una sorta di essenzialismo. In realtà il femminismo della differenza non fa un discorso essenzialista.
Anche questo è interessante: nella riflessione anglo-americana si tende a intendere la differenza sessuale solo come differenza biologica, come qualcosa, appunto, di corporeo, biologico, e quindi muto e da superare. Mentre il pensiero della differenza sessuale, come ho già detto, è all’incrocio fra il materiale, il corporeo e il culturale o simbolico e una delle sue sfide è dire: proviamo a pensare questa differenza sessuale al di fuori di come il patriarcato l’ha pensata.
Dal punto di vista filosofico questo è un percorso che è stato iniziato ma che non si è concluso. La differenza sessuale non è qualcosa che si possa stabilire una volta per tutte a priori, su cui dettare un dogma, una norma. L’assunto di base è quello di un’apertura che deve costantemente essere riempita di significati, a partire però da un’incarnazione corporea in un corpo sessuato, a partire da una spartizione nei due sessi del maschile e del femminile e dove ciascun sesso dovrebbe pensarsi a partire dalla sua parzialità, non da un’ipotetica universalità. È una critica al modello neutro universale che tutto ingloba.
Questa idea di una parzialità che però è radicata in un corpo e in una differenza è secondo me un punto di partenza molto proficuo, che permette di fare molte cose: per esempio, di non ridurre il femminile alla sua differenza biologica, ma nello stesso tempo di non cancellare quella differenza biologica, di non far finta che non ci sia. È un processo che merita di essere ulteriormente esplorato. Proprio per aprire quel significante donna a una libertà che io ancora non vedo. Vedo piuttosto ritornare prepotenti gli stereotipi. Anche in questa apparente apertura di tutti i sessi e tutti i generi, è come se ci fosse una specie di strana nostalgia o attaccamento a una definizione rigida di che cosa è una donna. Come se ci fosse il bisogno di stabilire che cos’è una donna in maniera ferma e stabile, per poi rifiutare dal punto di vista della fluidità e del queer proprio quel femminile stereotipato. Si tratta però, questo il paradosso, di un femminile molto patriarcale, come se il femminismo non ci fosse stato.
Spesso i soggetti che animano le manifestazioni diciamo queer condividono la lotta per l’ambiente. Vorrei introdurre il tema del limite. Abbiamo pensato che grazie alla scienza e alla tecnologia si potesse abbattere qualsiasi limite e proprio la crisi climatica ci ha fatto prendere coscienza della situazione. Di là si parla però di rivoluzione contro la natura, quindi di abbattimento dei limiti. Non c’è una specie di delirio di onnipotenza in questo affidarsi alla scienza e alla tecnologia in nome di un’ansia di liberazione. Sembra tutto paradossale…
Ho letto di recente una recensione all’ultimo libro del filosofo Paul B. Preciado e riflettevo sul fatto che molto spesso questa messa in discussione dei ruoli tradizionali di genere o delle identità di genere in alcuni di questi teorici è affiancata a una critica ai modelli di sviluppo della società occidentale e quindi alla crisi climatica. Anch’io vedo qui una forte contraddizione. Come puoi condurre in maniera così esasperata la tua battaglia contro la “natura” che hai dentro di te, e di cui noi siamo delle specificazioni, e simultaneamente lottare per il rispetto della natura? Come conciliare una battaglia tutta concentrata su di sé, sulle proprie preferenze e desideri, sulla propria auto percezione con una che invece punta a mettere da parte se stessi per occuparsi del mondo?
Questa dimensione del limite appare assolutamente cancellata, negata quando si tratta del quadro biologico dentro il quale ci troviamo a essere. Insomma, critichiamo il turbocapitalismo che sfascia il pianeta ma contemporaneamente smantelliamo la natura che noi siamo. Mi pare piuttosto contraddittorio.
C’è una frase di Hannah Arendt che mi ha sempre colpito molto. Riflettendo sul suo essere ebrea e donna lei scrive: “Provo una fondamentale gratitudine per ciò che è dato” (for what has been given). “Ciò che è dato” nel senso di qualcosa che tu non scegli.
La fondamentale gratitudine per ciò che è dato secondo me ha a che fare proprio con questa percezione di un limite, del fatto che c’è qualcosa che ti eccede, che non puoi determinare volontaristicamente. La vicenda umana è anche un percorso, un venire a patti -spesso lungo e doloroso- con questo nostro essere così e non altrimenti. Qui emerge invece una rimozione, una non accettazione di sé.
Carla Lonzi, nei suoi testi, parla di una “accettazione di sé” da parte delle donne che non vuole naturalmente dire una supina sottomissione ai ruoli, ma un’accettazione di sé come primo passo per un percorso di libertà femminile.
Quello che io osservo tristemente oggi è che spesso sono le ragazze più giovani a non accettare questa loro datità. È come se il femminismo, per certi versi, non fosse accaduto; persistono dei forti stereotipi femminili a cui le ragazze sentono di doversi adeguare o di non potersi per niente adeguare. L’esito è che rifiutano il femminile in blocco. Come se femminile volesse dire essere solo quella cosa lì.
L’aumento, repentino e imponente, del numero delle transizioni da femmine a maschi registrato negli Stati Uniti, mentre nel passato il fenomeno, molto contenuto, riguardava il processo inverso, sembra segnalare un disagio prettamente femminile. Questa disponibilità a dar via la parola donna tradisce forse la difficoltà che le giovani donne incontrano nell’essere se stesse? Il venir meno del vecchio ordine e l’assenza di uno nuovo crea una situazione complicata, anche dolorosa.
Temo sia proprio così. Si rifiuta la parola donna perché la si percepisce ancora legata alla sua versione patriarcale, come ho già detto. In qualche modo è anche un fallimento del femminismo. Il femminismo della parità, dell’uguaglianza ha una forte carica assimilazionista, per cui se tu donna vuoi la parità, ti assimili a un modello maschile, quindi aggressivo, competitivo oppure iperseduttivo e tutte quelle forme di femminilità o di essere donna che non si adeguano vengono ritenute fallimentari, residuali. Intendiamoci, anch’io volevo essere un maschio quando avevo dieci anni, anch’io facevo resistenza a che questo corpo prendesse una forma che mi impediva una certa libertà, eccetera.
Ecco, questo complicato processo di soggettivazione che si attraversa nella fase in cui si assumono i caratteri sessuali maschili o femminili una volta non aveva immediatamente a disposizione la possibilità del rifiuto di una cosa e l’assunzione di un’altra. Adesso invece c’è anche questa nuova merce -perché dobbiamo dirlo che è una nuova merce- e quindi: perché no?
Oggi si definiscono “maschi trans” persone che una volta sarebbero perfettamente rientrate nell’estetica della lesbica butch, donne ipermascolinizzate. Qual è il problema di vivere il proprio essere donna nelle forme di un’estetica più mascolina e di un rapporto lesbico?
Ero convinta che il femminismo, e con esso l’epoca della cosiddetta liberazione sessuale, ci avesse insegnato che ciascuna/o può vivere la propria sessualità come vuole, senza però trasformare questa libertà in un nuovo conformismo queer. Invece adesso c’è proprio questo bisogno di incasellare la soggettività in una nuova identità, quella appunto di maschio trans. Io qui di nuovo vedo il rifiuto di volersi dire donna.
Ora, io non so se sia un effetto di quel contagio sociale di cui parla anche Kathleen Stock, di questa omologazione, di questo conformismo che vale dentro i movimenti come in tutte le altre parti della società. Però per me è significativo il fatto che il fenomeno riguardi soprattutto le ragazze adolescenti.
D’altra parte, io non vivo a New York e non vivo neanche a Milano; la provincia italiana è ancora estremamente rigida dal punto di vista dei ruoli di genere. Se vai all’uscita di una scuola, sembra siano tutte ragazze madri! Non vedi mai un padre; nel giro di cinque anni ne avrò visti un paio; sono figure inesistenti. C’è una persistenza nella società italiana di questo modello patriarcale. Io invece sono favorevolissima all’interscambio dei ruoli di genere dentro la famiglia: è l’elemento fondamentale per la libertà delle donne e anche dei figli francamente. Qui invece siamo ancora molto arretrati.
Contemporaneamente si assiste a una maggioranza di situazioni estremamente tradizionali e poi queste schegge di posizioni iper radicali che però non impattano realmente sulla vita della maggioranza delle persone, soprattutto delle donne. C’è ancora molto lavoro da fare in questo senso.
Le attuali forme di lotta di questi movimenti ricalcano quelle degli anni Settanta: c’è un’aggressività, una violenza, per ora prevalentemente verbale, ma che può produrre appunto licenziamenti, ostracismi eccetera; una violenza che nella storia è tipicamente maschile: pubblicare il nome, l’indirizzo, quest’ansia quasi di linciare, per quanto non fisicamente, chi la pensa diversamente fa pensare a una sorta di rivincita, a un’ondata sotterranea di maschilismo… c’è qualcosa che ritorna.
È vero ed è un elemento molto interessante. Anche nel movimento “Non una di meno” si riscontrano delle modalità, anche estetiche, di lotta reminiscenti degli anni Settanta. È come se non ci fosse stata alcuna evoluzione rispetto a come si interpreta il radicalismo di una battaglia.
È come se anche questo aspetto del femminismo, con le sue forme di ironia, non violente, fosse stato dimenticato. Riemerge la matrice di una tradizione che ha i suoi miti e suoi mitologemi e che continua a essere richiamata – una matrice bellicista. Il manifesto fatto contro Kathleen Stock è tremendo e mi ha fatto molta impressione, un attacco così ad personam… queste forme di linciaggio sono effettivamente molto maschili. D’altra parte, continua a sembrare più “cool”, più radicale adottare quei metodi invece di cercarne altri.
Devo dire che sui social vedo che molte femministe della generazione precedente assumono posizioni vicine al movimento Lgbt, con argomentazioni talvolta un po’ fumose. A sinistra continua a funzionare questo spettro di essere assimilati alla destra, e allora, anche forse per continuare a cavalcare la radicalità del movimento, si accettano posizioni che un tempo si sarebbero rigettate, come nel caso della maternità surrogata.
Ora, la gestazione per altri non è una questione esclusivamente maschile però è fuor di dubbio che una genitorialità lesbica e una genitorialità gay non sono la stessa cosa. C’è una differenza sessuale anche nell’omosessualità che sarebbe così ipocrita, così fittizio non riconoscere.
Pensiamo alla differenza -anche qui sessuale, biologica- tra la donazione di sperma da parte di un uomo e invece la donazione di ovuli da parte di una donna. Le donne che donano i loro ovuli devono essere sottoposte a terapie ormonali per farne aumentare la produzione e poi l’estrazione è molto più invasiva rispetto alla raccolta dello sperma. Tra l’altro l’eiaculazione, come ricorda Carla Lonzi, corrisponde al momento del piacere del maschio mentre per la donna piacere e fecondazione non sono così strettamente legati.
Non voler riconoscere o voler dissolvere queste differenze anatomiche in un discorso giuridico o appunto neutralizzante di “genitorialità”, a mio avviso, oltre a essere violento è proprio falsificante.
Voglio aggiungere un’altra considerazione. Quando parliamo di sessualità, intesa sia come pratica sessuale sia come esistenza sessuata, non stiamo parlando di cose astruse, e come studiosi e studiose non stiamo trattando di un manoscritto del quinto secolo, stiamo invece parlando di tematiche che riguardano le vite di tutte e di tutti, questioni concrete in cui tutti possono riconoscersi. Quanti significati ha una parola come genere o gli avverbi e gli aggettivi derivati da questo sostantivo?
Per questo è così importante che questi dibattiti escano dall’accademia e che si faccia un po’ di chiarezza, anche teorica, concettuale, su queste questioni.
(a cura di Barbara Bertoncin e Gianni Saporetti)
(Una Città n° 294/2023, agosto 2023)
Luisa Muraro
Il testo si divide in tre parti. La prima inquadra storicamente la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, approvata dal Parlamento italiano trent’anni fa, e termina notando che gli Stati cambiano la loro posizione giuridica, mentre la Chiesa non ha mai mutato la sua, che è di condanna.
La seconda parte evidenzia un problema che si è creato con i progressi scientifici che permettono di diagnosticare precocemente malattie e malformazioni del feto.
La terza parte collega la legislazione liberale sull’aborto all’istaurarsi dei regimi totalitari, la mediazione essendo offerta da alcune affermazioni di Romano Guardini.
La prima parte è molto sommaria, ma, considerato lo spazio limitato, la trovo accettabile. È innegabile che la legislazione statuale rispecchia la storicità della condizione umana, secondo la storicità che caratterizza lo Stato stesso. Questo vale anche per la Chiesa cattolica, ovviamente, ma con alcune notevoli differenze, in primis che la Chiesa non ha (più) un potere temporale per cui la sua condanna dell’aborto non equivale a mettere in prigione la persona colpevole. Lo Stato, non avendo l’istituto della “misericordia verso coloro che si pentono”, deve decidere la sua condotta legiferando in un modo o nell’altro. Nel confronto, bisognava tener conto di questo aspetto.
La terza parte, oltre che sommaria, mi pare molto discutibile. Esiste un legame diretto fra la legislazione liberale sull’aborto e i regimi totalitari? Devo dire che a me non risulta. Se l’argomento sono le parole di Guardini, c’è da dire che è un argomento debole: a parte altre considerazioni, il senso premoderno dell’intangibilità della vita umana, che lui vanta, era perfettamente compatibile con il ricorso frequentissimo alla pena di morte e con la pratica delle più atroci torture, offerte al pubblico come uno spettacolo.
Trovo che la seconda parte, quella che prende meno posto nel testo di Lucetta Scaraffia, sollevi un problema che domanda attenzione. Al di fuori di ogni intenzione delle singole persone e, a suo tempo, del legislatore, oggi la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza agisce come un mezzo per impedire la nascita di persone malate e malformate. Parlare di “prassi di selezione eugenetica” non mi pare giusto, perché non c’è un programma né un’intenzione in questo senso. Ma il problema si pone. In che termini? Fa problema, per me, che una donna, dopo aver accettato di diventare madre, non si comporti come tale verso il nascituro che dovesse presentare qualche malformazione. Siamo davanti a una dolorosa contraddizione, perché è noto quanto sia sconfortante e talvolta al di sopra delle forze di una donna, il mettere al mondo una creatura menomata. È possibile portare avanti una buona gravidanza in un caso del genere? Io credo che si debba guardare in faccia il problema, resistendo alla tentazione di cercare risposte in direzione della legge: l’invadenza della tecnoscienza da una parte, della legge dall’altra, secondo me contribuisce a distruggere il senso di responsabilità materna e genitoriale.
Un’ultima osservazione. Molte donne hanno l’impressione non infondata che la Chiesa cattolica italiana spinga perché si torni alla repressione penale dell’aborto, e questo impedisce loro, ci impedisce, di ascoltare l’insegnamento cristiano con l’attenzione che merita. Purtroppo, il testo di Lucetta Scaraffia sorvola su questo punto. Le femministe e molte altre persone, donne e uomini, senza sottovalutare il problema morale, si oppongono al ritorno alle pratiche abortive clandestine, unicamente, ed è su questo che una che si dice femminista deve prendere posizione.
Il testo si divide in tre parti. La prima inquadra storicamente la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, approvata dal Parlamento italiano trent’anni fa, e termina notando che gli Stati cambiano la loro posizione giuridica, mentre la Chiesa non ha mai mutato la sua, che è di condanna.
La seconda parte evidenzia un problema che si è creato con i progressi scientifici che permettono di diagnosticare precocemente malattie e malformazioni del feto.
La terza parte collega la legislazione liberale sull’aborto all’istaurarsi dei regimi totalitari, la mediazione essendo offerta da alcune affermazioni di Romano Guardini.
