ALLA TRIENNALE DI MILANO
LECTIO MAGISTRALIS ORGANIZZATA DA
AFIP INTERNATIONAL
Il secondo appuntamento è con
MARINA BALLO CHARMET, PAOLA DI BELLO E PAOLA MATTIOLI.
Modera FRANCESCA PASINI
Nuovo appuntamento alla Triennale di Milano con le Lectio Magistralis realizzate da AFIP International, Associazione Fotografi Italiani Professionisti. Il secondo incontro, in programma giovedì 24 novembre alle ore 19, propone uno sguardo tutto al femminile durante il quale Marina Ballo Charmet, Paola Di Bello e Paola Mattioli, insieme alla moderatrice Francesca Pasini, rifletteranno sulla fotografia, tra esperienza quotidiana, problematiche socio-politiche e interrogazioni sul tema del vedere.
Le tre artiste sono tra le protagoniste della mostra “L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015”, alla Triennale fino al 7 gennaio 2017.
La ricerca di Marina Ballo Charmet si focalizza intorno al quotidiano, all’ordinario, sia che appartenga alla città, sia alla sfera privata, esplicitando visivamente il laterale, il “sempre-visto” e adottando uno sguardo caratterizzato da mobilità percettiva e dal fuori fuoco, laterale o dal basso – tipico della condizione infantile – che restituisce una visione fluttuante, una “percezione periferica” legata al nostro preconscio; quella di Paola Di Bello indaga alcune delle problematiche sociopolitiche che delineano la città contemporanea, entrando in situazioni di vita quotidiana, spesso caratterizzate da un profondo disagio umano, e determinando uno spostamento del punto di vista; Paola Mattioli ha affrontato temi teorici come l’interrogazione sul vedere, il linguaggio, la differenza femminile, oltre che raccontare con sguardo speculativo, lontano dal classico reportage, grandi e piccole storie, dall’Africa alle fabbriche, dal carcere all’eclissi.
L’iniziativa Lectio magistralis di fotografia e dintorni è promossa da AFIP International e CNA Professioni, realizzata in collaborazione con La Triennale di Milano, il Maxxi – Museo Nazionale delle Arti del XII secolo di Roma, Rete Fotografia e con il contributo di Asphot, Canon, Epson.
dal 21 novembre al 3 dicembre 2016
Lunedì 21 Novembre 2016, alle h. 18.00, nella Sala Eleonora d’Arborea in via Falzarego 35 a Cagliari, il Centro di Documentazione e Studi delle donne inaugura la mostra fotografica
IL CORPO E LA MASCHERA
di Marisa Lallai
Le immagini della mostra nascono dal bisogno di parlare, rievocare un periodo fecondo tra lotte e autocoscienza, dare un volto e un corpo a quegli anni ricchi di relazioni e condivisione.
Una sequenza di scatti per raccontare e ricordare il vissuto di noi donne in un momento storico importante che ci ha viste insieme, unite da un bisogno comune quello di dare espressione e vita a una nuova immagine di sé, alla propria identità nascosta.
La mostra resterà aperta fino al 3 dicembre 2016
e si potrà visitare nei giorni e nelle ore di apertura del Centro
Mattina h. 9.45-13.00 – dal martedì al venerdì
Sera h. 16.00-19.30 – martedì e giovedì
Centro di Documentazione e Studi delle Donne
Cooperativa La Tarantola Via Falzarego 35 – 09123 Cagliari
Tel. 070 66.68.82
dal 22 ottobre al 26 novembre 2016
Chiostro arte contemporanea, Saronno, viale Santuario 11
Il Chiostro arte contemporanea inaugura la stagione con una mostra nell’ambito del suo ciclo di “dialoghi a tre”. Sono collettive concentrate sull’incontro ideale fra artisti diversi per linguaggio, ma accomunati da tematiche o corrispondenze iconografiche ed è il colore grigio che accomuna alcune delle serie condotte dagli artisti scelti per la mostra. Arcangelo e Paola Mattioli espongono già da anni con la galleria, mentre Lucio La Pietra entra per la prima volta negli spazi del Chiostro, riempiendoli con il vibrante e denso mondo di segni e suoni delle sue videoinstallazioni.
“Scala di grigio” è il titolo della mostra, perché quasi tutte le opere, con un solo paio di eccezioni volute, sono modulate su un pentagramma di note di grigio. Nell’ambito pittorico la creazione del colore Grigio è stato per secoli sottoposto a teorie e a sperimentazioni. La concezione classica considera il grigio come un “bianco sporco”, quindi ottenuto aggiungendo al colore Bianco quantità variabili di colore Nero. Tuttavia, esistono altri metodi per ottenere il Grigio: è il caso del grigio ottenuto mescolando in quantità uguali i tre colori primari (Blu, Rosso e Giallo). Insomma è un colore neutro, ma anche ambiguo nelle sue variabili apparentemente infinite.
Questa mostra vuole essere l’occasione di verificare, attraverso il lavoro di tre artisti che usano media molto diversi, come l’espressione possa passare per un linguaggio basato sul segno e sulla gradazione luminosa, non necessariamente illuminata dal cromatismo. Le luci e le ombre costituiscono, infatti, il lessico delle opere in mostra, sebbene il loro dialettico rapporto venga declinato da ciascun artista secondo le proprie inclinazioni.
I quadri di Arcangelo, scelti tra quelli realizzati nella decade tra metà anni Ottanta e Novanta, con l’intento di ripercorrere una fase importante dell’artista, sono un travolgente fiume di materia pittorica che storicamente reagisce al concettualismo degli anni Settanta, ma diviene una rappresentazione pittorica anche e proprio di tale esperienza. La pittura di Arcangelo accoglie in sé un codice di linguaggio essenziale, per quanto evocativo e struggente nei suoi rimandi alla terra d’origine dell’artista, il Sannio.
Luci, sagome e buio, ecco gli elementi che contraddistinguono alcuni lavori di Lucio La Pietra, artista video e filmaker di successo per le redazioni più giovani della televisione. I ritmi de “La Città che scorre” sono infatti quelli incalzanti della città attuale, ma anche nella videoinstallazione “…ma l’amor mio non muore..”, dedicata all’isola di Filicudi, si é testimoni di un breve e folgorante accadimento, che porta a riflettere sulla fragilità dei luoghi incontaminati. “I miei monumenti” è un video dedicato ad alcuni simboli della nostra società, con tutto il loro portato di memoria. La quarta produzione voluta per la mostra è “Neoeclettismo”, in cui l’affastellamento di figure e segni grafici ci racconta della bellezza di una cultura aperta a tutte le influenze. I video sono redatti in bianco e nero, quasi un manifesto di scrittura per Lucio La Pietra, capace di fermare lo sguardo di chiunque passi vicino alle sue opere, come un mago, quasi un moderno sciamano digitale.
Per Paola Mattioli, celebre Signora della fotografia italiana, assistente di Ugo Mulas e quindi protagonista in una Milano intensa e politica, gli scatti in bianco e nero sono una parte sostanziale della sua ricerca. Sono stati scelti con l’artista una triade di immagini del gruppo “Capolavoro”, con visioni astratte della materia ferrosa: i minuti interstizi del freddo metallo divengono nuvole poetiche e volatili, come per le “Eclissi” fotografate nel 1999 a Sant’Anna di Stazzema. La componente ironica e affascinante di Mattioli è invece presente nella sequenza “Shangai Express”, dove il soggetto è l’ombra, ambigua e danzante, delle sue stesse mani che fotografano.
L’allestimento scelto dalla curatrice e dalla gallerista Marina Affanni propone un dialogo tra le opere dei diversi artisti e ne nascono affascinanti accostamenti. Ad accompagnare la mostra sono le voci degli stessi autori che raccontano di alcuni aspetti della loro ricerca in un’intervista condotta da Cristina Casero, che così ha voluto rafforzare la coralità visiva delle opere.
Arcangelo
Nasce ad Avellino nel 1956. Studia all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1981 decide di trasferirsi a Milano dove conosce e frequenta numerosi artisti. Sono questi gli anni in cui Arcangelo va elaborando una pittura scura, una vena personalissima e riconoscibile che, pur nascendo nel clima artistico dominato dalla Transavanguardia, si precisa fin da subito per il forte legame con le suggestioni derivanti dalla sua terra d’origine.. Negli anni ’80 nasce il primo ciclo di lavori intitolato “Terra mia”, col quale partecipa alla collettiva “Perspective”, in occasione di Art Basel, Basilea. Seguono le personali alla Galleria Tanit di Monaco di Baviera e alla Galleria Buchmann di Basilea e la collettiva “Nuovi Argomenti” al PAC di Milano. Espone in mostre personali alla Galleria Janine Mautsch di Colonia, Harald Behm di Amburgo e Klaus Lupke di Francoforte. Nel 1987 espone al P.A.C. di Milano, al Museum der Stadt di Esslingen, alla Galerie Maeght-Lelong, Paris e alla Edward Totah Gallery, Londra, dove Arcangelo apre un suo studio londinese. E’ il periodo di una pittura cromaticamente ridotta ai soli pigmenti del bianco e del nero, con l’ausilio di una componente fortemente gestuale e con una particolare attenzione verso i materiali, che lo avvicina semmai alla sensibilità degli artisti Poveristi. Arcangelo afferma infatti un’appartenenza tutt’altro che folkloristica alle sue radici. Il suo Sannio, terra aspra e dura, celebrata in molte sue visioni, è una zona geografica di stratificazioni multiple, un crocevia di culture e di storie che serba traccia dei popoli che vi abitarono: dai sanniti ai romani, dai longobardi ai bizantini. La continuità e la coerenza del lavoro, nei successivi dieci anni, non gli impedisce di apportare varianti anche significative alle sue opere, che si caratterizzano come veri e propri cicli: le Navi, le Montagne, gli Altari, i Misteri, Verso Oriente e Tappeti Persiani. La superficie si frantuma, entra qualche colore, si raggruma nuovamente, si copre di scritte, viaggi attraverso tutti i “luoghi lontani” del mondo. Oggi antichi segni e nuovi pittogrammi si affastellano sulle tele dell’artista, completando l’alfabeto pittorico che ha reso riconoscibile ed unico il suo stile.
Lucio La Pietra
Nato a Milano nel 1977 é laureato in Design al Politecnico di Milano. Lavora e sperimenta nel campo delle arti visive. E’stato docente all’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha fondato un’agenzia di grafica, una casa di produzione video e un fablab. Ha esposto le sue video installazioni alla Triennale di Milano, alla Galleria Cà di Frà di Milano, al Museo Maxxi di Roma, al Museo MAGA di Gallarate, alla Biennale d’Arte di Filicudi.
Paola Mattioli
Nata a Milano nel 1948, si è laureata in filosofia con una tesi sul linguaggio fotografico. Da molti anni si dedica professionalmente alla fotografia di ritratto, ma affronta anche i temi legati alla visione critica, alla complessità del linguaggio visivo e alla specificità di quello femminile, a grandi e piccole storie che affronta con uno sguardo lontano dal classico reportage, con una sottile distanza che mette in gioco con leggerezza e rigore. In ogni sua ricerca emerge la costante riflessione intorno al senso del vedere e del fotografare: un tenace filo rosso che lega gli uni agli altri tutti i suoi lavori. Del suo lavoro è lei stessa a dire di aver scelto di stare contemporaneamente su due piani, uno narrativo e uno concettuale. Nel primo caso privilegia storie connotate da forti nodi tematici, talvolta di impronta sociale o politica; in questo ambito si inscrive anche il ritratto che considera una sintesi di ciò che una persona mostra come suo punto centrale. Alla dimensione concettuale appartiene, invece, lo sguardo che si interroga su quanto sta facendo, la volontà di accostare visioni e linguaggi diversi in una sintesi in cui finalmente si riconosce. Tra i soci fondatori dell’associazione AMICI del Museo di Fotografia Contemporanea, collabora alla rivista “via Dogana” della Libreria delle Donne di Milano e conduce un insegnamento di fotografia al corso di Psicologia e comunicazione dell’Università Milano Bicocca. Ha esposto in diverse mostre personali e collettive fra cui Immagini del no (1974), Donne allo specchio (1977), Cellophane (1979), Ritratti (1985), Statuine (1987), Ce n’est qu’undébut (1998), Trieste dei manicomi (1998), Un lavoro a regola d’arte (2003), Regine d’Africa (2004), Perturbamenti (2005), Donne Donne Donne (2012). Tra le sue pubblicazioni Ungaretti, lettere a un fenomenologo (Scheiwiller, 1972), Ci vediamo mercoledì (Mazzotta, 1978), Donne irritanti (Federico Motta, 1995), Regine d’Africa (Parise, 2004), Fabbrico (Skira, 2006), Dalmine (Skira, 2008), Una sottile distanza (Electa, 2008). Nel 1996 ha vinto il Kodak European Gold Award per l’Italia.
da il manifesto
All’origine del razzismo per Betye Saar c’è soprattutto l’azzurro sporco di una piscina. «Il Brookside Park di Pasadena aveva una piscina. Era aperta per i bianchi tutti i giorni della settimana tranne il martedì, quando i bambini neri o di qualsiasi altra razza potevano usarla: il mercoledì avrebbero cambiato l’acqua». Una volta cresciuta, abituata fin dall’infanzia a saper fare con le proprie mani tutto (madre cucitrice e nonna che realizzava trapunte per racimolare qualche soldo durante la Depressione), Saar cominciò a collezionare immagini dispregiative della comunità african american. Intensificò quell’attività soprattutto dopo l’assassinio di Martin Luther King. Raccoglieva nei mercati bambolette stereotipo, uncle Tom, Mammy, Pickaninny (i ragazzini «negretti»). E poi attraverso un assemblaggio beffardo e ironico, cominciò a proclamare la loro «liberazione» da quella schiavitù dell’immaginario. Nacque così una delle sue opere più conosciute, The liberation of Aunt Jemina (1972) dove la zia – epiteto che sottolinea un destino di servitù – si lancia verso una nuova vita brandendo da un lato la scopa e, dall’altro, un fucile. Avanza irridente su uno sfondo di figure pubblicitarie incentrate sulla sua stessa icona (è un logo per pancake ancora oggi).
Le opere dell’artista Betye Saar, nata a Los Angeles novant’anni fa (1926), sono esposte per la prima volta in Italia, presso la Fondazione Prada di Milano nella mostra antologica Uneasy Dancer. Curata da Elvira Dyangani Ose, riunisce più di ottanta opere tra installazioni, assemblage, collage e lavori scultorei, realizzati tra il 1966 e il 2016.
The liberation of Aunt Jemima, 1972
La «danzatrice incerta» del titolo è naturalmente lei, sorta di sciamana che colleziona memorabilia, sbircia tra le pieghe di credenze e religioni del mondo, apre valigie dimenticate da parenti e sconosciuti per creare le sue sculture sorprendenti, in cui la memoria storica confluisce in quella privata, restituendo un’identità a chi sarebbe rimasto nell’ombra, anonimo. Ogni oggetto condensa in sé un saggio di antropologia e, insieme, abita una Wunderkammer, un gabinetto delle curiosità puntato sulla blackness. È una camera delle meraviglie attiva, dato che sollecita il potere della consapevolezza. I collage di cianfrusaglie – allestiti come fossero in un museo etnografico – sprigionano una energia inusuale, ricollegano il visitatore con un patrimonio collettivo di immagini, sensazioni, album sentimentali. Scorre la controstoria dell’identità della donna (in particolare nera), ma anche la galleria tipologica della schiavitù e il ritratto del razzismo americano. È in atto un processo cognitivo alternativo che usa l’umorismo per allertare la coscienza. Attraverso i meccanismi del comico, come diceva Bergsson, ci si risveglia dall’anestesia del cuore.
D’altronde, Betye Saar è considerata una pioniera del Black Arts Movement e anche una veterana del pensiero femminista afroamericano. Lei, in realtà, sostiene di aver fatto solo la sua arte e che altri «hanno deciso di trasformarla in una militante». E guai a definire i suoi lavori femministi: l’arte va per la sua strada. «Per me il femminismo è una sorta di umanesimo. Il fatto di accettarsi e sapere che andiamo bene così come siamo…L’obiettivo è essere fedele a me stessa». Eppure, Saar in quasi mezzo secolo di produzione creativa ha azzerato il linguaggio corrente e riformulato un immaginario a partire da sé e dalla sua comunità. Il suo archivio di rappresentazioni orrifiche (dai linciaggi ai cliché razzisti) messo in sequenza e assemblato in forme inedite ha spostato l’attenzione, trasfigurato e disperso gli stereotipi, smascherato il dispositivo del razzismo iconografico.
L’artista Betye Saar, oggi novantenne
Tutto, nella sua estetica, gravita intorno all’esistenza quotidiana delle donne nere, spesso con tocchi esoterici, poiché spiritualità e magia hanno un peso non indifferente nella vita di Saar. Anche quando sceglie un oggetto nei mercatini delle pulci (è stata la prima cosa che a voluto fare una volta arrivata a Milano) deve «sentire» la sua anima. Fin da piccola l’artista disegnava, ma soprattutto faceva «cose», manipolava la realtà in finzione. Da grande, saranno gli oggetti vecchi e le fotografie ad appassionarla, «ogni mia opera nasce sempre da una combinazione di quei materiali», dice.
L’ispirazione per quel bricolage viene da lontano. «Mia nonna viveva a Watts (uno dei distretti di Los Angeles fra i più poveri, abitato dalla comunità nera e teatro di scontri violenti nel 1965, ndr) e quando ero bambina andavo a trovarla. Vedevo Simon Rodia che costruiva le Torri di Watts, ero affascinata dalla loro struttura. Una volta adulta, sono andata a studiarle: ero catturata dai materiali e da quella meravigliosa architettura. L’uso degli scarti riciclati di Rodia, cose come piatti rotti, mi hanno guidata verso la ricerca dell’objet trouvé». E l’altro nume tutelare è, dichiaratamente, Corneille con le sue scatole-mondo.
Attraversando le sale della Fondazione Prada, si viaggia migrando con le popolazioni africane alla volta dell’America, si sogna quell’Alpha e Omega dell’esistenza umana raffigurata con barche sospese nel blu e con palle di vetro per predire il futuro (che rimandano anche alle catene della schiavitù), si soffre per la segregazione fra le gabbie, ci si commuove di fronte ai ricordi della zia Hattie, un «memorial» intimo contenuto all’interno di una polverosa valigia. E si strofinano i panni dei bianchi insieme all’archetipo delle Mammy.
Ma l’America di oggi, come la giudica Saar? «Il presidente Obama è una persona intelligente, capace di prendersi cura del prossimo: ha cercato di aiutare chi non ce la faceva da solo. Il suo fallimento è dovuto alla miopia di chi non ha voluto accettare la sua visione. Gli Stati Uniti sono ancora adesso il miglior paese, nel bene e nel male. Il razzismo è un problema che riguarda tutti e stiamo ancora cercando di risolverlo».
(il manifesto, 4 ottobre 2016)
da collezionedatiffany.com
Nata a Monza nel ’38, LeoNilde Carabba può definirsi “una pittrice ed una viaggiatrice che ama esplorare territori e varcare confini”. Artista di fama internazionale e attiva collaboratrice del Movimento delle Donne, ha mosso i suoi primi passi nella Milano degli anni ’60 lavorando al fianco di artisti come Lucio Fontana, Hsiao Chin, Roberto Crippa, Enrico Baj e Piero Manzoni. Figlia di un ingegnere chimico dalla grandissima cultura umanistica e di una pianista di origine dalmata, LeoNilde Carabba è state tra le poche protagoniste femminili ed emergere in quella che si può definire come una delle stagioni più innovative dell’arte italiana ed internazionale. In questa intervista ci racconta 56 anni di carriera caratterizzati da una continua e instancabile sperimentazione perché, come dice lei stessa, “la vita comincia ad ogni momento”.
Fabio Agrifoglio: Come nasce LeoNilde Carabba artista?