La prima parte è molto sommaria, ma, considerato lo spazio limitato, la trovo accettabile. È innegabile che la legislazione statuale rispecchia la storicità della condizione umana, secondo la storicità che caratterizza lo Stato stesso. Questo vale anche per la Chiesa cattolica, ovviamente, ma con alcune notevoli differenze, in primis che la Chiesa non ha (più) un potere temporale per cui la sua condanna dell’aborto non equivale a mettere in prigione la persona colpevole. Lo Stato, non avendo l’istituto della “misericordia verso coloro che si pentono”, deve decidere la sua condotta legiferando in un modo o nell’altro. Nel confronto, bisognava tener conto di questo aspetto.
La terza parte, oltre che sommaria, mi pare molto discutibile. Esiste un legame diretto fra la legislazione liberale sull’aborto e i regimi totalitari? Devo dire che a me non risulta. Se l’argomento sono le parole di Guardini, c’è da dire che è un argomento debole: a parte altre considerazioni, il senso premoderno dell’intangibilità della vita umana, che lui vanta, era perfettamente compatibile con il ricorso frequentissimo alla pena di morte e con la pratica delle più atroci torture, offerte al pubblico come uno spettacolo.
Trovo che la seconda parte, quella che prende meno posto nel testo di Lucetta Scaraffia, sollevi un problema che domanda attenzione. Al di fuori di ogni intenzione delle singole persone e, a suo tempo, del legislatore, oggi la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza agisce come un mezzo per impedire la nascita di persone malate e malformate. Parlare di “prassi di selezione eugenetica” non mi pare giusto, perché non c’è un programma né un’intenzione in questo senso. Ma il problema si pone. In che termini? Fa problema, per me, che una donna, dopo aver accettato di diventare madre, non si comporti come tale verso il nascituro che dovesse presentare qualche malformazione. Siamo davanti a una dolorosa contraddizione, perché è noto quanto sia sconfortante e talvolta al di sopra delle forze di una donna, il mettere al mondo una creatura menomata. È possibile portare avanti una buona gravidanza in un caso del genere? Io credo che si debba guardare in faccia il problema, resistendo alla tentazione di cercare risposte in direzione della legge: l’invadenza della tecnoscienza da una parte, della legge dall’altra, secondo me contribuisce a distruggere il senso di responsabilità materna e genitoriale.
Un’ultima osservazione. Molte donne hanno l’impressione non infondata che la Chiesa cattolica italiana spinga perché si torni alla repressione penale dell’aborto, e questo impedisce loro, ci impedisce, di ascoltare l’insegnamento cristiano con l’attenzione che merita. Purtroppo, il testo di Lucetta Scaraffia sorvola su questo punto. Le femministe e molte altre persone, donne e uomini, senza sottovalutare il problema morale, si oppongono al ritorno alle pratiche abortive clandestine, unicamente, ed è su questo che una che si dice femminista deve prendere posizione.
In questi giorni la legge 194, che regola l’interruzione di gravidanza in Italia, compie trent’anni, fra polemiche che ricordano, per molti versi, quelle che hanno preceduto e seguito la sua approvazione. Con questa legge, l’Italia si è allineata agli altri paesi occidentali che, a cominciare dalla Gran Bretagna nel 1967 (Stati Uniti nel 1970, Germania 1974, Francia 1975) avevano legalizzato l’interruzione di gravidanza entro i primi 90 giorni. Si chiudeva così un ciclo legislativo aperto dalla Rivoluzione francese, che aveva introdotto nella legislazione francese prima, dei paesi occupati poi, una severa legge per punire l’aborto in base ad una concezione molto larga dei diritti del cittadino: anche il feto veniva considerato un cittadino. Ma questo atteggiamento anti-abortista non era certo motivato da ragioni umanitarie, o dal rispetto della dignità del concepito: la ragione di fondo era la nascita del nuovo stato nazionale, dove le tasse venivano pagate individualmente, e non più per nucleo familiare, e dove gli eserciti erano formati dalla coscrizione obbligatoria. Questi interessi, ribaditi dopo la grande strage della prima guerra mondiale, che aveva spinto molti paesi europei ad irrigidire la normativa che proibiva l’aborto, vengono meno nel secondo dopoguerra: la meccanizzazione delle forze armate, che sostituiscono i soldati con carri armati e bombardieri, e le innovazioni tecnologiche del lavoro industriale, che diminuiscono la necessità di manodopera, rendono i governi occidentali più disponibili ad accettare le richieste libertarie delle femministe. Mentre gli stati – come abbiamo visto – cambiano radicalmente la loro posizione giuridica nei confronti dell’aborto, spinti dalla trasformazione delle esigenze demografiche, la Chiesa cattolica non ha mai mutato la sua condanna verso l’interruzione della vita umana, temperata però dalla misericordia verso coloro che si pentono per l’atto compiuto.
I progressi medici realizzati in questi trent’anni, soprattutto riguardo alla possibilità di individuare malattie o malformazioni nel feto, hanno cambiato profondamente la pratica della legge, trasformando l’aborto terapeutico in una prassi di selezione eugenetica. Quindi è certo opportuno ripensare a scrivere linee guida per questa legge, e riflettere sugli effetti che ha portato nella coscienza morale del paese, come ha recentemente ricordato Benedetto XVI.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la liberalizzazione dell’aborto è strettamente legata all’instaurarsi di due nefasti sistemi totalitari come quello sovietico prima, e quello nazista poi, e che quindi, come ha scritto Romano Guardini, questa evidenza storica fa ricordare come “ogni violazione della persona, specialmente quando s’effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario”. Per il filosofo la questione dell’aborto è centrale per ogni società, la qualifica, perché “riguarda l’intero rapporto del singolo con la società, investendo il carattere fondamentale dell’esistenza umana”. E conclude contrapponendo la moderna “concezione dell’uomo quale unico responsabile e padrone della propria esistenza” con “il senso prima vivissimo della fondamentale intangibilità della vita umana”.
Alle nostre figlie e figli
Agli uomini che ci stanno vicino
In trent’anni con molte donne abbiamo dato vita a una politica differente, spesso chiamata femminismo. Lo abbiamo fatto per guadagnare un’esistenza sensata, per non essere costrette ad omologarci a un modello maschile. Trovare corrispondenza tra parole e vita è ancora la ricerca di oggi.
La cronaca quotidiana ci mette di fronte a episodi di violenza, che oltre ad essere violazioni dello stato di diritto, sono attacchi, in vario modo, all’autodeterminazione delle donne; è così che vanno intesi: le ripetute aggressioni omicide, il vergognoso blitz all’ospedale di Napoli e anche il costituirsi – a Pesaro – del comitato scolastico di docenti per la moratoria dell’aborto.
Per alcuni i corpi delle donne sono tornati ad essere cose: crediamo che questo non riguardi solo noi, ma che su questo gli uomini debbano interrogarsi a fondo. Cosa muove gli uomini a tanta aggressività, tanto da ridurre le donne ad oggetti sui quali esercitare potere?
La constatazione che tutta la cultura occidentale si è costruita sulla negazione della soggettività femminile è stata una scoperta dolorosa nella nostra crescita, che ha provocato rabbia e frustrazione, ma anche (nella riflessione collettiva sulla nostra esperienza) attenzione alla possibilità di sviluppare una diversa qualità di rapporti tra uomini e donne.
Ne è nata una riflessione innovativa sulla sessualità e sulla maternità, che è andata oltre il linguaggio dei diritti, il quale non può rappresentare con verità situazioni che sono intrinsecamente relazionali. La nascita è una di queste.
Il corpo femminile non è un contenitore vuoto da riempire (anche se così lo pensava Aristotele), ma una culla di parole, un abbraccio di carne per chi viene al mondo. La vita è accoglienza; il sì della donna non si può saltare – anche Dio ha chiesto permesso a Maria.
L’autodeterminazione a decidere se e quando diventare madre è un valore non negoziabile.
La madre e la sua creatura sono la base di ogni relazione umana, la coppia originaria, che ha lasciato tracce ancora visibili in qualche lingua (per esempio nella forma duale).
Questo legame con la madre, gli uomini l’ hanno molto celebrato, ma soprattutto rimosso, cosi che rimane occultato e fonte non riconosciuta di paura e di risentimento. Nascere da donna è una verità fattuale semplice e aperta, ma letteratura, filosofia, religioni, traboccano di tentativi di esproprio della capacità materna femminile e anche l’utilizzo delle nuove tecnologie riproduttive può essere letto in questa chiave .
La dipendenza originaria dalla madre esiste anche per noi: non è stata un’ acquisizione facile, perché il contesto di svalorizzazione del femminile in cui siamo cresciute ci portava a negarla. Sappiamo ormai che l’ interdipendenza è costituiva dell’essere e della soggettività di ciascuno e che non limita la propria libertà, sgretola solo le fantasie prometeiche di onnipotenza. L’approccio relazionale ha in sé la capacità di aprire continuamente ad altro, è invece il tentativo di negare la dipendenza che alimenta, in un rovesciamento, violenza e volontà di dominio.
Crediamo sia necessaria una riflessione sulla sessualità maschile e sulla paternità, ma solo gli uomini possono dire di sé.
Noi sappiamo che un uomo può essere partecipe della maternità solo se una donna lo ammette a condividere questa esperienza con lei; un padre è grande in una collaborazione amorosa, senza usurpazione, né rivalità, né assenza. La figura di Giuseppe ne illustra bene il senso. Questo agli uomini fa problema? Ne risulta un senso di esclusione, di superfluità, non tollerabile? Sono interrogativi cui invitiamo al confronto.
Oggi la relazione amorosa tra un uomo e una donna non è ancora incontro di due soggettività ciascuna consapevole della sua sessualità; non è ancora sessualità senza appropriazione, né consumo, senza rapporto di dominio, ma questo può essere l’orizzonte di incontro da costruire.
Finora ha prevalso il non ascolto delle donne: accettate – più o meno a malincuore, robusto ricostituente per una politica maschile invecchiata e sterile – solo finché considerate compatibili; tale sordità mette però a rischio anche ciò che consideriamo irrinunciabile e pensiamo troppo spesso come garantito. L’esperienza ci mostra continue erosioni di quelli che vengono chiamati diritti, dal lavoro di uomini e donne, all’autodeterminazione femminile.
Se vogliamo realizzare una convivenza più umana e una politica che prenda le mosse dalla nostra comune vulnerabilità, è necessario che ciascuna e ciascuno si assuma la responsabilità di sé e del mondo in cui viviamo.
CASA DELLE DONNE DI PESARO
DONNE IN NERO – FANO
Paola Meneganti
“Il sì della donna non si può saltare”: sulla base di un documento aperto da questa frase, di Clara Jourdan, il 18 marzo si è svolto un incontro, organizzato dall’Associazione Centrodonna Evelina De Magistris, che, a partire dal dibattito su aborto e 194, recentemente sviluppatosi, ha voluto ampliarne l’orizzonte politico.
Perché, quando ci sono momenti di crisi, momenti di snodo della vita pubblica, si finisce con il parlare di aborto, di sessualità femminile, del corpo delle donne, spesso in modo assolutamente scomposto ed ipocrita, quando non violento?
Ho introdotto i lavori io, e ho tentato questa risposta: perché, nei momenti di crisi, la società ancora fortemente segnata dal patriarcato tenta di serrarsi in difesa dell’autoconservazione , e la libertà femminile è un grande inciampo su questa strada. La libertà femminile fa problema e produce conflitto.
In un bellissimo articolo sul “Manifesto” dello stesso giorno, Ida Dominijanni commenta quanto scritto nel numero precedente da Giorgio Agamben e Giacomo Marramao su due questioni cruciali nel dibattito di oggi.
Dal modello della sovranità si è passati a quello della “governamentalità”: gestione, amministrazione, management della vita e della dimensione pubblica, con la progressiva sparizione dello spazio della politica – quindi del conflitto, insomma delle forme classiche della democrazia, da una parte, e, dall’altra, nei/nelle “resistenti”, si registra la presenza di una logica politica “legata alla chiusura dell’identità più che all’apertura e al divenire della differenza”.
Anche se – ed è un altro inciampo – non dobbiamo dimenticare, ha giustamente osservato Maria Pia Lessi, citando Tamar Pitch, che le donne non hanno habeas corpus, perché non hanno sovranità sul proprio corpo, non è loro riconosciuta la piena disponibilità e responsabilità sul proprio corpo.
Il divenire della differenza genera conflitto, come lo fanno tutte le “rivoluzioni profonde della soggettività” (I.D.), una per tutte il femminismo.
È partendo da qui, da questa “profonda rivoluzione della soggettività”, che abbiamo detto: la prima parola e l’ultima è della donna, il sì della donna non si può saltare. Questo se si parla di aborto, di sessualità, di relazione con l’altro, di vita.
Non è in questione la dimensione del diritto – “non credere di avere dei diritti” – ma il rapporto tra materiale e simbolico. Il simbolico materno, per es., è stato indagato in profondità dalle donne, anche a partire dall'”ambiguo materno”, luci ed ombre, chiaroscuri. Ma pensiamo al simbolico costruito nei secoli dal patriarcato: la madre che nutre, la madre dolorosa, la madre che opprime, la madre santa, la madre che uccide …
In una vecchia, preziosissima pubblicazione, “Il vuoto e il pieno”, ho ritrovato, nella introduzione di Nadia Fusini, questa frase di Emily Dickinson: “i miei sono religiosi, e vanno tutte le mattine ad adorare una Eclissi che chiamano Padre”. Il patriarcato è molte cose, ma soprattutto il fatto che le donne sono definite dallo sguardo del padre.
Abbiamo affrontato l’eclissi del padre e della sua onnipotenza e abbiamo guadagnato la piena responsabilità, con le sue gioie ed il suo peso.
Ci ricorda ancora Ida che il corpo femminile, nell’intreccio tra materiale e simbolico che avvenne nella rivoluzione soggettiva del femminismo, divenne corpo politico – protagonista di una libertà duramente guadagnata. Ed è ancora l’unica barriera possibile: corpo politico, corpo che si frappone, nel discorso pubblico, a tutte le beghe partitiche, alle ideologizzazioni possibili, alle voglie confessionali. Corpo politico che ci fa dire che la prima parola e l’ultima è della donna e che il suo “sì”, rispetto all’aborto, non si può saltare.
Il dibattito si è sviluppato in modo molto puntuale. Letizia Del Bubba ha detto che la legge 194 e quella sulla fecondazione assistita, la legge 40, non sono circoscrivibili in una cornice di legge e di diritto, ma hanno a che fare con la soggettività e con il corpo simbolico delle donne. Come fa una legge a dar conto della gestione del proprio corpo e del proprio desidero, per es. di maternità?
Perché la soluzione migliore è quella del femminismo degli anni ’70, dice Claudia Nocchi: depenalizzare, non normare. Per Maria Pia Lessi, non si possono consegnare temi di questa portata alla politica tradizionale, istituzionale, alla “politica seconda”, e al diritto. Contengono un tale “di più” che lei, per es., trova difficoltà a parlarne in quegli ambiti. Rispetto alla sovranità del soggetto, libero di articolare la libertà del suo desiderio, un soggetto che è comunque in relazione, il diritto dovrebbe fare un passo indietro. La norma non dovrebbe essere prescrittiva, ma a salvaguardia della salute, delle garanzie sanitarie, e qui limitarsi.
Anna Maria Bernieri rileva che è vero, la questione del corpo delle donne torna sempre in ballo nei momenti di crisi, e questo è sintomatico, e rende ancora più difficile la possibilità di parlare delle questioni in modo argomentato e sereno, perché dietro c’è “altro”.
Mi chiedo perché, ha detto Lori Chiti, le gerarchie ecclesiastiche non parlino mai del corpo delle donne, ma della vita. Il cattolicesimo impone la castità ai sacerdoti, ma loro dovrebbero porsi il problema dell’integrità del corpo femminile, no? Eppure sono questioni che fanno ancora molto problema: figurarsi ad inizio ‘900, quando le donne che ne parlavano, Sibilla Aleramo (“Una donna”), Annie Vivanti (“Vae victis!”) furono emarginate, estromesse.