LeoNilde Carabba: «L’Arte è entrata nella mia vita con la forza di una rivelazione assoluta. Ero ancora al Liceo Internazionale ed ho capito subito che niente sarebbe più stato come prima. Avevo trovato un centro. Una ragione per esistere. Diventare Artista è stato poi un processo lungo e travagliato, con battute d’arresto e crisi, ma il dubbio non si è mai inserito, neppure nei momenti più difficili, in questo costante processo evolutivo che mi ha portato dal Buio alla Luce. E quando parlo del buio mi riferisco alle Opere dei primi anni ’60, ben rappresentate dal catalogo della mostra presentata da Baj, Crippa e Fontana al Cenobio-Visualità di Milano nel 1964. In queste opere si sente l’influenza di Antonio Recalcati, che avevo conosciuto e frequentato all’inizio della mia avventura, così come si percepisce l’influenza di Jean Dubuffet, che avevo visto in una mostra a Parigi. Queste opere rappresentano bene il tormento interiore in cui mi aveva gettato una difficile situazione familiare».
F.A.: Hai iniziato giovanissima con un padrino di eccezione: Hsiao Chin. Ci puoi parlare della tua prima personale alla GalleriaNumero di Firenze nel 1961?
L.C.: «Come dice Angela Vettese nel suo bellissimo libro “Artisti si diventa”, il gruppo all’inizio del proprio percorso artistico è importantissimo. Hsiao Chin, Alfredo Pizzo Greco, Pia Pizzo ed io ci vedevamo moltissimo. Hsiao era certo quello più affermato ed era fidanzato con Pia Pizzo che poi sposò. Con Alfredo, fratello di Pia, avevo una relazione poetica, nel senso che passavamo ore a leggerci a vicenda le nostre poesie ed io conservo ancora le mie scritte a macchina con le annotazioni a matita di Alfredo. Andavamo assieme alle inaugurazioni e discutevamo per ore del nostro lavoro e di quello degli altri. Una fucina di idee e da questo nacque l’opportunità della mia prima mostra alla Galleria Numero di Firenze su indicazione e presentazione poetica proprio di Hsiao Chin».
F.A.: Scrisse di te Lucio Fontana: “Da più di un anno conosco gli “esseri” di Carabba, non sono mostri né fantasmi, sono esseri intelligenti che ti fanno meditare, sono opere d’arte riuscite”…
L.C.: «Fontana era un signore, generoso ed affabile. Un altro signore era Jean Fautrier, che mi comprò un quadro nel 1964. Una persona importantissima nella mia evoluzione fu poi Pierre Restany, conosciuto da Guido Le Noci della Galleria Apollinaire, una delle gallerie più raffinate di tutta Milano. Da Le Noci incontrai Christo e Jeanne Claude, che poi furono ospiti da me a Roma quando vivevo in una grande casa con Shaila Rubin, cineasta americana. Ho rivisto poi Christo e Jeanne Claude a New York nel 1983, dove fui loro ospite per tre settimane con Serena Castaldi, amica del Movimento delle Donne».
F.A.: Sul catalogo della stessa mostra Roberto Crippa scrisse: “E’ nostra intenzione trovare in noi stessi, dopo le esperienze accademiche che hanno determinato la prima formazione pittorica, un discorso da comunicare con mezzi assolutamente nostri, partire spogliandosi completamente da qualsiasi richiamo o suggerimento, che può venire da altri pittori e da altre scuole, interpretare la realtà del nuovo uomo che ci sta davanti e il suo rapporto con l’ambiente in cui si muove”…
L.C.: «Roberto era un fratello maggiore. Il nostro era un rapporto semplice, cordiale. Diventare artista nella Milano e nella Roma degli anni ’60 era una grande fortuna. Il mondo dell’Arte era aperto, raggiungibile, generoso. Piero Manzoni fu per me un grande amico. Lo andavo a veder stampare in quella che poi divenne la serigrafia Perini, dove stampai a lungo anch’io. Lo incontravo al bar, io bevevo un cappuccino e lui un Pernod: è come se in questo ci fosse la rappresentazione simbolica della distanza tra l’artista di avanguardia e la ragazza di buona famiglia che si sta inoltrando in questo mondo sconvolgente. Anche Tancredi fu per me molto importante, inizialmente più dal punto di vista umano che pittorico, ma tanti anni dopo, quando lui era ormai morto ed io vivevo in California, mi accorsi che avevo appreso molto da lui sul piano tecnico delle velature e del lirismo».
FA: Risale al ’65, invece, la collettiva alla Bianco e Nero di Roma con Accardi, Afro, Burri, Dorazio, Tancredi, Capogrossi…
L.C.: «Nel 1962 mi trasferii a Roma dove conobbi Giulio Turcato, Pino Pascali, Mario Schifano e tutti quelli che gravitavano attorno alla Galleria La Tartaruga. Fui molto amica di Antonino Virduzzo, eccellente incisore italo-americano. Fu lui a presentarmi alla direzione della Galleria il Bianco e Nero. Ero coi “Grandi”, ma lo consideravo naturale e solo ora mi accorgo di quanto fosse eccezionale. A Roma fu molto importante per me l’incontro con Topazia Alliata di Salaparuta. Era direttrice artistica della Feltrinelli e feci con lei una breve, ma entusiasmante mostra: Il quadro della settimana (1964). La considero, come si dice nel Movimento delle Donne, una Madre simbolica. Mi aiutò a crescere come artista e fu un punto di riferimento per la mia famiglia, che era solidale con me, ma inquieta per le mie scelte eterodosse. Tramite lei feci una personale al Bilico con il testo introduttivo di Luciano Inga-Pin».
F.A.: Poi, nel ’67, la personale alla Galleria Vismara di Milano seguita, l’anno successivo, da Acrom con Marrocco, Morandini, Fascetti, Del Pezzo, La Pietra…
L.C.: «Sì, la mostra dalla Vismara fu un successo di critica, di pubblico e di collezionisti. Ebbi anche una breve nota di Dino Buzzati sul Corriere. Cominciò allora la mia collaborazione con gli Architetti Salvati e Tresoldi. La mostra Acrom, del 1969, fu la diretta conseguenza della mia relazione professionale con lo Studio Salvati Tresoldi, dove si tenne la mostra. Ma più che la mostra Acrom fu importante la mostra Dal Segno all’Oggetto a cura di Gualtiero Schönenberger alla Galleria Cadario di Caravate nel 1969. La mostra era concepita con Lucio Fontana e Bruno Munari come maestri – ospiti d’onore come dice Schönenberger nell’introduzione – e 35 artisti che in qualche modo appartenevano all’una o l’altra scuola. Per Fontana lo spazialismo e per Munari il Gruppo MAC. Con Fontana troviamo Getulio Alviani, Enrico Baj, Agostino Bonalumi, Lucio Del Pezzo ed altri. Con Munari ci sono io, unica donna, Enrico Castellani, Mario Ceroli, Ugo La Pietra, Mario Schifano, Ettore Sordini, Arturo Vermi ed altri».
F.A.: A Capogrossi sembra avvicinarsi il tuo tratto stilistico di questo periodo: il modulo di Nilde Carabba. Puoi descriverci le tue opere di metà anni ’60?
L.C.: «Ne parla benissimo Riccardo Barletta nella sua presentazione alla mia bi-personale con Thea Vallé sia alla SM 13 di Roma che alla Galleria San Carlo di Napoli. “Una giovane artista che ha sentito dentro di sé l’urgenza dell’archetipo è Nilde Carabba. Il suo archetipo è costituito dalla lettera greca, maiuscola, <fi>. Figurativamente ha la forma di un anello circolare tagliato in mezzo da una verticale. Analogamente a lei Capogrossi usa della lettera greca <psi>: però, direi, minuscola. Due segni, due simboli, antichissimi. L’archetipo di Nilde Carabba tagliato per metà dà l’archetipo di Capogrossi. Naturalmente non vi è altro possibile parallelismo tra la Carabba e Capogrossi: la prima operante su un impianto simmetrico…” Testo di grande cultura e comprensione dell’opera, ma la cosa più interessante e il suo valore, direi quasi di preveggenza, è quando dice: “Nilde Carabba chiede all’arte un contenuto oltre la sensazione che risolva la crisi antropologica sua e dei suoi contemporanei. In concreto, analogamente al <mandala>, produce un oggetto che, sviluppando la contemplazione e la concentrazione, ecciti gli uomini a questi esercizi ormai disusati. Lo scopo è chiaro e preciso. La strada è lunga, difficile ed irta. L’ <illuminazione> – lo scopo del buddismo – viene qui raggiunta soprattutto sul piano oggettivo”. Quello che io considero preveggenza è che in quegli anni io mi consideravo atea, ma poi la ricerca spirituale divenne uno dei cardini della mia vita».
F.A.: Un modulo, il tuo, che peraltro sembra rappresentare l’unione del simbolo maschile e del simbolo femminile…
L.C.: «Sì certo, ma era ancora del tutto inconscio che, con gli anni, diverrà pienamente consapevole grazie anche alla mia analisi individuale Junghiana ed al mio forte interesse rispetto a tutto quello che era connesso con il simbolo e con la spiritualità. La mia ricerca artistica di quegli anni rifletteva moltissimo la mia ricerca interiore. Il matrimonio mistico divenne molto importante e spesso citato nelle mie dichiarazioni di poetica. E alla base della mia ricerca del “Matrimonio Mistico” è anche nuovo modo che adottati per scrivere il mio nome: LeoNilde. Sottolineando così, nel nome come nel mio destino, la presenza di una radice maschile ed una femminile che si incontrano e, sul piano dell’anima, si sposano. Se, d’altronde, sei un essere consapevole e sei donna nel mondo dell’uomo prima o poi devi porti la domanda se vuoi essere una donna colonizzata, nelle sue varie forme, o se vuoi iniziare quel “Viaggio Alchemico” che ti porterà ad essere totale. Iniziare il viaggio alchemico significa esprimere nella sua totalità sia la parte maschile che la parte femminile di sé.».
F.A.: Ci fu un momento di questa tua ricerca interiore che segnò fortemente la tua carriera artistica?
L.C.: «Probabilmente fu nel 1974, quando la Galleria Fumagalli di Bergamo, nella persona del suo fondatore Alberto Fumagalli, mi rescisse il contratto perché non ero d’accordo a mantenere per sempre uno stile riconoscibile nell’optical geometrico. Certamente persi una grande occasione sul piano del mercato, ma non ero pronta e disposta ad un’operazione di stile. Il “Viaggio Alchemico” è un incessante labirinto in cui ti perdi e ti ritrovi e stranamente adesso che ho fatto l’intero percorso e permesso a parti vulcaniche di me di venire alla luce, sono di nuovo interessata alle mie geometrie mentalmente lucide degli anni ’70 ed ho intenzione di riprendere dei modelli che allora erano monocromi e rifrangenti e aumentarne la complessità rendendoli non solo rifrangenti, ma anche fluorescenti e fosforescenti. Cosa che ho iniziato a fare nel 1995 come chiara evoluzione proprio delle rifrangenze degli anni ’70 e dell’uso di foglia d’oro, d’argento e di rame. Come dice Cristina Muccioli di me: voglio portare il Cielo sulla Terra per illuminare il cammino».
F.A.: Ma esiste anche un tratto sociale comune e costante della tuo percorso. Penso per esempio alla vicinanza al Movimento delle Donne.
L.C.: «Il “Viaggio Alchemico” è iniziato nei primi anni ’70 con il mio coinvolgimento nel Movimento delle Donne dove porto anche il mio essere artista. Nel 1975 organizzai e curai l’edizione di una cartella di grafiche di 9 donne per collaborare al reperimento di fondi per la creazione della Libreria delle Donne. La cartella venne presentata da Lea Vergine. Nel 1976 a Roma con Carla Accardi, Suzanne Santoro, Eva Menzio e altre fondai la Cooperativa Beato Angelico: una proposta “irregolare” per recuperare uno spazio al “femminile” per le donne che si muovono nell’ambito delle arti figurative. Attualmente, per continuare il discorso, sono da circa due anni Curatrice di mostre di Donne per una piccola galleria all’interno del centro L’Alveare».
F.A.: Se non ricordo male esiste anche un tuo momento di riflessione interiore che sfocerà in una profonda revisione, anche stilistica, delle tue opere…
L.C.: «Il Movimento delle Donne aveva messo così in crisi la mia idea di me che nel luglio 1976 iniziai una terapia Reichiana di gruppo con Alberto Torre, grande maestro. Questa terapia mi condurrà a recuperare le parti di me negate. Nello stesso periodo, si inserirà l’analisi Junghiana individuale con la compianta Rosanna Mannini, spirito lucido e ironico che mi ha insegnato a sdrammatizzare e a raffinare le mie capacità di pensiero. Contemporaneamente alle terapie psicologiche fui influenzata dal rapporto con Tina Sicuteri, anche lei compianta, che mi condusse allo studio dell’astrologia, che tanto arricchirà il mio lavoro creativo e poi mi porterà a recuperare le mie lontane origini ebraiche con lo studio della Cabala».
F.A.: La Cabala divenne peraltro centrale nella tua espressione artistica…
L.C.: Sì, lo studio della Cabala si ripercosse nella mia pittura, composi La Stella Polare e l’Albero della Vita, presentato la prima volta alla bella mostra: “Misure Celesti” a cura di Viola Lilith Russo per D’ARS alla ex-chiesa di San Francesco a Como. A questa mostra parteciparono molti artisti di livello internazionale tra cui Tobia Ravà, Héléne Foata, Anna Finetti, Marco Brianza ed altri. Poi realizzai i grandi quadri della Mostra La Musica delle Sfere, presentata dalla Bossaglia alle Segrete di Bocca. Questi quadri sono ispirati e dedicati agli Arcangeli della Cabala con la chiara intenzione di creare, entrando in uno spazio di comunione con le forze spirituali attivate dagli Arcangeli. Studio più che altro da sola, ma ho anche fatto esperienze di gruppo: un gruppo di calligrafia ebraica di dieci giorni nei Pirenei, alcune lezioni con Nadar Crivelli».
F.A.: Come ti vedi oggi dopo oltre cinquanta anni di carriera artistica?
L.C.: «Sono un essere fortunato, ho avuto Grandi Maestri in famiglia e fuori, nel grande mondo, e sono grata perché il mio sentiero è ancora in piena evoluzione e ancora non so bene cosa sarò da grande. Mi riconosco, però, il coraggio che, essendo un po’ esagerata, è spesso sfociato nell’incoscienza. Per questo ho pagato grandi prezzi, ma ne valeva la pena perché senza crisi non si evolve. Nella mia vita ho fatto, visto, capito, creato, amato, sofferto così tanto che potrei anche morire e proprio perché potrei morire posso vivere e continuare il cammino, esplorando nuove forme che già percepisco, ma ancora precisamente non so».
Fabio Agrifoglio: Nato ad Arenzano nel 1962, libero professionista, si occupa principalmente di progettazione di sistemi intranet. Vive e lavora tra la Brianza e la Lunigiana ed è presidente della ‘Fondazione Mario Agrifoglio’, organizzazione nata per preservare e valorizzare le opere di Mario Agrifoglio e per promuovere tutte le espressioni artistiche della black light art.
dal 27 settembre al 5 novembre 2016
Galleria San Fedele in collaborazione con la Nuova Galleria Morone
«I grovigli esprimono la mia tensione verso altri spazi» diceva Maria Lai. Nei primi anni Sessanta le sue mani hanno cominciato a intessere storie misteriose. Storie fatte di uomini fortemente legati alla terra. Ma anche di uomini tesi a elevare il proprio spirito verso nuove dimensioni.
Signora dell’arte, dei fili e dei telai. Signora delle montagne, nella Sardegna rupestre, Maria Lai (1919-2013) è stata una delle interpreti più intense nel mondo della ricerca estetica contemporanea. Un’artista lontana dalle mode, difficilmente riconducibile a un gruppo o a un movimento, ma il cui carisma l’ha consacrata nell’empireo dei grandi nomi del Novecento. La Galleria San Fedele, nell’ambito del suo programma dedicato ai maestri dell’arte contemporanea votati a una dimensione profonda della ricerca spirituale ed estetica, presenta un omaggio a questa grande autrice.
I temi eterni dell’identità, delle origini, della femminilità e della memoria; i temi celesti, i motivi cosmici, le geografie di un universo parallelo, sono alla base di un nucleo di opere popolate di spiriti benigni, di donne e pastori. Abilissima nel passare dal piccolo formato dei libri di cotone, cuciti con testi segreti e sacri, alla dimensione monumentale della land art, ha firmato installazioni e performance, come la celebre Legarsi alla montagna, del 1981, in cui stese un lunghissimo nastro celeste per unire le case del paese di Ulassai alle rocce del Tacco, ossequio alla natura, un rito collettivo per scongiurare frane e sigillare con la montagna un patto di convivenza.
Meraviglioso il valore sacrale conferito da Maria Lai al nastro e al tessuto, simboli di comunione e testimoni dell’origine antropologica del legame sancito fra l’uomo e il paesaggio che lo accoglie. La mostra, promossa dalla Galleria San Fedele in collaborazione con la Nuova Galleria Morone, vede le opere di Maria Lai al centro di alcuni dialoghi ideali fra passato e presente. Ecco allora i suoi libri cuciti accostati a volumi d’epoca, conservati presso le collezioni della Fondazione Culturale San Fedele, fra cui alcuni antifonari del XVIII secolo provenienti dalla distrutta chiesa di Santa Maria della Scala e oggi in San Fedele e un prezioso codice miniato del Quattrocento, libro di preghiere vergato a sud della Francia. Le sue “geografie” incontrano le mappe del padre gesuita tedesco Athanasius Kircher nel un suo bellissimo libro illustrato sulla Cina antica (China monumentis), pubblicato ad Amsterdam nel 1667.
Lungo quello che lei stessa definì un «filo del mistero teso fra terra e cielo», si dipanano altri dialoghi virtuosi, che rappresentano tasselli importanti di storia dell’arte del secolo scorso. Il dialogo fra Maria Lai e Jorge Eielson, maestro peruviano con cui siglò una vera amicizia e un confronto critico stimolante per entrambi. Tre opere di Eielson sono concesse in prestito dalla galleria Il Chiostro Arte Contemporanea di Saronno. Altro dialogo poi con le ricerche spazialiste di Lucio Fontana: un viaggio oltre la dimensione dell’opera scavata in profondità, verso l’eterno e verso l’infinito, che Maria intraprese con i suoi fusi, i pettini, gli aghi, muovendosi piano dentro la scatola aperta di un telaio: universo domestico denso di umori feriali e, insieme, di tensione mistica verso un luogo dello spirito dove convergono tutti i fili dell’esistenza.
Si ringraziano
Collezione Consolandi
Fondazione Marconi
Fino a sabato 5 novembre 2016 dal martedì al sabato 16.00/19.00
l’evento di benvenuto per i nuovi iscritti organizzato dal Dipartimento di Filosofia, la biblioteca ospita nell’antica Ghiacciaia, ,“Soffioni sospesi” (orari: lun.-gio. 9.00-17.45; ven. 9.00-16.00), la mostra delle opere dell’artista Antje Stehn.