Per Daniela Bertelli, c’è una grande angoscia nelle donne che oggi rimangono incinte. Sono continuamente monitorate, con amniocentesi, ecografie etc… spesso superflue: è un vero e proprio processo di espropriazione, e anche simbolicamente, questo feto che viene continuamente portato “fuori” dal grembo materno è come se avesse esistenza autonoma … si crea una scissione, una separazione tra feto e madre. Aumenta l’ansia e aumenta il senso di inadeguatezza rispetto a chi nascerà. E questo processo di controllo delle scelte delle donne, del corpo delle donne, del loro dare la vita è tutto maschile. È un fondamentalismo a cui a volte si risponde con un fondamentalismo di segno opposto … C’è poi questa cosa terribile che viaggia sui mass media, l’immagine della madre cattiva. È un disconoscimento della libertà femminile in cui si fanno strada delle componenti che, al di là del dibattito politico, diventano senso comune. Quanto al patriarcato … sì, esiste ancora, ma non dimentichiamo l’analisi del fratriarcato che sviluppa Ida Dominijanni (e qui merita citare: è uno spazio “in cui gli uomini si combattono e competono (ma si danno valore) fra loro in una sorta di recinto autoreferenziale che chiamano spazio pubblico”). E l’assuefazione a questo cattivo modo di stare nel mondo coinvolge anche molte donne … due parole anche su questa assurdità, questa cattiveria del dibattito sul momento in cui davvero si può parlare di vita: ma scherziamo?
Aggiungo io: se un feto nasce a 21 settimane qui in Europa ha delle possibilità di salvarsi, non sappiamo con quali conseguenze sulla qualità della sua vita, ma se nasce in Africa? Allora l’inizio della vita è uguale per entrambi?
Per Marco Mazzi, la cultura dell’indisponibilità del proprio corpo è profonda, è di matrice giudaico-cristiana. È la comunità a disporre del corpo, non l’individuo. In guerra sono punite le automutilazioni – si attacca il corpo di cui deve poter disporre la patria-, ed è nella socialdemocrazia svedese si che si inventa il trattamento sanitario obbligatorio. La Chiesa porta questa questione fino al rifiuto verso l’eutanasia: non si può disporre del proprio corpo anche nella sofferenza, nella prospettiva della morte. Con la legge 194 – e con la legge 180 – si esplica un filone di pensiero libertario degli anni ’70: si mette in discussione l’unicità del punto di vista. È stata una visione perdente: la prima vittima degli “anni di piombo”. Oggi c’è un forte ritorno alla medicalizzazione, addirittura alla prevalenza della eugenetica, che prefigura quasi una predestinazione. Ma la libertà e l’ultima parola sono certamente della donna.
Maresa Conforti porta la sua esperienza di donna cattolica che votò nel referendum del 1981 per confermare la legge 194, ma che si chiede se effettivamente la legge è stata attuata anche nelle parti a sostegno del desiderio di maternità. Si dovrebbe fare di più in questa direzione., perché per lei non è così scontata l’assenza di problema rispetto alla questione dell’inizio della vita. Apprezza però molto quanto è scritto nel documento di “Evelina”, e cioè che per il femminismo l’aborto non è mai stato un “diritto”. No, confermo io in chiusura: è un fatto, una scelta: e possiamo stare sicure che le donne hanno sempre saputo portarne la responsabilità in prima persona, fino in fondo.
Franca Fortunato
Uscito con il titotlo Sull’aborto non si faccia inutile “filosofia”
l suicidio del ginecologo genovese, Ermanno Rossi, indagato per aver procurato aborti fuori dalla struttura pubblica, e le indagini dei carabinieri nei confronti delle donne che hanno abortito in violazione della 194, ripropongono, a distanza di quarant’anni, la questione della depenalizzazione dell’aborto. Una questione posta negli anni ’70 da una parte significativa del femminismo italiano, quello della Libreria delle donne di Milano, che, allora, era più favorevole alla semplice depenalizzazione che alla legalizzazione dell’aborto. Il caso drammatico del ginecologo ci dice come l’aborto in Italia non è reato solo se viene attuato negli ospedali pubblici, fuori sì. Questo dimostra che l’approvazione della 194 da parte del Parlamento fu un compromesso tra patriarcato e libertà femminile, fra cultura laica e cultura cattolica, fra de-criminalizzazione e statalizzazione dell’aborto. Da tempo negli ospedali pubblici l’aumento degli obiettori di coscienza (i giovani medici, per carriera o per convinzione, non vogliono praticare aborti) non garantisce più l’applicazione della legge e i suoi nemici aspettano che muoia di morte naturale, ecco perché dicono di non volerla toccare. Molte donne, intanto, sono costrette, se ne hanno la possibilità economica, come quelle di Genova, a rivolgersi a strutture private o andare all’estero. Depenalizzare l’aborto vuol dire, anche, rendere possibile l’interruzione di gravidanza negli ospedali privati convenzionati, garantendone la gratuità e mutualità. Un’altra questione che pone il caso dello sventurato ginecologo genovese è quello della clandestinità degli aborti. La legge 194 è nata per sconfiggere gli aborti clandestini a cui ricorrevano le donne che non avevano i soldi per andare nelle cliniche private o all’estero e, molte di loro, non solo sfidavano il carcere ma morivano dissanguate. Oggi, come ieri, chi ha soldi non rischia di morire ma se interrompere la gravidanza negli ospedali pubblici diventerà sempre più impossibile, come sta avvenendo, è chiaro che chi rischia, ancora una volta, di tornare in mano alle mammane sono le più povere, rappresentate oggi dalle immigrate, che sono quelle che di più, in Italia, ricorrono all’aborto. Altra considerazione. Le donne che si sono rivolte al ginecologo genovese ci confermano quanto è sbagliato pensare che l’aborto sia un diritto. Infatti, dire che l’aborto è un diritto significa dire che una donna lo fa perché c’è una legge che glielo consente e quindi la sua volontà dipende dalla legge stessa. Questo non è vero oggi, come non lo era ieri, perché una donna che decide di non portare a termine una gravidanza lo fa per scelta e non perché qualcuno, lo Stato, una legge, glielo permette o glielo vieta. Nessuno può obbligare una donna a portare avanti una gravidanza non voluta. Questo semplice principio dovrebbe essere riconosciuto da tutti.
Un’altra questione che ripropone il caso di Genova è il fatto che le donne abortiscono soprattutto quando sono sole. Allora mi chiedo, chi c’è dietro ad ogni aborto? C’è sempre un uomo e quasi mai uno che avrebbe voluto diventare padre.
Ma lo sanno o no gli uomini che solo in loro la sessualità procreativa si identifica con il piacere?
Gli uomini, quelli che filosofeggiano sull’inizio della vita, si fermano al feto, a quella fase in cui il bambino è ancora del tutto dipendente da una madre che loro vivono come onnipotente, irresponsabile e crudele. C’è come una fissazione degli uomini all’embrione, al feto per poi, di fatto, disinteressarsi dopo la nascita, visto che nella realtà sono ancora le donne che si fanno carico della crescita della loro creatura. Allora chiedo, gli uomini hanno davvero desiderio di paternità?
Sono rimasta molto colpita dal dibattito di sabato 16.2 sull’aborto. Era la prima volta che partecipavo ad un incontro in questa sede ho avuto l’impressione di essere arrivata a discorso già iniziato per qui alcune cose non mi sono risultate chiare e per altre si percepiva che era già parte di un percorso avviato. Comunque mi è sembrato di rivivere una situazione già vista. Premettendo che ho quasi 50 anni, mi sono rivista proiettata in una sequenza di infinite discussioni dove si tentava di essere analitiche e rispettose, di coinvolgere tutto e tutti, di essere corrette (vedi anche il rispetto del dolore provato dal feto!!) ed intanto l’altro ti picchia, ti violenta, ti impedisce di accedere alla cultura, all’indipendenza e se in qualche caso non ci riesce ti fa impazzire con i sensi di colpa. Continuiamo così a farci del male. Per me i piani dell’agire per lo specifico dovrebbero essere due separati ma interdipendenti. Uno è quello culturale-emotivo di agire e spingere per una consapevolezza diversa sulla nostra sessualità e quella maschile. Il secondo e quello della difesa immediata dell’essere “donna”. Mi sembra che il senso di sorellanza, di appartenenza in questi anni si sia un pò perso proprio per aver abbassatoto la guardia e per il cambiamento dei processi sociali. Così come per il mondo del lavoro dove questo ormai si è così articolato e sgretolato che ora si parla come non si faceva più da tempo di “classe operaia” (vedi documentario della Comencini e dibattiti sindacali ecc.) così come l’appartenenza sta riprendendo piede, sta ridiventando un’esigenza, così dovrebbe ridiventarla per noi. Siamo donne non solo lavoratrici, manager, intellettuali, politiche, casalinghe ecc. In oltre penso che abbiamo sbagliato a dare per scontato che certe conquiste siano diventate intoccabili, siano diventate valori etici-morali. Le nuove generazioni sono senza memoria. Come vedere certi documentari su come è cambiata la società, la classe operaia, come è importante avere “il giorno della memoria” per gli eccidi del nazismo, il 25 aprile per la liberazione così dovremmo riprenderci il significato politico della memoria per continuare con le giovani generazioni che tutto ciò non lo hanno vissuto in prima persona. Mi sembra che questi continui attacchi siano come il colpo di coda dello squalo che sta per essere catturato: l’uomo che perde potere in tutti i campi (culturale, politico, economico) perchè si deve confrontare con donne sempre più preparate, autonome e consapevoli e gioca ancora la sua carta più profonda e intima, quella del dominio del nostro corpo sotto tutti gli aspetti, da quelli bassi della violenza fisica a quelli più sofisticati dell’agire sull’inconscio e sui nostri vissuti. Certe volte penso che sia l’invidia del non poter generare che li ha spinti a volerci controllare oppure è il loro senso di potere smisurato che vogliono perpetuare. Comunque chè l’urgenza di trovare molteplici modi per riaprire il dibattito e ridiventare parte attiva sulla scena politica, e dico molteplici perchè per me non basta ritrovarsi tra noi in “circoli protetti” come non basta la piazza, anche se ritengo che questa visibilità sia importantissima. Ma per riaccendere le coscenze serve anche altro: dal volantinaggio alle assemblee pubbliche, all’accettazione, anche se a malincuore, delle quote rosa, al sostegno di donne “illuminate” che facciano da modello, da apripista forse con un po’ più di audacia. Non so, ma so solo che da sole non ce la si fa. Riflessioni sparse ma spero utili e chiare per unirmi a questo confronto. Ciao ALMA
Marina Terragni
Fino a non molto tempo fa gli uomini non parlavano di aborto. Era una cosa di donne, una di quelle cose vicine alla nascita – sangue, parti, concepimenti -, di cui preferivano non impicciarsi. Era il silenzio di chi lasciava fare alla competenza femminile, e non senza qualche ragione di comodo: sbrigatevela voi. Da qualche tempo invece hanno preso a metterci il naso. Ne parlano molto più delle donne, che si sentono costrette a rispondere. Soprattutto i “contro”, i cosiddetti pro life, con toni accesi e accusatori, accostando l’aborto all’omicidio e alla pena di morte.
Le donne non hanno mai posto la questione in termini di pro o contro. L’aborto è sempre stato un fatto della vita, e anche quelle che non abortirebbero mai non hanno mai giudicato e condannato chi l’ha fatto, confidando nelle sue buone ragioni. Dalla notte dei tempi, le donne si sono sempre dimostrate di necessità pro choice.
Un’affollata riunione alla storica Libreria delle Donne di Milano, indetta in mezzo a questo fervoroso dibattito maschile, e in seguito alla presentazione della Lista per la vita concepita da Giuliano Ferrara, mantiene questa impostazione: nessuna posizione reattiva, ma un discorso sull’aborto che riprende il filo delle moltissime cose già dette, vissute e pensate dalle donne, e le fa andare avanti. Nessun rituale “la legge 194 non si tocca”, né tanto meno una difesa del supposto “diritto d’aborto”, diritto che nessuna mai nel femminismo ha rivendicato. L’aborto, come dice Luisa Muraro, tra le fondatrici della Libreria, fa anzi parte di quelle “materie di confine per le quali la lingua dei diritti non aiuta di sicuro a trovare la parola giusta”.
Muraro ipotizza che l’aborto “tocca inconsciamente gli uomini, che sono nati e nascono da donne”. Anche secondo altre l’offensiva maschile può essere letta come capitolo di una generale guerra alle madri, la cui competenza non è più riconosciuta. Le donne sono costrette a negoziare non solo la loro volontà di non avere figli, ma soprattutto quella di averne. Con i datori di lavoro, con chi decide i tempi di vita nelle città, con una società che non aiuta le madri e che vede i bambini solo come un incomodo. Ma soprattutto devono negoziare con gli uomini, per i quali non è mai il momento giusto per diventare padri: “La fine del patriarcato” osserva Lia Cigarini, altra fondatrice della Libreria “si esprime anche in questo disinteresse maschile per il rapporto padre-figlio”. Dietro a ogni aborto c’è sempre un uomo, e quasi mai uno che avrebbe invece voluto diventare padre. Ma se non vogliono diventare padri, perché poi dicono di volere i bambini?
L’interesse maschile si ferma al feto, a quella fase in cui il bambino è ancora totalmente dipendente da una madre fantasticata come onnipotente, irresponsabile e crudele. È una specie di fissazione sull’embrione, un’identificazione con lui contro la madre “nemica”. Poi quando il bambino nasce torna a essere un affare di donne, lasciate sole a svolgere il loro compito. “La filiera” dice qualcuna “si interrompe con il parto”.
Da quando l’embrione è stato separato dal corpo della madre il disordine simbolico è straordinario. Da quando la competenza materna come è data in natura è stata esautorata, irrompendo nella stanza del concepimento e del parto e inondando con la luce della tecnica ciò che è sempre accaduto nel buio e nel silenzio, l’antagonismo tra madre e figlio è definitivamente sancito. Ma più si farà guerra alle madri, meno bambini ci saranno. Non c’è verso: diritto o non diritto, è sempre e solo il sì della madre che dà inizio a ogni nuova vita umana. La sola cosa che si può fare è costruire le condizioni perché il più delle volte questo sì venga.
Dietro questo aggressivo interesse maschile per il feto, Marisa Guarneri della Casa delle Donne Maltrattate di Milano dice di intravedere “un sentimento di controllo e di possesso, quella stessa ossessione, molto diffusa, di essere tagliati fuori dalle donne, che è il brodo di coltura da cui si generano i comportamenti violenti”. Un’altra nota che le donne abortiscono soprattutto quando sono sole.
Nel 1971, sette anni prima dell’approvazione della legge 194, Carla Lonzi, una delle madri del femminismo italiano, scriveva: “L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire. Ma la donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta e (…) sto abortendo?”. È proprio sull’impossibilità di separare il discorso sull’aborto da quello sulla sessualità che molte insistono. “Se c’è un elemento unificante negli aborti – dice Ritanna Armeni, autrice del libro-inchiesta La colpa delle donne – è la soggezione alla sessualità maschile. Per la donna del sud la sessualità del marito non si discute. Al nord è l'”incidente”, la contraccezione che non ha funzionato. Ma questa soggezione c’è per tutte”. Gli uomini che discutono di aborto sono disponibili a parlare anche di questo?