L’opera centrale esposta è costituita dall’installazione di una sfera fatta di 5000 soffioni raccolti a Milano. La mostra si arricchisce inoltre di una dozzina di libri d’artista che rimandano, con un linguaggio molto personale, alla poetica che anima il pensiero dell’artista e il suo rapporto con la natura. Le opere sono affiancate da brevi testi, scritti da studenti di filosofia, che entrano nel gioco immaginario qui proposto e lo moltiplicano per lo spettatore.
dal 7 al 22 ottobre 2016 inaugurazione
7ottobre 2016 ore 18 Nadia Magnabosco e Marilde Magni
City Art Via Dolomiti 11 20127—Milano
Accumuli, ossessioni e contaminazioni creazioni di altri mondi
a cura di Micaela Mander
Nadia Magnabosco e Marilde Magni tornano con una doppia personale in cui è possibile ritrovare temi e modi costanti nella loro produzione; altrettanto costante è sempre stato il loro riflettere sull’attualità, e ciò rende la mostra allestita negli spazi di City Art unica e nuova: se da un lato il titolo dell’esposizione è calzante con il loro modo di procedere, appunto per accumuli di materiali, per il ricorrere di ossessioni, soprattutto inteso quale continua riflessione sul ruolo femminile, e per le contaminazioni di oggetti, tecniche, materie diverse, dalla carta agli scontrini, dall’oggetto trovato e reinterpretato, dalla pittura alla scultura all’assemblaggio al libro; d’altro lato, intensa è la denuncia verso quanto sta accadendo nel mar Mediterraneo, le morti in mare, la tragedia di chi parte e non ce la fa, di chi arriva ma viene respinto, e anche di chi resta, soprattutto madri, e non ha più notizia di quei cari che il mare ha risucchiato, nell’indifferenza di troppi e nell’incapacità – o non volontà – dei governi occidentali di proporre valide soluzioni. Allora il sottotitolo della mostra, creazioni di altri mondi, non solo allude alla capacità dell’arte di dare vita a un’opera che è un mondo nuovo, un racconto che, grazie al fare dell’artista, prima non c’era e ora c’è, ma è soprattutto un invito a creare un nuovo occidente possibile, un mondo che non respinga, ma accolga, una babele di lingue e di esperienze il cui intreccio possa generare un colorato mondo di pace.
6 ottobre 2016 al 22 dicembre 2016
Pinacoteca comunale di Ruffano, Corso Margherita di Savoia, 73049 – Ruffano (LE)
Telefono 0833 695529; 389 0945405
Il 6 ottobre 2016 la Pinacoteca comunale di Ruffano inaugura la mostra *IlMare *con le opere della bolognese Vittoria Chierici, artista visiva, attiva tra la sua città natale, Milano e New York. Con lei dialogherà Patrizia Dal Maso, docente di Storia dell’arte dell’Accademia di Belle Arti di Lecce. Saranno esposte opere che la Chierici ha creato durante i suoi viaggi nel Nord dell’Atlantico, in Islanda, di fronte al mare della Groenlandia e al Nord dello stato americano del Maine. Per l’artista il mare è “un concetto simbolico e vuol dire prendersi delle libertà […]”. Le sue opere “sono caratterizzate dal movimento, che è la conseguenza della sua vitalissima irrequietezza e curiosità, ma anche il risultato di un profondo rapporto con l’arte del movimento per eccellenza: il cinema, da lei sempre amato, studiato e praticato […]. Ci troviamo cosi di fronte a opere che svelano, in presa diretta ma anche con l’aiuto dei ricordi, una sorte di animismo che domina la realtà, e che l’arte tenta di svelare” (F.M. Cataluccio). Dice Vittoria Chierici: “Il mio lavoro d’artista si è maturato in un rapporto nomadico con la realtà. Vuol dire viaggiare, filmare, fotografare e dipingere. Nei miei lavori uso tre tecniche, la pittura, il disegno e il video che si uniscono nel ritmo e nel movimento”.
*La mostra rimarrà aperta dal 6 ottobre 2016 al 22 dicembre 2016, presso la Pinacoteca Comunale di Ruffano in Piazza della Libertà, tutti i pomeriggi dalle ore 16.00 alle 19.00, il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle 9.00 alle 12.00 e il sabato e domenica dalle 16.30 alle 18.30 (tel. 389 0945405).*
L’altro sguardo. Quello che, dalla fine degli anni sessanta ad oggi, le fotografe italiane hanno rivolto alle trasformazioni del corpo e del tessuto sociale, della memoria privata e collettiva, del vissuto quotidiano e familiare, facendosi portavoce dei mutamenti concettuali, estetici e tecnologici della fotografia nel nostro Paese, spaziando tra decenni e generi, dalla fotografia di reportage a quella più sperimentale.
Fotografe di diverse generazioni come quelle entrate a far parte della ricca Collezione Donata Pizzi, estesa dai lavori pionieristici di Paola Agosti, gli omicidi di mafia di Letizia Battaglia, o i travestiti di Lisetta Carmi, all’atlante italiano di Silvia Camporesi, quello del quotidiano di Anna Di Prospero o delle sperimentazioni di Paola Di Bello, insieme a molto altro.
Circa cinquanta autrici pronte ad animare la selezione a cura di Raffaella Perna, di oltre centocinquanta fotografie e libri fotografici provenienti dalla Collezione, in mostra alla Triennale di Milano con L’ALTRO SGUARDO. Fotografe italiane 1965-2015.
Le autrici della selezione in mostra annoverano: Paola Agosti, Martina Bacigalupo, Marina Ballo Charmet, Liliana Barchiesi, Letizia Battaglia, Tomaso Binga (Bianca Menna), Giovanna Borgese, Marcella Campagnano, Silvia Camporesi, Monica Carocci, Lisetta Carmi, Gea Casolaro, Elisabetta Catalano, Carla Cerati, Augusta Conchiglia, Paola De Pietri, Agnese De Donato, Paola Di Bello, Rä di Martino, Anna Di Prospero, Bruna Esposito, Eva Frapiccini, Simona Ghizzoni, Bruna Ginammi, Elena Givone, Nicole Gravier, “Gruppo del mercoledì” (Bundi Alberti, Diane Bond, Mercedes Cuman, Adriana Monti, Paola Mattioli, Silvia Truppi), Adelita Husni-Bey, Luisa Lambri, Lisa Magri, Lucia Marcucci, Raffaela Mariniello, Allegra Martin, Paola Mattioli, Malena Mazza, Libera Mazzoleni, Gabriella Mercadini, Marzia Migliora, Verita Monselles, Maria Mulas, Brigitte Niedermair, Cristina Omenetto, Michela Palermo, Lina Pallotta, Beatrice Pedicone, Agnese Purgatorio, Luisa Rabbia, Moira Ricci, Sara Rossi, Marialba Russo, Chiara Samugheo, Shobha, Alessandra Spranzi, Francesca Volpi.
L’esposizione sarà corredata dell’installazione multimediale “Parlando con voi” tratta dal libro omonimo di Giovanna Chiti e Lucia Covi (Danilo Montanari Editore) e prodotta su idea di Giovanni Gastel da AFIP International – Associazione Fotografi Professionisti e Metamorphosi Editrice, che consta di trenta schermi pronti a condividere interviste esclusive delle fotografe insieme alla sequenza di loro opere e pubblicazioni.
Ad ulteriore corredo della mostra Silvana Editoriale pubblicherà il catalogo (italiano-inglese), con testi di Federica Muzzarelli, Raffaella Perna, un’intervista a Donata Pizzi e schede biografiche di Mariachiara Di Trapani
dal 7 ottobre 2016 al 8 gennaio 2017 La Photographers’ Gallery di Londra presenta
La mostra comprende quarantotto artiste internazionali e oltre 150 grandi opere della collezione Verbund di Vienna.
Presenti tre italiane, MARCELLA CAMPAGNANO, KETTY LA ROCCA E GINA PANE.
La mostra mette in evidenza le pratiche innovative che hanno caratterizzato l’arte del
movimento femminista.
Accanto a professionisei affermate come VALIE EXPORT, Cindy Sherman, Francesca Woodman e Martha Rosler, la mostra offre una rara opportunità di scoprire il lavoro di artiste tra cui Katalin Ladik, Nil Yalter, Birgit Jürgenssen e Sanja Iveković.
Concentrandosi su fotografie, pezzi di collage, performance, film e video prodotti per tutto il 1970, la mostra riflette un momento durante il quale l’emancipazione, l’uguaglianza e le proteste per idiritti civili hanno fatto parte del discorso pubblico.
Attraverso indagini provocanti, radicali, poetiche e spesso ironiche, le artiste hanno utilizzato il loro lavoro come ulteriore mezzo di impegno per mettere in discussione l’identità femminile, i ruoli di genere e la sesualità, con nuove modalità di espressione.
Sfidando le convenzioni sociali accettate, tra cui i meccanismi dell’industria dell’arte, queste artiste hanno cercato di riconfigurare, e in ultima analisi rimodellare, la prevalente iconografia della ‘donna’, rappresentata, con sguaro maschile, come musa passiva.
Attraverso la rappresentazione dei comportamenti pubblici e personali, così come con il proprio corpo, le artiste hanno cercato di affrontare grandi temi politici e confrontarsi
sul patriarcato e il sessismo in arte e nella società. In questo modo hanno creato una nuova, assertiva e multiforme identità femminile.
La mostra è organizzata in quattro temi.
dal 22 settembre al 26 novembre, 2016
fieno, fieno, fieno
mercoledì 21 settembre, 19.00 – 21.00 Inaugurazione alla presenza delle artiste
Helen Mirr e Allyson Strafella
La Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare il progetto a quattro mani ideato dalle artiste americane Helen Mirra e Allyson Strafella.
Negli ultimi anni le artiste hanno intrecciato un intimo dialogo tra le loro ricerche e le loro opere che, in occasione della mostra in galleria a Milano, diviene sempre più forte acquisendo nuove forme e connotazioni. Verranno presentate, infatti, opere inedite e un progetto site-specific che Helen Mirra ed Allyson Strafella hanno concepito in considerazione della comune sensazione che scaturisce dal fieno, elemento naturale e ancestrale, e dal suo contesto.
Il 17 Settembre, 2016, alle 17:30,
riceviamo da Vittoria Chierici
Giardini dell’Arte, in via Palestro 8, Milano.
Un rose seule, c’est tout les roses…scrive Rainer Maria Rilke in francese, nella raccolta, Les Roses, tra i suoi ultimi poemi scritti due anni prima di morire al Sanatorium di Valmont, nel 1926.
L’artista Katja Noppes, leggera’ alcune di queste poesie nel magico Giardino delle Arti di via Palestro 8, durante l’esposizione dei miei dipinti sullo stesso tema. Nata nel 1967 a Stamberg in Germania, Katja vive e lavora a Milano dove si e’ diplomata all’Accademia di Brera.
Un film documenta dei miei dipinti il cambiamento di colore dalla luce al buio, assieme ai readings di amici che ho incontrato nei miei viaggi, come Ulrich Baer, Germanista alla New York University; la grande pianista Alessandra Celletti che mi ha proposto di ripodurre un breve brano di Eric Satie; Kiki Fisch, artista americana, francese e israeliana, socia del gruppo degli Abingdon Square Painters, fondato negli anni ’30.
Max Gottesman, genetista e professore alla Columbia University; Valentina Vandelli, Emanuele Marchesini e Andrea Guerrer, giovani attori di teatro con esperienze internazionali; Benito Odorici, di Bologna, giardiniere per anni nella casa di famiglia; il Reverendo Clint Padgitt della Chiesa Luterana di New York; Alessandro Spoldi musicista; Salieu Suso dal Gambia, straordinario interprete dello strumento Kora.
Ringrazio in particolar modo: Il fotografo Sergio Buono per le bellissime foto e la grafica del film; Mariel Reid, per i testi in Inglese e lo scrittore Francesco Matteo Cataluccio che mi ha invitata a presentare per la prima volta questa idea.:
Il 17 Settembre, 2016, alle 17:30, ai Giardini dell’Arte, in via Palestro 8, Milano.
evviva !
Vittoria Chierici “Stones in the road? I save every single one, one day I´ll build a castle” Fernando Pessoa
sino al 28 luglio 2016
Castel dell’Ovo Napoli Sala delle terrazze
22 artiste da tutto il mondo (Francia, Germania, Grecia, Spagna, Svezia, Ucraina, Stati Uniti, Argentina, Perù, Australia, Nuova Zelanda, Italia) riunite con le loro opere nella splendida cornice di Castel dell’Ovo per la Mostra internazionale di arte contemporanea “22 MAD for Naples“, organizzata dalla gallerista Chantal Lora con il patrocinio del Comune di Napoli e del suo Assessorato alla Cultura e in collaborazione con l’associazione Vesuviani in cammino di Pollena Trocchia.
Nella Sala delle terrazze del castello che per tutti, insieme al Vesuvio, è il simbolo della “città più bella dell’Universo” (così la descriveva Stendhal nel 1817), sono esposti, fino al 28 luglio, i dipinti, le fotografie, le installazioni che Napoli ha ispirato alle 22 artiste selezionate che, dopo un soggiorno di due settimane in città, sono state invitate a trasporre in forma creativa le loro impressioni partenopee.
Ecco, dunque, la Tammurriata napolitaine di Olga Antonenko Lamoureaux, dittico in cui l’oro solare e il rosso incandescente si affiancano per ricordare che Napoli è, in primo luogo, calore, colore e passione. Si ispira al mito della sirena Partenope il dipinto di Juliana Chakravorty, che di Napoli ha apprezzato soprattutto la ricchezza culturale: “Si scoprono sempre nuove meraviglie”, ha detto l’artista. “La città, nutrita dalle influenze più disparate, ha il potere di armonizzare i contrasti”. E proprio i contrasti, ma di colore, caratterizzano l’installazione dell’unica artista italiana − e campana − Cristina Cianci, che nel suo Senza titolo rappresenta il blu scuro del mare, il rosso della lava del Vesuvio, il chiarore della luce mediterranea.
Ma Napoli, per alcune artiste, è soprattutto i suoi abitanti: per Maliem De Ava sognatori con lo sguardo rivolto al cielo che, in Naples et ses légendes, indossano la maglia di Maradona e scorrazzano in Vespa; mentre Elizabeth Baille preferisce ritrarre la realtà in fotografia, immortalando gli scugnizzi che si tuffano nelle acque cittadine in L’espoire de Naples, e Sarah Mitchell Munro, attraverso luci e ombre nel suo olio su tela, trasfigura Alessia, modella locale, in statuaria figura velata e impalpabile, pur ben presente nell’architettura.
Poi, lo sguardo delle pittrici si sposta sui paesaggi: ed ecco antiche rovine contrapposte a strade pittoresche nel dittico Soleil noir di Laurent Simon, che testimoniano “une irrésistible attraction, magnetique, pour Naples”; la visione oleografica di Andrea Harris del porticciolo in The fascinating island of Procida e quella da sogno di Malin Forsberg in Streets of Naples; la veduta solo apparentemente classica del golfo con il Vesuvio, in cui Serenella Sossi racconta i Contrasti napoletani tra la luce dei paesaggi da cartolina e il buio del disordine, della violenza, del dolore.
Tra le 22 artiste ‘pazze’ per Napoli (22, nella smorfia napoletana, è proprio il numero che indica ‘o matto) non poteva mancare un’attenzione affettuosa agli elementi ‘unici’ della città: per Graciela Montich The magic of Neapolitan balconies è proprio il vedere appesi, tesi dalle mollette sui fili del bucato, vestiti che nell’istallazione diventano più che altro vestigia del passato (anche qui non manca la maglia di Maradona).
Di fronte alle sculture narranti di Edward e Nancy Kienholz, ci si augura che la storia sia passata. Dura solo un attimo. Immediato è il cortocircuito: Trump – possesso libero delle armi che sparano su folle imprevedibili – aggressività eccitata dal pericolo ISIS che non ha parole per calmarsi. Razzismo, maschilismo, violenza sulle donne sono qui. Ora. I Kienholz raccontano una tragedia quotidiana che neppure la grande democrazia americana sa risolvere. Sono passati gli anni, siamo cambiati. Non abbastanza però.
Appare l’innocenza perduta delle ribellioni degli anni Sessanta e Settanta, quando ci si sentiva a un passo dalla rottura delle disparità, ognuno con i propri mezzi, ma in un riconoscimento diffuso. I Kienholz spingono in quella direzione, non nel voyeurismo del male. È appena morto Cassius Clay e ci siamo commossi nel pensare alla sua vita, alle sue battaglie. Sono le stesse che vedo in questa mostra e che fanno dire a Edward: «ho provato il peso di essere un americano». L’estetica dura, aspra, senza peli sulla lingua ha però un dato positivo: la denuncia di contrasti inammissibili, allora come oggi.
Una cultura visiva attaccata alla realtà, che stacca rispetto all’espressionismo astratto americano, ai ritratti di donne smembrate di De Kooning, nei quali persiste lo stereotipo della paura della femminilità. La visione che accetta il magma dell’irrisolto non è mai idilliaca. Le loro figure hanno la forza storica di Caravaggio, e la massa incandescente della luce americana: camion, birra, whisky, fucili, colt, biliardo, tv, sesso, santini. Le migliori menti di quella generazione si sono opposte a questa violenza da prateria e hanno ascoltato le ferite delle guerre mondiali e del Vietnam. Come non pensare a quelle del secondo Millennio?
I Kienholz affrontano il conflitto primo: la violenza del sesso con i suoi corollari di conformismo, puritanesimo e autoritarismo. Con asprezza, ma con rispetto, corrono incontro alle tragedie altrui e le assimilano nella loro arte per dire a tutti che il sopruso è dentro di noi. È commovente questa scelta. Anche se c’è la disperazione nel riconoscere, in quelle figure, il nostro presente. Senza neppure la spinta collettiva per combatterle. Questa manca. Manca molto. Le figure dei Kienholz pungono anche per questo.
La bambina abbandonata dal padre in autostrada, e salvata da un poliziotto (Jody, Jody, Jody, 1983-94), ha avuto una sorte migliore di quella buttata in una piscina dopo essere stata stuprata, il 20 giugno scorso, a Benevento. Per le donne uccise in tutto il mondo c’è stato bisogno di un neologismo, «femminicidio».
The Bronze Pinball Machine with Woman Affixed Also, 1980. Davanti a un flipper escono le gambe spalancate, color oro, di una donna, mentre sullo schermo altre ragazze in due pezzi fanno capire che quel gioco è una prova di machismo. Chi vince la partita avrà il premio di scopare senza chiedere consenso? L’origine du monde di Courbet sta dietro l’idea del corpo della donna condensato nell’organo sessuale. Courbet, però, lasciava intravedere una censura: il quadro non era destinato al pubblico. Come se non si potesse rivelare alla luce del sole quel tipo di «educazione sessuale». I Kienholz invece la mettono in primo piano, senza scuse possibili.
Tre giocatori di biliardo, mascherati e con occhiali scuri, usano come buca il sesso di una donna: la supremazia fallica mostra la tragedia del sopruso, The Pool Hall, 1993. Questa «allegoria» ha il pathos di una denuncia senza moralismi e al tempo stesso ci mette di fronte a una verità non didascalica.
Siamo fuori dall’orizzonte della cronaca e dentro la percezione, come direbbe Luisa Muraro, «del punto in cui è iniziata la vita sessuata e dove avviene l’indisponibile della differenza sessuale». È una questione cruciale che riguarda la non disponibilità di una donna a sottomettere la sua integrità. Accettare la differenza sessuale è il passo necessario per uscire dal dominio fallico e dal neutro maschile, che ha definito la specie fin dalla filosofia presocratica oi anthropoi, oi thanatoi (gli uomini, i mortali). L’artista è un neutro maschile, ancora oggi che le donne sono tante.
I Kienholz si sono incontrati nei primi anni Settanta e da allora firmano insieme. La musa ispiratrice si eclissa a favore di unartista e un’artista. La differenza sessuale dà risalto alla scelta affettiva ed espressiva. Lavorano insieme perché si amano e perché amano guardare in faccia la realtà, individuare il punto di crisi e rappresentarlo. I loro gruppi narranti s’ispirano a fatti di cronaca, a comportamenti reali, seguono una strada espressiva che si contrappone alle ricerche minimal, concettuali e Pop. Inventano un linguaggio assemblando mobili, sedie, televisioni, flipper, giostre, automobili, pezzi di lamiera, luci, in mezzo ai quali scolpiscono con materiali vari uomini e donne. Un linguaggio che dagli anni Settanta è arrivato fino a Paul McCarthy. Oggi non irrita né sorprende questo insieme di reperti-spazzatura per creare un’immagine d’arte; però l’assenza di metafore, in favore di una descrizione artistica del reale, mette con le spalle al muro. Il realismo del sopruso non ha catarsi.