Infine: la parola più strettamente politica che esce dal dibattito è “depenalizzazione”. Per la legge italiana l’aborto è ancora un reato perseguibile, a meno che non venga praticato nella struttura pubblica. Esemplare il caso di Torino, dove il ginecologo Silvio Viale e altri tre medici sono indagati per violazione della legge 194, avendo concesso ad alcune pazienti di tornare a casa in corso di somministrazione della pillola abortiva RU 486, il che secondo gli inquirenti avrebbe comportato la possibilità di abortire fuori dall’ospedale. Depenalizzazione vuole dire che l’aborto non sarebbe più reato, né dentro né fuori dagli ospedali. Quindi che si potrebbe abortire anche nel privato.
40 anni fa, prima dell’approvazione della legge 194, un lungo dibattito contrappose la proposta di depenalizzazione, avanzata da piccoli gruppi di autocoscienza che vedevano l’aborto come una questione che eccedeva il campo del diritto (ipotesi sostenuta dai Radicali), alla proposta di legalizzazione contro l’emergenza degli aborti clandestini, sostenuta della maggioranza delle donne. Alla gran parte l’idea di depenalizzare pareva solo un’interessante posizione teorica e ultralibertaria. Oggi ci sono anche immediate ragioni pratiche per riconsiderarla.
Dall’entrata in vigore della 194 il numero degli aborti si è ridotto di oltre il 40 per cento, la legge sembra aver funzionato. Ma ormai da tempo la sua applicazione non è più garantita a causa del numero crescente di obiettori negli ospedali. La leva delle ginecologhe e dei ginecologi “cresciuti” a fianco del movimento delle donne e sfiniti da anni di prima linea e di progressivo isolamento, viene via via rimpiazzata da giovani medici che di aborti non vogliono più saperne, spesso per ragioni di carriera, ma anche per una diversa sensibilità al problema.
Gridare che “la 194 non si tocca”, quindi, oggi serve a poco: nessuno, neanche la Chiesa, sembra più intenzionato a toccarla. L’auspicio semmai è quello di vederla in breve svuotata dall’interno, estinta per morte naturale. La depenalizzazione consentirebbe anche di “liberare” quei pochi posti in ospedale e nelle cliniche convenzionate – l’intervento resterebbe garantito e mutuabile -, formalizzando una situazione di fatto che oggi vede soprattutto straniere rivolgersi alla struttura pubblica, mentre chi ha la possibilità di sottrarsi alla trafila va ad abortire in Svizzera, in Spagna, a Londra.
E poi sì, certo, meno aborti possibile, e al più presto possibile. Questo resta l’obiettivo primario. “Ma chi vuole davvero vedere nascere più bambini” dice Luisa Muraro, “dovrebbe mostrare il desiderio che ha di loro, di vederne di più, di starci più insieme. E di condividerli con le madri”.
Maria Cristina Mecenero
Se qualcuno vi chiedesse di credere in un governo futuro, senza che possiate conoscere alcune sue posizioni su temi da voi ritenuti essenziali, gli accordereste fiducia? Se qualcuno vi chiedesse di votare per lui, senza che vi dica come il suo schieramento politico intende procedere politicamente, riguardo la vostra libertà individuale, lo votereste o vorreste sapere, prima, come intende la libertà e che disegno ha in mente che vi riguarda e che riguarda milioni di donne e uomini?
È un gioco subdolo quello dei nostri politici che hanno scelto – a una prima valutazione, sembrerebbe, per non esporsi e scontentare chi i cattolici, chi le donne – di non fare entrare nella campagna elettorale la loro parola sulla legge 194. Che vuol dire non portare nello spazio pubblico di discussione preelettorale la loro posizione e il loro pensiero sulla libertà femminile, in un momento così delicato, in cui è proprio questo uno dei temi di confronto più forti. Un gioco a nascondino. A cui ci invitano. Tutti. Anche noi donne. Elettrici. E da elettrice declino l’invito e dichiaro che non voterò chi non mi dice da che parte intende stare. Se dalla mia, e cioè dalla parte della libertà di scelta, o se contro di me, e cioè dalla parte del disordine e del controllo. E della manipolazione più raffinata che possa esistere: quella di chi agisce in malafede, e lo sa, ma racconta di essere super partes e di non volere recare danno alla questione, attraverso l’uso strumentale di essa.
Faccio un passo oltre e insinuo che gli uomini come Veltroni e Berlusconi siano dello stesso partito per quanto riguarda il rapporto tra i sessi: il partito degli uomini furbi, il partito degli uomini che vivono in un momento storico in cui, chiamati a confrontarsi con il fatto che le donne sono cambiate, e con loro sta cambiando la posizione maschile nel mondo, sornioni fanno buon viso e cattivo gioco. Perché la libertà delle donne li interpella. Tutti, di destra e di sinistra. Tutti e più profondamente di quanto si possa intravvedere in mezzo a questa confusione e miseria politica, in cui dietro a ciò che sembra l’oggetto di contesa – il governo di un paese – in realtà c’è altro. Il governo di un cambiamento interiore e relazionale. Un’altra possibilità di umanità, a partire da questo semplice e concreto assunto: la legge non può niente di fronte a una donna che non vuole diventare madre.
Donata Gottardi
Stanchezza e indignazione, sentimenti contrastanti ma saldati assieme di fronte all’attacco alla legge sulla regolamentazione dell’aborto. Stanchezza e indignazione di fronte alla necessità di ricominciare a lottare per quanto ritenevamo acquisito con una legge equilibrata, scritta sul filo della prevenzione, della tutela della salute della donna, del rifiuto degli aborti clandestini, e confermata da un referendum di grande mobilitazione e risultato.
Stanchezza e indignazione di fronte alla manipolazione di uno strumento come la moratoria, che propone una incredibile assimilazione con la straordinaria conquista – tutta di matrice italiana, innegabile successo della diplomazia e della politica estera del nostro Paese – del rifiuto della morte come possibile, massima, sanzione comminata da uno Stato.
[…]
http://www.donatagottardi.net
Ausilia Riggi
Il mistero della singolarità
Ho sempre provato stupore di fronte al puntino quasi invisibile attaccato al gambo di una pianta: pur non vedendo il fiore, è assicurata la sua presenza.
Anche io come persona sono strettamente collegata al bing bang del concepimento, durante il quale è scattato l’inizio del mio essere. Mi rifiuto di pensare che in quel momento ci fosse un pezzo di me; ai minimi termini dell’esistenza c’era un potenziale immenso, tutta l’eredità dell’umanità nella quale mi inserivo da in-dividua, cioè non-divisibile, intera .
Una chiave di lettura che prediligo mi fa risalire a Dio che non poteva comunicarmi una vita frantumata in briciole di materia, sia pure pregnanti di potenzialità: anche Lui non so immaginarlo che “Se stesso”, e non infinitezza indeterminata .
Mistero affascinante la vita singolarizzata, da non desacralizzare.
Il feto è un ente-altro
Emma Fattorini racconta di suo padre quando le spiegava che “quei grumi sarebbero diventati veramente bambini e che, noi donne, non li volevamo vedere per paura. E che la vita è la cosa più importante che l’uomo possiede. Anche per la donna e l’uomo che non credono. Si convertì allora al cristianesimo e divenne poi missionario in Africa”.
Pare che le donne sappiano istintivamente, e “benissimo, che quel grumo di cellule dentro di loro è un figlio degli uomini” . E infatti non c’è donna che non resti sorpresa nell’assistere al fenomeno che si verifica nel suo corpo; l’abbaglia la percezione del mistero di un atto creativo, in cui due mondi (i due semi) sono diventati un nuovo mondo .
Eppure parecchie di loro stentano, non sempre per motivi cogenti, a trarre le giuste conseguenze dell’alterità del feto; presumono che la loro vita si prolunghi in un’altra di cui avrebbero il possesso. Come se nel concepimento si fosse avviato un semplice meccanismo, e non fosse accaduta, invece, la novità inedita di una singolarità vivente.
Ed ecco in termini chiari il corollario di tale atteggiamento: nessuno deve intromettersi tra la donna e il concepito, nemmeno il padre; spetta a lei “scegliere” di assumersi l’onere di una maternità, esplosa forse in un momento e in un modo “sbagliati”, di una gestazione e di un dopo pieni di incognite. In determinate condizioni non si può replicare, ma non si deve nemmeno far finta che i problemi di fondo siano risolti attraverso tamponamenti di ferite, innervate in maniera carsica nel tessuto dell’umanità.
Non basta piegare l’analisi verso l’attenzione a tanti altri tristi fenomeni di carattere più vasto, come la morte per fame di tanti bambini, le guerre, le immigrazioni scomposte, l’egoismo folle dei potenti che tengono in pugno le sorti di miliardi di esseri umani, eccetera. La questione dell’aborto non è una fra tante; è più di fondo, sottesa com’è nello sconquasso di principi orientativi basilari, su cui si regge l’equilibrio armonico all’interno dei singoli e delle società umane.
La modernità che ha lodevolmente permesso la maturazione del concetto di dignità della persona, di cui finalmente le donne si sono ri-appropriate, è giunta ad un bivio da cui si diramano conseguenze sia positive sia negative. E’ ora di chiedersi se sia giusto assolutizzare l’autonomia della donna di fronte ad un’altra vita incapace di svilupparsi da sé, ma tale che contiene in nuce il tutto dell’umano.
Feto e persona
R. Armeni riconosce quanto abbiamo affermato: “Non quindi una semplice escrescenza, non un grumo di materia ma, sia pure in potenza, una seconda vita”. Quindi si affretta a precisare: “Dico “in potenza” non solo perché essa è priva di coscienza e di relazioni ma perché non può esistere senza la prima. Per un lungo periodo fa ancora parte del corpo della madre. L’uno si divide in due, ma la seconda entità è unita alla prima in modo così inscindibile che la donna nel momento in cui decide di eliminarla pensa di eliminare parte di se stessa. Per questo soffre, ma non si sente in colpa. Per questo parla di aborto e non di omicidio, per questo nel momento in cui la stacca da sé e si contrappone all’evento naturale della nascita compie un atto di violenza ma che è rivolto soprattutto al suo corpo che potrebbe diventare altro e non ad un “altro corpo””. Noto la ripetizione del verbo “sentire” (e simili), ben caro anche a me come in genere alle donne; e quindi non mi fermo su questo aspetto. Invece mi contrappongo alla sostanza di simile ragionamento che s’incentra sul concetto di “vita in potenza”: se tutto ciò che è necessario al feto per esistere si trova nel seno materno, bisognerebbe dedurne che egli ha una vita in prestito, appartenente più alla mamma che a sé. E’ così difficile rendersi conto che gli organi la cui funzione è ancora allo stato potenziale hanno un centro focale di riferimento che dà loro unità? Non è cieco l’occhio del bambino che non ha imparato a vedere. Non è senza cuore l’invisibile motore della vita di cui non si percepiscono le pulsazioni. Gli organi aiutati a svilupparsi funzioneranno grazie al nutrimento materno che alimenta l’esserino nella sua totalità, la quale non è in potenza; semplicemente c’é.
Trovo davvero imbarazzanti certe affermazioni di femministe non sprovvedute: Flavia Zucco indugia a chiedersi “se questi feti siano completamente formati ed in grado di vivere una vita autonoma”; e Claudia Mancina distingue tra “vita individuale” che ci sarebbe nel bambino e “individuo” che non c’è ancora. Insomma dovremmo aspettare che acquistino autonomia le funzioni per parlare di individuo.
Lo so: quando un ragionamento diventa serrato, ci si dibatte tra idee antagoniste, e cioè tali che o sarebbe valida l’una o sarebbe valida l’altra. Ne chiedo scusa perché conosco quanta complessità ci sia “dietro” e “nella” questione e non ne riporto i termini perché ormai di pubblico dominio. Ciò di cui non mi scuso è il diritto a rompere gli schemi del pensiero unico, che alberga purtroppo ANCHE nel cosiddetto pensiero di sinistra, tanto peggio se femminista….
L’aborto e la legge
Sarebbe bello che le donne e la società intera affrontassero la questione dell’aborto in territorio etico-spirituale, anziché legale. Parlando di legge, si slitta verso le definizioni, con relative proibizioni e concessioni, eccetera. E non ci avvediamo di cadere nello stesso errore che commettono “i vendicatori…, quelli che minacciano e talvolta uccidono i medici che praticano aborti, come è già successo negli USA” (Mancina); perpetuiamo anche noi lo stesso “clima culturale esasperato” che fa “crescere l’obiezione di coscienza e trasforma le donne da cittadine a mendicanti di un’assistenza che non è più un diritto, ma elemosina”; perché, “volenti o nolenti, questa discussione ha finito per colpevolizzare le donne” (Roccella). Ci troviamo di fronte ad “una discussione fra uomini fatta in perfetto stile maschile” (Tavella), tanto che anche Di Pietro parla di “un dibattito ideologico, sterile e imbarazzante”.
Vorrei dedicare due righe alla frase bellissima di Emma Fattorini, che ha fatto testo in parecchi ambienti: “la vita è un dono, non dovere né diritto”. Ma, come tutte le frasi belle, anche in questa potrebbe annidarsi la trappola dell’enfasi di una verità apodittica, come vorrebbe una dottrina ecclesiastica, ben rinverdita nell’attuale stagione culturale . In ogni problema umano, soprattutto quando sono in gioco il concetto di vita e fattori esistenziali, dovremmo astenerci dalle definizioni; ma anche dagli aggiustamenti retorici nei quali si “confondono” pseudo-definizioni opposte alle prime. Abbiamo un bel dire tutte e tutti: ” nessuno vuole l’aborto, ma la legge che impedisca discriminazioni, frustrazioni e nuove violenze legali a donne già violentate, il terribile “fai-da-te” di ci non può pagarsela clinica all’estero”. Tutto giusto; ma non ci preoccupiamo che la legge possa essere percepita come un lasciapassare facile, che può diventare mentalità abortista: “facciamo l’amore, tanto c’è la pillola del giorno dopo; volevo questo figlio, ma ora non mi sento di affrontare la gravidanza”, e tante, proprio tante espressioni di un’idea di concepimento semplicistica ad uso di soggetti non sempre e non solo ingenui.
La legge che vuole rimediare certi scompensi prodotti dalla modernità, non sfugge alla stessa. Mai come oggi essa divide su due fronte: laicisti ed “ortodossi”. Oscillazione funesta, perché la vera esclusa è una sana laicità, in grado di ricostruire valori prima agganciati ad un credo. A mio modesto parere, è scoraggiante l’odierna mancanza di ricorso a realtà di carattere trascendente, come dovrebbero essere i principi iscritti nella coscienza umana. Quest’ultima vacilla sulla pretesa autosufficienza della ragione ; non riesce a scavare in se stessa, e perciò sono più facili i cedimenti di fronte alla contemporaneità, anziché la volontà di ri-costruzione di principi orientativi forti.
E’ possibile una conclusione?
Il clamore, da ovunque venga, serve solo a stordire. Certamente, se tutto il problema dell’aborto inclina verso l’eugenetica – figli desiderati, sani e senza problemi – restiamo nel guado dell’ideologia. Già l’utopia di un mondo perfetto ci ha fatto intravedere, nella letteratura, lo squallore di una felicità assicurata attraverso programmi elaborati a perfezione. L’aurora di una giornata piena di incertezze e di attese è più stimolante di un’altra che ci consegni alla noia di certezze ripetitive senza sorprese.
Ma non voglio eludere le domande in bianco e nero che la “gente” si aspetta perché vuole tutto semplificato. Affronto dunque questo scoglio con domande secche e risposte crude (ma con un finale migliore):
D. Aborto sì o aborto no?
R. No.
D. Dunque un crimine?
R. Commesso dalla società che lascia sola la donna: costretta a tenersi in pancia il feto, o costretta alla libertà di scegliere ciò che non può scegliere, per mancanza di punti saldi e concreti di appoggio.