Il neorealismo del cinema italiano ha raccontato un paese povero che, dopo la guerra e il fascismo, alza la testa. I soprusi si compensavano con il riscatto. Qui i soprusi non dipendono da una condizione sociale, ma da un arcaismo che riguarda la negazione della differenza, tra uomini e donne, bianchi e neri. Un’arretratezza che ha origine nel capitalismo moderno dove, come scriveva Carla Lonzi, «il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale» (Sputiamo su Hegel, 1970).
76J.C.s Led the Big Charade, 1993-94: una folla di «santini» di Jesus Christ, provenienti da tutto il mondo, sono inseriti in edicole-altari creati con assi di carretti per bambini, mani e piedi di bambole. Occupano tutta la parete con quell’affettuosa e povera estetica che accompagna la religione dentro le case. È l’oppio dei popoli o una scelta cultuale? La realtà non ideologica apre la lettura di una composizione bellissima.
Alla fine della mostra il colpo al cuore. Five Car Stud. L’opera, realizzata da Edward nel 1969 e presentata per la prima volta nel 1972 a Kassel, Documenta 5, è poi rimasta chiusa in una collezione privata giapponese per quarant’anni. Riappare nel 2011-12 al Los Angeles County Museum e al Louisiana Museum di Danimarca. Ora, parte della Collezione Prada, dà titolo alla mostra, impeccabilmente curata da Germano Celant, ed è la prima volta che si vede in Italia.
Rappresenta la castrazione di un nero, in una notte deserta, illuminata dai fari di quattro macchine e un camioncino. Una donna bianca, che si era appartata con la vittima, chiusa in macchina, pietrificata, si mette una mano sulla bocca in un gesto di orrore. Un ragazzino in lacrime assiste da un’altra macchina. Particolari agghiaccianti che indicano la quotidianità del razzismo e la complicità ineliminabile, anche in chi non partecipa. È buio, si cammina a fatica in mezzo alla sabbia. Alberi e grandi massi intralciano, i fari accecano, mentre cinque uomini bianchi di varie età, volti coperti da maschere di Halloween, vestiti con giacconi e magliette da cui spuntano braccia robuste, legano con una corda un nero e lo castrano. Uno imbraccia il fucile e sorveglia la zona, appoggiandosi alla portiera aperta del camioncino, Un sesto, sempre col fucile, controlla la scena; dal petto gli pende una catenina d’oro con una croce. La faccia del nero, in cera, dall’interno è triste, rassegnata, dall’esterno ha un’orribile smorfia di terrore e rabbia. Nel busto, formato con una latta di benzina, appaiono scomposte le lettere della parola nigger.Nella targa delle auto, BROTHERHOOD 71-HKC643, il gioco di parole brotherhood/fratellanza stride con violenza al suono di canzoni folk invadono la notte. Anche il titolo è un gioco di parole tra poker e stallone.
Edward è morto nel 1994. Così descriveva Five Car Stud: «Penso a questo lavoro nei termini di una castrazione sociale; cioè la tragedia di non aver sfruttato la ricchezza dell’America che include anche i neri. Ondate d’italiani, scozzesi, russi, ebrei hanno portato con sé due, tre, quattro diverse culture, lingue e approcci di multietnicità. L’America è molto forte, proprio per questo. Ma non abbiamo mai sostenuto i neri. Per lunghissimo tempo gli afroamericani e gli Indiani d’America sono stati considerati feccia. Questo lavoro è nato da una sorta di sdegno contro questa tendenza e dal peso di essere un americano».
Oggi il razzismo continua, non solo in America. Riguarda chi fugge dalla Siria, dall’Africa, dall’Afghanistan, dalle varie povertà. Le parole e le figure dei Kienholz ce lo ricordano.
Dal 7 al 17 giugno 2016
IDA ROSA SCOTTI
Leggero come la pietra
Inaugurazione: martedì 7 giugno, ore 18.30
Associazione Culturale Renzo Cortina, Via Mac Mahon 14/7, Milano
Tel: 0233607236 e-mail: artecortina@artecortina.it www.cortinaarte.it
Ida Rosa Scotti nasce a Milano, dove vive e lavora. A metà degli anni ’80 frequenta la “Scuola del Fumetto” di Via Savona a Milano e successivamente la “Scuola Libera del Nudo” presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, esperienza che segna l’inizio del percorso pittorico, durato quasi un ventennio.
L’amore per la materia e l’esigenza di soluzioni più plastiche la spingono negli anni 2000 ad affrontare il linguaggio scultoreo.
Argille refrattarie e ossidi sono i principali mezzi utilizzati durante i primi anni della sua ricerca in scultura.
Nel 2008 inizia a lavorare la pietra. Le pietre tenere del Salento sono divenute in questi ultimi anni il mezzo principale utilizzato nella sua ricerca favorendo il ricorso ad una maggiore sintesi nelle forme.
Fondamentale per la sua maturazione è stata l’osservazione delle opere di grandi maestri del ‘900 tra cui: Marino Marini, Francesco Somaini, Henri Moore e ancora Kengiro Azuma, Alberto Ghinzani, Giuseppe Spagnulo, Nanni Valentini, Mauro Staccioli.
“C’è un’eleganza discreta e si¬lenziosa nelle sculture di Ida Rosa Scotti: un’aura classica che si sposa a un piglio avanguardista; la rigidità di una linea geometrica che incontra la leggerezza dell’aria. Ben ancorate a terra eppure lievi con un soffio di vento, in costante dialogo con lo spazio che le circonda, mai mo¬nolitiche, sempre dinamiche pur nella loro silenziosa e imperturbabile immobilità…In un’apparente astrazione, le opere della Scotti prendono spunto dal quotidiano, narrano le difficoltà che il nostro pensiero incontra giorno dopo giorno nell’esprimersi liberamente, nel volare più in alto. Raccontano una realtà intima, personale, che riguarda l’artista, prima di tutto, ma che parla a chiunque voglia ascoltare… La magia delle strutture della Scotti dipende anzi in gran parte proprio da questo incontro tra rigore delle forme e l’improvviso e inaspettato guizzo di libertà che sempre ne tradisce la geometrica regolarità. (Simona Bartolena).
Dal 2010 è socio-artista della Permanente di Milano.
La mostra proseguirà fino al 17 giugno con i seguenti orari:
10.00-12.30 / 16.30-19.30
Chiuso lunedì mattina, sabato e domenica.
da la repubblica.it – Napoli
dal 27 giugno al 30 settembre 2016
“Dipingere equivale a improvvisare quando crei musica”. inequivocabile, l’atteggiamento artistico di Laurie Anderson, musicista, artista multimediale – a lungo compagna e poi moglie della rockstar Lou Reed – che venerdì 27 è attesa in città per una lunga giornata napoletana. Alle 12:30 interverrà alla conferenza stampa programmata negli spazi Made in Cloister, area appena restaurata del gigantesco Lanificio di Porta Capuana, che verrà ufficialmente aperta al pubblico da sabato 28 con orario continuato dalle 9 alle 19. Nell’ex Chiostro cinquecentesco della chiesa di Santa Caterina a Formiello, Anderson presenterà – vernissage venerdì 27 alle 19 – la personale “The Withness of the Body”, trenta opere ispirate alla sua ricerca sui temi della perdita e della vita, sull’inconsistenza e la consistenza del corpo. “Il corpo può dissolversi – spiega – e comunica. Il corpo dipinge e cancella se stesso”. In esposizione, tra le altre tele, “Red Painting (Sunset Park)”, “Boat”, “Lolabelle in the Bardo June 5th” e “Lolabelle in the Bardo May 5th” (entrambi dedicati alla sua amata cagnetta Lolabelle di razza rat terrier, morta cinque anni fa e a cui dedicò pure il film “Heart of A Dog” presentato alla Mostra del Cinema di Venezia) e “House”. La mostra, visitabile sino al 30 settembre, è prodotta dalla Fondazione Tramontano Arte, è inclusa nella programmazione della XXI Triennale del Design di Milano e ha ricevuto il matronato del Museo d’arte Donnaregina – Madre e il patrocinio del Consolato generale USA per il Sud Italia. (gianni valentino)
Galleria Otto Zoo Via Vigevano 8 – Milano http://www.ottozoo.com
Inaugurazione 23 maggio ore 18,30
Otto Zoo presenta la prima personale in una galleria italiana del nuovo corso di ricerca di Marion Baruch: Mancanza / Here and where. A cura di Francesca Pasini.
Nella sua lunga carriera artistica Marion Baruch (Timisoara 1929) si è dedicata con intensità all’arte relazionale, sociale, firmandosi con lo pseudonimo Name Diffusion.Nel 2012 trova una nuova forma lavorando con un materiale inedito, che trattiene però una relazione simbolica con il sociale. Per creare le sue figure usa, infatti, gli scarti delle macchine che tagliano i modelli destinati all’alta moda e al prêt-a-porter. Così un materiale, destinato alla discarica, viene riportato in vita attraverso l’arte.
In questi frammenti di stoffa, a volte trasparente, a volte compatta, vuoti, stati di mancanza, lampi di memoria, si accompagnano a figure astratte, forme geometriche, linee grafiche sottili e perfette. Marion Baruch fa di questo accumulo indistinto il proprio linguaggio. Osservando attentamente gli scarti sceglie l’orientamento che trasforma un residuo di stoffa in una figura. Da una mancanza espressiva appare il segno di Baruch e il legame con la pittura, la scultura, il disegno e la memoria, che la porta in dialogo con altri artisti amati: Lucio Fontana, Melotti, Beuys, Klee, Robert Morris e molti altri ancora.
La tensione concettuale s’intreccia a quella relazionale, attraverso l’invito a guardare dentro i vuoti dell’esperienza, simbolizzati dal materiale, e a collegare la vita personale all’arte. E’ un invito leggero come sono le sue opere, facilmente trasportabili, non pesano, si adattano a ogni spazio, dal museo alla parete di casa. Assecondano la vita di Marion Baruch e di chi le guarda. L’emozione passa agli occhi e alla tattilità a cui ogni tessuto allude.