D. Aborto terapeutico, aborto condizionato, aborto assistito eccetera, sì o no?
R. Mai.
D. Non c’è altra via di uscita?
R. Una possibilità: de-condizionarsi dai cattivi maestri .
Ben venga una legge con tutta la sua provvisorietà; discussa tra i sì, i no, i ni: è sempre meglio che lasciare incancrenire situazioni sconcertanti. Ma che la legge non basti! Mettiamo in moto una coscienza non addomesticata da parole ambigue; una coscienza carica di responsabilità, e soprattutto permeata di “pietas”, che non sia stucchevole compassione. Che sia in grado di abbracciare il dolore del mondo, senza deturparlo con la spudoratezza di negarlo a tutti i costi; di affrontarlo con fortezza d’animo, con fede, con speranza, con amore.
Ausilia Riggi (donnecosi@virgilio.it)
i La vita appartiene sempre ad una singolarità. A ragione Heidegger pensava all’esserci (qui ed ora) come la vera realizzazione dell’Essere.
ii A volte penso che non rendiamo un bel servizio a Dio chiamandolo infinito, perché in tal modo egli sarebbe uguale al suo contrario, il Nulla. Il suo Essere è vero nella misura un cui è un Esserci nella sua Singolarità, o se vogliamo esprimerci in altro modo, nella sua Totalità. Il che vuol dire: Lui non si identifica negli attributi che gli diamo; è Se stesso.
iii “Si invoca il concetto di persona, come termine che identifica la piena dignità umana, e ci si chiede se ogni essere umano sia per ciò stesso anche persona. Nel feto c’è in potenza la razionalità, ma manca l’esercizio della razionalità; eppure ciò vuol dire che l’individuo è in grado, nelle dovute condizioni, di esercitare la razionalità, cioè di parlare, di fare discorsi intelligenti, di capire, di amare, di volere, ecc.” (cfr. C. Navarini, Procreazione assistita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi, Casale Monferrato 2005).
iv Una nuova vita è fin dall’inizio un tutto in cui è iscritto l’intero universo singolarizzato. Secondo la visione olistica la singola cellula nata dalla fusione delle due cellule genitoriali non è pura materia, dal momento che è vita. Che il pensiero scientifico debba andare oltre la semplice materia e tener conto anche della visione spirituale del mondo, lo ha sostenuto anche Albert Einstein, convinto che tutta la materia non è altro che energia vibrante con diversa intensità e frequenze. La visione olistica la troviamo anche nello studio dell’atomo da parte del fisico Wolfgang Pauli, premio Nobel nel 1945, che riuscì a dimostrare l’esistenza di una reale comunicazione dell’atomo come totalità, come se gli elettroni che lo costituiscono fossero costantemente a conoscenza l’uno della posizione dell’altro o della situazione in cui si trovano (Gabriele Bettoschi).
v Sandro Magister , in “Lobby benedetta, L’espresso 5 febbraio 2008”, afferma che la chiesa “non esige che diventi legge ciò che solo per fede può essere accettato e capito. Si batte a difesa di comandamenti che dice scritti nei cuori di tutti gli uomini, siano essi cattolici e no”; che essa “crede di saper rappresentare il comune sentire di una larghissima parte della popolazione italiana molto più di quanto sappiano fare i partiti, la cultura e i media dominanti”. Io mi permetto una nota nella nota: noi laici dobbiamo saper ascoltare PENSANDO. Diceva il cardinale Martini: “non si tratta di credere o non credere , ma di essere pensanti o non-pensanti”.
vi L’attuale papa, da teologo, vuole ridare vigore al connubio tra ragione e fede. In questo spazio limitato riduco la “vexata quaestio” ad una semplificata sottolineatura: volendo egli contrapporsi ai “mali” della modernità senza negare il valore della razionalità umana, si adopera a riconoscerne l’autonomia nel suo radicamento nella natura umana (dove per “natura” intende la legge divina iscritta nella creazione), sicché ragione e fede non potrebbero mai dissociarsi..
vii Cattivi maestri non sono solo i permessivisti, ma anche gli insensibili e i ciechi osservanti di un credo e/o di una legge, che non sappiano interrogare il cuore e la mente della donna. La donna dovrà emanciparsi dalle schiavitù, e l’uomo dovrà ricostruire la sua umanità sotto il segno della paternità.
Novembre 1989
“Fino a quando la legge cercherà di controllare l’aborto in forme mai applicate alle altre pratiche di medicina chirurgica, ci sarà pericolo. Il motivo per cui la parola ‘rifiuto’ compariva in tanti documenti degli anni Sessanta e Settanta è semplice: lo scopo era estromettere il governo dal processo decisionale sulla riproduzione respingendo ogni legge sull’aborto o sulla contraccezione”.
Sono parole di Gloria Steinem, femminista americana. In che cosa consiste il pericolo di cui lei parla? In pericolo sono sia la libertà femminile, sia la riproduzione equilibrata. Fino a quando la legge cercherà di sostituire la donna nella regolazione della sua fecondità, ci sarà pericolo per la libertà di lei singola, come è evidente, ma anche per la libertà delle donne in genere e per la loro capacità di regolare il processo della riproduzione.
In questi mesi di discussione sull’aborto e, ultimamente, sulla pillola abortiva, la cosa per noi più significativa è stata la posizione autocritica di gran parte del movimento femminista nordamericano. (Dal 1973 – dice Ann Sintow a Giovanna Pajetta su il Manifesto – anno in cui la Corte Suprema sancì che abortire era un diritto, abbiamo passato il tempo a difendere ciò che i giudici ci avevano dato.)
Come negli USA, anche in Italia la legge che regola l’interruzione di gravidanza è stata sottoposta a vari attacchi con lo scopo di tornare al vecchio regime. E come negli USA, molte hanno difeso la legge in questione, forse senza rendersi conto di difendere un potere esterno che pretende di regolamentare il rapporto della donna con il suo corpo fecondo.
Certo, la legge 194 e il cosiddetto diritto di abortire vengono attaccati per motivi che nulla hanno a che fare con gli interessi delle donne. Ma questa non è una ragione sufficiente per difendere la 194 e, più in generale, la necessità di legiferare in materia di fecondità femminile.
Noi sosteniamo anzi che l’esistenza di una legge dello Stato in questa materia – legge più o meno repressiva, non è questo il punto – non sia compatibile con la libertà femminile. E che, invece di difendere la legge o cercare di migliorarla, sia meglio pensare alla cosa più giusta e semplice in questa materia: depenalizzare l’aborto, cancellare dal diritto penale la parola ‘aborto’.
Questo nostro testo è stato scritto per aprire la discussione sulla possibile depenalizzazione dell’aborto e sul farne una proposta politica del movimento delle donne.
Siamo interessate al giudizio di quelle con cui siamo in rapporto, ma anche di quelle che, a partire dalla loro competenza ed esperienza (medica, giuridica, parlamentare), vorranno valutare con noi i pro e i contro della nostra proposta.
Per cominciare sottolineiamo due dati di fatto. Primo il fatto che anche con la legge 194 l’aborto resta un reato. È un reato se non viene eseguito nelle strutture pubbliche. Ciò significa attese lunghissime per lo scarso numero di medici non obiettori negli ospedali. Significa inoltre un interrogatorio inutile ma umiliante che rimanda alla donna l’immagine che il legislatore ha di lei: individua di una specie irresponsabile, alla quale si deve far ridire quello che lei ha già deciso, per controllarne la consapevolezza. Nessuna meraviglia se il numero degli aborti clandestini cresce.
Passiamo così al secondo dato di fatto: la legge 194 è applicata poco e male. Il disagio più grave riguarda il Mezzogiorno, dove scarseggiano ospedali e consultori e dove il numero degli obiettori è tale da rendere impossibile l’attuazione del servizio previsto dalla legge.
A noi sembra che la non applicazione della 194 costituisca una invalidazione della legge stessa. Come si può difendere una legge che non viene applicata in metà del paese? Oppure si considera il Mezzogiorno una zona franca? D’altra parte, come possiamo noi donne difendere una legge che crea essa stessa e incrementa il regime dell’aborto clandestino con i suoi rischi e costi?
Alcune concludono, da quei due dati di fatto, che bisogna migliorare la 194, così da renderla più facilmente applicabile e meglio applicata. Questa posizione ha però contro di sé, in maniera insormontabile, l’obiezione della libertà femminile, del pericolo che rappresenta per la libertà delle donne qualsiasi legge in materia di fecondità del corpo femminile.
Non vale, d’altra parte, appellarsi al problema delle donne economicamente svantaggiate o del Mezzogiorno. L’aborto depenalizzato dovrà infatti restare un servizio medico offerto dalla società alle donne che ne hanno bisogno. E dove i servizi medici sono carenti per tutti, come nel Mezzogiorno, possiamo supporre che la depenalizzazione favorirà l’invenzione di soluzioni alternative, come l’apertura di ambulatori autogestiti più sicuri e meno costosi degli attuali sistemi clandestini.
Se ciò sia realistico, si dovrà naturalmente discutere, soprattutto da parte delle donne meridionali.
In ogni caso, difendendo o anche migliorando la 194, comunque si fa dipendere dallo Stato la pratica dell’aborto attribuendogli il potere di legittimarlo. E questo vuole dire, fra l’altro, negare valore giuridico (di diritto consuetudinario) e politico alla realtà di una secolare autonomia femminile che caratterizza la storia demografica dei paesi occidentali. Le donne, infatti, nei paesi europei, con le loro scelte individuali di abortire o non abortire non hanno mai prodotto squilibri demografici. Da questo fatto possono discendere un rapporto con la vita e un sapere preziosi per la società.
L’aborto è sempre stato punito, anche quando la società industrializzata imponeva pochi figli. Sull’ipocrisia di quella punizione il movimento politico delle donne ha detto molto. Ma non si tratta solo di ipocrisia: sull’aborto si è giocato e si gioca un conflitto di potere tra i sessi. Sono le donne a sapere quando è cominciata una gravidanza e a decidere se proseguirla, se informare il compagno, se interromperla, per lo più consultandosi con altre donne. L’autorizzazione eventuale ad abortire viene data all’interno di una cultura e di una società di donne. Legiferare sull’aborto o sulla pillola è un modo per gli uomini di assicurarsi simbolicamente il controllo sul corpo femminile fecondo. In fondo, sia i sostenitori sia i critici della legge 194 sono accomunati dalla volontà di avere quel controllo. Non si riconosce così autorità alle decisioni femminili, né si cerca di trovare strumenti più appropriati (come sarebbe un controllo della sessualità maschile), trincerandosi solo nell’irresponsabilità e nel moralismo.
La questione dell’aborto va affrontata a più livelli. Ne abbiamo individuati tre.
Il primo è quello sanitario. Oggi rappresenta il livello in cui si crede di poter affrontare la questione dell’aborto in tutta la sua complessità. Non è così. Il dramma, lo scacco, la liberazione che una donna vive in rapporto a questa esperienza non devono essere zone di interesse del servizio sanitario nazionale. Si dice da più parti: l’aborto non è un intervento come tutti gli altri. Ogni donna sa che questo è vero. Ma a livello sanitario l’aborto è un intervento come gli altri, ed è giusto che sia visto così. Altrimenti, oltre a provocare molte disfunzioni, come l’obiezione di coscienza, si favorisce una concezione del servizio medico che esorbita dalla sua funzione propria di aiuto sociale offerto ai singoli, alle singole nella gestione del loro corpo. Si tende invece a dare ai medici il potere di decidere che spetta alla donna. Dietro a questa prevaricazione c’è la volontà dello Stato di far valere il suo controllo e la sua ideologia sulla riproduzione della specie. Da questo punto di vista, il discorso non è diverso se per abortire si usa una pillola, anche se certo lo è dal punto di vista della sofferenza fisica. Su questo punto in particolare ci interessano i giudizi di mediche, ostetriche, ginecologhe, operatrici nel campo della salute.
Considerare l’aborto, limitatamente al livello sanitario, un intervento come gli altri, è il primo effetto della sua depenalizzazione. Si tratterà, naturalmente, di un intervento mutualizzato, che potrà essere eseguito anche in strutture private, a pagamento o convenzionate. Il nostro sistema sanitario prevede la scelta tra pubblico e privato, così come prevede una serie di strumenti assistenziali. Quale che sia il giudizio che diamo su tale sistema, noi donne non abbiamo nessun motivo di fare dell’interruzione di gravidanza una così vistosa eccezione come è attualmente.
Depenalizzare l’interruzione di gravidanza significa non considerarla più un reato. Non è una banalizzazione del problema, bensì una separazione – ecco la ragione dei più livelli – tra la sfera della competenza femminile e quella dell’intervento pubblico.
Contro questa posizione qualcuno fa appello all’etica. Un’etica, notate, di cui la legge dovrebbe farsi strumento penale. Noi crediamo che se di etica si deve parlare, bisognerebbe intanto cominciare dalla deontologia propria degli operatori e operatrici della salute.
Il secondo livello è quello giuridico.
La 194 è un compromesso. Così a suo tempo l’ha definita quella parte del movimento delle donne che pure era per la legalizzazione (e non per la depenalizzazione) dell’aborto. Non tanto, come superficialmente si potrebbe pensare, un compromesso tra destra e sinistra o tra DC e PCI o tra cattolici e laici. C’è stato anche questo, ma, più profondamente, quella legge fu un compromesso rispetto al conflitto tra i sessi.
Noi preferiamo che il conflitto tra i sessi non venga coperto. Tutte sappiamo che le donne, nel campo della riproduzione, si sono sempre riconosciute una capacità di decisione responsabile, così come sappiamo che in questo ambito c’è conflitto tra i due sessi. Pertanto, qualsiasi legge, qualsiasi regolazione parlamentare che si sovrapponga o pretenda di sostituire la competenza femminile equivale a voler chiudere la contraddizione a favore degli uomini perché misconosce la competenza e l’autorizzazione di origine femminile.
Da dove viene la richiesta di regolazione statale? Viene, come è noto, da cattolici, sebbene dal loro punto di vista, se fosse rigoroso, sarebbe preferibile il regime di depenalizzazione che toglie allo Stato l’identità di Stato abortista e, più radicalmente, di istituzione che si arroga il potere di legiferare sugli inizi della vita. Viene anche da uomini dell’area laica e questo sarebbe incomprensibile se non si considerasse quella realtà di fondo che è il conflitto tra i sessi.
Anche alcune donne dicono: l’aborto va regolato ulteriormente. La loro voce si fa sentire parecchio, mentre quella delle molte che abortiscono e non sentono il bisogno di regolamentazioni statali, quella è più debole. Ma per capire la posizione femminile autonomamente, dobbiamo passare a un altro livello, quello del significato che ha o non ha l’aborto per la donna, le donne.
Il terzo livello, dunque, è quello simbolico, in cui una donna sperimenta la sua libertà e la sua non libertà sapendo riconoscere fin dove arriva una e dove comincia l’altra.
L’aborto è una necessità, è legato alla costrizione della sessualità maschile che non separa piacere e riproduzione.
Vent’anni di ascolto dell’esperienza femminile insegnano che una donna, quando decide di abortire, sa di aver subìto la regola della sessualità maschile. Qui nasce lo scacco che è per una donna il dover abortire, ma anche la coscienza: si tocca con mano il dato della propria non libertà, gli impedimenti che la propria libertà scontra nel rapporto con quella maschile.
La libertà femminile è venuta al mondo. Si tratta di un avvenimento di natura simbolica. Vuol dire che la libertà si è resa possibile e pensabile dalle donne. E che esse la desiderano. Questo significa che le donne non si rappresentano più essenzialmente come schiacciate, represse o discriminate dagli uomini. Gli uomini, infatti, non hanno nulla di essenziale da togliere o da dare alle donne quanto alla loro libertà.
Libertà significa trarre dallo stato di costrizione gli elementi per superarlo, ma anche, se questo fosse impossibile, per accettarlo lucidamente. Così il senso dell’esistenza femminile non viene da fuori, nasce da dentro. Così si sposta il limite tra non libertà e libertà.
L’aborto ha sempre rappresentato questo limite. A partire da una costrizione, quella imposta dalla sessualità maschile, le donne si sono sempre autorizzate reciprocamente questo gesto. Non però come gesto di dominio sulla vita, come fantasticano quelli che parlano di omicidio, bensì come conclusione necessitata dalle circostanze. Alcune, occorre aggiungere, hanno esercitato ed esercitano sull’aborto e, più in generale, sulla loro capacità di regolare la riproduzione, un potere e il senso di libertà. Questa posizione è pienamente accettabile. Visto che il corpo che fa figli è quello femminile, visto che la funzione materna è femminile, è legittimo che le donne fondino su ciò un loro maggior potere nella riproduzione della specie.
C’è contraddizione tra il dire che l’aborto è una conclusione necessitata da elementi esterni come la costrizione della sessualità maschile, e il registrare un potere femminile legato alle decisioni sulla vita. Tra noi che scriviamo, alcune mettono l’accento sul primo aspetto, altre sul secondo. Siamo però d’accordo nel riconoscere la contraddizione. In fondo, la libertà nasce dalla contraddizione: la necessità infatti è la materia prima della libertà, se da essa si parte per produrre senso, regola e misura di sé.
Il bisogno di regole è legittimo. Indica una volontà di misura e di società femminile. Alle donne che invocano o anche solo ammettono che siano altri (partiti, istituzioni, uomini) a dare loro misura e regole, vogliamo portare la nostra esperienza che dice che le donne possono dare alle donne l’una e le altre. Non lo dimostra solo la storia recente del nostro sesso, l’invenzione di forme politiche per noi vantaggiose, la riflessione teorica, l’agire pratico di molte. Non lo dimostra solo la vita delle moltissime che non si sono mai trovate nelle condizioni di dover abortire. Lo dicono anche le diverse modalità che le donne hanno trovato e trovano per fare fronte alle necessità via via imposte dalla vita, dall’organizzazione sociale, dal dominio maschile.
Crediamo che l’autorizzazione simbolica femminile vada potenziata e lavoriamo a questo. Il potenziamento avviene contemporaneamente all’apertura di vuoti nell’ordine simbolico dato. Qualsiasi intervento legislativo in materia di riproduzione non farebbe invece che accentuare l’eteroregolazione occupando spazi che vanno lasciati alla competenza e all’autorità femminili. Per questo vogliamo che la parola ‘reato’ legata alla parola ‘aborto’ scompaia dal diritto penale.
Questo testo vuole essere uno strumento per il lavoro politico di singole e gruppi. Non domanda pubblicità per sé ma attenzione al tema della depenalizzazione dell’aborto.
Potete migliorarlo o sostituirlo con vostre elaborazioni, in vista di un convegno che potremo tenere fra qualche mese. Quelle che lo condividono così com’è, possono aggiungere la loro firma, riprodurlo e farlo circolare.
Franca Chiaromonte, Grazia Negrini, Luisa Muraro, Rossana Tidei, Raffaella Lamberti, Elena Paciotti, Maria Grazia Campari, Letizia Paolozzi, Alessandra Bocchetti, Daniela Dioguardi, Maddalena Giardina, Lia Cigarini, Ivana Ceresa, Angela Putino, Giovanna Borrello, Adriana Cavarero…
A cura della Libreria delle donne di Milano, Via Pietro Calvi 29, 20129 Milano, tel. 0270006265, fax 0271093653
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Stampato in data 22 febbraio 2008
Tra principi etici e derive esistenziali
Il mistero della singolarità
Ho sempre provato stupore di fronte al puntino quasi invisibile attaccato al gambo di una pianta: pur non vedendo il fiore, è assicurata la sua presenza.
Anche io come persona sono strettamente collegata al bing bang del concepimento, durante il quale è scattato l’inizio del mio essere. Mi rifiuto di pensare che in quel momento ci fosse un pezzo di me; ai minimi termini dell’esistenza c’era un potenziale immenso, tutta l’eredità dell’umanità nella quale mi inserivo da in-dividua, cioè non-divisibile, intera .
Una chiave di lettura che prediligo mi fa risalire a Dio che non poteva comunicarmi una vita frantumata in briciole di materia, sia pure pregnanti di potenzialità: anche Lui non so immaginarlo che “Se stesso”, e non infinitezza indeterminata .
Mistero affascinante la vita singolarizzata, da non desacralizzare.
Il feto è un ente-altro
Emma Fattorini racconta di suo padre quando le spiegava che “quei grumi sarebbero diventati veramente bambini e che, noi donne, non li volevamo vedere per paura. E che la vita è la cosa più importante che l’uomo possiede. Anche per la donna e l’uomo che non credono. Si convertì allora al cristianesimo e divenne poi missionario in Africa”.
Pare che le donne sappiano istintivamente, e “benissimo, che quel grumo di cellule dentro di loro è un figlio degli uomini” . E infatti non c’è donna che non resti sorpresa nell’assistere al fenomeno che si verifica nel suo corpo; l’abbaglia la percezione del mistero di un atto creativo, in cui due mondi (i due semi) sono diventati un nuovo mondo .
Eppure parecchie di loro stentano, non sempre per motivi cogenti, a trarre le giuste conseguenze dell’alterità del feto; presumono che la loro vita si prolunghi in un’altra di cui avrebbero il possesso. Come se nel concepimento si fosse avviato un semplice meccanismo, e non fosse accaduta, invece, la novità inedita di una singolarità vivente.
Ed ecco in termini chiari il corollario di tale atteggiamento: nessuno deve intromettersi tra la donna e il concepito, nemmeno il padre; spetta a lei “scegliere” di assumersi l’onere di una maternità, esplosa forse in un momento e in un modo “sbagliati”, di una gestazione e di un dopo pieni di incognite. In determinate condizioni non si può replicare, ma non si deve nemmeno far finta che i problemi di fondo siano risolti attraverso tamponamenti di ferite, innervate in maniera carsica nel tessuto dell’umanità.
Non basta piegare l’analisi verso l’attenzione a tanti altri tristi fenomeni di carattere più vasto, come la morte per fame di tanti bambini, le guerre, le immigrazioni scomposte, l’egoismo folle dei potenti che tengono in pugno le sorti di miliardi di esseri umani, eccetera. La questione dell’aborto non è una fra tante; è più di fondo, sottesa com’è nello sconquasso di principi orientativi basilari, su cui si regge l’equilibrio armonico all’interno dei singoli e delle società umane.
La modernità che ha lodevolmente permesso la maturazione del concetto di dignità della persona, di cui finalmente le donne si sono ri-appropriate, è giunta ad un bivio da cui si diramano conseguenze sia positive sia negative. E’ ora di chiedersi se sia giusto assolutizzare l’autonomia della donna di fronte ad un’altra vita incapace di svilupparsi da sé, ma tale che contiene in nuce il tutto dell’umano.
Feto e persona
R. Armeni riconosce quanto abbiamo affermato: “Non quindi una semplice escrescenza, non un grumo di materia ma, sia pure in potenza, una seconda vita”. Quindi si affretta a precisare: “Dico “in potenza” non solo perché essa è priva di coscienza e di relazioni ma perché non può esistere senza la prima. Per un lungo periodo fa ancora parte del corpo della madre. L’uno si divide in due, ma la seconda entità è unita alla prima in modo così inscindibile che la donna nel momento in cui decide di eliminarla pensa di eliminare parte di se stessa. Per questo soffre, ma non si sente in colpa. Per questo parla di aborto e non di omicidio, per questo nel momento in cui la stacca da sé e si contrappone all’evento naturale della nascita compie un atto di violenza ma che è rivolto soprattutto al suo corpo che potrebbe diventare altro e non ad un “altro corpo””. Noto la ripetizione del verbo “sentire” (e simili), ben caro anche a me come in genere alle donne; e quindi non mi fermo su questo aspetto. Invece mi contrappongo alla sostanza di simile ragionamento che s’incentra sul concetto di “vita in potenza”: se tutto ciò che è necessario al feto per esistere si trova nel seno materno, bisognerebbe dedurne che egli ha una vita in prestito, appartenente più alla mamma che a sé. E’ così difficile rendersi conto che gli organi la cui funzione è ancora allo stato potenziale hanno un centro focale di riferimento che dà loro unità? Non è cieco l’occhio del bambino che non ha imparato a vedere. Non è senza cuore l’invisibile motore della vita di cui non si percepiscono le pulsazioni. Gli organi aiutati a svilupparsi funzioneranno grazie al nutrimento materno che alimenta l’esserino nella sua totalità, la quale non è in potenza; semplicemente c’é.
Trovo davvero imbarazzanti certe affermazioni di femministe non sprovvedute: Flavia Zucco indugia a chiedersi “se questi feti siano completamente formati ed in grado di vivere una vita autonoma”; e Claudia Mancina distingue tra “vita individuale” che ci sarebbe nel bambino e “individuo” che non c’è ancora. Insomma dovremmo aspettare che acquistino autonomia le funzioni per parlare di individuo.
Lo so: quando un ragionamento diventa serrato, ci si dibatte tra idee antagoniste, e cioè tali che o sarebbe valida l’una o sarebbe valida l’altra. Ne chiedo scusa perché conosco quanta complessità ci sia “dietro” e “nella” questione e non ne riporto i termini perché ormai di pubblico dominio. Ciò di cui non mi scuso è il diritto a rompere gli schemi del pensiero unico, che alberga purtroppo ANCHE nel cosiddetto pensiero di sinistra, tanto peggio se femminista….
L’aborto e la legge
Sarebbe bello che le donne e la società intera affrontassero la questione dell’aborto in territorio etico-spirituale, anziché legale. Parlando di legge, si slitta verso le definizioni, con relative proibizioni e concessioni, eccetera. E non ci avvediamo di cadere nello stesso errore che commettono “i vendicatori…, quelli che minacciano e talvolta uccidono i medici che praticano aborti, come è già successo negli USA” (Mancina); perpetuiamo anche noi lo stesso “clima culturale esasperato” che fa “crescere l’obiezione di coscienza e trasforma le donne da cittadine a mendicanti di un’assistenza che non è più un diritto, ma elemosina”; perché, “volenti o nolenti, questa discussione ha finito per colpevolizzare le donne” (Roccella). Ci troviamo di fronte ad “una discussione fra uomini fatta in perfetto stile maschile” (Tavella), tanto che anche Di Pietro parla di “un dibattito ideologico, sterile e imbarazzante”.
Vorrei dedicare due righe alla frase bellissima di Emma Fattorini, che ha fatto testo in parecchi ambienti: “la vita è un dono, non dovere né diritto”. Ma, come tutte le frasi belle, anche in questa potrebbe annidarsi la trappola dell’enfasi di una verità apodittica, come vorrebbe una dottrina ecclesiastica, ben rinverdita nell’attuale stagione culturale . In ogni problema umano, soprattutto quando sono in gioco il concetto di vita e fattori esistenziali, dovremmo astenerci dalle definizioni; ma anche dagli aggiustamenti retorici nei quali si “confondono” pseudo-definizioni opposte alle prime. Abbiamo un bel dire tutte e tutti: ” nessuno vuole l’aborto, ma la legge che impedisca discriminazioni, frustrazioni e nuove violenze legali a donne già violentate, il terribile “fai-da-te” di ci non può pagarsela clinica all’estero”. Tutto giusto; ma non ci preoccupiamo che la legge possa essere percepita come un lasciapassare facile, che può diventare mentalità abortista: “facciamo l’amore, tanto c’è la pillola del giorno dopo; volevo questo figlio, ma ora non mi sento di affrontare la gravidanza”, e tante, proprio tante espressioni di un’idea di concepimento semplicistica ad uso di soggetti non sempre e non solo ingenui.
La legge che vuole rimediare certi scompensi prodotti dalla modernità, non sfugge alla stessa. Mai come oggi essa divide su due fronte: laicisti ed “ortodossi”. Oscillazione funesta, perché la vera esclusa è una sana laicità, in grado di ricostruire valori prima agganciati ad un credo. A mio modesto parere, è scoraggiante l’odierna mancanza di ricorso a realtà di carattere trascendente, come dovrebbero essere i principi iscritti nella coscienza umana. Quest’ultima vacilla sulla pretesa autosufficienza della ragione ; non riesce a scavare in se stessa, e perciò sono più facili i cedimenti di fronte alla contemporaneità, anziché la volontà di ri-costruzione di principi orientativi forti.
E’ possibile una conclusione?
Il clamore, da ovunque venga, serve solo a stordire. Certamente, se tutto il problema dell’aborto inclina verso l’eugenetica – figli desiderati, sani e senza problemi – restiamo nel guado dell’ideologia. Già l’utopia di un mondo perfetto ci ha fatto intravedere, nella letteratura, lo squallore di una felicità assicurata attraverso programmi elaborati a perfezione. L’aurora di una giornata piena di incertezze e di attese è più stimolante di un’altra che ci consegni alla noia di certezze ripetitive senza sorprese.
Ma non voglio eludere le domande in bianco e nero che la “gente” si aspetta perché vuole tutto semplificato. Affronto dunque questo scoglio con domande secche e risposte crude (ma con un finale migliore):
D. Aborto sì o aborto no?
R. No.
D. Dunque un crimine?
R. Commesso dalla società che lascia sola la donna: costretta a tenersi in pancia il feto, o costretta alla libertà di scegliere ciò che non può scegliere, per mancanza di punti saldi e concreti di appoggio.
D. Aborto terapeutico, aborto condizionato, aborto assistito eccetera, sì o no?
R. Mai.
D. Non c’è altra via di uscita?
R. Una possibilità: de-condizionarsi dai cattivi maestri .
Ben venga una legge con tutta la sua provvisorietà; discussa tra i sì, i no, i ni: è sempre meglio che lasciare incancrenire situazioni sconcertanti. Ma che la legge non basti! Mettiamo in moto una coscienza non addomesticata da parole ambigue; una coscienza carica di responsabilità, e soprattutto permeata di “pietas”, che non sia stucchevole compassione. Che sia in grado di abbracciare il dolore del mondo, senza deturparlo con la spudoratezza di negarlo a tutti i costi; di affrontarlo con fortezza d’animo, con fede, con speranza, con amore.
Ausilia Riggi (donnecosi@virgilio.it)
i La vita appartiene sempre ad una singolarità. A ragione Heidegger pensava all’esserci (qui ed ora) come la vera realizzazione dell’Essere.
ii A volte penso che non rendiamo un bel servizio a Dio chiamandolo infinito, perché in tal modo egli sarebbe uguale al suo contrario, il Nulla. Il suo Essere è vero nella misura un cui è un Esserci nella sua Singolarità, o se vogliamo esprimerci in altro modo, nella sua Totalità. Il che vuol dire: Lui non si identifica negli attributi che gli diamo; è Se stesso.
iii “Si invoca il concetto di persona, come termine che identifica la piena dignità umana, e ci si chiede se ogni essere umano sia per ciò stesso anche persona. Nel feto c’è in potenza la razionalità, ma manca l’esercizio della razionalità; eppure ciò vuol dire che l’individuo è in grado, nelle dovute condizioni, di esercitare la razionalità, cioè di parlare, di fare discorsi intelligenti, di capire, di amare, di volere, ecc.” (cfr. C. Navarini, Procreazione assistita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi, Casale Monferrato 2005).
iv Una nuova vita è fin dall’inizio un tutto in cui è iscritto l’intero universo singolarizzato. Secondo la visione olistica la singola cellula nata dalla fusione delle due cellule genitoriali non è pura materia, dal momento che è vita. Che il pensiero scientifico debba andare oltre la semplice materia e tener conto anche della visione spirituale del mondo, lo ha sostenuto anche Albert Einstein, convinto che tutta la materia non è altro che energia vibrante con diversa intensità e frequenze. La visione olistica la troviamo anche nello studio dell’atomo da parte del fisico Wolfgang Pauli, premio Nobel nel 1945, che riuscì a dimostrare l’esistenza di una reale comunicazione dell’atomo come totalità, come se gli elettroni che lo costituiscono fossero costantemente a conoscenza l’uno della posizione dell’altro o della situazione in cui si trovano (Gabriele Bettoschi).
v Sandro Magister , in “Lobby benedetta, L’espresso 5 febbraio 2008”, afferma che la chiesa “non esige che diventi legge ciò che solo per fede può essere accettato e capito. Si batte a difesa di comandamenti che dice scritti nei cuori di tutti gli uomini, siano essi cattolici e no”; che essa “crede di saper rappresentare il comune sentire di una larghissima parte della popolazione italiana molto più di quanto sappiano fare i partiti, la cultura e i media dominanti”. Io mi permetto una nota nella nota: noi laici dobbiamo saper ascoltare PENSANDO. Diceva il cardinale Martini: “non si tratta di credere o non credere , ma di essere pensanti o non-pensanti”.
vi L’attuale papa, da teologo, vuole ridare vigore al connubio tra ragione e fede. In questo spazio limitato riduco la “vexata quaestio” ad una semplificata sottolineatura: volendo egli contrapporsi ai “mali” della modernità senza negare il valore della razionalità umana, si adopera a riconoscerne l’autonomia nel suo radicamento nella natura umana (dove per “natura” intende la legge divina iscritta nella creazione), sicché ragione e fede non potrebbero mai dissociarsi..