La mostra alla galleria Otto Zoo è una retrospettiva di lavori bidimensionali e tridimensionali nati dagli scarti dei tessuti. Mr Horror (l’eternelle retour), realizzato nel 2015 subito dopo gli attacchi terroristici di Parigi, rappresenta un nevralgico punto di arrivo: la figura delinea, infatti, il gesto della cancellazione. Ci sono inoltre le opere che, attraverso il titolo, richiamano l’affinità elettiva con Eva Hesse, Agnes Martin, Kurt Schwitters, il legame con l’architettura dei teatri, le espressioni classiche dell’arte: Paysage, Peinture, Sculpture, con grafia francese a ricordo di una delle sue molte patrie.
Marion Baruch è nata a Timisoara (Romania) nel 1929. Ha vissuto a lungo a Parigi tra 1990/2010. Attualmente vive e lavora a Gallarate (Varese).
Il lavoro recente è stato esposto nel 2013 al MAMBO di Bologna a cura di Francesca Pasini e al MAMCO di Ginevra a cura di Nathalie Viot. Nel 2014 a “Mars”, Milano. Nel 2015 all’Università del Melo – Teatro del Popolo di Gallarate e al Kunstmuseum di Lucerna, a cura di Noah Stoltz. A Settembre 2016, parteciperà a “L’Adresse du Printemps de septembre à Toulouse”, a cura di Christian Bernard. Alcuni suoi lavori degli anni ’70 sono attualmente esposti alla Triennale di Milano all’interno di W. Women in Italian Design. Nel 2017 farà parte della collettiva al Turner Contemporary di Margate (UK), a cura di Karen Wright.
Triumphs and Laments – un progetto per Roma. Ecco la super processione di William Kentridge. Grandi graffiti, nero-grigi, emergono dalla pulitura delle pietre attraverso delle maschere. Vanno da Ponte Mazzini a Ponte Sisto. Si riconosce il tratto dei disegni di Kentridge nei molti video di animazione e nei grandi progetti di scenografie teatrali. Il fatto di lavorare in negativo, lasciando il nero fumo accumulato dal tempo e dall’inquinamento come materia sostituiva del carboncino, aggiunge significato politico. La storia siamo noi, sembra dire Kentridge. Non c’è immagine che non vada incontro all’usura, al cambiamento, al viraggio del colore, a un’eternità relativa. Questi disegni torneranno a sprofondare dentro la patina che piogge, vento, automobili, polveri sottili depositeranno.
Diceva Fontana: «ogni opera è destinata alla morte, eterno è il gesto». Il gestodi Fontana alludeva al taglio, ai buchi, alle ceramiche, alla luce di Wood, al neon che scendeva le scale della Triennale e ora occhieggia tra le finestre del Museo del Novecento a Milano. Il gesto di Kentridge è dentro la lettura della storia: quella personale, quella del suo paese, il Sud Africa, e quella di un Occidente che è lui a selezionare e ibridare ai frammenti passati e presenti. La storia in Kentridge non è mai separata dal sentimento della storia stessa. E così sul Lungotevere, nel giorno dei Natali di Roma, dopo dodici anni di attesa, e di tenacia di Kristin Jones ideatrice dell’associazione Tevere Eterno, arriva in scena l’eternità relativa.
Ricordo che Kentridge, per la proiezione sullo schermo tagliafuoco del teatro La Fenice di Venezia (2008), mi aveva detto che la «fragilità della coerenza» era il motore del circolare dissolversi di quelle figure. Una situazione analoga coinvolge le figure tiberine: la lupa, i papi, la morte di Pasolini, i bombardamenti, Anita Ekberg nella Dolce vita, la Danza della Morte, bandiere, stendardi, oggetti quotidiani: tutto entra nelle processioni dei suoi arazzi. La fragilità, disegnata per i video Breathe, Dissolve, Return, è oggi la materia stessa delle figure. Un’intuizione disponibile per tutti: è fragile come la storia perché trionfi, lamenti, dolori non sono stabili. A volte la memoria stinge. Come nelle sue figure. C’è, però, un’altra fragilità in prima pagina: quella contemporanea dell’esilio, delle processioni di profughi. Il colore dei disegni sul muro ha l’opacità dei volti ammassati e indistinguibili che si sporgono dalla cornice dei telegiornali.
Le figure sono grandissime. Quando si è sotto, è difficile avere una visione d’insieme. Ci risucchiano. Mentre dalla riva opposta del Tevere appaiono nella maestosità di un fregio che consola nella sua interezza. Non c’è gloria, c’è la relatività umana. La classicità si percepisce solo un attimo, vince la sorpresa di una Storia che sprofonda nell’immagine interna di ognuno – lamento o trionfo che sia.
La congiunzione tra questa struttura di giganteschi disegni d’animazione, e il teatro delle ombre con il quale Kentridge ha scritto la sua storia artistica, avviene nelle sere del 21 e 22 aprile. Una processione performativa si è sovrapposta a quella disegnata, mettendo in movimento i graffiti attraverso la propria ombra ingigantita. La musica di Philip Miller che cadenza il cammino delle processioni (una procede da Ponte Mazzini; l’altra in senso inverso, da Ponte Sisto) è la chiave che sposta la vicenda storica dentro il teatro individuale. Miller compone la sua musica in contatto con le melodie di Salomone Rossi (Mantova 1570-1630), attorno al salmo 137 del Libro dell’Esodo, alle quali aggiunge le voci esplosive dei canti degli schiavi dell’Africa Occidentale, le canzoni popolari del sud dell’Italia, i canti di battaglia dei guerrieri Zulu.
Il dramma di genitori e figli, fratelli e sorelle – a volte insieme, a volte separati – che s’incamminano trascinando i loro minimi averi, si snoda tra le figure simbolo della città eterna. Una bandiera sbrindellata, una bicicletta, arnesi, fagotti. Tutto in bianco e nero – tranne piccoli fuochi colorati che brillano tra un passaggio e l’altro. Sono i costumi dei gruppi di performer, che passano davanti alle luci disposte sul terrapieno del fiume, a proiettare l’ombra sui muraglioni – ingigantendola.
L’emozione è grandissima, le rive del fiume sono pienissime, tutti partecipano con meraviglia, commozione, attenzione. Molto silenzio. Il fiume diventa un teatro naturale, con applausi precisi. Rapisce il ritornello «la nostalgia è vivere la piena delle onde e non avere patria nel tempo», tratto da Die Frühen di Rainer Maria Rilke (1922): a legare la musica storica dell’esodo ebraico al rumore multietnico di oggi. L’invito è a guardare, ascoltare ciò che avviene dentro ciascuno di noi: per avvicinarci a ciò che si muove nel presente, a ciò che ci tocca dal passato.
Tutto questo Kentridge lo mette in pratica sempre, nell’arte come nelle relazioni. Alla cena in suo onore, come al solito, al suo tavolo ci sono tutti i collaboratori: la moglie, il padre, la figlia con il marito e il loro bambino. Ringrazia tutti, uno a uno. Padre-figlia-nipote, dice, sono venuti per testimoniare dentro il progetto per Roma la sua storia personale. Anche Kentridge ricorda una migrazione interna: il nonno e il padre, di nascita inglese, sono stati personalità di spicco in Sud Africa nella lotta contro l’apartheid.
Alla Galleria Rumma di Milano e al MACRO di Roma sono visibili i magnifici disegni preparatori, alcuni trasformati in maschere imponenti per realizzare le figure sul Tevere. Una decina di essi campeggiano sulle pareti della galleria Rumma: il panorama è veramente superbo. E soprattutto c’è la possibilità di assistere alla processione e alla musica andate in scena sul Tevere, su una serie di schermi che scivolano l’uno sull’altro. Un’installazione perfetta, da non perdere.
Siamo liete di invitarvi alla mostra Amabili Presenze di Patrizia Bonini
La mostra resta aperta sino al 31 maggio con i seguenti orari: martedì, mercoledì, venerdì e sabato dalle ore 18,30 alle 20 oppure su appuntamento telefonando al 3498682453
La serie di acquerelli e gouache , tecniche miste che presentiamo hanno come filo conduttore la memoria , le letture, le immagini e i versi che sono stati la compagnia abituale dell’artista, nel corso di molti anni e mantengono una caratteristica quasi da diario, o tornando a una delle prime mostre, da “pittoscritto”. E’ una forma di meditazione su luoghi del mondo e parole che segue un principio grafico tendente, forse, a riportare i segni a una loro infantile e primitiva amabilita’..
Patrizia Bonini.
Laureata all’Universita’ Statale di Milano proveniente dal Liceo Italiano di Barcellona , Spagna, ha svolto attivita’ di animatrice teatrale per bambini, di istruttrice per operatrici degli Asili Nido e di organizzatrice di eventi e spettacoli musicali . Ha collaborato come redattrice a Vogue Donna, tradotto il libro di Christiane Olivier”I figli di Giocasta”, Emme edizioni.
Ha contribuito alla redazione dei primi numeri di Via Dogana, Rivista della Libreria Delle Donne di Milano, e al Catalogo Giallo , Le Madri di tutte noi.
Ha fondato con altre la Biblioteca delle Donne di Parma.
Ha seguito per 10 anni come volontaria il Museo Don Camillo e Peppone di Brescello. Tutte le sue attivita’ lavorative -ed altre-sono avvenute da esterna o free lance, mentre ha continuato a esercitare l’inclinazione artistica grazie anche all’esempio della zia Loredana Mingori, ottima figurinista, acquarellista e ispiratrice.
Ha pubblicato con Rosanna Figna tre volumetti di “Spuntini di riflessione”, e illustrato la raccolta di poesie l’Ora del te’ di Daniela Rossi.
La sua ricerca si è indirizzata anche al campo tessile, dove ha liberare la fantasia artigianale .
Principali mostre:
1987 Pittoscritto trovato a Saragozza
1990 Omaggio a Clarice Lispector
1991 La mostra di Tishirt
1991 Camisetas a Tarragona
1995 Tra le reti
1996 Bevendo
1997Collettiva all’Angar del Po
1998Pagine di volata
1999 Felis Cattus
2013 Segnoritas
2014 Samurai Crochet Li breria delle Donne di Milano