I Cattivi maestri non sono solo i permessivisti, ma anche gli insensibili e i ciechi osservanti di un credo e/o di una legge, che non sappiano interrogare il cuore e la mente della donna. La donna dovrà emanciparsi dalle schiavitù, e l’uomo dovrà ricostruire la sua umanità sotto il segno della paternità.
Ida Dominijanni
Un primo risultato la lista per la vita di Giuliano Ferrara l’ha già ottenuto, quello di far dire a Silvio Berlusconi e a Gianfranco Fini che la 194 è una buona legge e loro non intendono toccarla. Buono. Il secondo risultato lo sta ottenendo in queste ore, ed è di far calare la battaglia per la vita dall’empireo delle guerre culturali al sottoscala dello scambio politico: altro che i valori, l’amore e sant’Agostino, il problema è l’apparentamento col Pdl e i sondaggi sul comune di Roma. Ottimo. Un terzo risultato è anch’esso già all’incasso, ed è l’involgarimento sopra le righe del lessico politico, giornalistico e satirico: si veda la prima pagina (e le successive) dell’inserto dell’Unità di domenica, con un Casini in forma di “feto abortito” da reimpiantare nell’utero di un Berlusconi “partoriente”. E poi il Foglio si lamenta se sospettiamo che ci sia qualcosa da mandare in analisi dell’immaginario maschile sulla maternità e l’aborto che si sta scatenando di questi tempi. Pessimo.
Su tutto – guerre culturali, guerriglie di potere, minuetti fra opinion makers (esemplare il dialogo Ferrara-Merlo dei giorni scorsi) – aleggia il fantasma del “diritto all’aborto”. Con una nobile gara – maschile – a prendere le distanze da quello che sarebbe un dissennato e gaudente slogan femminista, anzi “delle femministe”, di ieri e di oggi. E quando mai? Qui non si tratta di un immaginario perverso, ma di una proiezione in piena regola. La traduzione del problema dell’aborto in termini di diritto (da ridurre) è tutta loro oggi, così come fu dei Radicali (per conquistarlo) negli anni 70. Ma sfidiamo i Ferrara, i Merlo e quant’altri, a trovare nella letteratura femminista in materia un solo riferimento all’aborto come diritto. Disgrazia, lapsus, incidente, effetto dello squilibrio fra sessualità maschile e sessualità femminile: l’aborto è da sempre, nel vocabolario femminista, un’eccedenza irriducibile al linguaggio del diritto e dei diritti.Non credere di avere dei diritti si intitola, significativamente, il volume della Libreria delle donne di Milano che ricostruisce questa eccedenza dell’aborto dal linguaggio del diritto e dei diritti. Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso, si intitolava un famoso documento del ’75 che spostava il fuoco dalla richiesta di una legge all’analisi della sessualità e del desiderio (o non desiderio) di maternità sostenendo fra l’altro: “L’aborto di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e colpevolizza ulteriormente il corpo della donna”. “Mentre chiediamo l’abrogazione di tutte le leggi punitive dell’aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente da tutti gli altri, sessualità, maternità, socializzazione dei bambini”, scriveva un altro testo del ’73. E sono di Carla Lonzi le seguenti parole del 1971: “L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire. Ma la donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?”. Non per caso né per scelta, ma per via di questa eccedenza dell’aborto dal campo della giuridificazione, una parte significativa del femminismo degli anni ’70 era più favorevole alla semplice depenalizzazione che non alla legalizzazione dell’aborto. E la 194, che oggi viene attaccata da un lato come una legge permissiva e difesa dall’altro come una trincea irrinunciabile, fu una legge di compromesso: fra patriarcato e libertà femminile, fra cultura laica e cultura cattolica, fra de-criminalizzazione e statalizzazione dell’aborto. Un compromesso nel quale – e oggi si vede – molto sapere femminista restò fuori dalla codificazione. Ma che ha funzionato – anche questo oggi si vede, dai dati – non come legge abortista, ma come cornice di regolazione e limitazione degli aborti. Come mai questa storia e questa elaborazione restino sistematicamente fuori dal campo della discussione pubblica, tradotte e tradite nello scontro violento e riduttivo “diritto all’aborto sì-diritto all’aborto no”, è questione da interrogare. Di certo essa rivela un’incompetenza maschile pari all’ostinazione con cui gli uomini tentano, in modo ritornante e oggi più violento di altre volte, di reimpadronirsi della parola decisiva sulla procreazione e del potere di colpevolizzazione dell’esperienza femminile. Di certo essa rivela altresì che quel “lavoro politico diverso” sull’aborto è da riprendere da parte delle donne, a lato e oltre la difesa della 194. Le stesse cose ritornano, ma non ritornano mai le stesse. Sessualità, desiderio e non desiderio di maternità, relazione fra i sessi, rapporto fra libertà femminile e legge e fra esperienza femminile e sapere medico-scientifico restano e tornano, in condizioni diverse dagli anni 70, campi da indagare. Con le parole di verità che lo scontro politico non sa pronunciare.
Carlo Flamigni
I ginecologici romani – ma sarebbe più giusto dire “una parte dei ginecologi romani” – hanno firmato un documento, che con rara tempestività è stato reso noto proprio in concomitanza con l’ennesima giornata cattolica in favore della vita, documento nel quale stabiliscono alcuni principi di grande rilevanza per il nostro povero paese: il primo di questi principi riguarda la rianimazione dei feti che, deve essere tentata in qualsiasi epoca di gravidanza e quale che sia il peso del neonato. Il secondo principio (che ho dovuto rileggere più volte, non riuscendo a credere che si potesse arrivare a tanto) afferma che la rianimazione deve essere eseguita anche se la madre è contraria. Questa dichiarazione si inserisce in un dibattito molto acceso che i cattolici, medici e non medici, hanno ritenuto di dovere aprire e che riguarda le interruzione delle gravidanze dopo il 90° giorno di gestazione, che secondo i nemici della legge 194 dovrebbero essere eseguite non più tardi della 23ma settimana e per le quali dovrebbe essere comunque prevista la rianimazione dei feti nati vivi (di miracoli, per ora, non si parla).
La prima obiezione è che le rianimazioni dei feti nati prematuramente devono essere fatte solo dopo aver valutato attentamente ogni singolo caso: inutile, ad esempio, farla alla 22ma settimana quando non c’è speranza concreta di sopravvivenza; molto discutibile alla 23ma quando inizia qualche pallida chance, ma con rischi di gravi handicap spaventosi; non vedo molto senso nel tentare di rianimare un feto anencefalico, privo di cervello, o affetto da agenesia renale.
La seconda obiezione la muovo alla scelta di dar fiato alle trombe dopo aver approvato un documento assolutamente inutile, almeno per la sua parte predominante. La legge 194 chiarisce già senza ombra di dubbio le stesse identiche cose e le dice anche un po’ meglio: “Quando l’interruzione della gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna l’intervento può essere praticato anche al di fuori delle procedure previste…. Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 ( cioè quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.
In queste circostanze non si può chiedere di interrompere una gravidanza perché il feto è portatore di una malformazione o perché la donna ha un problema psicologico, valgono solo le minacce più gravi per la sua salute fisica, quelle che mettono a rischio la sua vita, cioè si configura uno stato di necessità. E’ logico che in una circostanza come questa la prima persona a implorare che si faccia di tutto per salvare il bambino sarà sua madre, così come è logico che il medico cercherà di dilazionare l’intervento in modo da offrire al feto le migliori possibilità di sopravvivenza. Stando così le cose, mi permetto di definire questa parte del documento in questione pura aria fritta.
Purtroppo è la seconda parte del documento a meritare le critiche più severe. Per i ginecologi romani, la madre, i genitori, coloro che persino il senso comune più trito ci fanno considerare come i protagonisti veri di queste drammatiche vicende, non debbono essere neppure ascoltati, debbono restare fuori dalla stanza nella quale si prendono le decisioni che riguardano il loro bambino. Il documento assume a questo proposito toni di ipocrisia molto sgradevoli, perché allude ai tentativi obbligatori di rianimazione come a passaggi necessari per prendere tempo, per chiarirsi le idee, per poter portare al padre e alla madre un elaborato più verosimile e consentire loro scelte più razionali. In realtà, chiunque abbia un minimo di esperienza ospedaliera sa bene che gran parte di queste tragedie sono annunciate, perché riguardano donne portatrici di malattie croniche, di malformazioni uterine, di problemi clinici la cui conclusione prevalente è proprio quella del parto prematuro.
Vorrei che i ginecologi romani ragionassero su alcune semplici cose: sbattere fuori dall’uscio i genitori non è solo crudele e immorale, è anche stupido. La maggior parte delle terapie che vengono attuate dai rianimatori di questi feti sono sperimentali, anche perché non è possibile considerare un feto nato alla 24ma settimana come un ometto piccolo piccolo, per il quale valgono le stesse regole applicabili agli adulti. Immagino che tutti sappiano che le cure sperimentali debbono essere accettate dopo un consenso informato particolarmente scrupoloso e spero che nessuno pensi che possa essere lo stesso feto ad accettarle. Dunque sono i genitori i protagonisti di queste decisioni, e sono gli stessi genitori a dover dire la loro opinione sull’opportunità di rifiutare le cure, visto che è la nostra Costituzione a stabilire insieme il diritto di ogni cittadino a essere curato e a rifiutare le cure che gli vengono proposte.
In genere l’aria fritta è priva di effetti collaterali, ma questa volta qualche preoccupazione me la procura. Accade infatti che il primo intervento utile quando si voglia migliorare la prognosi di un feto che ha cessato di crescere in utero e che dà segni evidenti di sofferenza, è quello di intervenire con un taglio cesareo. Mi chiedo cosa potrà mai accadere se la madre rifiuterà di sottoporsi all’intervento e mi chiedo in che termini il cesareo le sarà proposto. Mi chiedo che senso abbia imporre a una famiglia un nuovo figlio portatore di gravissimi handicap, una pianta che esige attenzioni e cure come se fosse un essere umano ma che di umano ha ben poco. Mi chiedo se la contrapposizione tra il principio della sacralità della vita e l’attenzione alla qualità della vita non sia giunto a una fine traumatica e non abbia vinto fraudolentemente il primo.
Molti colleghi mi hanno chiesto di interpretare le ragioni di questa iniziativa dei ginecologi romani. Ho risposto che non può essere un caso che si tratti di medici universitari romani: le Università romane hanno sempre guardato con attenzione alla direzione del vento, e non è un caso che il vento spiri oggi, con forza, da capo Vaticano.
Ida Dominijanni
Era solo pochi mesi fa, quando il coro transatlantico teodem predicava che la civiltà di un popolo si misura dal rapporto con le donne: si trattava di combattere l’Islam fingendosi femministissimi paladini delle donne velate. Non ci avevamo creduto, e a buon vedere. Oggi, Ratzinger intona e il coro teodem esegue: “La civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita”. Anche contro o a prescindere dalle donne? Sì, perché le donne sono, in atto o in potenza, delle assassine. Era solo pochi mesi fa, e anche pochi giorni, quando papa Ratzinger, all’università di Ratisbona come nel discorso mancato alla Sapienza di Roma, accusava la ragione illuminista moderna di avere perso la luce della fede, e di avere spalancato le porte all’irrazionalismo relativista postmoderno, abitato, fra gli altri, dalle femministe che distinguono la sessualità dalla procreazione e talvolta perfino dal genere. Oggi il refrain cambia, e pur di riunificare sesso, procreazione e matrimonio il coro teodem (si veda l’intervista del Foglio di domenica al cardinal Caffarra) invoca la ragione illuminista moderna contro il “collasso ontologico” postmoderno che ha spalancato le porte alla cultura abortista. E agita il diritto individualista moderno, che dovrebbe riconoscere al feto lo stesso statuto di un individuo adulto, contro l’etica relazionale femminista che vede nella gestazione un rapporto inscindibile fra il feto e la madre e lascia a quest’ultima la parola decisiva sulla sua prosecuzione.
Era solo pochi anni fa, quando il coro vaticano, teocon e teodem passò come un carrarmato sui desideri procreativi femminili e maschili, picchettandoli di divieti nel nome della salvaguardia della vita dell’embrione e alla faccia della salvaguardia della salute della donna: c’è vita e vita evidentemente, e quando a gerarchizzarla è il Vaticano non si rischia alcun collasso ontologico. Si rischia in compenso il collasso giuridico, com’è chiaro dalle ultime sparate congiunte di alcuni ginecologi romani e di papa Ratzinger, volte a fare rumorosamente nebbia dove la 194 faceva sobriamente luce (si veda l’articolo di Carlo Flamigni che pubblichiamo oggi), pur di continuare a battere dove il dente duole: la parola decisiva della madre (nonché del padre) sulla vita in potenza del feto.
Potremmo continuare con le contraddizioni in seno ai teodem. Ci fermiamo. C’è in questa loro campagna di appropriazione violenta della parola sulla procreazione e delle norme di classificazione della vita qualcosa di osceno e di macabro, che più che l’ingaggio della risposta colpo su colpo domanda l’intervallo silenzioso della presa di distanza. Qui la contraddizione è dei media (si veda il Corsera di ieri), che ogni volta cascano nella trappola e aggiungono al danno la beffa, prendendosela con le donne che oggi non parlano mentre negli anni Settanta sì che si facevano sentire. Come se altra parola femminile non potesse essere conosciuta e riconosciuta, se non quella che ai tempi del dibattito sulla 194 si esprimeva in cortei, manifestazioni, rivendicazioni.
Anche allora non c’era solo quella: dietro c’era il lavoro dell’autocoscienza, che seppe fare dell’esperienza una fonte di sapere, del personale una questione politica, del rapporto sessuale un continente da esplorare, delle verità scientifiche un campo da interrogare, di un primato naturale – quello sulla maternità e la messa al mondo della vita – un oggetto di ragione, di una relazione primaria – quella fra madre e feto – una base di diritto. Fra critica della ragione moderna e critica dei collassi postmoderni, quella parola femminile è stata seminale, ha fatto cultura, governa la vita con maggiore saggezza della governance biopolitica che semina dappertutto guerra e distruzione. E’ contro la sua pacifica forza, non contro la sua debolezza, contro il suo dire, non contro il suo tacere, che il coro teodem si accanisce e si dibatte, a costo di stonature che sfiorano il ridicolo dietro i paludamenti sacri e profani che ostentano.
La campagna elettorale che si apre, anzi s’è già aperta o non s’è mai chiusa, non farà che aumentare i decibel: è quando la politica ha poco o niente da dire che la parola passa ai proclami etici improvvisati, ai catechismi morali comandati, alle verità scientifiche usate come clave. Sta alla politica decidere se è in queste parole, o nella parola femminile, che vuole trovare una risorsa di senso.
Gustavo Zagrebelsky
In una concezione non dogmatica ma (auto)critica della democrazia, quale è propria di ogni spirito laico, nessuna decisione presa è, per ciò stesso, indiscutibile. Il rifiuto della ri-discussione è per ciò stesso una posizione dogmatica, che può nascondere un eccesso o un difetto di sicurezza circa le proprie buone ragioni. Questo, in linea di principio, riguarda dunque anche la legge sull´interruzione volontaria della gravidanza, “la 194”, che pur ha dalla sua due sentenze della Corte costituzionale e un referendum popolare.
Ma una discussione costruttiva e, mi sia permesso dire, onesta è il contrario delle parole d´ordine a effetto, che fanno confusione, servono per “crociate” che finiscono per mettere le persone le une contro le altre. Lo slogan “moratoria dell´aborto”, stabilendo una “stringente analogia” (cardinal Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto, accomunati come assassinii legali, ha sì riaperto il problema, ma in modo tale da riaprire anche uno scontro sociale e culturale che vedrebbe, nientemeno, schierati i fautori della vita contro i fautori della morte: i primi, paladini dei valori cristiani; i secondi, intossicati dal famigerato relativismo etico. Insomma, alle solite, un nuovo fronte di quello “scontro di civiltà” che, molti insofferenti della difficile tolleranza, mentre dicono di paventarlo, lo auspicano.
Siamo di fronte, come si è detto, a una “iniziativa amica delle donne”? Vediamo. La questione aborto è un intreccio di violenze. Innanzitutto, indubitabilmente, la violenza sull´essere umano in formazione, privato del diritto alla vita.
Ma, in numerose circostanze, ci può essere violenza nella gravidanza stessa, questa volta contro la donna, quando la salute ne sia minacciata, non solo nel corpo ma anche nella mente, da sentimenti di colpa o di sopraffazione, solitudine, indigenza, abbandono. La donna incinta, nelle condizioni normali, è l´orgoglio, onorato e protetto, della società di cui è parte; ma, nelle situazioni anormali, può diventarne la vergogna, il peso o la pietra dello scandalo, scartata e male o punto tollerata. D´altra parte, non solo la gravidanza, ma l´aborto stesso, percepito come via d´uscita da situazioni di necessità senza altro sbocco, si traduce in violenza anche verso la donna, costretta a privarsi del suo diritto alla maternità. C´è poi un potenziale di somma violenza nella capacità limitata delle società umane ad accogliere nuovi nati. La naturale finitezza della terra e delle sue risorse sta contro la pressione demografica crescente e la durata della vita umana. L´iniqua ripartizione dei beni della terra tra i popoli, poi, induce soprattutto le nazioni più povere a politiche pubbliche di limitazione della natalità che si avvalgono, come loro mezzo, dell´aborto.
Violenze su violenze d´ogni origine, dunque: violenza della natura sulle società; delle società sulla donna; della donna su se stessa e sull´essere indifeso ch´essa porta in sé. E´ certamente una tragica condizione quella in cui il concepimento di un essere umano porta con sé un tale potenziale di violenza. Noi forse comprendiamo così il senso profondo della maledizione di Dio: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze» (Gen. 3, 22). Si potrebbe dire che l´aborto, nella maggior parte dei casi, è violenza di deboli su più deboli, provocata da una violenza anteriore. Ma questa è la condizione umana, fino a quando essa patisce la crudeltà della natura e l´ingiustizia della società; una condizione che nessuna minaccia di pene anche severissime, con riguardo all´ultimo anello della catena, quello che unisce la donna al concepito, ha mai potuto cambiare, ma ha sempre e solo sospinto nella clandestinità, con un ulteriore carico di umiliazione e violenza, fisica e morale.
In questo quadro, che molte donne conoscono bene, che cosa significa la parola moratoria? Dove si inserirebbe, in questa catena di violenza? La domanda è capitale per capire di che cosa parliamo.
Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l´aborto come strumento di controllo demografico e di selezione “di genere”. Un celebre scritto del premio Nobel Amartya Sen, pubblicato sulla New York Review of Books del 1991, ha richiamato l´attenzione sul fatto che «più di 100 milioni di donne mancano all´appello». Si mostrava lo squilibrio esistente e crescente tra maschi e femmine in Paesi come l´India e la Cina (ma la questione riguarda tutto l´estremo Oriente: quasi la metà degli abitanti del pianeta). Si prevede, ad esempio, che in Cina, nel 2030, l´eccesso di uomini sul “mercato matrimoniale” potrebbe raggiungere il 20%, con drammatiche conseguenze sociali. Le ragioni sono economiche, sociali e culturali molto profonde, radicate e differenziate. Le cause immediate, però, sono l´aborto selettivo e l´infanticidio a danno delle bambine, oltre che l´abbandono nei primi anni di vita. In quanto, però, vi siano politiche pubbliche di incentivazione o, addirittura, di imposizione, la richiesta di “moratoria” ha certamente un senso. Si interromperebbe la catena della violenza al livello della cosiddetta bio-politica, con effetti liberatori.
E diverso, in riferimento alle società dove l´aborto non è imposto, ma è, sotto certe condizioni, ammesso. “Moratoria” non può significare che divieto. Per noi, sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiando severe sanzioni. Questo esito, per ora, non è dichiarato. I tempi paiono non consentirlo. Ci si limita a chiedere la “revisione” della legge che “regola” l´aborto. Ma l´obbiettivo è quello, come la “stringente analogia” con l´abolizione della pena di morte mostra e come del resto dice il card. Bagnasco: «Non ci può mai essere alcuna legge giusta che regoli l´aborto».
Qual è il punto della catena di violenza che la “moratoria” mira a colpire? E´ l´ultimo: quello che drammaticamente mette a tu per tu la donna e il concepito. Isolando il dramma dal contesto di tutte le altre violenze, è facile dire: l´inerme, il fragile, l´incolpevole deve essere protetto dalla legge, contro l´arbitrio del più forte. Ma la donna, a sua volta, è soggetto debole rispetto a tante altre violenze psicofisiche, morali, sociali, economiche, incombenti su di lei. La legge che vietasse l´aborto finirebbe per caricarla integralmente dell´intero peso della violenza di cui la società è intrisa: un peso in molti casi schiacciante, giustificabile solo agli occhi di chi concepisce la maternità come preminente funzione biologico-sociale che ha nell´apparato riproduttivo della donna il suo organo: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze», appunto. Si comprende, così, che la questione dell´aborto ha sullo sfondo la concezione primaria delle donne come persone oppure come strumenti di riproduzione. E si comprende altresì la ribellione femminile a questa visione della loro sessualità come ufficio sociale.
«La condizione della donna gestante è del tutto particolare» e non è giusto gravarla di tanto peso, ha detto la Corte costituzionale in una sua sentenza del 1975, la n. 27. Convivono due soggetti, l´uno dipendente dall´altro, entrambi titolari di diritti, potenzialmente in contraddizione: tragicamente, la donna può diventare nemica del concepito; il concepito, della donna. Da un lato, sta la tutela del concepito fondata sul riconoscimento costituzionale dei diritti inviolabili dell´uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie», trattandosi di chi «persona deve ancora diventare». Dall´altro, sta il diritto all´esistenza e alla salute della donna, che «è già persona». Il riconoscimento pieno del diritto di uno si traduce necessariamente nella negazione del diritto dell´altro. Per questo, è incostituzionale l´obbligo giuridico di portare a termine la gravidanza, “costi quel che costi”; ma, per il verso opposto, è incostituzionale anche la pura e semplice volontà della donna, cioè il suo “diritto potestativo” sul concepito (sent. n. 35 del 1997). Si sono cercate soluzioni, per così dire, intermedie, ed è ciò che ha fatto “la 194”, prevedendo assistenza sanitaria, limiti di tempo, ipotesi specifiche (stupro o malformazioni) e procedure presso centri ad hoc che accompagnano la donna nella sua decisione: una decisione che, a parte casi particolari (ragazze minorenni), è sua. La donna, dunque, alla fine, è sola di fronte al concepito e, secondo le circostanze, può essere tragicamente contro di lui. Qui, una mediazione tra i due diritti in conflitto (della donna e del concepito) non è più possibile: aut aut.
Le posizioni di principio sono incompatibili, oggi si dice “non negoziabili”: l´autodeterminazione della donna contro l´imposizione dello Stato; la procreazione come evento di rilevanza principalmente privata o principalmente pubblica; la concezione del feto come soggetto non ancora formato o come persona umana in formazione; la legge come strumento di mitigazione dei disastri sociali (l´aborto clandestino) o come testimonianza di una visione morale della vita. Alla fine, il vero contrasto è tra una concezione della società incentrata sui suoi componenti, i loro diritti e le loro responsabilità, e un´altra concezione incentrata sull´organismo sociale, i cui componenti sono organi gravati di doveri, anche estremi. Si vede il dissidio, per così dire, allo stato puro nel caso della scelta tra la vita della madre e quella del feto, quando non possibile salvare e l´una e l´altra: la sensibilità non cattolica più diffusa dice: prevalga la vita della donna, persona in atto; la morale cattolica dice: prevalga la vita del nascituro, persona solo in potenza.
Secondo le circostanze. Sul terreno delle circostanze, a differenza di quello dei principi, è possibile lavorare pragmaticamente per ridurre, nei limiti del possibile, le violenze generatrici di aborto. Educazione sessuale, per prevenire le gravidanze che non si potranno poi sostenere; giustizia sociale, per assicurare alle giovani coppie la tranquillità verso un avvenire in cui la nascita d´un figlio non sia un dramma; occupazione e stabilità nel lavoro, per evitare alla donna il ricatto del licenziamento; servizi sociali e sostegni economici a favore della libertà dei genitori indigenti. Dalla mancanza di tutto questo dipende l´aborto “di necessità”, che – si dirà – è però una parte soltanto del problema. Ma l´altra parte, l´aborto “per leggerezza”, troverà comunque le sue vie di fatto per chi ha i mezzi di procurarselo, indipendentemente dalla legge. In ogni caso, non è accettabile che di necessità e leggerezza si faccia un unico fascio a danno dei più deboli, spinti dalla necessità, e li si metta sotto la cappa inquisitoriale della criminalizzazione e delle intimidazioni morali, come l´equiparazione dell´aborto all´omicidio e della donna all´omicida. La sorte dei concepiti non voluti si consumerà ugualmente, nel confort delle cliniche private o nella solitudine, nell´umiliazione e nel rischio per l´incolumità. L´esito del referendum del 1981 che, a grande maggioranza (il 68 %) ha confermato “la 194”, dipese di certo dal ricordo ancora vivo di ciò che era stato l´aborto clandestino. Ci si può augurare che non se ne debba rifare l´esperienza, per ravvivare il ricordo.
Oscar Guisoni
L’aborto sembrava un tema già risolto per la società spagnola. Ma l’offensiva di certi settori della destra con un forte peso nella magistratura e della gerarchia ecclesiastica più conservatrice è riuscita a reintrodurlo nel dibattito politico. Mentre il Partido Popular all’opposizione pretende che l’attuale legge non si tocchi, il Partito socialista si ritrova in un forte dibattito interno sull’opportunità di ampliare l’ambito della disposizione in vigore, tirando via l’aborto dal Codice penale e incorporando il cosiddetto «quarto presupposto» che permetterebbe alla donna di allegare anche le ragioni economiche fra quelle previste per l’interruzione legale della maternità. La legislazione spagnola prevede, dal 1985, tre presupposti per l’aborto legale: che la vita della madre sia in pericolo, che la gravidanza sia l’effetto di uno stupro o che si presumano gravi malformazioni fisiche del feto. Nel programma elettorale del 2004 il Psoe, vincitore a sorpresa delle elezioni del 14 marzo, s’impegnava ad ampliare la legge incorporando un quarto presupposto e tirando via l’aborto dal Codice penale e a onorare così una rivendicazione storica del movimento femminista. Però il premier José Luis Rodriguez Zapatero ha ritenuto che si fosse già sfidato abbastanza la chiesa cattolica con la legge sul matrimonio omosessuale e ha deciso di lasciare nel cassetto la sua promessa. Adesso le femministe esigono dal Psoe che torni a incorporare la proposta nel suo programma elettorale in vista del voto fissato per il 9 marzo prossimo.
«Il movimento delle donne – ci spiega Consuelo Catalá, deputata socialista e portavoce alle Cortes della Comunità valenciana della politica per l’eguaglianza di genere – era sicuro che il tema dell’aborto fosse già risolto una volta per tutte e non l’ha considerato quindi prioritario». Però negli ultimi anni i settori più conservatori delle giustizia spagnola hanno cominciato una lenta però costante persecuzione delle cliniche private che praticano l’interruzione della gravidanza, ciò che ha finito per provocare un inedito sciopero di quelle case di cura terminato la settimana scorsa. La situazione si è fatta tanto critica da obbligare l’attuale ministro della sanità, Bernat Soria, a riunirsi con le cliniche per tranquillizzarle e dar loro garanzie di poter portare avanti il loro lavoro senza essere perseguite. «La destra si conferma molto crudele – spiega Catalá – perché non si può andare con la Guardia Civile a interrogare donne che hanno abortito, non importa per quale motivo».
La chiesa cattolica, come c’era da aspettarsi, con il pontificato conservatore di Benedetto XVI ha avviato un’offensiva conservatrice anche sul terreno dell’aborto e si è scatenata quando i socialisti hanno menzionato la possibilità di ampliare la legge in vigore includendovi il «quarto presupposto». Di fronte alla virulenza dell’attacco, le femministe hanno deciso di reagire. Al grido di «saquen los rosarios de nuestros ovarios», «via i rosari dalle nostre ovaie», le donne hanno manifestato mercoledì scorso per le strade di Madrid, Barcellona e altre undici capitali di provincia nella prima mobilitazione in difesa dell’aborto dopo molto tempo.
Intanto il Partito socialista ha concluso venerdì a Madrid il dibattito nella commissione incaricata di preparare il programma con cui il Psoe cercherà di vincere di nuovo le elezioni. «Noi donne spingeremo perché il partito torni a includere la proposta di togliere l’aborto dal Codice penale e di ampliare i casi previsti – afferma Consuelo Catalá – nell’ambito di un programma integrale di salute riproduttiva che dia al tema una cornice legale adeguata». Zapatero ha lasciato fredde, giorni fa, le donne vicine al movimento femminista quando ha suggerito che il tema sarebbe stato trattato nella prossima legislatura e che non sarà parte integrante del programma elettorale socialista. «Dobbiamo cercare il consenso» in vista dell’appuntamento decisivo di marzo, ha detto il primo ministro. Parole che all’orecchio di molte donne sono suonate come «non faremo niente che molesti ancor di più la chiesa».
Però se Zapatero si è mostrato tiepido, il Partido Popular fa molta più paura al movimento femminista. Mariano Rajoy, il candidato presidenziale del Pp, ha affermato di essere contrario all’ampliazione dell’attuale legge e questo significa lasciare l’aborto nel Codice penale consentendo ai giudici conservatori di tenere aperta l’offensiva in corso contro le cliniche e le loro pazienti. «Noi femministe ci eravamo smobilitate di fronte a questo tema – spiega Catalá – perché sembrava che ci fosse una sorta di normalizzazione sociale rispetto all’aborto». Ora questa smobilitazione sta finendo. Nelle manifestazioni si chiede un impegno chiaro del governo per riformare la legge, aprendo le porte anche della sanità pubblica all’aborto e per evitare che le donne e i medici si ritrovino in balìa delle crepe lasciate dalla legge in vigore.